Responsabilità di P., quale capo squadra e preposto e di R., quale assistente tecnico presso il cantiere di una s.r.l., perchè, per colpa generica consistita in imprudenza e negligenza nonchè per colpa specifica consistita in violazione dell'art. 2087 c.c., cagionavano lesioni personali gravi (comportanti l'incapacità dì attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni) al lavoratore dipendente D.A., il quale, recatosi nel bagno allestito all'interno del cantiere edile e verificato che il rubinetto dell'acqua non funzionava, beveva un sorso da una bottiglia posizionata sotto il lavandino e riportante la dicitura "vino aromatizzato all'uovo" credendo trattarsi di bevanda potabile, laddove invece si trattava di liquido antigelo; ne rimaneva intossicato riportando una insufficienza renale cronica con necessità di sottoporsi a dialisi.
Veniva assolto R. e condannato P. sia in primo che in secondo grado.
 
Ricorre in Cassazione P. - Respinto.
 
Afferma la Corte: "il preposto è una delle tre figure cui, secondo la nostra legislazione antinfortunistica e secondo la giurisprudenza formatasi al riguardo, competono, nell' ambito dell'impresa, specifiche posizioni di garanzia autonomamente previste.
Il preposto, come il datore di lavoro e il dirigente, è individuato direttamente dalla legge e dalla giurisprudenza come soggetto cui competono poteri originari e specifici, differenziati tra loro e collegati alle funzioni a essi demandati, la cui inosservanza comporta la diretta responsabilità del soggetto "iure proprio".
Si deve cioè precisare che il preposto non è chiamato a rispondere in quanto delegato dal datore di lavoro, ma bensì a titolo diretto e personale per l'inosservanza di obblighi che allo stesso, come già si è detto, direttamente fanno capo.
E' pertanto del tutto improprio il richiamo alla delega, o meglio alla assenza di delega, da parte del datore di lavoro con il quale la difesa dei P. cerca di allontanare da sè la responsabilità, solo dovendosi precisare che entrambe le pronunce qui contestate hanno correttamente individuato la responsabilità dell'imputato come conseguenza degli obblighi a lui direttamente e autonomamente spettanti.
A tale proposito, è opportuno ricordare che prima della emanazione del recente D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che all'art. 2, lett. e), definisce il preposto come "la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa", l'individuazione dei caratteri tipici di tale figura e dei suoi compiti sono stati precipuamente frutto della elaborazione giurisprudenziale che si è mossa nell'ambito del quadro normativo all'epoca esistente (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4, poi ripreso dal D.P.R. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4 bis) che indicano il preposto come colui che "sovrintende" alle attività dei lavoratori da lui dipendenti nell'ambito delle proprie attribuzioni e competenze."

 
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANATO Graziana - Presidente -
Dott. IACOPINO Silvana - Consigliere -
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa - rel. Consigliere -
Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) P.D. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 160/2007 CORTE APPELLO di TRENTO, del 08/02/2008;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 01/12/2009 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUISA BIANCHI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Iannelli Mario che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Giudiceandrea Bonifacio del Foro di Trento.

Fatto

P.D. è stato tratto a giudizio davanti al Tribunale di Trento, unitamente a R.G., per rispondere del reato previsto dall'art. 590 c.p., commi 1, 3 e 3 perchè, in qualità il P. di capo squadra e preposto e R. di assistente tecnico presso il cantiere di (OMISSIS) della Costruzioni Casarotto s.r.l., per colpa generica consistita in imprudenza e negligenza nonchè per colpa specifica consistita in violazione dell'art. 2087 c.c., cagionavano lesioni personali gravi (comportanti l'incapacità dì attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni) al lavoratore dipendente della Costruzioni Casarotto D.A., il quale, recatosi nel bagno allestito all'interno del cantiere edile e verificato che il rubinetto dell'acqua non funzionava, beveva un sorso da una bottiglia posizionata sotto il lavandino e riportante la dicitura "vino aromatizzato all'uovo" credendo trattarsi di bevanda potabile, laddove invece si trattava di liquido antigelo; ne rimaneva intossicato riportando una insufficienza renale cronica con necessità di sottoporsi a dialisi. In (OMISSIS).

