Cassazione Civile, Sez. Lav., 04 novembre 2021, n. 31558 - Dequalificazione professionale e mobbing


Presidente: BERRINO UMBERTO Relatore: LORITO MATILDE
Data pubblicazione: 04/11/2021
 

Rilevato che

Il Tribunale di Milano in parziale accoglimento del ricorso proposto da F.V. nei confronti della s.p.a. Metropolitana Milanese, accertava la dequalificazione professionale subita dal lavoratore nel periodo luglio 2010 - settembre 2013, condannando la società al pagamento della somma di euro 8.461,00 per il titolo descritto; rigettava invece, le ulteriori domande attinenti al mancato conferimento di incarichi di posizione organizzativa con le relative pretese di ordine risarcitorio e retributivo, nonché l'istanza di pagamento degli incentivi per la progettazione ex art.18 l.109/1994 e di risarcimento del danno da "mobbing".
Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che condannava la società appellata al pagamento dell'ulteriore importo di euro 2.849,40 a titolo di danno biologico e rimborso spese documentate.
Avverso tale decisione F.V. interpone ricorso per cassazione affidato a nove motivi.
Resiste con controricorso la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi
dell'art.380 bis c.p.c.
 


Considerato che


1. Con il primo motivo si denuncia omessa pronuncia sulla domanda di riassegnazione al ricorrente delle mansioni originarie o di altre equivalenti. Violazione degli artt.2103 c.c., 52 d. lgs. n.165/2001, nonché degli artt.99, 112, 345, 434, 437 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo nn.3 e 5 c.p.c.
Viene rimarcato che con comunicato di servizio in data 7/10/2005 il ricorrente era stato trasferito dal ruolo a lungo rivestito, di responsabile del "reparto di pronto intervento", ad un ruolo di semplice tecnico di zona presso il reparto Acque Reflue, con la precisazione che detto evidente demansionamento era stato accertato dai giudici del merito, a far tempo dal 2005
Ci si duole che, nonostante tale accertamento, la Corte abbia omesso di pronunciarsi sulla domanda di "riposizionamento" del lavoratore nelle mansioni in precedenza espletate o in altre equivalenti, formulata in primo grado e ritualmente riproposta in sede di gravame.
2. Il motivo è da ritenersi in primo luogo ammissibile.
Ed invero, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell'art. 360 c.p.c.; secondo un'evoluzione interpretativa rispettosa dell'esigenza di effettività della tutela del diritto azionato in giudizio, può dirsi che, pur permanendo l'indispensabilità di un'articolazione del ricorso per cassazione in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, non è necessaria l'adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi, sicché l'erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione entro diversa fattispecie dell'art.360 cod. proc. civ., comma 1, alla condizione che, nello sviluppo stesso del motivo, il ricorrente articoli con coerenza argomenti a sostegno di una tesi giuridica manifestamente riconducibile alla fattispecie non correttamente indicata (in tali espressi sensi, relativamente al vizio di omessa pronuncia, vedi Cass. 20/2/2014 n.4036, Cass. Sez. Un., 24/7/2013 n.17931; Cass. 31/10/2013 n. 24553).

Pertanto, anche la nullità della sentenza o del procedimento, derivante da errores in procedendo, che deve essere necessariamente proposta in relazione all'art.360 cod. proc. civ., n.4, è utilmente fatta valere con un motivo sia pure incongruamente od erroneamente rubricato, se l'errore nell'applicazione di norme processuali è comur.que adeguatamente prospettato come tale e se sono addotti motivi in punto di prospettata corretta individuazione della norma processuale da applicare e di quella violata.
Nella specie, in particolare, il F.V. ha evocato la violazione degli artt.99 e 112 c.p.c., rimarcando l'errore in cui era incorsa la Corte di merito che aveva omesso di decidere sul "thema decidendum relativo al riposizionamento del lavoratore nelle stesse mansioni, ovvero in altre equivalenti alla sua qualifica ed a quelle precedentemente svolte", vulnerando altresì il principio del tantum devolutum quantum appellatum.
Il ricorrente non ha, poi, sottaciuto il pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza della denunciata violazione della legge processuale, indicando gli effetti pregiudizievoli conseguenti alla omessa pronuncia "sulle richieste di riposizionamento del lavoratore, a far tempo dal 2005, con i conseguenti riflessi sulle retribuzioni ed altresì sul TFR e sul trattamento pensionistico", impedendogli "di godere di tutti gli scatti e le progressioni di carriera previsti dalla legge e dai contratti collettivi".
Si tratta di elementi sufficienti ad integrare idonea contestazione di un vizio sussumibile, al di là di quanto indicato nella rubrica o nella prima parte dell'esposizione del relativo motivo, entro la corretta categoria dell'art.360 n.4 c.p.c.
3. Una volta riconosciuta l'ammissibilità di detto primo motivo di ricorso, la sua fondatezza è manifesta; dalla riproduzione, nelle sue parti rilevanti, del ricorso di primo grado e di quello di appello - in conformità al principio di specificità che governa il ricorso per cassazione, anche avuto riguardo alle ipotesi di denuncia di un vizio di violazione della legge processuale (vedi Cass. S.U. 22/5/2012 n.8077) - è infatti evincibile la chiara proposizione da parte del lavoratore, della domanda di reintegra nelle mansioni in precedenza espletate o, comunque in altre ad esse equivalenti.
Al cospetto di tale specifico petitum, nella pronuncia impugnata non risulta formulata alcuna argomentazione riferibile alla questione de qua, né si può indurre che la stessa sia stata decisa implicitamente dal giudice di appello.

