Cassazione Penale, Sez. 3, 11 novembre 2020, n. 31513 - Valutazione dei rischi derivanti dalle sorgenti naturali di radiazioni ionizzanti dello stabilimento termale


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sul ricorso proposto da M.C. Mario;

avverso la sentenza del 27/06/2019 del TRIBUNALE DI CASSINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Gianni Filippo Reynaud;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberta Maria Barberini, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per prescrizione;

udito per il ricorrente l’avv. Salvatore Coletta, il quale ha concluso per l’accoglimento delle conclusioni del ricorso.

 

Fatto



1. Con sentenza del 27 giugno 2019, il Tribunale di Cassino, all’esito del dibattimento celebrato a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, ha ritenuto la penale responsabilità di M.C. per il reato di cui all’art. 10 ter,comma 3, d.lgs. 17 marzo 1995, n. 230, in relazione all’art. 142 bis dello stesso decreto, per non aver provveduto ad effettuare, mediante l’ausilio di esperto qualificato, la valutazione dei rischi derivanti dalle sorgenti naturali di radiazioni ionizzanti dello stabilimento termale gestito dalla società di cui egli era legale rappresentante, condannandolo alla pena di 400 Euro di ammenda.

2. Avverso la sentenza, a mezzo del difensore di fiducia, l’imputato ha proposto appello, deducendo, con il primo motivo, l’errata applicazione della legge penale con riferimento all’art. 10 bis, comma 1, lett. e), d.lgs. 230/1995 per essere stata detta disciplina ritenuta applicabile al piccolissimo albergo, con annessa struttura termale di modestissima rilevanza, gestita dalla società dell’imputato.

3. Con il secondo motivo, si lamenta errata applicazione della legge penale con riguardo all’art. 10 ter, comma 3, in relazione all’art. 142 bis d.lgs. 230/1995, per essere stata ritenuta insufficiente ad ottemperare all’obbligo di legge la valutazione preliminare di rischio che l’imputato aveva richiesto al Laboratorio di radioattività dell’Università Federico II di Napoli, essendone risultato che la presenza di gas radon era inferiore alle soglie di pericolosità e non comportava pertanto rischi.

Posto che il citato art. 10 ter demanda la previsione delle specifiche tecnico-metodologiche degli accertamenti a linee guida da emanarsi a cura di una Commissione tecnica che non era mai stata istituita, senza nulla al proposito specificare, aveva errato il giudice, avallando l’opinione dell’ispettore del lavoro che aveva eseguito l’accertamento, a ritenere inidonea l’analisi dell’acqua effettuata dal laboratorio a cui l’imputato si era rivolto.

L’assenza delle linee-guida cui la norma penale rinvia – si lamenta – non può essere sopperita da discrezionali valutazioni del singolo ispettore del lavoro, pena la violazione del principio di determinatezza e del principio di prevedibilità della sanzione penale ricavabile dall’art. 7 CEDU.

 

Diritto



1. Va in primo luogo osservato che, pur trattandosi di sentenza inappellabile per aver applicato la sola pena dell’ammenda, giusta la previsione di cui all’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., l’impugnazione proposta può essere qualificata come ricorso per cassazione.

Ed invero, a norma dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., verificata l’oggettiva impugnabilità del provvedimento in sede di legittimità e l’esistenza di una voluntas impugnationis, consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale, la Corte territoriale impropriamente adita ha correttamente trasmesso gli atti a questa Corte (cfr. Sez. U, n. 45371 del 31/10/2001, Bonaventura, Rv. 220221; Sez. 6, n. 38253 del 05/06/2018, Borile e a., Rv. 273738; Sez. 5, n. 7403/2014 del 26/09/2013, Bergantini, Rv. 259532).

Le doglianze più sopra riassunte, prospettando la violazione della legge penale, rientrano tra i motivi, previsti dall’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., deducibili con il ricorso per cassazione e possono pertanto essere esaminate.

2. Prima di affrontare i motivi proposti, occorre precisare che, successivamente alla presentazione del ricorso, è stato approvato, ed è entrato in vigore, il d.lgs. 31 luglio 2020, n. 101, recante Attuazione della direttiva 2013/59/Euratom, che stabilisce norme fondamentali di sicurezza relative alla protezione contro i pericoli derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti, e che abroga le direttive 89/618/Euratom, 90/641/Euratom, 96/29/Euratom, 97/43/Euratom e 2003/122/Euratom e riordino della normativa di settore in attuazione dell’articolo 20, comma 1, lettera a), della legge 4 ottobre 2019, n. 117.

