Tribunale di Busto Arsizio, 05 febbraio 2021 - I periodi di malattia causati da una condotta aziendale non debbono essere computati ai fini del superamento del periodo di comporto
FattoDiritto
La fase sommaria del procedimento si è conclusa con una ordinanza di rigetto ("non vi è prova che il ricorrente sia stato adibito alle attività 'fuori banco" - comunque rientranti tra le sue mansioni contrattuali - in maniera "ripetuta e continuativa e non vi è prova che i problemi di salute dichiarati del ricorrente siano ricollegabili alle mansioni svolte.
A tal proposito la perizia di parte non è sufficiente, anche perché, in netto contrasto con la tesi di parte ricorrente vi sono rilievi significativi: il fatto che il ricorrente non abbia mai avanzato domanda di riconoscimento della malattia professionale, né abbia mai chiesto di essere visitato dal medico competente, non abbia mai chiesto formalmente alla Società una modifica delle proprie mansioni, non abbia mai fornito alcuna informazione né tanto meno trasmesso documentazione al Medico competente aziendale in ordine ai suoi problemi di salute. In altre parole e in conclusione, non vi è prova che il periodo di malattia successivo al marzo 2017 sia direttamente imputabile ad una condotta colposa del datore di lavoro, il quale avrebbe omesso di esercitare una forma di controllo circa la conciliabilità delle mansioni di "fuori banco" assegnate all'(...), con le condizioni patologiche di salute in cui versava quest'ultimo dopo il rientro al lavoro"). Avverso la suddetta ordinanza il sig. (...) ha proposto ricorso in opposizione, con cui, previo accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli in data 4 luglio 2019, chiedeva che la Società venisse condannata: - in via principale, alla sua reintegrazione e al pagamento dell'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma 1, ovvero commi 4 e 7, L. 300/1970, commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto mensile lorda di Euro 1.534,70, ovvero a quella diversa risultante dall'istruttoria; - in via subordinata, al pagamento dell'indennità risarcitoria omnicomprensiva di cui all'art. 18, comma 5, L. 300/1970, pari a Euro 36.832,80 o, comunque, alla diversa misura ritenuta di giustizia; - con il pagamento delle spese di lite". Si costituiva la società opposta chiedendo il rigetto dell'opposizione ed evidenziando il fatto che "la difesa avversaria si limita a reiterare, con le medesime parole, l'identica linea difensiva già seguita", nella fase di opposizione veniva svolta attività istruttoria mediante l'assunzione di testimoni di entrambe le parti in causa. Il sig. (...) ha impugnato il licenziamento intimatogli dalla Società per avvenuto superamento del periodo di comporto (essendosi assentato per malattia per 375 giorni nel triennio di riferimento), chiedendo di accertarne la nullità/illegittimità/inefficacia, sostenendo che il periodo della sua assenza per malattia da marzo a dicembre 2017, fosse imputabile a (...), che gli avrebbe affidato "turnazioni "fuori banco" ripetute e continuative". La Società ha ammesso di essere stata informata, nel novembre 2016, del problema di salute del ricorrente e ha riferito di avergli concesso, per due volte, un periodo di aspettativa non retribuita. Ha sostenuto, inoltre, di aver "continuativamente agevolato il lavoratore sino al termine del rapporto, riducendo al minimo possibile la lamentata assegnazione a mansioni "fuori banco".
La società opposta ha prodotto in giudizio le schede di assegnazione turni da cui si evince come, nel periodo marzo/dicembre 2017, il ricorrente abbia svolto attività "fuori banco" solo durante alcuni mesi, non più di due volte al mese, solo per una parte del turno, e non abbia mai svolto attività "fuori banco" nei mesi di marzo, aprile, maggio, giugno e agosto 2017 (cfr. doc. 3 opposta). La società opposta ha evidenziato, inoltre, come la mansione dell'opponente, di "Addetto Registrazione e Imbarchi", non preveda alcun obbligo di sorveglianza sanitaria e come il sig. (...) non abbia avanzato domanda di riconoscimento di malattia professionale, invalidità, infortunio sul lavoro, né abbia richiesto la modifica delle sue mansioni o la visita da parte del medico competente, né tantomeno si sia peritato anche solo di informare il medico competente aziendale dei suoi problemi di salute. Tali circostanze sono state valorizzate anche nell'ordinanza che ha concluso la fase sommaria. Tuttavia, alla luce delle testimonianze rese nella presente fase di opposizione e di un più ampio e approfondito esame dei fatti, il giudizio sulle domande formulate dal lavoratore deve essere rivisto. Va rilevato, innanzitutto, come la documentazione relativa alle turnazioni (cfr. doc. 8 res. fasc. I fase) consenta di individuare esclusivamente le singole squadre di lavoro presso i vari check-in e imbarco, senza però specificare i singoli ruoli assegnati a ciascun dipendente. Dalle testimonianze è emerso come il ricorrente, al rientro da un periodo di aspettativa, da marzo 2017 in avanti abbia sollecitato i preposti aziendali (dott.ssa (...)) circa un'oggettiva difficoltà nello svolgere