Cassazione Penale, Sez. 3, 13 ottobre 2021, n. 37107 - Decesso di sei operai durante la realizzazione di opere di manutenzione presso un impianto di gestione e depurazione di reflui urbani


 

 

Presidente: MARINI LUIGI
Relatore: GENTILI ANDREA Data Udienza: 20/11/2020
 

 

Fatto



La Corte di cassazione, Sezione IV penale, ha - con sentenza n. 30557 del 7 giugno 2016, depositata il successivo 19 luglio 2016 - parzialmente annullato la sentenza con la quale - in data 19 gennaio 2015 - la Corte di appello di Catania aveva, per quanto ora interessa, parzialmente riformato la decisione precedentemente assunta dal Tribunale di Caltagirone il 16 novembre 2011 con la quale, a sua volta, era stata dichiarata la penale responsabilità di Z.M., C.A., M.G.S., C.S. e L.S. in ordine al reato di omicidio colposo plurimo loro contestato, avendo condannato il detto Tribunale anche taluno dei sopraricordati imputati per la violazione di alcune disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro, e li aveva, pertanto, condannati alla pena ritenuta di giustizia.

La vicenda per cui è tuttora processo origina da un episodio legato ad un incidente sul lavoro, connesso alla realizzazione di talune opere di manutenzione presso un impianto di gestione e depurazione di reflui urbani in Comune di Mineo, a seguito del quale si era verificato il decesso di ben sei persone, quattro delle quali addette, con diverse mansioni, al predetto Comune e due, invece, svolgenti il proprio lavorio presso la ditta che era stata incaricata di eseguire le opere in questione.

Come detto con sentenza del 19 gennaio 2015, la Corte etnea aveva parzialmente riformato la sentenza emessa dal giudice di prime cure, confermando la sentenza quanto alla dichiarazione di penale responsabilità di C.A. e dello Z.M., concedendo, tuttavia, a costoro le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, riducendo, pertanto, la pena a costoro inflitta portandola ad anni 3 e mesi 6 di reclusione; quanto alla posizione di M.G.S., cui egualmente sono state concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, essa aveva, pertanto, ridotto la pena ad anni tre di reclusione; parimenti per gli imputati, C.S. e L.S. la riforma ha riguardato il trattamento sanzionatorio, rideterminato in anni 5 di reclusione, oltre che, per tutti, le statuizioni accessorie e quelle di carattere civile anche in danno del Comune di Mineo.

Come accennato la Corte di cassazione, con la sentenza n. 30557 del 2016, ha in buona parte dichiarato la illegittimità della sentenza della Corte territoriale, annullandola, con rinvio, in toto quanto alla condanna inflitta al M.G.S. per il reato a lui contestato, annullandola, altresì, quanto al C.S. ed al L.S. relativamente a taluni dei reati a questi contestati, in parte senza rinvio perché i relativi reati erano estinti per prescrizione in parte, sempre senza rinvio, per insussistenza del fatto nonché, limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per la sua rideterminazione; mentre per ciò che concerne la posizione di Z.M. e C.A. la sentenza è stata annullata, ferma restando l'affermazione della loro penale responsabilità, in ordine al solo trattamento sanzionatorio.

Adita, pertanto in qualità di giudice del rinvio, la Corte di appello di Catania, nuovamente intervenendo sulla questione - con sentenza del 13 febbraio 2019, depositata il successivo 16 febbraio - ha riformato la originaria sentenza del Tribunale di Caltagirone nel seguente senso: riconosciuta la prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante ha rideterminato il trattamento sanzionatorio inflitto a Z.M. ed a C.A., riducendolo ad anni 1 e mesi 8 di reclusione per il primo ed ad anni 1 e mesi 6 di reclusione per il secondo.

Riconosciuta la equivalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante in favore di C.S. e L.S., la pena loro inflitta è stata ridimensionata ad anni 3 e mesi 3 di reclusione ciascuno.

Quanto all'imputato M.G.S. , è stata affermata la sua penale responsabilità riguardo agli omicidi colposi a lui contestati e, riconosciuta la sua meritevolezza quanto alle attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di anni 3 di reclusione.

Oltre, a carico di tutti, le pena accessorie e le conseguenze di carattere civile, estese anche a carico del Comune di Mineo.
Come detto la vicenda trae origina da un incidente verificatosi l'11 giugno 2008 all'interno dell'impianto di depurazione delle acque reflue del Comune di Mineo - impianto, giova dire immediatamente, gestito in economia dallo stesso Comune - a causa del quale, all'interno del pozzetto destinato al ricircolo dei fanghi di lavorazione, trovarono la morte sei persone; in particolare si trattava di quattro operai del Comune suddetto, uno dei quali, P.S., aveva le mansioni di materiale gestore dell'impianto ed un altro, Z.G., quelle di istruttore nello svolgimento di tale compito, mentre altri due, P.G. e S.N., erano operai che erano stati inviati appositamente per la realizzazione delle opere di manutenzione; le restanti vittime erano i due dipendenti della ditta C.S. Srl, che era stata incaricata dal Comune dello svolgimento dei particolari lavori di manutenzione dell'impianto in questione.

