Cassazione Penale, Sez. 3, 11 giugno 2021, n. 23104 - Reato di maltrattamenti in famiglia per il farmacista che vessa le dipendenti
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SARNO Giulio - Presidente -
Dott. DI NICOLA Vito - rel. Consigliere -
Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere -
Dott. MACRI’ Ubalda - Consigliere -
Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
S.G.A.B., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 08-07-2019 della Corte di appello di Cagliari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso che è stato trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8;
udita la relazione del Consigliere Dott. Vito Di Nicola;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. SOCCI Stefano, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione relativamente al reato sub b) relativamente ai fatti consumati fino al (OMISSIS). Rigetto nel resto;
udito per il ricorrente l'avvocato Pierlugi Concas che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Fatto
1. E' impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la Corte di appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 20 settembre 2017, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del ricorrente in ordine al reato di cui al capo A) della rubrica, limitatamente alla condanna in danno di L.D., perchè estinto per prescrizione, eliminando la relativa pena.
Ha confermato nel resto la sentenza del Tribunale ed ha ridotto la pena inflitta in complessivi anni sei e mesi sei di reclusione.
Al ricorrente erano stati contestati i seguenti reati:
A) delitto di cui all'art. 572 c.p., per avere commesso, con abitualità, nel corso dell'esercizio dell'attività lavorativa presso la farmacia "(OMISSIS)" di (OMISSIS), atti di maltrattamento, lesivi della integrità morale nei confronti delle proprie dipendenti, la farmacista L.D. e la magazziniera M.L., consistiti in vessazioni ed offese quotidiane, quali l'appellare la prima con il termine "IGUANA" o "CAPRA" e la seconda con "SERVA", per avere ripetutamente impedito alle stesse l'utilizzo del bagno, se non dietro pagamento di una quota, per averle correntemente costrette, anche con atteggiamenti aggressivi, ad eseguire le punizioni umilianti da lui imposte in caso di errori nel lavoro, così facendo lavorare le stesse in uno stato di paura e frustrazione; in particolare, per avere costretto la M., dietro la minaccia del licenziamento (VAI SE NO O SALTI IL POSTO DI LAVORO O PRENDI CALCI IN CULO), talvolta dandole calci e colpi, a svolgere faccende domestiche nella propria abitazione ed a lavare la propria auto ed a compiere altre mansioni non previste nel contratto di impiego.
In (OMISSIS), nella farmacia "(OMISSIS)" dal (OMISSIS), per la M..
In (OMISSIS), nella farmacia "(OMISSIS)" da (OMISSIS), per la L.;
B, prima parte) dei delitti di cui agli artt. 81 cpv. e 609-bis c.p., per avere rivolto alla propria dipendente, M.L., abusando della propria autorità e con violenza e minaccia, abituali e insistenti molestie sessuali contro tra la sua volontà, emettendo versi alla sua vista, mettendole la bocca sul collo, immobilizzandola, e tentando di baciarla in bocca con la lingua, dicendole "VOGLIO SCOPARE CON TE", nonchè abbracciandola dalle spalle e palpandole il seno con le mani e sfregando i propri organi genitali sul sedere della stessa, che invano cercava di divincolarsi ed urlare, venendo immediatamente ripresa; fino al (OMISSIS);
B, seconda parte) del delitto di cui all'art. 81 cpv. c.p. e art. 609-bis c.p., comma 2 n. 1, per avere costretto la farmacista L.D. a subire quotidiani approcci sessuali, mettendole le mani addosso, tentando di baciarla in bocca con la lingua e di leccarla ammonendola dicendole "SE TI TROVO DA SOLA POI VEDI..." e "MI ISPIRI SESSO PERCHE' HAI IL SENO PICCOLO", anche chiedendole quanto volesse per andare a letto con lui, avvicinandola con la forza al suo corpo, senza curarsi della debole opposizione fisica che lei tentava di opporre senza riuscirci, anche a causa della gracilità derivante dall'essere affetta da talassemia.
In (OMISSIS), nella farmacia "(OMISSIS)" dall'(OMISSIS).
2. Il ricorrente, tramite il difensore di fiducia, affida il ricorso a nove motivi, in seguito riassunti ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)), in relazione all'art. 572 c.p. e all'art. 14 disp. gen. nonchè vizio di motivazione, in relazione al "rapporto di para-familiarità", quanto al fatto di maltrattamenti in pregiudizio della signora M.L. (capo A dell'imputazione).
Premette che i giudici del merito hanno patrocinato, quale presupposto della loro decisione, un'interpretazione del tutto erronea del rapporto di para-familiarità, indispensabile per affermare la sussistenza del delitto di maltrattamenti commesso in danno del dipendente, soggetto non legato da vincolo familiare con l'imputato.
Il Tribunale aveva ritenuto di poter sussumere i fatti descritti al capo A) dell'imputazione nella fattispecie di cui all'art. 572 c.p. (nella formulazione antecedente le modifiche apportate dalla L. n. 172 del 2012) sul presupposto che il luogo di lavoro fosse una farmacia, dunque un luogo assai limitato, ove le mansioni di ciascun dipendente venivano quotidianamente svolte a stretto contatto, anche fisico, degli altri dipendenti sotto la vigilanza del datore di lavoro, e che l'ambiente di lavoro era di tipo familiare, avuto riguardo alle caratteristiche appena richiamate ed al fatto che, in definitiva, poche persone passavano tutta la giornata lavorativa e tutte le giornate dell'anno a stretto contatto, in un piccolo luogo sotto la diretta, continua e immediata direttiva e vigilanza del datore di lavoro, quasi come un padre di famiglia in ambiente familiare.
La Corte territoriale, a fronte dell'eccepita assenza di un rapporto di para-familiarità tra imputato e persona offesa (ovvero di una relazione diretta, tra datore di lavoro e dipendente, caratterizzata dalla condivisione dei momenti tipici del contesto familiare), aveva replicato affermando che i rilievi sostenuti dal Tribunale sarebbero più che convincenti, perchè la signora M. era risultata inserita "in un ambiente lavorativo assai peculiare, farmacia, in una tipica relazione di affidamento del soggetto più debole (il prestatore di lavoro subordinato) rispetto al soggetto rivestito di autorità (il datore di lavoro). Tali circostanze sono del tutto assimilabili a quelle del consorzio familiare".
Secondo il ricorrente, entrambe le pronunce avevano, perciò, ritenuto di poter affermare la sussistenza di un rapporto di para-familiarità tra imputato e persona offesa sul solo presupposto delle modeste dimensioni del luogo di lavoro e della relazione subordinata esistente tra prestatore di lavoro subordinato e suo datore di lavoro.
Obietta il ricorrente che, in tal modo, la sentenza impugnata avrebbe così trascurato, come pure quella del Tribunale, che la fattispecie incriminatrice in commento è inserita nel titolo dei delitti contro la famiglia ed espressamente indica nella rubrica (all'epoca dei fatti) la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli: le pratiche vessatorie realizzatè ai danni del dipendente o di soggetto non legato da vincolo familiare, perciò, potevano integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo se il rapporto tra agente e persona offesa avesse assunto natura para familiare, perchè caratterizzato da relazioni intense ed abituali e dal formarsi di una comunanza di vita tra i soggetti, sicchè non poteva ritenersi idoneo a configurarlo in siffatti termini il mero contesto di un rapporto di subordinazione/sovraordinazione in ambiente di lavoro, anche ristretto, salvo ricorrere ad applicazione analogica della legge penale, vietata però dal principio di tipicità dell'illecito penale, oltre che dall'art. 14 preleggi.
In simile prospettiva, i giudici del merito avrebbero assegnato erroneo significato al concetto di para-familiarità, interpretato in termini del tutto difformi da quelli ripetutamente offerti dallo stesso Giudice di legittimità.
Altro profilo di contraddittorietà della pronuncia impugnata emergerebbe dal raffronto tra gli elementi ricostruttivi del fatto, offerti dal Tribunale ed espressamente condivisi dalla decisione impugnata, e le argomentazioni che la Corte territoriale ha svolto circa il rapporto intercorso tra l'imputato e la signora M..
Assume il ricorrente che, nella sentenza di primo grado, riprodotta interamente nel provvedimento impugnato, si affermava, esplicitamente che il ricorrente, come riferito da tutti i testi, non stava sempre in farmacia perchè egli, occupandosi più che altro della parte amministrativa e non della vendita, stava spesso in ufficio (pag. 48 della sentenza impugnata).
Evidenzia come siffatte circostanze fattuali, sottolineate dal Tribunale e segnalate dal ricorrente nei motivi d'appello, pure condivise dalla sentenza impugnata, dessero conto delle effettive modalità (quantitative) con cui il ricorrente partecipava alle attività che si svolgevano nel luogo di lavoro, pure a quelle che venivano svolte extra mansioni dalla M., e con cui egli veniva in contatto con le dipendenti della farmacia, ivi compresa la signora M..
Esse erano perciò idonee a documentare come tra costoro non vi fosse una intensa e costante relazione e tanto meno intercorressero abitudini di vita proprie e tipiche delle comunità familiari.