Così la Corte di merito ha indubbiamente violato il principio di diritto alla cui stregua il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato ex art. 112 cod. proc. civ., ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l'attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all'attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto>> (ex multis, vedi Cass.16/5/2012 n. 7653, Cass. 27/11/2017 n. 28308, Cass. 16/07/2018 n. 18797).
La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione a detta doglianza, sostanzialmente riprodotta anche nel secondo motivo (ai sensi del n.5 del comma primo art.360 c.p.c.).

4. Con il terzo motivo è denunciata violazione degli artt.2103 c.c., 52 d. lgs. n.165/2001, 99, 112, 345, 434, 437 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c.
Si critica la statuizione con la quale il giudice del gravame ha ritenuto inammissibili, in quanto articolate per la prima volta ,n grado di appello, le domande formulate dal dipendente, di condanna della società al risarcimento dei danni dall'ottobre 2005, limitando il dies a quo della -decorrenza del diritto al risarcimento, dal giorno 8 luglio 2010, data in cui era stato esperito il tentativo di conciliazione.
Si osserva per contro che detta domanda era stata ritualmente formulata con il ricorso introduttivo del giudizio (oltre che ribadita in atto di appello), segnatamente nel novembre 2006, epoca cui risaliva la notifica del ricorso ex art.700 c.p.c. e che in ogni caso, la decorrenza del diritto al risarcimento del danno doveva coincidere con l'inizio della condotta illecita posta in essere dalla parte datoriale.
5. Il motivo è fondato nei termini di seguito specificati.
Occorre premettere, in fatto, che l'esistenza del demansionamento è stata accertata dai giudici di merito in relazione una ricostruzione puntuale dei compiti affidati ai dipendente - il quale inizialmente aveva svolto mansioni di Capo Reparto Pronto Intervento e di Capo Reparto Unità Mobile Controllo Rete, laddove, a far tempo dall'ottobre 2005, era stato assegnato all'area acque reflue - con la descrizione dettagliata delle mansioni svolte nei diversi periodi; era stato al riguardo precisato che all'espletamento di un ruolo di elevato contenuto professionale connesso alla responsabilità di una serie di unità (di ricerca perdite, di manutenzione) e al coordinamento di un elevato numero di dipendenti, aveva fatto seguito l'assegnazione di mansioni di tecnico di zona con limitazione delle competenze alle problematiche attinenti alla fognatura relative alla zona a lui riservata, con evidente mortificazione della dignità professionale del lavoratore.
In diritto, e sempre in via di premessa, è bene rammentare che secondo l'art. 2103 c.c., comma 1 (nella versione di testo anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, entrato in vigore il 25 giugno 2015), "il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto .. . ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte". Il disposto è violato, avuto riguardo alla libertà ed alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente venga assegnato a mansioni inferiori. Si tratta di protezione tradizionalmente intesa come di contenuto inderogabile (vedi ex plurimis, Cass. Cass. 10/12/2009 n. 25897, Cass. 12/6/2015 n.12253), rispetto alla quale l'art. 2103 c.c., comma 2, sancisce la nullità di ogni patto contrario.
L'assegnazione a mansioni inferiori rappresenta poi, fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Innanzi tutto l'inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (vedi Cass. 10/6/2004 n. 11045 ).
Invero la violazione dell'art. 2103 c.c., può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro. Inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti.
Infatti questa Corte, a Sezioni unite (vedi Cass. 11/11/2008 nn. 26972, 26973, 26974, 26975), dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.
Lo stesso Collegio dedica adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore che, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., costruisce come diritto inviolabile; descrive quale lesione di tale diritto proprio "i pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa".
Dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono; la lesione di tale posizione giuridica soggettiva ha attitudine generatrice di danni anche a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell'uomo con se stesso.