Gli imputati tratti a giudizio rispondono dei reati loro contestati in virtù delle qualifiche da ciascuno di essi rivestite, ed in particolare: Z.M. in quanto dirigente dell'Ufficio tecnico di Mineo, datore di lavoro degli impiegati del Comune deceduti e responsabile della loro sicurezza sul posto di lavoro; C.A. in quanto responsabile del servizio lavori pubblici del predetto Comune e responsabile della materia della sicurezza sul lavoro in caso di assenza dello Z.M. (il quale il giorno del sinistro si trovava in congedo ordinario); M.G.S. in quanto assessore del Comune con delega ai lavori pubblici, al Servizio idrico integrato, all'ecologia ed ai servizi tecnologici; C.S. quale legale rappresentante ed amministratore della CS Srl e, pertanto, datore di lavori dei dipendenti di questa e L.S. preposto con la qualifica di capo cantiere della C.S.

Tanto premesso si rileva, altresì, che con la sentenza n. 30557 del 2016, di parziale accoglimento del ricorso proposto dagli imputati, la Corte di cassazione ha comunque dichiarato, ai sensi dell'art. 624 cod. proc. pen., la definitività dell'accertamento della penale responsabilità degli imputati Z.M. e C.A. e C.S. e L.S. quanto ai reati loro rispettivamente contestati, essendo rimasta, pertanto, impregiudicata, quanto a costoro la sola entità del trattamento sanzionatorio da irrogarsi a loro carico.

Ciò posto, si rileva che avverso la predetta sentenza della Corte territoriale di Catania hanno interposto ricorso per cassazione sia il Procuratore generale, limitatamente alla posizione di Z.M. e C.A., nonché gli imputati M.G.S., C.S. e L.S..

Partendo, per semplicità, dal ricorso del Procuratore generale, si osserva che questi lamenta la avvenuta violazione dell'art. 627 cpp, per avere la Corte di Catania violato i limiti del devolutum ad essa rimesso a seguito dell'avvenuta adozione della sentenza di annullamento con rinvio emanata dalla Corte di cassazione con provvedimento n. 30557 del 2016.

In tale occasione, infatti, questa Corte aveva provveduto affermando che, quanto allo Z., la sentenza della Corte d'appello era errata posto che, "in virtù del giudizio di equivalenza tra circostanze attenuanti generiche e contestata aggravante ex art. 589, secondo comma, cp, il giudice di merito avrebbe dovuto commisurare la pena con riguardo ai limiti edittali previsti dall'art. 589, primo comma, cp, in applicazione della regola dettata dall'art. 69, terzo e quarto comma, cp':

Identica motivazione attiene alla illegittimità del parziale accoglimento da parte della Corte di merito del ricorso proposto da C.A..

Osserva, pertanto, il ricorrente Procuratore generale che, a fronte del cristallizzato giudizio di equivalenza, contenuto nella sentenza di cassazione con rinvio, fra le attenuanti generiche e la contestata aggravante, la Corte di appello ha, invece, rideterminato la pena in diminuzione, a vantaggio dei due predetti imputati, ritenendo di potere riconoscere le circostanze attenuanti generiche in prevalenza rispetto alla contestata aggravante di cui all'artt. 589, ultimo comma cp, diminuendo, pertanto, in conformità la pena irrogata a carico dei predetti.
Passando al ricorso di C.S. e L.S., si osserva che lo stesso è articolato su due motivi.

Con il primo i ricorrenti si dolgono, all'unisono, del fatto che nel loro caso il giudizio di equivalenza, e non di prevalenza, delle attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante - il cui effetto è stata la maggiore afflittività della pena irrogata loro rispetto a quella irrogata a carico di C.A. e Z. - sarebbe legato alla esistenza di una circostanza - cioè la consapevolezza che il getto di acqua con il quale era stata eseguita una manovra all'interno del pozzetto ove poi hanno trovato la morte i sei sventurati aveva determinato, stante la pregressa contaminazione dell'acqua usata dai dipendenti della C.S. con sostanze residue (nella specie idrocarburi, provenienti da altre attività svolta dalla C.S. presso la raffineria di Gela) la saturazione dell'ambiente con gas venefici - che è, invece, risultata smentita in altro punto della medesima sentenza, posto che i due predetti erano stati definitivamente assolti dalla imputazione, di cui al capo H) della rubrica, avente ad oggetto appunto l'utilizzo di tale acqua contaminata, per la insussistenza del fatto.
Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono, sempre con esclusivo riferimento alla commisurazione della pena irrogata a loro carico, del fatto che nel determinare questa la Corte di merito non abbia tenuto conto dei rilievi contenuti in una memoria difensive presentata dalla loro difesa aventi ad oggetto una serie di elementi quali il grado della colpa dei predetti, la esistenza di un inatteso fenomeno di contagio emotivo che aveva determinato il verificarsi dell'evento nelle disastrose dimensione verificatesi ed il lungo lasso di tempo intercorso fra i fatti e la irrogazione della sanzione; si tratterebbe, secondo la difesa, di fattori tutti pertinenti sui quali la Corte di merito non ha preso alcuna posizione.
Venendo al ricorso di M.G.S., che si ricorda risponde sia sotto il profilo della culpa in eligendo, per avere attribuito o contribuito all'attribuzione dei compiti di sorveglianza sul funzionamento dell'impianto di depurazione dei reflui del Comune di Mineo, che sotto il profilo della culpa in vigilando, non avendo prestato la dovuta attenzione alla corretta ordinaria gestione dell'impianto in questione, la mala gestio del quale avrebbe determinato il disservizio del quale è stata conseguenza l'evento per cui è processo, in quanto Assessore del Comune di Mineo con delega ai lavori pubblici, al servizio idrico integrato, all'ecologia ed ai servizi tecnici e, per tale qualifica titolare di una posizione di garanzia, appare opportuno, di esaminare il contenuto delle doglianze del ricorrente, ripercorrere brevemente il contenuto della sentenza della Corte di cassazione con la quale era stata annullata la precedente sentenza emessa a carico del M.G.S..
La Corte aveva, infatti, rilevato che sarebbe stato necessario per il giudice del merito evidenziare preliminarmente le attribuzioni e le competenze dell'organo politico ed il ruolo effettivamente svolto nell'ambito del settore di competenza, i poteri di attuazione delle misure di prevenzione ed il potere di controllo sulla loro osservanza.