Per quanto qui rileva, il citato provvedimento, all’art. 243, ha abrogato la L. 230 del 1995 e, in attuazione dell’ultima direttiva Euratom, ha disciplinato ex novo la materia dei rischi derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti, ma – come più oltre meglio si dirà – lo ha fatto senza sostanzialmente modificare, ai fini che qui interessano, l’ambito di operatività della disposizione penale contestata all’imputato.

Con particolare riguardo ai temi connessi alle doglianze proposte con il presente ricorso, del nuovo d.lgs. 101/2020 vengono in rilievo le seguenti disposizioni:
– l’art. 12, comma 1, lett. c), che fissa il valore medio annuo della concentrazione di attività di radon in aria per i luoghi di lavoro (300 Bq m-3);
– l’art. 16, comma 1, lett. d), che, delimitando il campo di applicazione delle disposizioni del provvedimento riferite ai luoghi di lavoro, indica gli stabilimenti termali;
– l’art. 17, che individua gli obblighi dell’esercente nei luoghi di lavoro di cui all’art. 16;
– l’art. 205, che individua le sanzioni penali nel caso di violazione dei suddetti obblighi.

3. Ciò premesso, il primo motivo di ricorso – logicamente pregiudiziale – è da ritenersi inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.

Con riguardo agli obblighi penalmente sanzionati che gravano sull’esercente – cioè, giusta la definizione contenuta nell’art. 7, comma 1, n. 38), d.lgs. 101/2020, che non spiega effetto novativo rispetto ad un’interpretazione consolidata ricavabile dai principi generali, sulla «persona fisica o giuridica che ha la responsabilità giuridica ai sensi della legislazione vigente ai fini dell’espletamento di una pratica o di una sorgente di radiazioni» – in relazione ai luoghi di lavoro considerati dalla legge per i possibili rischi in materia di radiazioni vi è continuità normativa tra il citato art. 16, comma 1, lett. d), d.lgs. 101/2020 e l’abrogato art. 10 bis, comma 1, lett. e), d.lgs. 230/1995, posto che entrambe le disposizioni contemplano gli stabilimenti termali.

Considerato che lo stesso ricorrente afferma che l’imputato gestiva un “piccolissimo albergo con annessa stazione termale” – sia pur definita “di piccolissima rilevanza” – è del tutto generica la doglianza circa l’inapplicabilità della disciplina al caso di specie. La legge, di fatti, non consente – e non consentiva – di distinguere a seconda delle “rilevanza” (concetto, peraltro, estremamente vago) dello stabilimento termale e la ratio, e la lettera, della disposizione (di quella abrogata come di quella vigente) induce con certezza a ritenerne l’applicabilità tutte le volte in cui lo stabilimento termale costituisca, per taluno, luogo di lavoro, circostanza che nella specie non è contestata.

4. Il secondo motivo di ricorso è invece infondato.

4.1 Il ricorrente è stato riconosciuto responsabile della violazione dell’art. 10 ter, comma 3, d.lgs. 230/1995 – penalmente sanzionata dal successivo art. 142 bis – che imponeva all’esercente, entro ventiquattro mesi dall’inizio dell’attività e avvalendosi di un esperto qualificato (cfr. comma 5 della disposizione), di compiere, negli stabilimenti termali che costituiscono luoghi di lavoro, «una valutazione preliminare sulla base di misurazioni effettuate secondo le indicazioni e le linee-guida emanate dalla Commissione di cui all’articolo 10-septies», al fine di verificare se l’esposizione dei lavoratori al radon superasse il livello di azione di cui all’allegato 1 bis, nel qual caso sarebbe stato tenuto ad effettuare ulteriori analisi dei processi lavorativi impiegati secondo quanto disposto dalla citata disposizione e ad adottare le misure previste dal successivo art. 10 quater, comma 6.

L’allegato 1 bis al citato decreto – introdotto nel corpo dello stesso, così come le disposizioni più sopra citate, dal d.lgs. 26 maggio 2000, n. 241 – al punto 2, definiva il “livello di azione” come il «valore di concentrazione di attività di radon in aria o di dose efficace, il cui superamento richiede l’adozione di azioni di rimedio che riducano tale grandezza a livelli più bassi del valore fissato» e, al punto 3, disponeva che «le misurazioni di cui all’articolo 10-ter, commi 1 e 2, sono fissate in concentrazioni di attività di radon medie in un anno».