per diverse ore di seguito lo specifico ruolo di "fuori banco" (circostanza confermata anche dalla teste di parte resistente (...) all'udienza del 21.12.2020). Il ruolo ricoperto dal "fuori banco" consiste, principalmente, nello smistare i passeggeri indirizzandoli nella corretta corsia di imbarco, nell'annunciare i passeggeri in economy a seconda dei gruppi assegnati sulla carta d'imbarco, nel verificare che i passeggeri stiano scorrendo verso il gate con la carta di imbarco corretta, nel verificare che le misure dei bagagli dei passeggeri in coda per ciascun gruppo assegnato sulla carta di imbarco rispettino le direttive della Compagnia aerea, sollecitando, coloro che superano i limiti prescritti, a consegnargli il proprio bagaglio a mano per essere "caricato" in stiva. L'espletamento di tali mansioni impedisce all'addetto al "fuori banco" di sedersi, anche per brevi periodi, anche in considerazione di ragioni di immagine verso i passeggeri della compagnia aerea presso cui si presta servizio. Il teste (...) ha dichiarato che "Solo (...) ha messo uno sgabello a disposizione e ci si può sedere, le altre compagnie non lo fanno, il lavoro dura circa una ore trenta/due ore, l'imbarco dura 40 minuti, ma bisogna essere presenti prima per controllare i passeggeri, questo per i voli intercontinentali, per quelli nazionali per il check vengono raggruppati vari voli e quindi la durata è la stessa, può capitare che si facciamo anche sei ore fuori banco nella giornata, è capitato anche a me di fare tre ore di fila di fuori banco" "il ricorrente che spesso mi chiedeva di fare cambio turno con lui, perché a causa dei suoi problemi alla schiena non riusciva a fare il "fuori banco" (udienza del 21.12.2020). Queste condizioni di lavoro mal si conciliavano con le condizioni di salute dell'opponente che, infatti, si assentava dal lavoro per brevi periodi di malattia, anche di soli 2 o 3 giorni, al fine di "recuperare" un eccessivo dispendio di energie. Tutti quei brevi periodi di 2, 3 giorni (ad es. 20-24 marzo 2017; 20-23 aprile 2017, 26-30 aprile 2017 o, ancora, 20-21 maggio 2017) venivano computati da parte dell'Azienda ai fini del calcolo del periodo di comporto, come si evince dalla lettera di licenziamento. Solo nei primi mesi del 2018 (febbraio/marzo 2018) l'azienda adibiva il lavoratore a mansioni più consone con il proprio stato di salute, prima con un affiancamento di un collega nell'espletamento del ruolo di "fuori banco", poi con la nomina a coordinatore della "Sala Amica" (doc. 13 res. fasc. I fase: e-mail del 13 marzo e del 11 luglio 2018). Affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale o sia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. (Cass.4.2.2020 n. 2527). La responsabilità del datore di lavoro può consistere in un comportamento commissivo o in un comportamento omissivo. La difesa di parte opponente ha posto l'accento sul comportamento omissivo della società datrice di lavoro che, in virtù degli obblighi derivanti dall'art.2087 c,c,, avrebbe dovuto (anche se la mansione di "Addetto Registrazione e Imbarchi" non prevede un obbligo di sorveglianza sanitaria) intervenire in modo più incisivo adottando misure adatte a contenere il disagio del lavoratore dal momento che, come è emerso dall'istruttoria orale, la società era a conoscenza delle sue precarie condizioni di salute. Al fine di verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato occorre procedere con il giudizio controfattuale. In mancanza di questo positivo accertamento, come affermano le Sez. Unite Civili 584/2008, anche per il settore civile, l'omissione non può mai ritenersi causa del danno lamentato. A parere della scrivente, nella fattispecie in esame, è verosimile che, se il ricorrente fosse stato adibito alla "sala Amica" in epoca precedente al marzo del 2018, il numero delle sue assenze per malattia sarebbe stato inferiore. Va considerato, a questo proposito, il fatto che il periodo di comporto è stato superato per soli 10 giorni. Ciò che è imputabile alla società opposta, dunque, è di aver ritardato nell'adottare misure a tutela della salute del dipendente e di aver in tal modo contribuito causalmente all'aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore e quindi, quantomeno, a talune delle sue assenze per malattia. Anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale a ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge. Nel caso in esame, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell'esposizione a rischio, può ritenersi dimostrato, quanto meno in termini di probabilità, che sussiste un nesso causale fra l'attività lavorativa e la malattia (che presenta una eziologia multifattoriale). L'esercizio dell'iniziativa economica privata, garantito dall'art. 41 Cost., non è sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall'autorità giurisdizionale, ma deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro (art. 4, 35, 36 cost.) ed alla salute (art. 32 Cost., 2087 c.c.). Il lavoratore odierno opponente doveva essere destinato a mansioni rispettose del suo stato di salute idonee a non aggravare la patologia certificata.