Ai dirigenti, in base alla normativa in vigore all'epoca del fatto, spettava sia l'attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, nonché l'adozione dei relativi atti e provvedimenti amministrativi e l'esercizio dei poteri di spesa e di acquisizione delle entrate, sia la gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai loro uffici, onde si sarebbe dovuto in primo luogo, chiarire se la delega sindacale menzionata dai giudici di merito attribuisse all'assessore anche funzioni dirigenziali di natura amministrativa, ovvero esclusivamente la funzione di indirizzo politico e di controllo.

Ha aggiunto la Corte che quanto alla posizione del M.G.S. la motivazione della sentenza risulta carente con riguardo alla individuazione dei presupposti di fatto sui quali si fonda l'obbligo di garanzia del M.G.S.
Alle censure mosse dalla difesa nell'atto di gravame a proposito dell'assenza di poteri gestionali nell'ambito della delega conferitagli, a proposito dell'assenza di qualsivoglia segnalazione da parte del responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, arch. Z.M., in merito all'obbligo dell'Arpa di segnalare eventuali difformità dei risultati delle analisi rispetto agli standard previsti dalla normativa vigente non risulta fornita congrua replica.
Con riferimento alla culpa in vigilando è stata dunque trascurata l'indicazione degli elementi di fatto che avrebbero reso riconoscibile da parte dell'imputato la situazione critica inerente alla gestione del depuratore, così da generare l'obbligo di attivarsi.

La motivazione della sentenza della Corte di appello oggetto del precedente annullamento è, in particolare, carente laddove si è posto in relazione l'obbligo di attivarsi del M.G.S. con la congettura secondo la quale le piccole dimensioni del Comune non avrebbero consentito che sfuggisse alla sua attenzione la problematica inerente al funzionamento del depuratore. La sentenza è stata, pertanto, annullata affinché venga fornita congrua motivazione sul punto.
Ciò posto, si osserva che il M.G.S. ha affidato il suo ricorso a sei motivi di impugnazione.

Il primo concerne la mancanza di motivazione in ordine alla ampiezza della delega a lui conferita in quanto assessore.

In particolare, il ricorrente ha osservato che i giudici del merito non hanno in alcun modo affrontato la questione inerente la natura della delega che il M.G.S. ha ricevuto in quanto assessore, se cioè la stessa riguardava solo le funzioni politiche ovvero anche quelle dirigenziali, come era stato, invece, prescritto dalla Cassazione in occasione del precedente rinvio.

Il secondo motivo riguarda la violazione di legge per non avere la Corte etnea dimostrato che il M.G.S. fosse stato posto nella condizione di conoscere la esistenza di vizi operativi nella gestione del depuratore ovvero di inadeguatezza soggettiva del dipendente addetto al suo funzionamento in relazione ai quali il mancato provvedere dello stesso onde ovviare ad essi integrerebbe i profili della culpa in vigilando.

Il terzo motivo di ricorso attiene alla violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte di Catania nel considerare non adeguate la gestione in economia da parte del Comune di Mineo del depuratore in questione, non avendo considerato che, trattandosi di un servizio non di rilevanza industriale o, comunque pon di rilevanza economica lo stesso poteva essere svolto, secondo i termini della legislazione nazionale e della regolamentazione locale, anche in economia direttamente dal Comune, senza bisogno di affidarsi ad un gestore esterno.
Il quarto motivo della impugnazione presentata dal M.G.S. concerne il vizio di violazione di legge, per carenza assoluta di motivazione, in relazione alla conoscenza che egli avrebbe avuto del fatto che il giorno 11 giugno 2008 la ditta C.S. avrebbe dovuto compiere un importante intervento manutentivo sull'impianto di depurazione delle acque del Comune di Mineo.

Il quinto motivo riguarda il vizio di violazione dì legge per non avere la Corte rilevato che, essendo stata affermata la penale responsabilità in via autonoma dei due funzionari comunali Z.M. e C.A., i quali mai avevano manifestato al M.G.S. l'esistenza di problematicità nella gestione dell'impianto, il fatto che egli, a fonte di tale silenzio informativo, non si fosse attivato non era tale da giustificare la sua responsabilità in ordine al reato di omicidio colposo non potendosi ravvisare nella sua condotta omissiva profili di colpa.

Con l'ultimo motivo il ricorrente si duole del criterio adottato per la determinazione della pena, osservando che, una volta ritenuta la ricorrenza delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, indicata in quella di cui all'art. 589, ultimo comma, cod. pen, avrebbe errato la Corte di Catania nell'applicare alla pena base un aumento, di tre mesi di reclusione per ciascuno dei soggetti deceduto oltre il primo, ai sensi dell'ultimo comma della disposizione precettiva contestata.