Il Tribunale di Trento assolveva R. per non aver commesso il fatto; dichiarava di ritenere opportuna la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica per l'accertamento di eventuali responsabilità a carico di C.R., datore di lavoro e di C.E., direttore tecnico del cantiere e dirigente;
dichiarava P. colpevole del reato ascrittogli nella riconosciuta qualità di preposto; riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti lo condannava alla pena di mesi uno di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, pena sospesa e non menzione della condanna;
lo condannava altresì al risarcimento dei danni materiali e morali nei confronti della parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio; con riconoscimento di una provvisionale immediatamente esecutiva fissata nella somma di Euro 12.000,00.

La Corte di appello confermava la sentenza.
 
I fatti sono stati così riportati.
Assunto formalmente il giorno precedente ((OMISSIS)) dalla "Casarotto srl", l'operaio qualificato D., mentre lavorava presso un cantiere di (OMISSIS) facente capo a tale ditta, avvertiva l'impellente bisogno di bere.
Verificato che l'apposita canna con rubinetto al momento non funzionava, si recava nel locale servizi, allestito in un container, ma verificava che anche colà mancava l'acqua corrente.
Prendeva quindi un sorso del liquido contenuto in una bottiglia, posta sotto il lavandino, recante l'etichetta "Vino aromatizzato all'uovo".
Fin dalla sera cominciava ad avvertire forti dolori allo stomaco, ma non vi dava troppo peso, dovendosi oltretutto recare in treno fino al proprio paese d'origine, in provincia di (OMISSIS), per recuperare documenti necessari al perfezionamento dell'assunzione.
Già durante il viaggio la sua situazione diveniva più grave, tanto che nei pressi di (OMISSIS), dopo l'intervento di un medico, veniva fatto fermare il treno ed il D. veniva portato in Ospedale con un'ambulanza.
Giunto a (OMISSIS) l'uomo continuava a stare male, tanto che la sua compagna O.M. lo raggiungeva da (OMISSIS), ed insieme tornavano in auto, dove, tramite il Pronto Soccorso, avveniva il ricovero con la diagnosi di "insufficienza renale acuta da sostanze non meglio identificate" (cfr. il certificato di PS in data 16/5/2003).
Su richiesta dei medici curanti la O. si recava in cantiere e chiedeva informazioni più precise sul contenuto di "quella" bottiglia, apprendendo in via confidenziale dall'odierno imputato che trattavasi di liquido antigelo.
La O. ha pienamente confermato in udienza detta circostanza e l'imputato non l'ha smentita, essendosi rifiutato di sottoporsi all'esame.
Anche l'ispettore di PS C., recatosi in cantiere dopo qualche mese per le indagini del caso, ottenne proprio dal P. una confezione originale dell'antigelo colà in uso, la cui etichetta è allegata agli atti.
Tenuto conto di quanto precede; verificata, sulla base della documentazione medica in atti, la piena compatibilità degli esiti patologici con l'assunzione involontaria di glicole etilenico;
enucleata ed esaminata la posizione di garanzia dell'imputato come soggetto collocato in condizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così da poter impartire loro ordini, istruzioni e direttive sul lavoro da eseguire, e da poter sovrintendere ai lavori stessi, pur potendo contribuire egli stesso alla loro realizzazione, il primo Giudice ne affermava la penale responsabilità per il reato ascrittogli.
La Corte di appello confermava tale valutazione, ribadendo, nel rispondere alle argomentazioni svolte dall'imputato appellante, la sussistenza della posizione di garanzia del medesimo, della colpa e del nesso causale.

Avverso tale sentenza ha presentato ricorso a questa Corte la difesa del P. per i seguenti motivi.

Difetto di motivazione; erronea ricostruzione del fatto e erronea valutazione delle risultanze processuali in ordine all'accertamento dei fatti.
Si sostiene che era stato fatto presente con l'appello che erano ravvisabili nelle dichiarazioni della persona offesa D. numerose incongruenze relative alla data della sua assunzione al lavoro e a quella di ingestione della sostanza, nonchè sugli eventi successivi, quali il viaggio in (OMISSIS) ed i ricoveri a (OMISSIS), fino al ricovero del (OMISSIS) al (OMISSIS), ed anche sullo stesso luogo (sotto il lavandino, per D.; in un piccolo ripostiglio o gabbiotto di ferro, secondo la sua convivente, che ne ha riferito de relato,) in cui sarebbe stata collocata la bottiglia con l'antigelo.
Si tratta di contraddizioni e lacune che - osserva il ricorrente - non possono essere spiegate con l'agitazione del giovane, dal momento che esse si riscontrano nella deposizione testimoniale resa al dibattimento ad oltre due anni dal fatto; la Corte avrebbe dovuto prendere atto della inattendibilità della persona offesa, e della mancanza di nesso causale tra la presunta ingestione di liquido antigelo e le lesioni riscontrate.