Difetterebbe, perciò, nel caso di specie, come emergerebbe dalla stessa motivazione della sentenza impugnata, ma pure da quella del Tribunale, il requisito della para-familiarità (ovvero di una relazione tra dipendente e datore di lavoro che si sia esplicata in un contesto di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, con modalità tipiche del rapporto familiare) comunque indispensabile per ipotizzare il delitto di maltrattamenti.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole della mancanza o contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, come risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo specificamente indicati (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), con particolare riferimento all'attendibilità della parte civile ed alla sussistenza del reato, quanto al delitto di cui agli artt. 81 e 609-bis c.p. commesso in danno della signora M. (capo B dell'imputazione).
Lamenta che la Corte di appello non avrebbe eseguito alcuna verifica diretta ad escludere la manipolazione dei contenuti dichiarativi in funzione delle pretese patrimoniali avanzate, circostanza che avrebbe richiesto che si procedesse alla conferma delle dichiarazioni accusatorie con altri elementi.
Infatti, nel caso di specie, era emerso, dal resoconto delle prove dichiarative fornito dalla sentenza del Tribunale, condiviso e fatto proprio dalla Corte d'appello, che le prime esternazioni della signora M., rivolte alla teste Ma. del Caf, non intervennero immediatamente, ma solo dopo che la stessa fu resa edotta, dalla Ma., della regolarità delle buste paga e delle questioni in ordine alla reversibilità della pensione del marito, appena deceduto, e furono accompagnate dall'intervento dell'altra parte civile, signora L..
In buona sostanza, secondo il ricorrente, la signora M. non avrebbe preso autonomamente la decisione di denunciarlo, ma fu indotta a farlo previo accordo con la L..
Non si spiegherebbe diversamente, infatti, la chiara affermazione della teste Ma., riportata pure nella sentenza impugnata, che aveva ricordato che, mentre parlava con la signora M., era stata contattata dalla signora L., che le disse di "fare anche il proprio nome ai Carabinieri".
Ciò dimostrerebbe che l'iniziativa della signora M. non era frutto di autonoma scelta ma piuttosto risultava la conseguenza di una determinazione assunta unitamente alla signora L..
La Corte territoriale avrebbe, perciò, omesso di confrontarsi con le specifichè allegazioni del ricorrente, che davano conto della genesi delle dichiarazioni accusatorie della signora M., ciò che rendeva la motivazione della sentenza quanto meno omessa.
Peraltro, nella vicenda in esame, se le dichiarazioni delle parti civili apparentemente si confortavano l'una con l'altra, quelle della signora M. erano state incredibilmente smentite dalle affermazioni provenienti dalla teste S., ritenuta dalla Corte territoriale sicuramente credibile, cosicchè, alla luce di ciò, perdeva rilevanza anche la circostanza che l'altra parte civile, avesse, confermato le dichiarazioni della signora M..
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la mancanza o la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, come risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo specificamente indicati (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), anche in relazione all'art. 533 c.p.p., quanto al delitto di cui agli artt. 81 e 609-bis c.p. commesso in danno della signora M. (capo B dell'imputazione).
Sostiene che la sentenza impugnata, per le ragioni enunciate con il precedente motivo di ricorso, avrebbe dovuto sottoporre a necessaria verifica l'ipotesi accusatoria sì da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (l'autocontraddittorietà o l'incapacità esplicativa) o esterni.
Essa, invece, avrebbe argomentato su un materiale di prova - caratterizzato dalla contrapposizione di alcuni dati probatori - senza dar conto di come dette contraddizioni potessero risolversi in una visione complessiva e formare la prova ogni oltre ragionevole dubbio della colpevolezza del ricorrente, incorrendo pertanto nel vizio di motivazione denunciato.
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente evidenzia la mancanza o la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, come risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo specificamente indicati (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)), in relazione all'affermazione di responsabilità per i fatti di violenza sessuale commessi in danno della signora M. dopo il settembre 2011.
Osserva che, con l'atto d'appello, egli aveva lamentato che era stata pronunciata condanna nei suoi confronti per il delitto di violenza sessuale continuata in danno della signora M. commesso fino al (OMISSIS) ma che la persona offesa, M.L., aveva riferito che gli atteggiamenti di carattere sessuale erano cessati sei mesi prima della fine del suo rapporto di lavoro.
Poichè la detta circostanza era stata del tutto trascurata dal Tribunale, egli aveva richiesto, l'assoluzione dai fatti di violenza sessuale commessi in danno della signora M. in epoca successiva al settembre 2011 perchè il fatto non sussiste.
La Corte territoriale, invece, aveva omesso di confrontarsi con siffatta deduzione, peraltro decisiva per determinare il periodo in relazione al quale si sarebbe dovuta affermare la responsabilità dell'imputato, ma neppure aveva tenuto conto delle dichiarazioni rese della teste all'udienza del 11 dicembre 2015 (pedissequamente riportate sia nella sentenza di I grado che in quella impugnata), tanto che nella motivazione non si rinveniva argomentazione alcuna circa l'epoca in cui avrebbero avuto termine i fatti commessi in pregiudizio della M., risultando così evidente, dallo stesso contenuto della decisione impugnata, il vizio di motivazione nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale.
2.5. Con il quinto motivo il ricorrente prospetta l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)) in relazione agli artt. 157 e 158 c.p. quanto alla decorrenza del termine di prescrizione dei delitti di violenza sessuale commessi in pregiudizio della signora M..
Osserva che la Corte d'appello, nel rigettare l'eccezione di prescrizione in parte qua, aveva ricordato che, quanto alla M., il delitto di violenza sessuale fosse stato contestato in continuazione fino al (OMISSIS), con la conseguenza la prescrizione dovesse iniziare a decorrere dall'ultimo atto della condotta illecita contestata in continuazione.
Sarebbe allora evidente, ad avviso del ricorrente, l'errore di diritto in cui è incorsa la Corte territoriale, per non aver tenuto conto che l'art. 158 c.p., nella formulazione vigente all'epoca dei fatti come pure al momento della decisione ed in concreto applicabile al caso di specie, prevedesse, per il reato continuato, che il termine di prescrizione decorra distintamente per ciascun reato (unito dal vincolo della continuazione) dal momento della consumazione di ogni singolo illecito, ovvero, nel caso di specie, dal giorno della consumazione di ciascun fatto di violenza sessuale.
2.6. Con il sesto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonchè per vizio di motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)) in relazione all'art. 533 c.p.p., quanto al delitto di cui agli artt. 81 e 609-bis c.p. commesso in danno della signora L. (capo B dell'imputazione).
Sostiene che, nei motivi d'appello, aveva evidenziato come il racconto della L. risultasse solo apparentemente confortato da quanto riferito della parte civile M. e dalla teste S..
In particolare, la parte civile M. si sarebbe confrontata con la stessa L. in ordine ai fatti oggetto del processo prima ancora di formulare le sue prime esternazioni (alla dipendente del Caf), ma soprattutto, dopo aver tentato di avvalorare le accuse della parte civile signora L., aveva dovuto ammettere di non aver assistito alle molestie da questa lamentate.
Peraltro, il ricorrente, facendo leva sul testo della sentenza impugnata (pag.108 della sentenza), ricorda che le molestie patite dalla signora L. sarebbero consistite in palpeggiamenti delle zone intime (sedere), in strusciamenti del pene eretto contro il corpo della donna, in baci (non richiesti) sulla bocca.
Avuto riguardo alle dichiarazioni della teste S., all'udienza del 15 giugno 2016, e tenuto conto del fatto che lo stesso Tribunale aveva evidenziato come la L. avesse sostenuto che l'imputato la approcciava fisicamente ogni qualvolta la trovava da sola (pag.18 della sentenza impugnata), osserva il ricorrente come fosse necessario spiegare, per dare conto della certa affermazione della sua responsabilità:
- perchè la M. avesse tentato di supportare le accuse della L., salvo poi ammettere di non aver visto nulla;
- perchè la S., certo non animata da propositi amichevoli verso l'imputato (perchè a lui contrapposta da tempo, come rammenta la stessa Corte d'appello, in una controversia civilistica sulla proprietà della farmacia), avesse potuto notare quel che veniva compiuto unicamente quando la parte civile L. sosteneva essere sola;
- perchè la S. descrivesse delle condotte non coincidenti con quelle descritte dalla L..
Siccome alcuna delle questioni, capaci di determinare, ad avviso del ricorrente, un esito diverso del processo e perciò specificamente sottoposte al vaglio del giudice di secondo grado, erano state esaminate, la Corte territoriale sarebbe incorsa nel vizio di motivazione denunciato.
2.7. Con il settimo motivo il ricorrente rileva l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 157 e 158 c.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)) in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione dei delitti di violenza sessuale commessi in pregiudizio della signora L..
Sostiene che la Corte territoriale, anche per i delitti di violenza sessuale commessi in pregiudizio della signora L., dall'(OMISSIS) (capo B, seconda parte dell'imputazione), avrebbe formulato considerazioni analoghe a quelle già rievocate con il quinto motivo di ricorso, ritenendo erroneamente che, in tema di reato continuato, la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione della continuazione, anzichè della consumazione di ogni singolo illecito, e reiterando così la già evidenziata violazione legge.
2.8. Con l'ottavo motivo il ricorrente critica sentenza impugnata per inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 62-bis c.p. nonchè per vizio di motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)), in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
Sostiene che la sentenza impugnata ha afferma che l'avvenuto risarcimento del danno patito dalle due persone offese (con contestuale rinuncia alla costituzione di parte civile in appello) sarebbe circostanza difensivamente neutra,‹ tardiva e palesemente successiva rispetto alla stessa definizione del primo giudizio ed alla notifica della formula esecutiva riguardante la somma provvisionale.