La parte civile INAIL ha depositato una memoria con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso del M.G.S., unico in relazione al quale è ancora in discussione la responsabilità penale per i fatti verificatisi.

 

Diritto



Mentre il ricorso del Procuratore generale di Catania é fondato, con le conseguenze che saranno di seguito indicate, i ricorsi di C.S. e L.S. sono infondati e, pertanto, debbono essere rigettati; infine, il ricorso dell'imputato M.G.S. è inammissibile e per tale lo stesso deve essere dichiarato.
Dato il più ristretto orizzonte argomentativo il cui esame è comportato dall'analisi del ricorso formulato dalla Procura generale distrettuale, esso infatti è esclusivamente riguardante il trattamento sanzionatorio che è stato inflitto ai due prevenuti Z.M. e C.A., lo stesso può essere preso ora in considerazione per primo.

Giova ribadire che la Corte etnea - adita quale giudice del rinvio dopo che la Corte di cassazione, con la sentenza n. 30557 pronunziata dalla Quarta Sezione di questo consesso in data 7 giugno 2016 aveva, quanto alla posizione dei due predetti imputati (ritenuta ai sensi dell'art. 624 cod. proc. pen, la intervenuta irrevocabilità della affermazione della penale responsabilità di costoro in ordine al reato di cui al capo A della rubrica complessivamente contestata), annullato la precedente sentenza della Corte di appello di Catania del 19 gennaio 2015 - aveva, con la sentenza ora censurata dal Procuratore generale catanese, inflitto ai convenuti Z.M. e C.A., avendo ritenuto in favore di costoro la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante, la pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione quanto al primo;
e di anni 1 e mesi 6 di reclusione quanto al secondo.

Avverso siffatta statuizione è insorto, come detto, il Procuratore generale competente, osservando che la precedente sentenza n. 30557 del 2016 della Corte di cassazione, questa aveva dato per definitivamente acquisito, in quanto non oggetto di impugnazione in sede di legittimità da parte dei due predetti ricorrenti il giudizio di equivalenza fra le attenuanti generiche e la aggravante di cui all'art. 589, comma secondo, cod. pen. nei termini in cui era stato operato in sede di merito; avrebbe, pertanto, errato la Corte etnea nell'operare una nuova rivalutazione del bilanciamento fra gli elementi accidentali di segno opposto caratterizzanti il reato contestato ai due prevenuti, concludendo, questa volta, nel senso della prevalenza delle attenuanti generiche.

Il motivo di ricorso è fondato.

Deve, in primo luogo, osservarsi che effettivamente la Corte di cassazione, nell'annullare la precedente sentenza emessa a carico degli imputati in questione, rispettivamente esaminando, a pag. 62 ed a pag. 68, il decimo motivo del ricorso Z.M. ed il sesto motivo del ricorso C.A. osservò, per quanto ora interessa, che, in virtù dell'operato, e non contestato, giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la contestata aggravante di cui all'art. 589, secondo comma, cod. pen., il giudice di merito avrebbe dovuto commisurare la pena avendo riferimento ai limiti edittali previsti dall'art. 589, comma primo, cod. pen., in applicazione della regola dettata dall'art. 69, commi terzo e quarto, cod. pen.
Il giudice di rinvio, cui è demandato di dare applicazione ai principi di diritto enunziati da questa Corte con la sentenza rescindente di annullamento sia nel suo immediato dictum (nel caso la rideterminazione del trattamento sanzionatorio a carico dei predetti), sia nei suoi ineludibili presupposti logici (quindi in questo caso, i termini cui far riferimento ai fini della rideterminazione del trattamento sanzionatorio), come questa Corte ha avuto modo di chiarire (si veda, infatti, nel senso sopra richiamato, Corte di cassazione, Sezione VI penale, 14 marzo 2018, n. 11641), ha, invece, violato i limiti del suo mandato, affermando, violando, peraltro, anche il giudicato che implicitamente si era formato, stante la mancata impugnazione sul punto da parte dei due imputati,
in ordine alla equivalenza fra le circostanze attenuanti generiche e la contestata aggravante (sul limite del giudicato implicito opponibile al giudice del rinvio si veda, di recente: Corte di cassazione, Sezione II penale, 27 febbraio 2020, n. 7808), la prevalenze delle attenuanti generiche e, pertanto, operando in favore dei due predetti imputati la riduzione di pena derivante da tale statuizione.

Sul punto la sentenza impugnata deve essere, perciò annullata; siffatto annullamento ritiene la Corte possa essere disposto senza rinvio, ai sensi dell'art. 620, lettera I), cod. proc. pen., essendo in facoltà di questa Corte provvedere alla rideterminazione della pena irrogata a carico di Z.M. e C.A. semplicemente espungendo la riduzione, pari a mesi 4 di reclusione quanto al primo ed a mesi 6 di reclusione quanto al secondo, calcolata dalla Corte etnea per effetto della illegittima prevalenze delle attenuanti generiche, rideterminando, pertanto, le pene a carico dei predetti, rimosso il vizio che caratterizzava il precedente computo fatto in sede di merito, in anni 2 di reclusione ciascuno, salvo il resto.
Passando, a questo punto ai ricorsi congiuntamente proposti dagli imputati C.S. e L.S., se ne deve rilevare la infondatezza dei relativi motivi, ambedue incentrati, sia pure sotto diverse ottiche, nella contestazione dei criteri adottati per la commisurazione della pena inflitta ai due imputati.