Con un secondo motivo si deduce il difetto di motivazione e la erronea valutazione del nessi causale; la Difesa rappresenta la dedotta mancanza di certezza anche sulla quantità di liquido ingerito, la cui indicazione varia da una sorsata all'essersi semplicemente bagnato la bocca; lamenta che si è trascurato che ben diverse sono le conseguenze delle due ipotesi, e che la circostanza era dunque assai rilevante a livello della prova del nesso di causalità; si è inoltre trascurata la possibile influenza sulla produzione dell'evento dell'assunzione di una dose di eroina, riferita dalla stesso interessato (già in cura disintossicante con metadone al SERT di (OMISSIS)) e da lui collocata nella giornata di (OMISSIS), successiva al fatto di cui è causa, assunzione che potrebbe aver interferito con la presunta assunzione di liquido tossico, amplificandone gli effetti.
 
Con il terzo motivo si lamenta violazione dell'art. 521 c.p.p. per mancata corrispondenza tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza.
 
Con il quarto si fa valere il vizio di violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla ritenuta posizione di garanzia collegata alla qualità di preposto.
Secondo il ricorrente, in assenza di una delega da parte del datore di lavoro, non è configurabile una responsabilità del preposto per la mancanza delle misure cautelari e degli accorgimenti antinfortunistici la cui predisposizione ed attuazione spetti al datore di lavoro, e quindi non gli poteva essere imputata la mancanza di acqua corrente nel cantiere; inoltre erroneamente la Corte gli ha attribuito la qualifica di preposto sulla base del fatto, riferito da R., che egli era "caposquadra", m trascurando che lo stesso teste aveva categoricamente negato che il P. si occupasse "della sicurezza, prevenzione infortuni".
 
Il quinto motivo attiene a violazione di legge, art. 606 c.p.p., lett. d), per la mancata assunzione di prova decisiva ed in particolare di consulenza medico legale, espressamente sollecitata con le conclusioni dell'atto di appello, per accertare la compatibilità delle lesioni subite, asseritamente risalenti al (OMISSIS) con il decorso della malattia e con la sostanza (glicotilene) asseritamente ingerita, nonchè la interferenza della condizione di tossicodipendenza della persona offesa e della assunzione di eroina. Da ultimo si lamenta la erroneità della condanna al risarcimento del danno, derivante da quanto sopra detto.
 
Diritto

Il ricorso non merita accoglimento risultando in parte infondati ed in parte inammissibili i motivi dedotti.

Sono inammissibili tutti i motivi di ricorso, tranne il quarto.
 
