Cassazione Civile, Sez. 6, 11 giugno 2021, n. 16534 - Mobbing da parte dei superiori gerarchici: non condannabile l'azienda che non ne sia a conoscenza


 

La responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo.

Nel caso di specie, però, il datore di lavoro non era stato messo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente e dunque nessun risarcimento da parte dell'azienda è dovuto.
 



Presidente Doronzo – Relatore Esposito


Rilevato che:

la Corte di appello di Catanzaro, per quanto in questa sede interessa, confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva rigettato la domanda avanzata da C.B. diretta ad accertare la condotta di mobbing dei superiori gerarchici nei suoi confronti e, di conseguenza, la responsabilità di Poste Italiane s.p.a., con condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni;
avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la lavoratrice sulla base di sette motivi;
Poste Italiane s.p.a. resiste con controricorso;
la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata.

Considerato che:

Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 1228 c.c., poiché illegittimamente la Corte territoriale aveva ritenuto che Poste Italiane s.p.a. non fosse tenuta a rispondere ex se per la condotta dei propri dipendenti, in mancanza di allegazioni e prove riguardo alla conoscenza da parte del datore di lavoro delle condotte lesive e all’inerzia da parte del medesimo riguardo alla loro rimozione;
con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2049 c.c., anche in riferimento all’art. 32 Cost., risultando la decisione in contrasto con il principio in forza del quale l’accertamento di un rapporto di necessaria occasionalità tra fatto illecito del preposto ed esercizio delle mansioni affidategli comporta l’insorgenza di una responsabilità diretta a carico della società per i danni arrecati a terzi dagli agenti nello svolgimento delle incombenze loro affidate;
con il terzo motivo deduce omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in ordine al mobbing oggetto di discussione tra le parti, specificamente con riguardo ai plurimi e sistematici atti lesivi perpetrati nei confronti della lavoratrice dal 2006 al 2010, determinanti lesione della sua personalità e dignità;
con il quarto motivo deduce violazione degli artt. 2697, 2087 e 1218 c.c. per avere la Corte d’appello errato nel ritenere che spettasse alla ricorrente allegare e provare che Poste Italiane s.p.a. fosse a conoscenza dell’asserito mobbing, dovendo invece la società dimostrare di aver posto in essere tutte le misure per impedire il verificarsi del danno;
con il quinto motivo deduce omesso esame circa fatti decisivi in ordine a condotte lesive integranti mobbing, facendo riferimento a una pluralità di condotte vessatorie che assume confermate dai testi e provate da documentazione medica;
con il sesto motivo lamenta la violazione art. 2967, 1218 e 2087 c.c., quanto alle condotte lesive non integranti mobbing, operando in favore della lavoratrice, in riferimento all’art. 2087 c.c., la presunzione di colpa di cui all’art. 1218 c.c., in deroga dell’art. 2697 c.c.;
deduce, infine, violazione art. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte disatteso la richiesta istruttoria di consulenza tecnica medico legale;
il primo e il secondo motivo sono infondati in base al principio in forza del quale la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. - non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (ex multis Cass. n. 18093 del 25/07/2013), laddove nella specie la Corte territoriale aveva escluso, con accertamento in fatto insindacabile in questa sede, che il datore di lavoro, identificabile con la direzione provinciale di Catanzaro, fosse stato messo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente;
il terzo motivo è inammissibile poiché le condotte enunciate dalla ricorrente sono state esaminate dal giudice d’appello, che ha escluso, a seguito dell’istruttoria espletata, l’esistenza di molti episodi denunciati;
gli altri motivi di ricorso, da trattare congiuntamente, sono inammissibili poiché propongono una diversa valutazione dei fatti di causa rispetto a quella compiuta dal giudice del merito, ancorché proposti sub specie violazione di legge (Cass. n. 8758 del 04/04/2017, SU 34476 del 27/12/2019);
in base alle svolte argomentazioni il ricorso va complessivamente rigettato e le spese sono liquidate secondo soccombenza;
in considerazione della statuizione, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.