Il primo di essi, infatti, riguarda la ritenuta erronea applicazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen. per avere la Corte di merito escluso la riconoscibilità delle circostanze attenuanti generiche in favore dei due predetti imputati e per avere, conseguentemente, commisurato la pena loro inflitta (peraltro in misura meno afflittiva di altri coimputati, chiaramente alludendosi a Z.M. e C.A.) sulla base di un dato storico, afferente al fatto di cui alla imputazione sub H) del capo di imputazione dal quale gli stessi erano stati assolti con la formula "perchè il fatto non sussiste".

Il motivo di ricorso, sebbene suggestivo, è, tuttavia, fallace.

Va, in primo luogo sgombrato il campo dalla, in verità neppure compiutamente articolata, doglianza afferente alla disparità di trattamento fra gli attuali ricorrenti e gli imputati la cui posizione è stata dianzi esaminata; come si è infatti visto il riconoscimento delle attenuanti generiche in favore di costoro in regime di prevalenza rispetto alla contestata aggravante, elemento che ha contribuito al diverso trattamento sanzionatorio, è disposizione che, in quanto illegittima è stata cassata da questa Corte, sicchè la stessa non è più operativa.

Per il resto è da ribadirsi il concetto che allorchè i giudici del merito utilizzano la formula assolutoria "perché il fatto non sussiste" essi non debbono esclusivamente riferirsi alla insussistenza materiale e storica del fatto naturale descritto nel capo di imputazione, potendo, invece, siffatta insussistenza essere intesa, ove ne ricorrano le condizioni, quale insussistenza del fatto nelle forme e nei termini tassativamente descritti nella norma precettiva.

Come infatti questa Corte ha chiarito già da diverso tempo, senza che il principio sia stato comunque successivamente smentito, la nozione di fatto in senso penalistico è- comprensiva non solo del fatto storico come condotta materiale dell'imputato legata con rapporto di causalità ad un evento, ma anche di tutti gli elementi essenziali richiesti dalla norma incriminatrice. Se viene a mancare, quindi, uno degli essentialia, per i quali il fatto fenomenico è penalmente rilevante, la formula assolutoria da adottare e' necessariamente quella "perchè il fatto non sussiste" (Corte di cassazione, Sezione III penale, 26 ottobre 1976, n. 11098; idem Sezione III penale, 20 gennaio 1976, n. 1019).
Ciò posto, osserva altresì il Collegio, se la mancanza di tipicità penale del fatto ne esclude la sua rilevanza ai fini della applicazione della norma incriminatrice, non per questo la sua eventuale ricorrenza storica non è valorizzabile sotto il profilo della non meritevolezza in capo al soggetto - pur assolto, stante la mancanza di uno degli essentialia delicti, dalla imputazione a lui contestata - rispetto al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in relazione ad altri reato per il quale questi sia stato condannato.

Ora, calando i principi dianzi esposti nella fattispecie, va detto che la Corte di cassazione con la più volte ricordata sentenza n. 30557 del 2016 e poi la Corte di appello di Catania con la sentenza ora in scrutinio non hanno escluso la materiale sussistenza del fatto ascritto al capo H) della rubrica, ma ne hanno affermato, in particolare per come si legge nella sentenza della Corte di cassazione sopra richiamata, la irrilevanza penale sulla base del principio secondo il quale è possibile riconoscere il concorso formale fra reati derivanti dalla medesima condotta, laddove da queste siano scaturiti eventi diversi, ma non nel caso in cui l'evento da cui dipende l'esistenza dei due diversi reati sia lo stesso.

Nel caso in esame ai due prevenuti era stato contestato sia il delitto di omicidio colposo dei sei individui periti a causa dei fatti per cui è processo sia il reato di cui all'art. 586 cod. pen. - appunto la contestazione di cui al capo H) per la quale gli stessi sono stati assolti per insussistenza del fatto - per avere cagionato, quale conseguenza non voluta di altro reato, si tratta della imputazione avente ad oggetto la lettera G) del capo di imputazione (in relazione alla quale, si badi, i due sono stati prosciolti esclusivamente per la intervenuta prescrizione e non in ragione della materiale insussistenza del fatto), la morte dei medesimi sventurati.

Ciò posto si osserva che la assoluzione dei due odierni ricorrenti riguardo alla imputazione di cui al capo H), sebbene pronunziata per la insussistenza del fatto, non è stata dovuta alla insussistenza materiale di esso, ma al fatto che lo stesso, essendo già stato sanzionato in guisa di omicidio colposo non poteva essere efficacemente fonte di altra imputazione ai sensi dell'art. 586 cod. pen., ipotesi delittuosa che si sostanzia in una particolare ipotesi di omicidio colposo in cui la colpa specifica consiste proprio nella violazione di una norma precettiva penale.
Tanto considerato, deve, tuttavia, osservarsi che la ritenuta ricorrenza del fatto storico, ancorchè insuscettibile di essere ulteriormente sanzionata penalmente, comportando una diversa soluzione un'inammissibile ipotesi di bis in idem sostanziale è, tuttavia, ben plausibilmente elemento che può essere preso in considerazione, come la Corte etnea ha inteso fare, ai fini della esclusione della meritevolezza del soggetto interessato al beneficio delle circostanze attenuanti generiche.

Da quanto precede deriva la infondatezza del primo motivo di impugnazione.

Quanto al secondo motivo di impugnazione, deve rilevarsene la mancanza di pregio.