Osserva che, così argomentando, la Corte territoriale non solo avrebbe ignorato la differenza tra provvisionale, che costituisce una mera anticipazione sulla liquidazione del danno, e risarcimento del danno, che presuppone invece l'integrale rifusione del pregiudizio patito dalla vittima, ma avrebbe pure trascurato che, come rammentato dalla Corte Costituzionale, escludere la rilevanza - ai fini delle attenuanti generiche - di condotte positive ma successive al reato significa porsi in contrasto con l'art. 27 Cost., comma 3, tenuto conto che la finalità rieducativa della pena non è limitata alla sola fase dell'esecuzione e che le finalità che la Costituzione assegna alla pena comportano, comunque, una certa flessibilità della pena in funzione dell'obiettivo di risocializzazione del reo.
Nell'affermare che il risarcimento del danno, seppur intervenuto dopo la sentenza di primo grado ma in assenza di una pronuncia sulla determinazione del quantum, sarebbe circostanza neutra e perciò irrilevante per il riconoscimento delle attenuanti generiche, la Corte territoriale avrebbe perciò offerto un'interpretazione dell'art. 62-bis c.p. non conforme ai principi costituzionali.
Si trattava, ad avviso del ricorrente, di comportamento indicativo di una positiva evoluzione della personalità dell'imputato, poichè esso costituiva espressione di un rivisitazione critica "concreta ed effettiva" del proprio operato (riconoscendosene l'illeceità se non sotto il profilo penale quanto meno sotto quello civilistico).
2.9. Con il nono motivo il ricorrente eccepisce l'inosservanza e l'erronea applicazione dell'art. 82 c.p.p. nonchè l'omessa motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)) in relazione alla mancata revoca delle statuizioni civili.
Osserva che il Tribunale aveva pronunciato condanna generica del ricorrente al risarcimento dei danni in favore delle parti civili nonchè al pagamento di una provvisionale-ed alla rifusione delle spese di costituzione da loro sostenute.
Prima del giudizio d'appello era, però, pervenuta rinuncia scritta alla costituzione in appello di entrambe le parti civili, ex art. 82 c.p.p., comma 1, non sottoposta ad alcuna condizione e con effetto ampiamente liberatorio, tanto che la stessa sentenza impugnata rammentava che l'imputato avesse provveduto all'integrale risarcimento dei danni in favore delle parti civili (pagine 83 e 101 della pronuncia gravata). All'esito della discussione il ricorrente aveva, perciò, sollecitato la revoca delle statuizioni civili contenute nella sentenza del Tribunale, come risulta dal verbale d'udienza del 20 maggio 2019 (allegato al ricorso).
La sentenza impugnata - avendo omesso di revocare la condanna al risarcimento dei danni, al pagamento della provvisionale ed alla rifusione delle spese pronunciata dal giudice di primo grado in favore delle citate parti civili, nonostante le stesse avessero revocato le loro costituzioni, pure dando atto di aver ottenuto l'integrale risarcimento del danno - sarebbe incorsa nei vizi di violazione di legge e di motivazione denunciati.
Diritto
1. Il ricorso è parzialmente fondato, nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
2. Il primo motivo di gravame non è fondato per le seguenti ragioni.
2.1. La giurisprudenza di legittimità ha affrontato, in molteplici occasioni, la questione della configurabilità del delitto di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p., allorquando le condotte, costitutive del fatto di reato, fossero commesse in un ambito diverso da quello strettamente familiare.
La casistica consente di reperire, per quanto qui specificamente interessa, una serie di pronunce relative ai rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, riconducibili o meno al cosiddetto "mobbing".
A proposito di detti rapporti è stato affermato, senza contrasti, che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione ("mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M., Rv. 272804 - 01; Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, L.G., Rv. 260063 - 01; Sez. 6, n. 13088 del 05/03/2014, B. ed altro, Rv. 259591 - 01; Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, S. ed altro, Rv. 255976 - 01; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, L., Rv. 252609 - 01; Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C., Rv. 251368 - 01Sez. 6, n. 685 del 22/09/2010, dep. 2011, C., Rv. 249186 - 01; Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, P. ed altro, Rv. 244457 - 01).
Nel pervenire a questa conclusione la Corte ha chiarito che, nell'ambito dei delitti contro l'assistenza familiare (capo IV del titolo II del libro secondo del codice penale), sono ricomprese anche fattispecie la cui portata supera i confini della famiglia, comunque essa venga intesa, legittima o di fatto. Gli artt. 571 e 572 c.p. indicano, infatti, come soggetto passivo delle rispettive previsioni anche la persona sottoposta all'autorità dell'agente o a lui affidata per l'esercizio di una professione o di un'arte, con la conseguenza che la formula linguistica utilizzata postula il chiaro riferimento a rapporti implicanti una subordinazione, sia essa giuridica o di mero fatto, la quale - da un lato - può indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice verso il soggetto passivo e dall'altro - rende difficile a quest'ultimo di sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione della sua personalità (Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, P. ed altro, cit., in motiv.).
La Corte ha tuttavia precisato che tale rapporto, avuto riguardo alla ratio delle richiamate norme e, in particolare, a quella di cui all'art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzato da "familiarità", nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della "famiglia", deve comportare relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest'ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perchè parte più debole.
Da ciò la giurisprudenza di legittimità, nelle soprarichiamate decisioni, ha dedotto che soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare può ipotizzarsi, ove si verifichi l'alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l'umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti.
In questa direzione viene dunque valorizzato l'inserimento del reato di maltrattamenti tra i delitti contro l'assistenza familiare, precisandosi come esso sia in linea col ruolo che la stessa Costituzione assegna alla "famiglia", quale società intermedia destinata alla formazione e all'affermazione della personalità dei suoi componenti, cosicchè, nella stessa ottica, vanno letti e interpretati, secondo la giurisprudenza della Corte, soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare (Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, cit., in motiv).
2.2. Ferme le precedenti coordinate, non ravvisandosi motivi per disattenderle, osserva il Collegio che, in linea con l'indirizzo ermeneutico in precedenza delineato, rileva, quale indefettibile presupposto in materia di interpretazione delle norme penali incriminatrici, insuscettibili di essere applicate oltre ai casi che esse espressamente disciplinano, innanzitutto il dato letterale attraverso il quale la norma incriminatrice, di cui all'art. 572 del codice penale, si esprime.
La rubrica della norma - intitolata "maltrattamenti contro familiari e conviventi", pur dopo la modifica attuata dalla L. 1 ottobre 2012, n. 172, art. 4, comma 1, lett. d), che ha aggiunto espressamente i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato - non appare, come già sottolineato, perfettamente coincidente con l'ambito di operatività ricoperto dalla fattispecie penalmente rilevante che, di più ampia portata, non soltanto incrimina chiunque, fuori dei casi di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (ossia fuori dei casi di cui all'art. 571 c.p., "maltratta una persona della famiglia o comunque convivente", ma anche chi maltratta, indipendentemente perciò dal riferimento letterale alla "famiglia", "una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte".
Il fatto che "rubrica legis non est lex" ed il fatto di essere il delitto inserito nel capo IV ("delitti contro l'assistenza familiare") del titolo XI ("delitti contro la famiglia") del codice penale, se autorizzano l'interprete a ritenere che il reato di cui all'art. 572 c.p. esplichi il proprio ambito di operatività maggiormente in situazioni che hanno un loro precipitato fattuale all'interno della famiglia, non consentono tuttavia di ritenere che le condotte maltrattanti compiute ai danni di persone sottoposte all'altrui autorità o ad altri affidate per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte non integrino, a condizioni esatte, gli estremi della fattispecie incriminatrice.
Da ciò consegue che il bene giuridico protetto dall'incriminazione non si identifica nella sola protezione della famiglia, in quanto tale, ma nella tutela della personalità e dunque della dignità tanto delle persone inserite in un contesto familiare o di convivenza quanto di quelle sottoposte ad altrui autorità o ad altri affidate per le ragioni indicate nella norma incriminatrice, dovendo tutte queste persone essere protette da atti che minino la loro integrità fisica e/o psichica, vulnerando la loro personalità nel significato più sostanziale.
Peraltro, al fine di una più compiuta articolazione del suddetto principio, è il caso di precisare come non vada certo enfatizzata la collocazione del delitto tra quelli contro la famiglia e, in particolare, contro l'assistenza familiare, posto che la prevalente dottrina, dopo il disallineamento in parte qua del codice Rocco rispetto al codice Zanardelli (che, non a caso, collocava il delitto di maltrattamenti tra quelli contro la persona), aveva criticato detta sistemazione, evidenziando come tale inserimento non corrispondesse ad un rigoroso criterio di classificazione scientifica sia sul rilievo che i maltrattamenti si consumano, prevalentemente, attraverso il compimento di atti che compromettono l'integrità fisica e morale della persona, cosicchè la sede più attrezzata per la catalogazione del reato sarebbe appunto quella che appresta tutela ai delitti contro la persona, proprio in sintonia con la previsione del codice Zanardelli del 1889, sia sul rilievo che i maltrattamenti possono avere come soggetti attivi o passivi del reato anche persone non necessariamente legate da vincoli familiari e che le condotte esecutive del delitto possono essere realizzate in luoghi diversi da quelli propri del contesto di vita familiare, come testimonia la stessa formulazione letterale della fattispecie incriminatrice.