In ordine alla questioni poste con il primo motivo, è sufficiente osservare che la Corte di appello ha già preso in considerazione il profilo della attendibilità della persona offesa, già sollevato in tale sede ed ora riproposto, e, nel dare atto che nelle dichiarazioni del D. era presente una certa confusione in ordine alla data dell'incidente, a quella della assunzione al lavoro nonchè alle modalità del viaggio verso il meridione e ai ricoveri subiti, ha ritenuto che si sia trattato di particolari sostanzialmente irrilevanti ed ininfluenti rispetto al fatto dedotto, che risultava chiaro e preciso nel suo nucleo centrale anche dalle dichiarazioni del giovane, oltre che da quelle, sostanzialmente coincidenti della fidanzata; ed ha aggiunto che anzi le rilevate imprecisioni convincevano circa l'assenza da parte del medesimo di una malevola preordinazione, che avrebbe certamente portato la parte offesa ad una migliore organizzazione dei propri ricordi; ha osservato ancora che non vi era invece contraddizione circa il luogo in cui era custodito l'antigelo, indicato tanto dall'imputato che dalla teste M. nel "container" adoperato in cantiere come luogo di decenza, sia pure con diverse modalità di espressione.
La Corte ha altresì rilevato che la versione dei fatti prospettati dall'accusa e riferiti dalla persona offesa trovava conferma nelle risultanze processuali ed in particolare nella scheda del Pronto Soccorso dell'ospedale di (OMISSIS), da cui risultavano particolari sull'incidente sicuramente provenienti dall'imputato e che confermavano la riferibilità dello stesso al liquido ingerito e la attendibilità del D..
In merito alla causa della intossicazione, la Corte di appello ha fatto riferimento alla già ritenuta in primo grado irrilevanza della dose di eroina, assunta dopo il fatto per cui è causa, e alla pacifica riferibilità (diffusamente motivata dalla sentenza di primo grado a ff. 6-8- espressamente richiamati) delle conseguenze dannose subite dal ricorrente alla sostanza da lui ingerita sul luogo di lavoro, rilevando in particolare come, dopo la confessione stragiudiziale resa dal P. (che in un colloquio con la fidanzata del giovane aveva ammesso che nella bottiglia conservata sotto il lavandino vi era liquido antigelo), gli accertamenti erano divenuti "mirati" ed erano stati compiuti al massimo livello anche presso il Centro antiveleni dell'ospedale (OMISSIS), con risultato di piena e perfetta compatibilità e coerenza tra la sostanza ingerita e le gravi patologie in atto.
Risultano dunque inammissibili le odierne censure nella parte in cui, con i primi due motivi di ricorso, ripropongono a questa Corte dubbi in ordine allo svolgimento dei fatti e al nesso di causalità, dubbi e considerazioni che, sotto l'apparenza di un dedotto vizio di motivazione, sono in realtà volte ad ottenere una nuova e più favorevole all'imputato rivalutazione dei fatti.
Parimenti inammissibile è il motivo attinente la mancata assunzione di prova decisiva, asseritamente consistente in perizia medico legale per provare la riferibilità delle lesioni all'assunzione del liquido antigelo, essendo ben noto che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi invece di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice.
E ciò a prescindere dalla esistenza, dalla corte di appello ampiamente motivata, di prova sulle circostanze in questioni.
Neppure può essere considerato positivamente il dedotto vizio ex art. 521 c.p.p. dal momento che è pacifico, e lo stesso ricorrente lo riconosce, che il P. è stato chiamato a rispondere nella qualità di preposto e che il capo di imputazione faceva menzione ad una colpa generica, poi concretamente individuata dalle sentenze impugnate nella violazione dell'obbligo di segnalazione e sorveglianza in ordine ai rischi esistenti nel luogo di lavoro.
Si tratta del tipico e primario dovere facente capo al preposto, la cui violazione è stata ritenuta, come appresso più specificatamente si dirà, dai giudici di primo e secondo grado, e il cui accertamento ha fatto oggetto dell'istruttoria svolta con piena facoltà dell'imputato di difendersi dalla stessa contestazione.
Del tutto impropriamente viene dunque evocato il vizio in questione, non ravvisabile nella specie.
Resta da dire della posizione di garanzia rivestita dall'imputato, e precisamente della sussistenza della qualifica di preposto e degli obblighi conseguenti.
Al riguardo può premettersi che il preposto è una delle tre figure cui, secondo la nostra legislazione antinfortunistica e secondo la giurisprudenza formatasi al riguardo, competono, nell' ambito dell'impresa, specifiche posizioni di garanzia autonomamente previste.
Il preposto, come il datore di lavoro e il dirigente, è individuato direttamente dalla legge e dalla giurisprudenza come soggetto cui competono poteri originari e specifici, differenziati tra loro e collegati alle funzioni a essi demandati, la cui inosservanza comporta la diretta responsabilità del soggetto "iure proprio".