Al punto 4, l’allegato fissava poi nei seguenti termini i livelli di azione «a) Per i luoghi di lavoro di cui all’articolo 10-bis, comma 1, lettere a) e b), il livello di azione è fissato in termini di 500 Bq/m (elevato)3 di concentrazione di attività di radon media in un anno. b).

Per i luoghi di lavoro di cui all’articolo 10-bis, comma 1, lettere c), d) ed e) il livello di azione per i lavoratori è fissato in termini di 1 mSv/anno di dose efficace.

In questo livello di azione non si tiene conto dell’eventuale esposizione a radon derivante dalle caratteristiche geofisiche e costruttive dell’ambiente su cui viene svolta l’attività lavorativa, per la quale esposizione si applica il livello di azione di cui alla lettera a), fatta eccezione per gli stabilimenti termali. c) Per i luoghi di lavoro di cui all’articolo 10-bis, comma I, lettere c) e d), il livello di azione per le persone del pubblico è fissato in termini in 0,3 mSv/anno di dose efficace. d) Il datore di lavoro non è tenuto, ai sensi dell’art. 10-quinquies comma 8, a porre in essere azioni di rimedio ove la dose di cui allo stesso comma non sia superiore a 3 mSv/anno».

La disposizione appena richiamata, dunque, estendeva agli stabilimenti termali il livello di azione di 500 Bq/m (elevato)3 di concentrazione di attività di radon media in un anno, con necessità di effettuare il livello di misurazione tenendo conto delle caratteristiche geofisiche e costruttive dell’ambiente in cui viene svolta l’attività lavorativa. Come si è visto, la norma incriminatrice demandava poi alla Commissione di cui all’articolo 10-septies d.lgs. 230/1995 l’individuazione di indicazioni e linee-guida, ed primo comma di tale ultima previsione, alla lett. c), ulteriormente specificava come la stessa dovesse «elaborare criteri per l’individuazione, nelle attività lavorative di cui alle lettere c), d) ed e) dell’articolo 10-bis, delle situazioni in cui le esposizioni dei lavoratori, o di gruppi di riferimento della popolazione, siano presumibilmente più elevate e per le quali sia necessario effettuare le misurazioni per la valutazione preliminare di cui all’articolo 10-ter, comma 3, nonché linee guida sulle metodologie e tecniche di misura appropriate per effettuare le opportune valutazioni».

Questa Commissione – composta di 21 esperti, da nominarsi ai sensi dell’art. 10-septies, comma 3, d.lgs. 230 del 1995 – non è tuttavia mai stata istituita.

4.2. La vigente disciplina normativa quale prevista dall’art. 17 d.lgs. 101/2020 si pone nella medesima prospettiva di quella abrogata, definendo tuttavia meglio gli obblighi che gravano sull’esercente dello stabilimento termale.

Da un lato, infatti, precisa che, entro ventiquattro mesi dall’inizio dell’attività, egli è tenuto a «completare le misurazioni della concentrazione media annua di attività di radon in aria» prendendo a riferimento il livello di cui al già citato art. 12, comma 1, lett. c); d’altro lato, individua con maggior chiarezza i conseguenti obblighi di valutazione dei rischi e di adozione delle eventuali misure correttive necessarie. Soprattutto, ai commi 5 e 6, la nuova disciplina stabilisce, mediante il rinvio alle prescrizioni contenute negli allegati II e XXIV al decreto e prescrivendo la necessità di avvalersi di servizi riconosciuti, le modalità con cui effettuare le obbligatorie misurazioni.

4.3. Reputa, dunque, il Collegio, per quanto qui interessa, che, con riguardo alla violazione degli obblighi dell’esercente uno stabilimento termale di effettuare le misurazioni di concentrazione media annua di radon nell’aria al fine di valutare il rischio di esposizione dei lavoratori, vi sia continuità normativa tra la contravvenzione prevista dall’art. 142 bis d.lgs. 230/1995 e quella prevista dall’art. 205, comma 1, d.lgs. 101/2020, quest’ultima, peraltro, più severamente punita – e facente riferimento ad un livello il valore medio annuo di concentrazione di attività di radon in aria per i luoghi di lavoro inferiore – con conseguente necessità di fare applicazione dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.

5. Ciò premesso, con specifico riguardo alla doglianza mossa in ricorso, osserva il Collegio come, ai fini dell’integrazione della fattispecie penale quale prevista dalla disciplina abrogata, non rilevi la mancata istituzione della Commissione di cui all’art. 10-septies dlgs. 230 del 1995.