Va poi annotato che il codice Rocco patrocinava una concezione "arcaica" della famiglia, essenzialmente intesa, secondo autorevoli posizioni dottrinali dell'epoca, come nucleo elementare, coniugale e parentale, della società, concezione comprensiva dell'interesse dello Stato alla salvaguardia del consorzio familiare in quanto istituto di ordine pubblico.
Una tale concezione deve però essere necessariamente aggiornata soprattutto a seguito del nuovo quadro costituzionale di riferimento che impone di individuare la ratio di tutela del reato ex art. 572 c.p. attraverso il coordinamento sistematico dell'art. 2 Cost. (secondo il quale "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo e sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità") con l'art. 29 Cost., comma 1, (in cui si dichiara che "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio").
In proposito, la dottrina ha opportunamente osservato che proprio una lettura sistematica delle richiamate norme costituzionali consente di ritenere che il termine "società naturale" debba essere inteso nel senso che la famiglia costituisce una formazione sociale intermedia tra l'individuo e lo Stato, entro la quale si forma e si afferma la persona umana, sia come singolo che come membro di una comunità.
In questa prospettiva, la giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che la nozione di formazione sociale, nel cui ambito l'art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, deve intendersi riferita a ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico (di recente, ex multis, Corte Cost., sent. n. 0221 del 18/06/2019 Num. mass.: 0041563; Corte Cost., sent. n. 0138 del 23/03/2010, Num. mass.: 0034576), il che consente anche di ritenere che le formazioni sociali, tra cui la famiglia, non si prestano ad essere "ingessate", non si riducono cioè ad essere cristallizzate in schemi fissi, ma che esse, come la stessa evoluzione della giurisprudenza costituzionale dimostra in subiecta materia, sono inevitabilmente aperte alle trasformazioni culturali e valoriali della società.
E' in questa direzione che trova agevole spiegazione la posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità che, prendendo atto dell'emersione di nuove figure di aggregazione sociale e di convivenza, ha legittimamente anticipato la novella del 2012, che ha definitivamente esteso, ex positivo iure, la tutela penale alle persone che, pur senza aver alcun legame parentale o coniugale con il soggetto maltrattante, fossero soltanto conviventi con costui, modellando un concetto penalistico di famiglia per indicare un aggregato in senso ampio, non necessariamente vincolato da stretti rapporti parentali o di sangue e ponendo l'accento sul fatto che elemento qualificante della ratio dell'incriminazione fosse una relazione tra soggetto maltrattante e vittima definibile in termini di "convivenza" all'interno di un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà o, comunque, di "comunanza di vita".
Occorre anche ricordare che una parte della dottrina è giunta, da tempo, ad estendere l'ambito di operatività della fattispecie incriminatrice, ritenendo che il bene giuridico tutelato dall'art. 572 c.p. fosse individuabile non già nella famiglia in quanto tale, ma nell'integrità psico-fisica di coloro che, per età o per rapporti di tipo familiare o di affidamento, si trovino nelle condizioni di subire, proprio nei contesti in cui dovrebbero ricevere maggior protezione, condotte di prevaricazione fisica o morale.
Nondimeno, un siffatto approdo, pur essendo in gran parte condivisibile, non coglie pienamente la ratio dell'incriminazione, per come ricavabile dalla littera legis, in quanto evita di prendere posizione sul problema centrale che affligge l'interpretazione della norma penale.
Infatti, a maggior ragione dopo le novità introdotte dalla L. 1 ottobre 2012 n. 172, la questione interpretativa da risolvere consiste nel verificare se e in quali termini sia esegeticamente armonizzabile il contestuale riferimento che l'art. 572 c.p. opera alle persone della famiglia, ai semplici conviventi e a una variegata gamma di soggetti (ossia coloro che all'agente sono sottoposti per motivi di autorità o di affidamento) che non possono certamente essere considerati dal soggetto attivo del reato come membri della famiglia.
Per questa ragione, la dottrina più attenta a cogliere la struttura del reato di maltrattamenti ha osservato come l'integrità psicofisica sia soltanto uno degli aspetti del bene tutelato dall'art. 572 c.p., il quale - da un lato, attraverso la descrizione di un'identica modalità della condotta ("maltratta") e, dall'altro, proprio attraverso la varietà contenutistica dei segni linguistici utilizzati per descrivere la direzione della condotta punibile ("una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata..."), richiede una serie di comportamenti, qualificati dal soggetto che li compie e ripetuti nel tempo, lesivi un bene più esteso di quello della semplice integrità psicofisica offesa dai singoli atti di maltrattamento (che pure sono tutelati, se costituenti reato, da altre norme incriminatrici che possono concorrere con il delitto di maltrattamenti o costituire eventi che ne aggravano la condotta criminosa).
Tale bene è stato identificato nella "personalità dell'individuo", sul rilievo che la reiterazione degli atti, attentando alla dignità della persona (sia essa membro della famiglia, un convivente, un lavoratore, un anziano) attribuisce alla condotta un'oggettività giuridica autonoma rispetto a quella dei singoli atti, con la conseguenza che la condotta del maltrattare, per la sua durata e ripetitività, lede l'intera personalità, mentre il singolo atto (percossa, ingiuria, minaccia) lede l'integrità psicofisica del soggetto passivo.
Questa è la ragione per la quale, affinchè sia integrata la fattispecie incriminatrice in parola, occorre che i singoli fatti appaiano congiunti tutti insieme da un nesso di abitualità, nel senso che essi non devono risultare, di volta in volta, meramente occasionali o improvvisi, ma devono essere avvinti, nella loro serie, da un'unica intenzione criminosa, in quanto è appunto il collegamento di codesta pluralità di azioni la cifra che caratterizza il reato di maltrattamenti.
Questo carattere della condotta è stato chiaramente rimarcato dalla giurisprudenza, essendo stata ravvisata la necessità, ai fini dell'integrazione del modello legale di reato di cui all'art. 572 c.p., della realizzazione di una serie continua di fatti lesivi della personalità del soggetto passivo, produttivi di sofferenze attraverso una reiterazione di atti violenti ed offensivi tali da risolversi in condotte lesive dell'altrui personalità (Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F. ed altri, in motiv.).
Da ciò è stato tratto argomento per sostenere che la fattispecie incriminatrice de qua integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire reato ed essere quindi in sè non punibili (atti di vessazione, di sopraffazione, di sopruso, di umiliazione generica, etc.) ovvero non penalmente perseguibili (ingiurie) o procedibili solo a querela, come le percosse o le minacce lievi ma che rinvengono la ratio dell'incriminazione nella loro reiterazione, che si protrae nel tempo, e nella persistenza dell'elemento intenzionale (dolo di maltrattare).
Allora occorre osservare, in primo luogo, come l'art. 572 c.p. operi il richiamo, oltre che "a una persona della famiglia o comunque convivente", anche alle persone sottoposte alla autorità del reo o ad esso affidate e, in secondo luogo, occorre considerare come il reato possa manifestarsi nelle stesse forme ("maltratta") indipendentemente dalla natura del rapporto (di famiglia, di convivenza, di affidamento ecc.) che intercorre tra maltrattante e maltrattato, esprimendo, quindi, il medesimo disvalore di azione e di evento, fatte salve le specificità delle singole condotte, sia quando è rivolto contro una persona appartenente al nucleo familiare, sia quando è diretto verso un convivente e sia quando soggetti passivi del reato siano persone sottoposte (lavoratori) o affidate (anziani) al reo.
Perciò il fatto di reato di cui all'art. 572 c.p. si realizza tra soggetti legati da un rapporto di prossimità permanente (familiare o di tipo familiare) scaturente da una relazione di convivenza e/o di comunanza di vita o comunque da un intenso rapporto (di lavoro, di affidamento) ossia da un legame che, destinato a durare nel tempo, rende la vittima, in quanto tale, un soggetto particolarmente vulnerabile nei confronti di chi, in ragione della propria posizione, è chiamato al rispetto e alla solidarietà.
Ne deriva, pertanto, che oggetto della tutela penale è l'interesse della persona al rispetto della propria personalità nello svolgimento di un rapporto familiare o para - familiare con il soggetto attivo del reato.
2.3. A questo punto risulta possibile cogliere il senso dell'indirizzo giurisprudenziale in precedenza richiamato, il quale, inquadrato nel solco tracciato dai principi di diritto suesposti, afferma che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (ex multis, Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M., cit., Rv. 272804 - 01).
Se l'area della punibilità del reato, di cui all'art. 572 c.p., è caratterizzata elettivamente dal requisito della "familiarità", essendo comunque la fattispecie incriminatrice inserita nei delitti contro l'assistenza familiare, e se il fatto di reato, evidentemente per assimilazione, può essere realizzato anche in contesti diversi dagli ambiti familiari, ne consegue che queste ultime condotte devono, per essere conformi -al tipo, assumere i tratti della familiarità, non nel senso che debbano possedere requisiti identici a quelli propri dei consorzi familiari ma devono essere dotate di uno o più elementi tipici della familiarità, elementi che si costituiscono tra soggetti avvinti da legami di prossimità permanente (ossia cronologicamente consistenti o continuativi) e che si traducono in relazioni abituali e intense tra persone che condividono, sia pure con distinzione dei ruoli, una medesima comunità familiare, di lavoro, di cura, di affidamento o di assistenza, nell'ambito della quale possono intrattenere le stesse consuetudini di vita e/o trovarsi in una posizione di soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia-soggezione), e/o riporre (il soggetto passivo) fiducia nel soggetto attivo, destinatario quest'ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perchè parte più debole del rapporto instaurato all'interno della comunità di riferimento.
