Ricorso di un impiegato di un ufficio amministrativo che per anni aveva ricoperto una determinata mansione e poi, per un riassetto organizzativo, era stato trasferito in altro ufficio, molto piccolo e privo perfino di computer, dove era costretto ad una quasi totale inattività e al disimpegno di compiti mortificanti tanto da essere colpito da disturbi di natura psicosomatica.
In primo grado ottiene un  cospicuo risarcimento, notevolmente diminuito in appello.
 
Ricorre in Cassazione - Accolto.
 
La Corte a Sezioni Unite, nel cassare con rinvio, afferma:
"Con riguardo, in particolare al danno non patrimoniale, esso è stato coerentemente individuato dai giudici di merito, occorrendo rilevare che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavora abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito".
"Nella specie, il danno risarcibile è esattamente identificato negli "aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti all'... dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare", secondo una valutazione che si fonda sull'accertamento del nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di mortificazione del lavoratore e che si sottrae perciò alle censure fatte dal Ministero."
Dunque la Corte afferma che la somma risarcitoria va aumentata poichè la riduzione del danno professionale alla misura poco più che simbolica di euro 1.000 e di quella esistenziale alla misura di euro 3.000 si fonda su valutazione inadeguate.
La condotta datoriale non può che essere valutata nel suo complesso, considerando in particolare la persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti di discriminazione o persecutori), la lunga durata di reiterate situazioni di disagio professionale e personale, consistite, fra l'altro, nel dover operare in un locale piccolo e fatiscente privo di computer, l'inerzia dell'amministrazione rispetto alle accertate richieste del dipendente intese a non compromettere il proprio patrimonio di esperienza e qualificazione professionale che costituiva un suo primario diritto a prescindere dalla esistenza di specifiche aspettative di progressione di carriera. 
 
Dunque il demansionamento, quando provoca gravi danni alla salute del lavoratore fino a costringerlo al pensionamento, può dar luogo al risarcimento del danno per mobbing.
La Corte infatti afferma che è lesiva la condotta dell'amministrazione pubblica nel momento in cui non si preoccupa di tutelare il proprio dipendente proteggendo il suo patrimonio di esperienza, qualificazione, professionalità e le sue aspettative di carriera.

 

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