Con esso, infatti, i ricorrenti si dolgono del fatto che, avendo costoro depositato, tramite il loro difensore fiduciario, alla udienza celebrata in data 13 febbraio 2019 di fronte alla Corte territoriale catanese (si tratta della udienza in cui il processo è stato deciso), una memoria difensiva nella quale sarebbero state evidenziate le ragioni che avrebbero giustificato un più mite trattamento sanzionatorio a carico dei medesimi, il giudice del rinvio avrebbe trascurato di esaminare la ragioni in tal modo esposte.
Come detto trattasi di motivo privo di pregio, sia perché lo stesso è fondato su una sostanziale petizione di principio, cioè che la Corte di Catania non abbia inteso valutare le ragioni esposte con la citata memoria del 13 febbraio 2019, laddove emerge chiaramente che il giudici del merito abbiano inteso riconoscere ai due predetti imputati le circostanze attenuanti generiche in ragione della "difficile gestione della situazione", espressione olofrastica nella quale la detta Corte ha chiaramente inteso compendiare le numerose peculiarità della vicenda, ivi compreso il possibile comportamento imprudente delle stesse vittime del gravissimo incidente sul lavoro che, nel generoso intento, dettato da una forma di contagio emotivo, di salvaguardare la salute e la vita di coloro i quali erano, per primi o comunque prima di loro, stati coinvolti dai fatti, ne hanno, verosimilmente, aggravato con l'accesso nella cisterna di volta in volta di ciascuno di essi, con personale sacrificio, le terribili conseguenze, sia, infine, perché parte di tali ragioni, così come riportate nel ricorso, appaiono palesemente prive di significato, quali il tempo trascorso fra gli accadimenti e la irrogazione della sanzione, laddove si consideri che il fattore segnalato ha una sua obbiettiva ed esclusiva disciplina nell'ambito dell'istituto della estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, non potendosi evidentemente accogliere la tesi, sostanzialmente adombrata dalla ricorrente difesa, di un progressivo sbiadimento, dovuto al trascorrere del tempo, - della gravità del reato, sino alla sua totale cancellazione al momento della maturazione della prescrizione.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali; la circostanza che i ricorrenti avessero articolato le loro doglianze esclusivamente con riferimento al trattamento sanzionatorio, tema estraneo a quelli di interesse delle parti civili, esime i due ricorrenti ora in questione dalla rifusione delle spese di difesa da queste affrontate nel presente giudizio.

Venendo, a questo punto, all'esame dell'ultimo ricorso, quello presentato dall'imputato M.G.S., ne rileva questa Corte la sua inammissibilità, con le derivanti conseguenze.

Come già segnalato l'impugnazione del M.G.S. è articolata tramite 6 motivi di ricorso; esaminandoli secondo l'ordine di formulazione si osserva, quanto al primo - concernente il vizio di motivazione quanto alla natura della delega assessorile che era stata conferita all'attuale ricorrente che sostiene, in sintesi, il ricorrente che la Corte di appello non avrebbe esaminato la questione avente ad oggetto la rilevabilità di una qualche responsabilità da parte dello stesso, il quale, dopo essere stato Sindaco del Comune di Mineo, rivestiva al momento dei fatti la carica di Assessore con delega ai lavori pubblici, essendo la delega a lui riguardante le sole scelte di contenuto politico rimesse alla gestione del Comune di Mineo e non anche le scelte di carattere amministrativo ed operativo, la competenza nella quale materia era spettante agli organi dirigenziali di tipo professionale del Comune e non a quelli di emanazione del potere politico elettivo.

Il motivo di ricorso è manifestamente infondato; premesso infatti che, alla luce della sentenza emessa dalla Corte di cassazione con la quale era stata annullata, con rinvio, la precedente decisione assunta dalla Corte etnea in argomento, era compito del giudice del rinvio verificare in base a quali elementi l'Assessore M.G.S. avrebbe dovuto essere a conoscenze delle criticità che caratterizzavano la gestione, in particolare sotto il profilo della necessità di predisporre i mezzi, anche finanziari, per fare fronte ai complessi oneri di manutenzione, dell'impianto di depurazione del Comune di Mineo, deve considerarsi che la Corte di Catania ha correttamente segnalato il fatto che il M.G.S. era costantemente informato della situazione di pericolo che si era creata all'interno di tale struttura (peraltro una struttura che fu lo stesso M.G.S. ad inaugurare ed ad attivare allorchè lo stesso era il Sindaco di Mineo e che non era certamente secondaria nell'ambito delle infrastrutture operative ubicate nel piccolo centro siciliano), essendo stato di esse informato il Sindaco dalla competente ripartizione della Regione siciliana ed avendo quello provveduto a riferire quanto da lui saputo al competente Assessore alle opere pubbliche; ha aggiunto, ed in ciò vi è senza dubbio la responsabilità non solamente amministrativa ma anche politica degli organi comunali, atteso che le relative scelte attengono non solamente a valutazione di opportunità gestionale ma riguardano scelte, evidentemente di contenuto politico e non amministrativo, afferenti alla ripartizione delle risorse finanziarie dell'Ente locale, che il M.G.S. non aveva considerato che vi era la necessità di destinare non solamente risorse umane più qualificate alla gestione dell'impianto in questione, essendo stato ad esso assegnato, peraltro neppure in pianta stabile, un impiegato del Comune privo di un'effettiva formazione sia remota che immediata (verosimile ragione questa del fatto che pure costui figuri fra le vittime della sciagura verificatasi), ma anche più rilevanti risorse finanziarie onde acquisire la strumentazione tecnica, essendo quella in uso di precario funzionamento, necessaria per l'attivazione in sicurezza dell'impianto in discorso.
Correttamente, pertanto, la Corte di Catania ha considerato che con il proprio comportamento colposamente omissivo rispetto all'espletamento dei propri doveri il M.G.S. si è reso responsabile del disastro verificatosi.