Opina il ricorrente, invece, che il rapporto di para - familiarità deve tradursi, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 572 c.p., non in una generica presenza sul luogo di lavoro, bensì in una stretta e intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente caratterizzata dalla condivisione di tutti i momenti tipici del contesto familiare, quali ad esempio il consumo comune dei pasti, il pernottamento nei medesimi luoghi, la costante assidua vicinanza fisica, il mutuo soccorso, la solidarietà morale, la confidenzialità (e cita, Sez. 2, n. 7639 del 06/12/2107, dep. 2018, D., in motiv.).
In tal modo, il ricorrente - al netto di ogni altra considerazione, in precedenza espressa, sulla struttura della fattispecie e il bene giuridico che la sostiene - omette di considerare che il legislatore ha aggiunto, ai maltrattamenti in famiglia, la previsione normativa che incrimina i maltrattamenti commessi nei confronti di ogni persona sottoposta all'autorità dell'agente, ovvero al medesimo affidata per determinate ragioni.
A stretto rigore, quindi, le suddette previsioni, a differenza dei maltrattamenti in famiglia, non richiedono la convivenza (che implica il ricorso a consuetudini di vita, quali le consumazioni dei pasti o il pernottamento nella stessa dimora) ma la semplice sussistenza di un rapporto continuativo, cosicchè gli atti vessatori, che possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali, nell'ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, nei casi più gravi, configurano, a pieno titolo, anche il delitto di maltrattamenti, con la conseguenza che rientra nel rapporto d'autorità di cui all'art. 572 c.p. il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo (Sez. 3, n. 27469 del 05/06/2008, Di Venti, Rv. 240337 - 01).
Pur non sussistendo, sotto diversi profili, piena sovrapposizione tra ambito di operatività del reato di cui all'art. 572 c.p. e la nozione di "violenza domestica", esprimendo quest'ultima nozione un concetto, per un verso, più ristretto rispetto al reato, che può configurarsi, come anticipato, anche in ambiti para-familiari, e, per altro verso, più esteso, potendo gli atti di violenza domestica integrare anche ulteriori reati (omicidio, lesioni, violenza sessuale, atti persecutori, ecc.), vale la pena ricordare come, nel fornire la definizione della violenza domestica, le convenzioni internazionali (Cedaw e convenzione di Istanbul, alle quali i giudici interni devono conformarsi) e la stessa legislazione nazionale (L. 15 ottobre 2013, n. 119, art. 3 di conversione, con modificazioni, del D.L. 14 agosto 2013, n. 93, recante, tra l'altro, disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere) escludono - pur operando il riferimento agli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partners - che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima, a dimostrazione del fatto che, non essendo richiesto che autore e vittima del reato (di violenza domestica) dimorino abitualmente in uno stesso luogo, neppure è richiesto che gli stessi partecipino o abbiano partecipato alle stesse consuetudini di vita.
E se tale requisito non è richiesto per il reato di maltrattamenti in famiglia, in senso stretto, a maggior ragione non può essere richiesto per i maltrattamenti commessi, in ambiti "para-familiari", come nei luoghi di lavoro, nei confronti di persona sottoposta all'autorità dell'agente, ovvero al medesimo affidata per determinate ragioni.
Ne deriva che gli indici che la giurisprudenza di legittimità declina, per la configurazione di un rapporto "para-familiare", non devono sussistere congiuntamente, essendo sufficiente la presenza di uno o più indici indicativi di uno stretto legame tra i soggetti ossia un rapporto continuativo di "prossimità permanente", come in precedenza delineato, il quale richiede che si instaurino tra le persone relazioni intense ed abituali e, quindi, che sussista, con specifico riferimento al rapporto di lavoro subordinato, una diretta relazione tra agente e persona sottoposta alla potestà datoriale.
Spetta al giudice di merito accertare la presenza o meno degli indici di sussistenza di un rapporto "para-familiare" e la relativa motivazione, se congrua e priva di vizi di manifesta illogicità, è insindacabile in sede di giudizio di legittimità.
2.4. Ciò posto, la Corte d'appello, con logica e adeguata motivazione, ha chiarito come le persone offese fossero inserite in un ambiente lavorativo assai peculiare, attesa la natura e le dimensioni del luogo di lavoro, del tutto assimilabile a un consorzio familiare. L'ambito lavorativo era piuttosto limitato, in quanto le mansioni venivano svolte dalla farmacista e dalla magazziniera a stretto contatto fisico con altri dipendenti e con i due soci titolari.
L'intenso rapporto tra dipendenti aveva poi facilitato amicizie tra loro.
Il potere direttivo e di supremazia rivestito dal ricorrente in seno al negozio farmaceutico è stato confermato anche dal fatto che la potestà datoriale si esplicava nell'applicazione di sanzioni e nell'impartire direttive.
La Corte territoriale, sul punto, ha pienamente condiviso gli approdi ai quali era giunto il tribunale secondo il quale il luogo di lavoro, essendo una farmacia, era assai limitato e, al suo interno, le mansioni di ciascun dipendente venivano quotidianamente svolte a stretto contatto, anche fisico, degli altri dipendenti e del datore di lavoro, il quale esercitava il potere direttivo in un ambiente di tipo familiare, tenuto anche conto del fatto che poche persone trascorrevano tutta la giornata lavorativa e tutte le giornate dell'anno a stretto contatto, in un piccolo luogo e sotto la diretta, continua e immediata vigilanza del datore di lavoro.
Le persone offese, dunque, lavoravano quotidianamente nella farmacia insieme alle colleghe e sotto la vigilanza costante del ricorrente, il quale esercitava le funzioni sia in farmacia che in ufficio, occupandosi anche della parte amministrativa dell'impresa.
Formulate le doglianze con riferimento alla sola posizione della M. (per la L. è stata già dichiarata l'estinzione del reato di maltrattamenti per prescrizione e non sono stati presentati motivi di ricorso in proposito), la Corte territoriale ha ricordato, a proposito della M., che, oltre all'incardinamento nel personale della farmacia alle dipendenze dirette del ricorrente (con potere direttivo esercitato dall'imputato anche mediante richiami informali organizzativi/disciplinari), la persona offesa venne impiegata sostanzialmente come "colf" per svolgere lavori (non retribuiti) di pulitura dell'auto, di sorveglianza dei cani dell'imputato, di cura della casa privata del ricorrente, di stiratura di capi di abbigliamento, di lavaggio della moto, di stesura delle lenzuola, attività che, all'evidenza, non rientravano nei compiti di magazziniera della farmacia ("vai a lavarmi la macchina, serva"); oltre alle molestie sessuali patite, la M. spesso, in occasione delle mansioni interne alla farmacia, veniva redarguita pesantemente dall'imputato, circa presunte carenze lavorative; veniva interrogata in merito a dove si trovasse "il Congo in geografia", ed il tutto con relazione di immediata prossimità rispetto al titolare della impresa, autore delle condotte vessatorie. A dimostrazione dell'assoluta soggezione della donna, pressochè impossibilitata a licenziarsi, per tanti anni, stante le sue precarie condizioni economiche (e l'assenza di proventi economici dall'ex marito separata), è stata annotata la circostanza che, in occasione di una risibile mancanza (pacco di farmaci non eseguito a regola d'arte), venne pesantemente redarguita e minacciata di licenziamento ("ringrazia che non ti posso mandare via, perchè sennò te ne andresti a calci in culo"; situazione che aveva fatto crollare l'equilibrio psicofisico della donna con la necessità di ricorrere a un periodo di malattia e successivamente, a sue dimissioni volontarie).
2.5. Sulla base delle precedenti considerazioni, il motivo di ricorso deve essere pertanto rigettato.
Tuttavia, essendo decorso il termine di prescrizione (termine maturato il 4 dicembre 2019: data di consumazione del reato = (OMISSIS) + 3 mesi e gg. 4 di sospensione della prescrizione, come da sentenza di appello a pag. 106) e in presenza di un motivo di ricorso che non può ritenersi manifestamente infondato, la sentenza impugnata va annullata in parte qua senza rinvio, essendo il reato di maltrattamenti in danno di M.L. estinto per intervenuta prescrizione, con conseguente eliminazione della relativa pena ad opera del giudice del rinvio, al quale sarà in seguito appositamente richiesto di procedere, anche per altre ragioni, alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
3. Il secondo, il terzo ed il sesto motivo di ricorso, essendo tra loro strettamente collegati, possono esse congiuntamente esaminati.
Essi sono inammissibili.
3.1. Il ricorrente, con i sopraindicati motivi, deduce violazione di legge e vizio di motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui la Corte di merito ha ritenuto l'attendibilità delle persone offese con riferimento ai reati di violenza sessuale.