6. Orbene, dal compendio dei principi sin qui enunciati, si deduce che, in subiecta materia, ci si trova al cospetto di interessi sottesi ai limiti all'esercizio dello jus variandi datoriale, di natura non disponibile, ed alla violazione di diritti tutelati da norme di rango costituzionale, il che impone di ritenere che la reintegrazione della situazione giuridica lesa debba essere piena, integrale, dovendo estendersi a tutto il periodo nel corso del quale si è protratta la condotta contra jus posta in essere dalla parte datoriale; in tal senso ben si comprende come il protrarsi del tempo di una situazione illegittima quale il demansionamento del lavoratore non possa essere inteso semplicemente come acquiescenza alla situazione imposta dal datore di lavoro (cfr. Cass. 13/6/2014 n.13485).
D'altro canto, non può sottacersi che la natura di illecito permanente che questa Corte, con orientamento costante, ha conferito alla condotta demansionante del datore di lavoro, fa sì che la pretesa risarcitoria sia destinata a rinnovarsi in relazione al perpetrarsi dell'evento dannoso (vedi Cass. 18/7/2013 n.17879) e che tale natura, impedendo il decorso della prescrizione fino al momento in cui il comportamento contra jus non sia cessato, consenta di ritenere insussistente alcun limite alla proposizione della domanda ed al conseguente soddisfacimento del diritto ad essa sotteso per tutta la durata in cui la condotta illecita è stata perpetuata (e sempre entro i termini della prescrizione di legge).
Nell'ottica descritta, la statuizione con la quale il Collegio di merito ha statuito che "i danni alla professionalità ed esistenziale, siano risarcibili solo a partire dal momento in cui il lavoratore ha formalmente contestato al datore di lavoro la nuova collocazione in azienda", non è conforme a diritto, competendo in favore del ricorrente, il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da dequalificazione sin dal momento in cui ha avuto inizio la condotta antigiuridica della parte datoriale, collocata temporalmente nell'ottobre 2005.
Le sinora esposte considerazioni inducono, quindi, all'accoglimento anche di tale motivo.
7. La quarta critica prospetta omessa pronuncia in ordine alla domanda di risarcimento danno da omesse differenze retributive e contributive oltre che di T.F.R. , violazione degli artt. 2103 c.c., 52 d. lgs. n.165/2001, 99, - 11 2, 345, 434, 437 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c.
Ci si duole che il giudice del gravame abbia omesso di pronunciarsi in ordine alle domande indicate, ivi compresi gli scatti e le progressioni di carriera, in violazione dei principi enunciati in particolare dall'art.2103 c.c. che è volto a preservare le mansioni svolte dal lavoratore "senza alcuna diminuzione della retribuzione".
8. Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 99, 112, 345, 434, 437 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c.
Si critica la statuizione con la quale la Corte di merito ha dichiarato inammissibili, in quanto proposte per la prima volta in grado di appello, le domande volte a conseguire la condanna al risarcimento del danno da demansionamento nella misura del 30% della retribuzione. Si deduce che la stessa era stata ritualmente proposta in primo grado come desumibile dallo stralcio del ricorso di prime cure richiamato in conformità al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.
9. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, vanno disattesi.
Non è infatti evincibile, dal compendio delle domande riportate in ricorso per il principio di specificità che lo governa, la proposizione di una domanda intesa a conseguire il pagamento di differenze retributive tout court, diversa da quella di risarcimento del danno da demansionamento chiaramente formulata in giudizio.
La doglianza risulta indirizzata precipuamente alla contestazione del riconoscimento della pretesa risarcitoria in misura inferiore (10%) rispetto a quella invocata (30%) ed alla statuizione di tardività della domanda emessa dal giudice del gravame; ma, nell'ottica descritta, e prescindendo anche da ogni questione inerente alla tempestività della domanda, la critica palesa profili di inammissibilità perché sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legg e di violazione della legge processuale per omessa pronuncia, degrada in realtà verso l'inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione del merito della domanda, non consentito in sede di legittimità (vedi Cass. S.U. 27/12/2019 n. 34476).
E' noto, invero, che in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (vedi Cass. 26/2/2009 n. 4652).