Con riferimento al secondo motivo di ricorso si rileva che esso è tutto giocato nel senso della mancanza di elementi probatori atti a dimostrare che il M.G.S. non abbia frapposto ostacoli acchè l'impianto in questione fosse correttamente gestito; ma, si osserva, una tale ottica è fondamentalmente viziata, posto che, una volta accertato, come la Corte di merito ha, con valutazione di fatto che evidentemente esula rispetto al campo di indagine di questa Corte, accertato che la precaria ed insicura gestione operativa dell'impianto di depurazione era nel patrimonio conoscitivo dell'assessore M.G.S., ciò che era da dimostrare, onde dichiararne la penale responsabilità, non era tanto che questi si fosse opposto alle "messa in sicurezza" del predetto impianto, quanto che questi, investito, data la carica dal medesimo rivestita e data la attiva partecipazione dal medesimo avuta nella vicenda che aveva condotto alla attivazione del depuratore , di una posizione di garanzia rispetto alle scelte di carattere, in senso lato, politiche (con tutta la dovuta accortezza nel rilevare il sottilissimo discrimine che in un Comune avente le dimensioni di quello ora in questione separa il profilo politico da quello amministrativo delle scelte gestionali) che dovevano essere assunte, avesse fatto in positivo quanto la predetta posizione gli avrebbe imposto di compiere onde assicurare il corretto funzionamento del depuratore; cosa che la Corte di appello ha dimostrato non essere avvenuta.

Con riferimento al terzo motivo di ricorso, si osserva che a carico del M.G.S. non è stato rinvenuto uno specifico profilo di responsabilità in merito alla scelta, rivelatasi peraltro tragicamente inopportuna, di fare gestire il depuratore con le, poche, risorse comunali; ciò che è imputato al M.G.S. è, infatti, (ammessa la astratta possibilità secondo i termini statutari e normativi - possibilità peraltro problematica, posto che la "rilevanza economica" del servizio in questione non appare indubbia, stante la significativa portata dell'impianto stesso, pacificamente ritenuto sovradimensionato rispetto alle esigenze comunali - di una gestione in house dello stesso) di non avere neppure rilevato che, per come distribuite, per competenze e per disponibilità, siffatte risorse comunali erano del tutto insufficienti.
Riguardo al quarto motivo di ricorso, con il quale si contesta l'affermazione della penale responsabilità del M.G.S. in quanto non vi sarebbe prova del fatto che questi sia stato messo preventivamente a conoscenza dell'intervento che sul depuratore la ditta C.S. avrebbe eseguito il giorno 11 giugno 2008, osserva la Corte, al di là dell'aspetto evidentemente fattuale della doglianza, che la stessa sia del tutto pretestuosa, considerato che la responsabilità del M.G.S. non è ricollegabile a sue eventuali omissioni verificatesi in quella occasione, ma ad una sua trascuratezza nella pregressa gestione del "tema discarica", argomento questo che ha trovato nell'episodio verificatosi quel giorno solo il suo tragico epilogo ma non certo la sua originaria causalità ed è di questa che il M.G.S. è stato chiamato a rispondere.

Con il quinto motivo di impugnazione, anch'esso caratterizzato da spiccate e inammissibili connotazioni di merito, la difesa dell'imputato tenta di segnalare il fatto che, nella catena delle responsabilità che hanno condotto al verificarsi del tragico evento, l'anello che era dallo stesso rappresentato era non rilevante né prossimo ai fatti.
Si tratta, senza volere considerare i profili di merito che il ricorrente ha adombrato segnalando la esistenza di altre responsabilità nella determinazione dei fatti, di un argomento poco perspicuo; infatti il è patrimonio della giurisprudenza di questa Corte il principio, laddove un evento sia attribuibile al concorso di più azioni od omissione, della parità causale fra queste nel caso in cui le stesse siano attribuibili alla azione umana e non all'intervento di un caso fortuito penalmente rilevante (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 18 gennaio 2017, n. 2378); ragione per cui la circostanza che altri possa, ovvero avrebbe potuto, dover rispondere del pari del Mirante dell'episodio verificatosi, a prescindere dalla prossimità maggiore o minore della condotta, attiva ovvero omissiva, di costoro rispetto all'evento determinatosi,· non esime l'odierno ricorrente dalla sua responsabilità laddove questa sia sorretta, come verificatosi nel caso che interessa, da un idoneo elemento soggettivo.