Egli sostiene, in buona sostanza, che la Corte di appello non avrebbe eseguito alcuna verifica diretta ad escludere la manipolazione dei contenuti dichiarativi in funzione delle pretese patrimoniali avanzate dalle persone offese, circostanza che avrebbe richiesto che si procedesse alla conferma delle dichiarazioni accusatorie con altri elementi.
Nè la Corte territoriale, avendo persino omesso di sottoporre a necessaria verifica l'ipotesi accusatoria sì da scongiurare la sussistenza di dubbi interni o esterni, avrebbe considerato la decisiva circostanza secondo la quale la signora M. non avrebbe preso autonomamente la decisione di denunciarlo, ma fu indotta a farlo previo accordo con la L.; neppure si era tenuto conto del contrasto dichiarativo tra le persone offese e la teste S., certo non animata da propositi amichevoli verso l'imputato (perchè a lui contrapposta da tempo, come riconosciuto dalla stessa Corte d'appello, in una controversia civilistica sulla proprietà della farmacia); nessuna spiegazione era stata data in sentenza circa il fatto che la M. avesse tentato di supportare le accuse della L., salvo poi ammettere di non aver visto nulla.
3.2. i rilievi espressi dal ricorrente, oltre a essere aspecifici perchè non si confrontano con la motivazione della sentenza impugnata, sono manifestamente infondati e non consentiti in considerazione della loro tipica valenza fattuale.
La Corte d'appello, dopo aver ampiamente dato atto del granitico contenuto della prova dichiarativa (pag. 83 ss. della sentenza impugnata), come cristallizzata nelle narrazioni delle persone offese, ha ritenuto provata la responsabilità penale del ricorrente con riferimento ai reati sessuali e ciò anche solo sulla base delle dichiarazioni delle vittime, stimate attendibili oggettivamente e soggettivamente, osservando, per altro, come dette dichiarazioni si riscontrassero reciprocamente, fornendo adeguata giustificazione del predetto assunto nonchè valorizzando soprattutto la prova logica, per avere collegato i fatti all'interno di un complessivo e unitario disegno persecutorio realizzato dall'imputato attraverso le ripetute e continue vessazioni compiute ai danni delle dipendenti e nel cui contesto si collocavano anche alcune molestie sessuali.
La Corte di merito ha anche esplicitamente escluso che le dichiarazioni accusatorie fossero state concordate tra le persone offese (pag. 89 della sentenza impugnata), avendo rilevato, nel racconto delle vittime, piccole incongruenze non incidenti però sulla loro attendibilità soggettiva globale, a dimostrazione della circostanza che nulla vi fu di artefatto o costruito in maniera artificiosa per quanto riguarda la genesi delle predette fonti accusatorie.
3.2.1. Quanto alle violenze subite dalla M., la Corte d'appello ha osservato che dalle dichiarazioni della persona offesa e da quelle di Ma.Ma.Ri., dipendente del centro CAF di (OMISSIS), alla quale la prima si rivolse, non erano emerse contraddizioni di sorta nella ricostruzione dei fatti e neppure interessate finalità che avrebbero potuto avere animato la denunciante al momento del primo contatto con le forze dell'ordine.
Era emerso, in sintesi, che: la fine del rapporto lavorativo tra la M. e il ricorrente era avvenuta il (OMISSIS), a seguito dell'ennesimo rimprovero nei confronti della donna, responsabile secondo il datore di lavoro del fatto che aveva impiegato troppo tempo per preparare un pacco. La M. aveva replicato che faceva quel tipo di lavoro da almeno 16 anni. A quel punto l'uomo aveva detto alla donna che, se solo avesse potuto, "l'avrebbe mandata via a calci nel culo", dicendole apertamente che doveva "licenziarsi". In quel preciso periodo, la donna si trovava in una condizione psicofisica non ottimale dato che il mese precedente (il 13 febbraio 2012) aveva dovuto subire l'evento del suicidio dell'ex marito, dal quale si era separata in precedenza ma col quale aveva mantenuto costanti contatti. Nel contempo doveva badare ai tre figli nati dalla coppia e residenti a Roma (che all'epoca convivevano con il padre). Ciò aveva creato nella donna un indubbio stato ansioso depressivo, tanto che si era dovuta rivolgere al proprio medico di famiglia che le aveva dato una prognosi di 15 giorni di malattia dovuta al medesimo stato depressivo di origine ansiosa. Inoltre, in una fase successiva, la M. si era rivolta ad una psicologa e poi ad uno psichiatra del locale C.I.M. (ASL di (OMISSIS)) a causa della pesante situazione psicologica in cui si trovava, originata vuoi dall'atteggiamento negativo serbato nei suoi confronti per anni dal ricorrente, vuoi dagli eventi traumatici della sua famiglia di origine nonchè dalla preoccupazione per il destino dei suoi tre figli. Tutto ciò aveva determinato una certa sofferenza psichica, con ideazione suicidaria che aveva trovato indubbio riscontro nel racconto della Ma..
A seguito dell'ottenimento di un periodo di malattia, dovuto alla grave situazione di sofferenza, pertanto, il rapporto lavorativo era cessato per dimissioni (settembre 2012).
Cessato il lavoro, in primo luogo, la M. si era presentata presso la Ma., al CAF di (OMISSIS), onde accertare le differenze retributive che le spettavano e la possibilità di ottenere la pensione di reversibilità dopo il decesso dell'ex marito. Nell'ambito dei colloqui avuti con la Ma., dapprima era stata fatta una verifica sulle buste paga erogate dalla farmacia ‘(OMISSIS)' e sulla possibilità di ottenere la reversibilità della pensione; subito dopo però la M. aveva cominciato a lamentare la anomalia assoluta del suo rapporto lavorativo, nonchè la circostanza che, pur essendo stata assunta come magazziniera, aveva dovuto svolgere mansioni sostanzialmente di COLF alle dipendenze del ricorrente, come lavare in terra, curare il giardino, stendere i panni e lavare l'auto. Ai rilievi della Ma., la M. ebbe un crollo emotivo e si mise a piangere, sfogandosi che intendeva suicidarsi proprio a causa di tutto ciò che aveva dovuto subire dal suo datore di lavoro (che non venne neppure nominato dalla vittima).
Quest'ultima, sempre secondo l'attendibile dichiarazione della Ma. si era confidata in ordine alle avance sessuali perpetrate dal ricorrente, consistite nel fatto di sorprenderla alle spalle in una stanzina, nel cercare di abbracciarla, nel tentare di palparle il seno e quindi di baciarla. Constatata la triste situazione psicologica della M., la Ma., pur essendo semplice addetta al CAF, aveva consigliato un medico specialista alla donna, proprio in relazione al palesato intento suicidario dovuto alla pesante situazione in cui versava (perdita del posto di lavoro; condotte di abuso per lungo tempo patite contro la sua volontà ad opera del datore di lavoro). Inoltre, la Ma. aveva fornito il proprio numero di cellulare alla M. dicendole di chiamarla qualora avesse necessità di aiuto. Per quanto riguarda l'ulteriore aspetto della questione, che ovviamente esulava dalle proprie competenze, la Ma. aveva consigliato a M.L. di chiamare i Carabinieri. La donna inizialmente aveva paura di contattare i militari cosicchè fu la Ma. a recarsi alla compagnia dei c.c. di (OMISSIS).
La Ma. ha poi dichiarato che fu la M. a farle il nome della dottoressa L. come soggetto ulteriormente coinvolto nella vicenda degli abusi sessuali; da quel punto in poi la M. venne escussa il 18 aprile 2012 da sottufficiali del NORM c.c. di (OMISSIS) e propose dettagliata querela.
Da ciò la Corte d'appello, contrariamente alle deduzioni difensive, ha tratto logico e corretto argomento per ritenere che non vi fu alcun previo accordo tra la L. e la M., ancor prima che costoro decidessero di recarsi dai Carabinieri; anche se le due ex dipendenti si erano confidate in merito ai gravi fatti, la stessa M. aveva riferito, con chiarezza, che il consiglio di recarsi presso i Carabinieri le fu dato dalla Ma., la quale le era stata di grande aiuto psicologico e, in seconda battuta, dalla psicologa del CIM di (OMISSIS). Conseguentemente, l'interposta querela (18 aprile 2012) non fu qualcosa di artificiosamente costruito o predeterminato, ma la liberazione da un pesante fardello che gravava sulla M. per tanto tempo.
3.2.1. Per quanto concerne L.D., la Corte distrettuale ha spiegato come costei avesse dichiarato di essere stata assunta dal 2003 al 2010 presso la farmacia (OMISSIS)', periodo durante il quale subì atti di tipo vessatorio e di natura apertamente sessuale, tanto da aver interrotto il rapporto lavorativo con la farmacia (OMISSIS), a causa delle continue molestie sessuali perpetrate dal ricorrente e delle vessazioni psicologiche che aveva subito, connotate da veri e propri maltrattamenti, precisando di avere sempre mal sopportato le continue angherie e molestie del ricorrente, ma di avere incontrato costanti difficoltà a causa della sua malattia (beta-talassemia major o anemia mediterranea, con sua invalidità riconosciuta al 92%).
Dopo aver chiarito che, anche in questo caso, non sussistevano motivi per sollevare dubbi in ordine alla artificiosità o strumentalità della proposta querela, la Corte territoriale, ha osservato come un formidabile riscontro in merito alla accusa proveniente da L.D. fosse stato fornito dalla teste S.M.M..