Si deve cioè precisare che il preposto non è chiamato a rispondere in quanto delegato dal datore di lavora, ma bensì a titolo diretto e personale per l'inosservanza di obblighi che allo stesso, come già si è detto, direttamente fanno capo.
E' pertanto del tutto improprio il richiamo alla delega, o meglio alla assenza di delega, da parte del datore di lavoro con il quale la difesa dei P. cerca di allontanare da sè la responsabilità, solo dovendosi precisare che entrambe le pronunce qui contestate hanno correttamente individuato la responsabilità dell'imputato come conseguenza degli obblighi a lui direttamente e autonomamente spettanti.
A tale proposito, è opportuno ricordare che prima della emanazione del recente D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che all'art. 2, lett. e), definisce il preposto come "la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa", l'individuazione dei caratteri tipici di tale figura e dei suoi compiti sono stati precipuamente frutto della elaborazione giurisprudenziale che si è mossa nell'ambito del quadro normativo all'epoca esistente (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4, poi ripreso dal D.P.R. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4 bis) che indicano il preposto come colui che "sovrintende" alle attività dei lavoratori da lui dipendenti nell'ambito delle proprie attribuzioni e competenze.
Con pronunce assai risalenti nel tempo ma che esprimono principi sempre validi, si è in primo luogo affermato (Sez. 4^ 21.12.1995 n. 3483 rv 204972) che preposto è colui che, nel suo settore, prende decisioni e sovrintende al lavoro eseguito da altri, pur potendo, ove occorra, contribuire alla realizzazione dello stesso, in tal modo individuando la caratteristica essenziale del preposto nella attribuzione al medesimo di poteri, sia pur limitati, di sovraordinazione e controllo di altri lavoratori.
E si è poi chiarito (sez. 4^ 14.1.1970 n. 48 rv 113999) che nella concreta attribuzione di tale qualifica deve farsi riferimento al criterio della effettività, atteso che "La qualifica e le responsabilità del preposto non competono soltanto ai soggetti forniti di titoli professionali o di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione di supremazia sia pure embrionale, tale cioè da porlo in condizione di dirigere l'attività lavorativa di altri operai soggetti ai suoi ordini".
Per individuare gli obblighi di sicurezza del preposto si è tenuto presente che si tratta della figura posta al più basso livello della gerarchia, sotto datore di lavoro e dirigente, di quella che, nella ripartizione delle funzioni di protezione della salute e sicurezza sul lavoro tra i tre soggetti indicati, è dotata di minori poteri di gestione e decisione, ma al tempo stesso è più vicina all'ambiente di lavoro; i compiti che gli spettano risentono di tali caratteristiche, atteso che la posizione dì garanzia è dalla legge prevista con riferimento alle specifiche "attribuzioni e competenze".
Si è dunque specificato il dovere di sicurezza del preposto principalmente nel dovere di sorveglianza e controllo dell'attività svolta dai lavoratori sottoposti (cui correlativamente può rivolgere istruzioni ed ordini) e nel dovere di segnalare al datore di lavoro eventuali pericoli o carenze nei sistemi di protezione (così sez. 4^ 9 marzo 2001 Bellino, non massimata).
Nel caso di specie i giudici di merito hanno correttamente inquadrato il comportamento del P. nell'ambito degli anzidetti principi, avendo accertato, come in particolare risulta dalla sentenza di primo grado, che egli aveva nel cantiere dove il D. era stato assunto una posizione di preminenza rispetto ad un gruppetto di altri lavoratori, la cui attività egli organizzava e che si rivolgevano a lui per avere istruzioni.
Altrettanto puntualmente, ed anche qui occorre fare riferimento alla sentenza di primo grado che sul punto è assai più dettagliata di quella di appello, è stato accertato che egli ben era a conoscenza che nella bottiglia collocata a vista nel container-bagno del cantiere, da cui bevve il D., vi era non già vino-marsala, come diceva l'etichetta, ma bensì liquido antigelo (tanto che fu proprio lui a precisarlo alla fidanzata del D. quanto questa si recò in cantiere chiedendo informazioni al riguardo), nonchè della mancanza nel cantiere di acqua potabile.
Da tali presupposti correttamente è stata affermata la sua responsabilità per non avere, da un lato, segnalato al lavoratore appena assunto la presenza, assolutamente non riconoscibile, di un pericolo liquido antigelo all'interno di una normale bottiglia di vino, venendo meno al dovere di protezione nei suoi confronti, e per non aver, dall'altro, avvertito i titolari del cantiere della mancanza di acqua potabile nello stesso, come sarebbe stato suo dovere fare per la sua naturale funzione di raccordo con la dirigenza, circostanza che, è bene ricordarlo, fu la causa prima dell'incidente dal momento che il D. si risolse a bere il liquido della bottiglia per dissetarsi, avendo constatato che dai rubinetti non veniva acqua.
Il ricorso deve dunque essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
 
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2010