La prestazione lavorativa resa dal ricorrente, per come è stata concretamente eseguita, ha contribuito ad aggravare le patologie di cui egli è affetto. Tale conclusione trova conferma nella relazione medico legale della Dott.ssa (...) prodotta dal lavoratore. Deve ravvisarsi, di conseguenza, una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. La difesa dell'opponente ha richiamato quanto enunciato in materia dalla giurisprudenza oramai consolidata: sensi dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure necessarie per tutelare l'integrità fisica e morale dei lavoratori, rispettando non solo le specifiche norme prescritte dall'ordinamento in relazione al tipo specifico di attività imprenditoriale e lavorativa, ma anche quelle che si rivelino necessarie in base alla particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica. La previsione dell'obbligo contrattuale di sicure comporta che al lavoratore è sufficiente provare il danno ed il nesso causale, spettando all'imprenditore di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, con la conseguenza che solo l'effettiva interruzione del nesso di causalità tra infortunio o malattia e comportamento colpevole dell'imprenditore esclude la responsabilità di costui, non essendo sufficiente un semplice concorso di colpa del lavoratore, ma occorrendo o una di lui condotta dolosa ovvero la presenza di un rischio effettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso" (cfr. ex pluris Cass. civ., sez. lav. n. 6377/2003, Cass. civ., sez. lav., n. 12253/2003, Cass. civ., sez. lav., n. 9909/2003, Cass. civ., sez. lav. n. 9856/2002, Cass. civ., sez. lav. n. 8944/2000, Cass. civ., sez. lav. n. 11351/1993). Infine, a differenza di quanto riportato nell'ordinanza impugnata, va considerato il fatto che sul lavoratore non incombeva un obbligo di tempestiva richiesta di malattia professionale (il lavoratore può richiedere le prestazioni INAIL entro 3 anni e 150 giorni dal giorno in cui la malattia si e manifestata) e, pertanto, non si può trarre dalla mancata richiesta una giudizio al medesimo sfavorevole. Secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, qualora venga accertato che l'infermità del dipendente sia causata dalla nocività delle mansioni assegnate o dell'ambiente di lavoro o da comportamenti di cui il datore di lavoro sia responsabile (art. 2087 c.c.), la relativa assenza - risultando detratta dal computo del periodo di comporto - non consentirebbe il recesso del datore di lavoro anche una volta che questo sia stato superato.
Irrogando il licenziamento al lavoratore la società ha violato quanto disposto dal comma 2° dell'art. 2110 c.c. Incontestato il requisito dimensionale, consegue l'applicazione prevista dal comma 4° dell'art. 18 L. n. 300/1970 richiamato espressamente dal comma 7. Deve essere ordinata, di conseguenza, la reintegrazione della parte opponente nel precedente posto di lavoro occupato prima del licenziamento per cui è causa, trovando applicazione al caso in esame l'invocata tutela disciplinata dal comma 4° dell'art. 18 L. n. 300/1970. Ne consegue l'annullamento del licenziamento e l'immediata reintegra del sig. (...) nel precedente posto di lavoro. In assenza di prova dell'aliunde perceptum, e tenuto conto, altresì, della novella contenuta nel 4° comma del nuovo art. 18 L. n. 300/1970 sull'aliunde percipiendum, la società resistente va condannata, altresì, al pagamento in favore del ricorrente di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegra e fino ad un massimo di dodici mensilità, con detrazione di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Deve essere condannata, altresì, la società opposta al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione oltre interessi al tasso legale dalla maturazione dei crediti all'effettivo soddisfo. Alla soccombenza di parte opposta segue la condanna al pagamento delle spese di lite in favore dell'opponente.
P.Q.M.
Revoca l'ordinanza impugnata, dichiara la nullità del licenziamento comunicato al ricorrente con lettera del 4.07.2019 e, per l'effetto, condanna la Società convenuta a reintegrare il signor (...) nel posto di lavoro in precedenza occupato e al pagamento in favore del medesimo, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni perdute dalla data del licenziamento sino all'effettiva reintegra, somma da calcolarsi sulla base della retribuzione globale di fatto, nella misura massima di 12 mensilità, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo, condanna la società opposta al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, condanna la società opposta al pagamento in favore dell'opponente delle spese di lite che si liquidano in complessivi euro 5.000 per compensi, oltre accessori di legge.