Quest'ultima, nella sua qualità di socia e co-titolare della farmacia, aveva svolto compiti diretti di farmacista al servizio del pubblico, onde si trovava nella migliore condizione per valutare tutto ciò che accadeva all'interno del luogo di lavoro, fornendo così un prezioso riscontro anche in ordine alla ubicazione degli spazi utilizzati dal ricorrente per commettere le lascive condotte in danno delle due dipendenti.
Dal testo della sentenza impugnata emerge che la testimone, con riferimento alla quale è stata rimarcata dai giudici di merito la piena affidabilità e l'assenza di motivi che avrebbero potuto indurla a deporre il falso in giudizio, ha nettamente confermato: a) la circostanza che il ricorrente l'abbracciasse lascivamente e inopportunamente, chiarendo che non gradiva tali approcci tanto che cercava di svincolarsi in vari modi e in ogni occasione; b) la circostanza che, oltre ad abbracciarla più volte, dovette subire l'avvicinamento lascivo, parimenti sgradito, del viso dell'imputato al suo orecchio; c) la ulteriore circostanza che venisse chiamata "iguana" e "capra", proprio dal ricorrente; d) la circostanza che, a causa del disservizio verificatosi nel bagno, l'imputato avesse chiuso l'accesso ai servizi igienici, imponendo altresì una sorta di penale o gabella onde accedere al bagno medesimo; e) il fatto che venisse presa di mira dal ricorrente mediante la ossessiva ripetizione di frasi dette in perfetto italiano, che dovevano essere scritte a parte su un foglio.
La Corte d'appello ha poi dato atto che, quanto alle molestie sessuali patite dalla M., la teste, S., non aveva escluso che si fossero verificate, sebbene avesse affermato di "non averle viste", confermando altresì la circostanza che spesso, in occasione delle mansioni interne alla farmacia, la M. venisse redarguita pesantemente dall'imputato, circa presunte carenze lavorative.
Perciò, in ordine alle molestie sessuali patite da M.L., la Corte di merito è giunta alla conclusione, del tutto logica, che la S., avendo dichiarato di non averle notate, non avesse certo smentito che le stesse si fossero realmente realizzate nei termini precisati dalla parte civile in dibattimento.
Il giudice di secondo grado ha poi aggiunto che, quanto alle molestie sessuali, la versione accusatoria della M. aveva trovato anche precisi e plurimi riscontri (riportati anche a pag. 92 dell'impugnata sentenza).
3.3. Riassunta, in parte qua, la ratio decidendi della sentenza impugnata, ingiustificata appare allora la critica, invero del tutto generica, che il ricorrente muove verso la pronuncia gravata, la quale - avendo analizzato compiutamente tutte le risultanze di causa, compresi i temi di prova che l'imputato aveva sollecitato per corroborare la tesi difensiva circa la ritenuta inattendibilità delle persone offese - è stata denunciata, a torto ed apoditticamente, di aver sottostimato le informazioni acquisite al procedimento, avendo viceversa proceduto ponderatamente ad un esame globale ed unitario degli elementi acquisiti, con indicazione di quelli ritenuti giustificativi del proprio giudizio, diversamente da quanto opinato dal ricorrente che, peraltro, non si è minimamente confrontato con la struttura portante della motivazione.
Va anche ricordato che, quanto alla prova dichiarativa relativa alla narrazione testimoniale della vittima del reato, in ispecie se costituita parte civile, le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214).
E' pur vero che il Giudice deve valutare l'opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi ma la Corte di merito non si è sottratta a tale non necessaria incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese.
Sul punto, è il caso di precisare come la Corte di legittimità abbia, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purchè siano idonei a convalidare "aliunde" l'attendibilità dell'accusa, tenuto anche presente che essi devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e non ai fini specifici previsti dall'art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte ed altri, cit.); con la conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare, anche dal punto di vista logico, la credibilità della dichiarazione nel suo complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante e che neppure è necessario che i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni, perchè le narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.).
Pertanto, in presenza di una ampia e positiva verifica, corredata da adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità, in ordine alla credibilità soggettiva delle persone offese e dell'attendibilità intrinseca del loro racconto, anche ampiamente riscontrato su tutti i punti centrali della narrazione, per i quali è stata comunque fornita, nella sentenza impugnata, una congrua giustificazione, la Corte d'appello non è incorsa in alcun vizio nella valutazione della prova, cosicchè, sotto tale specifico aspetto, i motivi di ricorso si connotano anche per la loro manifesta infondatezza.
3.4. Inoltre - sempre con riferimento alle censure circa il fatto che la teste S. non avrebbe assistito agli episodi delle molestie sessuali subite dalla M. o al previo accordo stipulato da quest'ultima e dalla L. per denunciare strumentalmente il ricorrente, ovvero sul mancato riscontro della M. circa le violenze subite dalla L., o sulla mancanza di motivazione quanto alla divergenza delle dichiarazioni accusatorie delle persone offese - osserva il Collegio come i motivi di ricorso si lascino apprezzare per la loro congenita aspecificità, avendo la Corte d'appello, come in precedenza riassunto, fornito adeguate giustificazioni, non manifestamente illogiche, su tutti i rilievi sollevati dal ricorrente, il quale invece offre una sua personale ricostruzione della vicenda, anche attraverso la parcellizzazione degli elementi di prova e l'omessa valutazione di elementi decisivi valorizzati dalle decisioni di merito, con le quali perciò solo apparentemente si confronta.
Va allora ricordato che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, le doglianze che il ricorrente muove nei confronti della sentenza impugnata non possono ridursi a sostenere un diverso quadro probatorio fondato su una differente e alternativa lettura, peraltro parziale e lacunosa, come nel caso di specie, del corredo processuale, per come reso palese al giudice di legittimità sulla base del testo della sentenza impugnata, dei motivi di ricorso e degli atti ad esso allegati e specificamente indicati.
Nel caso in esame, le censure si connotano anche per la loro portata tipicamente fattuale, in quanto il ricorrente, nel denunciare i vizi della motivazione, introduce frequentemente nel ricorso rilievi di merito che non possono rientrare nell'orizzonte cognitivo del giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali, deducendosi apparentemente una violazione della legge penale o una carenza logica od argomentativa della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all'interno del quale non è possibile innestare censure che implichino la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte, come nel caso in esame, dai giudici di merito con doppia conforme decisione.
Occorre pertanto ribadire che, in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa sia la possibilità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio e sia la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di diversi parametri di ricostruzione dei fatti.
A tal proposito, come più volte affermato dalla Corte regolatrice, va chiarito che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato al giudice di legittimità essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, esulando dai poteri della Corte di cassazione, come in precedenza anticipato, quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944), con la specificazione che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", situazione nella specie del tutto insussistente.
Infatti, il sindacato di legittimità al riguardo deve essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando perciò ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè le ragioni del convincimento siano spiegate in modo logico e adeguato (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
Ne deriva che, anche sotto tale profilo, i motivi di ricorso risultano inammissibili perchè generici è non consentiti.
4. Sono invece fondati, per quanto di ragione, il quarto, il quinto ed il settimo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente eccepisce la parziale prescrizione in relazione all'affermazione di responsabilità per i fatti di violenza sessuale commessi in danno della signora M. dopo il settembre 2011 e per i fatti commessi in danno sia della M. che della L., per i quali fatti la Corte d'appello ha ritenuto che il decorso della prescrizione iniziasse dalla cessazione della continuazione.
Ciò posto, quanto al quarto motivo di gravame, con riferimento cioè alla pronuncia di condanna per il delitto di violenza sessuale continuata in danno della signora M. commesso fino al (OMISSIS), risulta dal testo della sentenza impugnata (pag. 7) che la persona offesa, M.L., aveva riferito che gli atteggiamenti di carattere sessuale erano cessati almeno sei mesi prima della fine del suo rapporto di lavoro, cessato appunto nel (OMISSIS).
Il difensore, nel pieno rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, ha allegato il verbale delle dichiarazioni dibattimentali del 11 dicembre 2015 rese dalla M. la quale ha affermato (pag. 32) che le molestie sessuali da parte del ricorrente ai suoi danni erano cessate da almeno sei mesi.
L'eccezione è stata formulata anche nel corso del giudizio di appello (pag. 82 della sentenza impugnata) per gli episodi di violenza sessuale in danno della M. per i fatti commessi dopo marzo 2011 (la difesa aveva rivendicato il periodo di un anno) e la Corte territoriale non ha provveduto in proposito, incorrendo nel vizio di motivazione denunciato.
La doglianza è stata riproposta con il ricorso per cassazione limitatamente ai fatti commessi dopo il settembre 2011 (la difesa ha corretto il periodo, rivendicandolo nella misura di mesi sei).
La richiesta va accolta e la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio limitatamente ai fatti di violenza sessuale commessi in danno della signora M. in epoca successiva al settembre 2011 (ossia in ordine ai fatti dal settembre 2011 al (OMISSIS)) perchè il fatto non sussiste.
Quanto al quinto motivo (reato di violenza sessuale in danno della M.) e al settimo motivo (reato di violenza sessuale in danno della L.), la Corte d'appello, nel rigettare l'eccezione di prescrizione in parte qua (pag. 110 della sentenza impugnata), aveva ricordato che il delitto di violenza sessuale era stato contestato in continuazione, con la conseguenza che la prescrizione dovesse iniziare a decorrere dalla cessazione della continuazione, ossia dall'ultimo atto della condotta illecita contestata in continuazione, tanto per il reato di violenza sessuale in danno della M., quanto per quello in danno della L..