Ed invero, dalla sentenza impugnata risulta che l’imputato aveva bensì eseguito una misurazione, affidandosi all’Università Federico II di Napoli, ma essa – effettuata in modo istantaneo e con riguardo alle sole acque – non era sufficiente a soddisfare la prescrizione normativa per le ragioni, logiche e giuridicamente corrette, spiegate dall’ispettore del lavoro che aveva compiuto l’accertamento e condivise dal giudice. Ed invero, è di tutta evidenza che una misurazione istantanea fatta sulla sola acqua non è aderente all’Allegato 1 bis del decreto abrogato, che la prevedeva sulla concentrazione di radon medio annuo nell’aria e dunque non vale a far ritenere ottemperato il precetto. Del resto, pur essendo l’imputato ricorso ad un laboratorio universitario di analisi, non si era avvalso – come prescritto dall’art. 10 ter, comma 5, d.lgs. 230/1995, e come specificamente contestatogli in imputazione – di un esperto qualificato, inserito nell’elenco di cui al successivo art. 78, istituito giusta le prescrizioni dell’Allegato V al medesimo testo normativo.

Se ciò avesse fatto e se l’esperto qualificato avesse effettuato un’effettiva valutazione del valore di concentrazione di radon in aria, quale che fosse stata la metodologia impiegata, certo non si sarebbe potuto muovere alcuna contestazione, in assenza delle linee-guida emanate dalla prevista Commissione, pena, altrimenti, la violazione del principio di tassatività. Nel caso di specie, però, l’imputato non ha effettuato la valutazione richiesta dalla disciplina normativa, ma una verifica diversa, che certamente non soddisfa l’obbligo (in allora e oggi) penalmente sanzionato.

6. Il ricorso, pertanto, dev’essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Va soltanto precisato che il reato – istantaneo, accertato il 22 novembre 2014 – non può dirsi prescritto al momento della pronuncia della presente sentenza. La prescrizione – interrotta in forza di plurimi atti processuali (il decreto penale di condanna, l’emissione del decreto di giudizio immediato a seguito dell’opposizione, la sentenza di condanna di primo grado) – sì da ritenersi quinquennale, ai sensi dell’art. 161, secondo comma, cod. pen., è stata sospesa per 261 giorni, dal 9 ottobre 2018 al 27 giugno 2019, in forza dei plurimi rinvii su richiesta della difesa di cui si dà atto nel provvedimento impugnato.

Tenendo conto di tale sospensione, il reato si sarebbe dunque prescritto il 9 agosto 2020, ma, essendo il procedimento pendente presso questa Corte dal 18 febbraio 2020, occorre tenere conto, ai sensi dell’art. 159, primo comma, prima parte, cod. pen., della sospensione del procedimento imposta dalla legislazione adottata al fine di arginare la pandemia da Covid-19.

Viene in rilievo, in particolare, la previsione di cui dall’art. 83, comma 4, dl. 17 marzo 2020, n. 18, conv., con modif., dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, perché, dovendosi rispettare il periodo di sospensione dei termini processuali ed il divieto di tenere udienza nel periodo dal 9 marzo all’11 maggio 2020 (quale previsto dai primi due commi della citata disposizione, come modificata, quanto al dies ad quem, dall’art. 36, comma 1, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv. dalla L. 5 giugno 2020, n. 40).

Di fatti, il processo – il cui esame preliminare è stato effettuato il 5 marzo 2020 – è stato inizialmente fissato, ai sensi dell’art. 610, comma 1, cod. proc. pen., avanti alla settima sezione di questa Corte, competente per la declaratoria camerale delle cause di inammissibilità, all’udienza dell’8 maggio 2020 e, per rispettare le richiamate disposizioni, essendo stato tale udienza soppressa, è poi stato rifissato, sempre avanti alla settima sezione, all’udienza del 10 luglio 2020 (a tale udienza il fascicolo è stato restituito alla terza sezione, non avendo il Collegio ritenuto di poter pronunciare declaratoria di inammissibilità).

Opera pertanto, un’ulteriore sospensione del corso della prescrizione per 6, giorni, che ha prorogato il termine finale quale più sopra indicato a data successiva all’udienza di discussione del processo (cfr. Sez. 5, n.25944 del 09/07/2020, Paciletti, Rv. 279496).

 

P.Q.M.
 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 29 settembre 2020