Venendo, infine all'esame del sesto, ed ultimo motivo di impugnazione, il cui oggetto è riferito alla violazione di legge in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio dell'imputato, si rileva che si tratta di censura infondata palesemente anch'essa.
Essa, infatti, è sviluppata sulla base della presunta contraddittorietà della motivazione della sentenza - contraddittorietà che si concretizzerebbe, si verum esset expositum, in una violazione di legge in quanto sarebbe stata irrogata una pena illegale - consistente nel fatto che la Corte di appello di Catania ha, dapprima affermato la equivalenza fra le attenuanti generiche riconosciute al M.G.S. e la aggravante contestata, indicata in quella prevista dall'art. 589, ultimo comma, cod. pen., mentre, in sede di determinazione della pena ha appesantito la pena base, determinata in anni 1 e mesi 9 di reclusione, sino alla pena di anni 3 di reclusione, testualmente affermando che ciò era avvenuto "per effetto dell'ultimo comma (scilicet: dell'art. 589 cod. pen.)", essendo stato "operato un aumento pari a mesi 3 per ciascuna delle 5 vittime per il concorso interno"; in sede di dispositivo la pena inflitta al M.G.S. è stata quantificata "riconosciute le circostanze attenuanti generiche in equivalenza alla contestata aggravante" appunto in 3 anni di reclusione.

Si tratta di motivazione non corretta, ma non per questo viziata e meno ancora illegittima.
E' di tutta evidenza, infatti, che nella parte motiva della sua decisione, il cui contenuto è, peraltro, per costante giurisprudenza recessivo rispetto al contenuto, nel caso in esame non viziato, della parte dispositiva (crf. Infatti: Corte di cassazione, Sezione VI penale 20 febbraio 2017, n. 7980), la Corte catanese, per un chiaro (ancorchè deplorevolmente reiterato) trascorso di penna, ha fatto riferimento alla circostanza aggravante di cui all'ultimo comma dell'art. 589 cod. pen. e non alla aggravante, effettivamente contestata, di cui al comma secondo della disposizione dianzi indicata.
Tale interpretazione della volontà del giudice del merito è logicamente imposta dal rilievo che l'ultimo comma dell'art. 589 cod. pen., secondo il costante insegnamento di questa Corte non costituisce un'autonoma figura di reato complesso, ma neppure dà luogo alla previsione di una circostanza aggravante rispetto al reato previsto dall'art. 589, comma primo, cod. pen., ma prevede un'ipotesi di concorso formale di reati, unificati solo quoad poenam, con la conseguenza non solo che ogni fattispecie di reato conserva la propria autonomia e distinzione (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 28 aprile 2017, n. 20340; idem Sezione IV penale, 3 ottobre 2011, n. 35805), ma anche che il suo effetto non è suscettibile di essere eliso in forza del giudizio di valenza con le eventuali attenuanti sussistenti nel caso di specie (in tal senso, con motivazione cui è il caso di dare convinta continuazione: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 24 settembre 1981, n. 8342).

Ritenere, pertanto, che la Corte etnea abbia inteso, come apparentemente risulterebbe dalla parte motiva della sentenza (ma si ripete non alla luce della indicazione riveniente dalla lettura del dispositivo della decisione assunta, cui deve, anche per il motivo che sarà testè enunziato, dare netta prevalenza logica), operare il giudizio di valenza fra le attenuanti generiche e la "pretesa" circostanza aggravante di cui all'ultimo comma dell'art. 589 cod. pen., postulerebbe la esigenza di ritenere che l'errore in cui sarebbe caduta la Corte territoriale sia un errore sostanziale (ammissibilità del giudizio di valenza fra elementi non circostanziali del reato) e non un errore meramente formale (indicazione di un comma della disposizione violata per un altro).

Di tutta evidenza è che il principio di conservazione degli atti giuridici - il quale nel dubbio impone di interpretare un atto nel senso che esso, in quanto legittimo, spieghi i suoi effetti - esclude in radice la fondatezza del motivo di impugnazione ora illustrato.
Lo stesso è, peraltro, inammissibile anche in relazione alla presunta inadeguatezza quantitativa della pena irrogata, avendo la Corte determinato la stessa in misura assai contenuta e prossima ai minimi edittali pur in presenza di un fatto che ha determinato la morte, sebbene non voluta dall'imputato ma da lui solo colposamente cagionata, di diverse persone.
Alla inammissibilità del ricorso presentato dal M.G.S. consegue, visto l'art. 616 cod. proc. pen. la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Segue, altresì, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di difesa affrontate dalle numerose parti civili presenti in giudizio, liquidate come da dispositivo.
 

 

P.Q.M.


 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena detentiva inflitta a Z.M. ed a C.A., che ridetermina in due anni di reclusione ciascuno.

Rigetta i ricorsi di C.S. e L.S.  che condanna al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di M.G.S. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili ed alla rifusione delle spese del presente giudizio in loro favore come segue:
Comune di Mineo nella misura di euro 3.550.00, oltre accessori di legge; INAIL nella misura di euro 3.550.00, oltre accessori di legge; D. nella misura di euro 3.550.00, oltre accessori di legge; Z.S. nella misura di euro 3.550.00, oltre accessori di legge; S.P. nella misura di euro 3.550.00, oltre accessori di legge; LL., P.AM. e P.M. nella misura di euro 5.600.00, oltre accessori di legge; S.C. e S.M. nella misura di euro 4.550.00, oltre accessori di legge; A.G., T.G. e T.A. nella misura di euro 5.600.00, oltre accessori di legge; T.R., T.G., T.A. e A.G. nella misura di euro 6.650.00, oltre accessori di legge; C.M., S.A. e S.V., S.M. e S. Cl. nella misura di euro 7.700.00, oltre accessori di legge; Z.M., in proprio e nella qualità di esercente della potestà per la minore P.E., P.L., P.C., P.G., P.A., P.L. (classe 1949) A.M., A.MO. e L.R. nella misura complessiva di euro 6.304,00, come richiesto.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2020