Sulla base di tale motivazione, la Corte d'appello non ha scisso la continuazione e ha rigettato l'eccezione di prescrizione ritualmente formulata (v. verbale dibattimento in appello, allegato al ricorso).
La pronuncia è errata.
L'art. 158 c.p., comma 1, nella versione precedente alla novella del 5 dicembre 2005, n. 251 enunciava il principio della inscindibilità del reato continuato, al fine di stabilire il termine iniziale del decorso della prescrizione, affermando espressamente che il termine della prescrizione decorresse, per il reato continuato, dal giorno in cui era cessata la continuazione.
Tale previsione era stata ritenuta ragionevole, sul rilievo che l'inscindibilità del reato continuato, agli effetti della prescrizione, trovasse il suo fondamento nel principio che la prescrizione non potesse iniziare a decorrere finchè sussistesse e fosse in corso l'iter criminis determinato dall'unicità e dalla medesimezza del disegno criminoso, pur rimanendo fermo il periodo di prescrizione proprio di ciascun reato.
La L. n. 251 del 2005, riformando l'istituto della prescrizione, ha modificato l'art. 158 c.p., comma 1, non prevedendo, quanto al reato continuato, la regula iuris secondo la quale la prescrizione inizia a decorrere, per il reato continuato, dalla cessazione della continuazione.
Il principio della inscindibilità del reato continuato, operativo al fine di stabilire il termine iniziale della prescrizione, che coincide con la cessazione della continuazione, è stato poi ripristinato con la L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 1, lett. d), in vigore a decorrere dal 01 gennaio 2020.
Ne consegue che, secondo la legge ratione temporis vigente alla data dei commessi reati in danno della M. e della L., l'art. 158 c.p., comma 1, nulla stabiliva circa la decorrenza del termine di prescrizione in relazione al reato continuato.
Avendo la L. n. 251 del 2005, art. 6, comma 2, modificato il regime del reato continuato in tema di prescrizione, eliminando il riferimento al reato continuato dall'art. 158 c.p., comma 1, deve ritenersi che la novella abbia implicitamente previsto che il termine di prescrizione dovesse decorrere dal momento di commissione di ciascun reato, pur ricondotto al vincolo della continuazione.
Tale principio è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità, sebbene a proposito dell'applicazione della disciplina della prescrizione del reato continuato ai procedimenti di cassazione in corso a seguito della L. n. 251 del 2005.
E' stato infatti sostenuto che, in forza della disciplina del computo della prescrizione del reato continuato, introdotta con L. n. 251 del 2005, occorre tener conto, come "dies a quo" di decorrenza dei termini, della data di commissione dei singoli episodi criminosi e non più della data di cessazione della continuazione (Sez. 3, n. 12019 del 07/02/2007, Chioda, Rv. 236136 - 01).
Ne consegue che, per i reati commessi anteriormente al 01 gennaio 2020, il computo della prescrizione nel reato continuato va operato, scindendo le singole ipotesi criminose e calcolando per ciascuna di esse il tempo necessario a prescrivere.
La prescrizione è infatti un istituto che appartiene alla legalità penale sostanziale (Corte Cost., n. 0243 del 21/11/2018, mass. n. 0040476) e, come tale, è governato dall'art. 2 c.p., con la conseguenza che l'imputato matura il diritto all'applicazione della legge penale più favorevole.
Siccome la Corte d'appello non ha applicato il surrichiamato principio di diritto della scindibilità del reato continuato ai fini della decorrenza ò del termine di prescrizione per i fatti commessi nella vigenza dell'art. 158 c.p., comma 1, nella versione anteriore all'entrata in vigore della L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 1, lett. d), la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per i reati in danno di M.L. e L.D. limitatamente ai fatti commessi sino al (OMISSIS) per essere i rispettivi reati estinti per prescrizione.
5. E' fondato anche il nono motivo di ricorso.
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che la revoca della costituzione di parte civile, determinando l'estinzione del rapporto processuale civile inserito nel processo penale, impedisce al giudice penale di mantenere ferme le statuizioni civili relative ad un rapporto processuale ormai estinto. Di conseguenza la Cassazione, investita, come nel caso in esame, di un ricorso proposto dall'imputato e relativo alla responsabilità penale, deve - preso atto della revoca - annullare senza rinvio la sentenza in ordine alle statuizioni civili in essa contenute (Sez. 4, n. 3454 del 16/01/2019, Scozzafava, Rv. 275195 - 01; Sez. 6, 12447 del 15/05/1990, Scalo, Rv. 185345 - 01).
La stessa sentenza impugnata dà atto della revoca della costituzione delle parti civili (pag. 110 della sentenza impugnata) cosicchè essa va annullata senza rinvio limitatamente alle statuizioni civili che contiene e che perciò devono essere eliminate.
6. E' fondato, per quanto di ragione, anche l'ottavo motivo di ricorso.
Nel caso di specie, ai fini della concessione o del diniego delle attenuanti generiche, con motivazione apparente, la Corte d'appello, senza coniugare il dato con gli altri elementi negativi pure enunciati nella sentenza impugnata (pag. 111), ha affermato come l'avvenuto risarcimento del danno patito dalle due persone offese (con contestuale rinuncia alla costituzione di parte civile in appello) fosse circostanza difensivamente neutra, tardiva e palesemente successiva rispetto alla stessa definizione del primo giudizio ed alla notifica della formula esecutiva riguardante la somma provvisionale (30 gennaio 2018-19 aprile 2018).
La giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide, ha affermato che, in tema di concessione delle circostanze attenuanti generiche, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 182 del 2011, rientra tra gli elementi di cui il giudice deve tener conto, secondo i criteri dell'art. 133 c.p., anche la condotta positiva del condannato successiva al reato, potendo esserne escluso il rilievo con motivazione fondata su altre, preponderanti, ragioni della decisione, non sindacabile in sede di legittimità se non contraddittoria (Sez. 3, n. 27964 del 19/03/2019, L., Rv. 276354. - 01; Sez. 3, n., 1913 del 20/12/2018, dep. 2019, Carillo, Rv. 275509 - 03).
Se il risarcimento del danno tardivo esclude che l'imputato possa godere di particolari benefici che richiedono la tempestività della condotta risarcitoria (art. 62 c.p., comma 6, prima parte), la condotta post delictum, se in tutto o in parte riparatoria, può essere valutata ai fini della concessione delle attenuanti generiche, posto che anche un risarcimento dei danni non integrale, seppure non consente il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6, può essere valutato dal giudice in funzione della concessione delle attenuanti generiche (Sez. 6, n. 34522 del 27/06/2013, Vinetti, Rv. 256134 - 01).
La sentenza impugnata non ha compiuto alcuna comparazione tra un dato, che erroneamente ha definito come neutro e che ha comunque riconosciuto sussistente, e i dati negativi che ha pure enunciato, sicchè essa va annullata con rinvio per la valutazione in ordine al riconoscimento o meno dell'art. 62-bis c.p. e, in conseguenza dei precedenti annullamenti, anche per la rideterminazione della pena in conseguenza dei reati di maltrattamenti (in danno di M.L. con conseguente eliminazione della pena di mesi sei di reclusione irrogata in continuazione con la sentenza cassata) e di violenza sessuale dichiarati estinti per prescrizione o annullati per insussistenza del fatto.
Il giudice del rinvio pertanto valuterà se, in conseguenza dell'intervenuto risarcimento del danno, l'imputato sia meritevole della concessione delle attenuanti generiche ovvero se, nonostante il risarcimento, altre e preponderanti ragioni giustifichino il diniego del reclamato beneficio, prendendo in considerazione, a tal fine, anche lo stato di vulnerabilità delle vittime come precisato nelle sentenza di merito e procedendo comunque alla eliminazione della pena di mesi sei di reclusione in conseguenza della declaratoria di prescrizione del reato di maltrattamenti in danno di M.L. ed alla rideterminazione complessiva della pena per i reati di cui al capo b) della rubrica in conseguenza dei disposti annullamenti senza rinvio in relazione ai residui reati (in continuazione).
Il ricorso va, infine, dichiarato inammissibile nel resto.
Da ciò consegue l'irrevocabilità dell'affermazione di responsabilità del ricorrente per i reati di violenza sessuale commessi, in continuazione, ai danni di M.L. (dal 24 maggio 2008 al 01 settembre 2011) e ai danni di L.D. (dal 24 maggio 2008 al 01 ottobre 2010) per i quali la pena va rideterminata con o senza la concessione delle attenuanti generiche.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente al residuo reato di cui al capo A) in danno di M.L. perchè estinto per prescrizione.
Annulla altresì senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al capo B) per i reati in danno di M.L. in ordine ai fatti dal settembre 2011 al (OMISSIS) perchè il fatto non sussiste e per i reati in danno di M.L. e L.D. per i fatti fino al (OMISSIS) per essere estinti per prescrizione.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per le statuizioni civili che elimina.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Cagliari per la rideterminazione della pena e la valutazione in ordine al riconoscimento dell'art. 62-bis c.p..
Dichiara inammissibile il ricorso nel resto.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2021