In senso analogo, si è affermato che il danno derivante da dequalificazione, proprio perché può assumere diversa natura, richiede che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti; prova che può essere fornita anche ex art. 2729 c.c., attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, restando in ogni caso affidato al Giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, dopo l'individuazione, appunto, della specie, e determinandone l'ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (Cass. S.U. 9/7/2008, n. 188139).
La sentenza impugnata non si è discostata dai principi sopra enunciati, "' ritenendo il risarcimento richiesto relativo al danno alla professionalità, subito dal F.V., congruamente definito nella misura del 10%, tenuto conto di tutti gli indici presuntivi sui quali fondare una corretta inferenza presuntiva, quali il contenuto delle pregresse mansioni, il tipo di professionalità colpita, la durata del demansionamento, l'esito finale della dequalificazione; e detta statuizione, congrua e conforme a diritto per quanto sinora detto, si sottrae alla censura all'esame.

10. Il sesto motivo attiene all'omesso riconoscimento dell'invalidità permanente ex art. 360 comma primo n.5 c.p.c.
Si deduce che, considerata la protrazione del demansionamento, si era instaurato nel ricorrente un disturbo dell'adattamento ormai cronico generatore del diritto al risarcimento del danno permanente, ingiustamente trascurato dai giudici del gravame, il quale si sarebbe riportato pedissequamente alle conclusioni rassegnate dall'ausiliare nominato in grado di appello.
11. Il motivo non è ammissibile

Il vizio nei sensi denunciati non rientra, infatti, nel paradigma devolutivo e deduttivo del nuovo art 360 n. 5 c.p.c., e peraltro tale vizio sarebbe comunque ravvisabile soltanto in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell'omissione -degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un'inammissibile critica del convincimento del giudice.
Le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio disposta dal giudice di secondo grado con riguardo alla valutazione di situazioni di invalidità temporanea derivata dall'accertato demansionamento, non possono, infatti, utilmente essere contestate in sede di ricorso per cassazione mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse delle diverse valutazioni espresse dal consulente d'ufficio di primo grado, poiché tali contestazioni si rivelano dirette non già ad un riscontro della correttezza del giudizio formulato dal giudice di appello, bensì ad una diversa valutazione delle risultanze processuali.

Nello specifico, il CTU aveva ammesso un periodo di evolutività sintomatologica protratto per sei mesi con pari periodo di inabilità temporanea parziale al 50% per due mesi al 25% per ulteriori due mesi ed al 15% per gli ultimi due, riferendosi "all'effetto menomativo mediamente posseduto da una malattia che consenta comunque il mantenimento della attività lavorativa pur in presenza delle problematiche lamentate"; ma il ricorrente si duole che non abbia inteso tener conto delle conclusioni rese dal CTP basate sui dati obiettivati dalla documentazione sanitaria versata in atti, che confortavano l'esistenza di una lesione del bene salute, protrattasi ben oltre il semestre indicato dal consulente, per ben un decennio.

Ed allora appare evidente che non si versi in ipotesi di omessa denunzia di deviazioni dai canoni informativi della scienza medica o dai protocolli praticati per particolari assicurazioni sociali (che, in quanto tale, costituisce un vero e proprio vizio della logica medico - legale e rientra tra i vizi deducibili con il ricorso per cassazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.), ma di prospettazione di un mero dissenso diagnostico inammissibile in sede di legittimità (vedi ex aliis, Cass. cfr. Cass. 13.8.2004 n. 15796, Cass. 3.4.2008 n. 8654, Cass. 8.11.2010 n. 22707, in tema di infortunio sul lavoro, Cass. 3.2.2012 n. 1652) .

12. Con il settimo motivo si denuncia violazione degli artt. 99, 112, 345, 434, 437 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c. Si stigmatizza la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno ritenuto inammissibile la domanda risarcitoria relativa al periodo successivo al deposito della sentenza di primo grado.


Si osserva che la domanda di risarcimento danni successiva alla emissione della sentenza, non può che essere proposta in grado di appello ai sensi dell'art.345 c.p.c. in deroga al divieto generale di domande nuove, giacchè esse dipendono strettamente da quella iniziale.

13. Il motivo deve ritenersi infondato.

Questa Corte ha già precisato (cfr. ex plurimis Cass. 22/10/2013 n. 23949, Cass.15/11/1996 n.10045) che la domanda giudiziale di risarcimento del danno si fonda su di una causa petendi identificabile in uno specifico accadimento lesivo spazialmente e temporalmente determinato, sicché, una volta che essa sia stata proposta in relazione a determinati fatti, il riferimento all'eventualità che nelle more del giudizio abbiano a verificarsi nuovi accadimenti (siano pur essi omogenei rispetto ai precedenti), suscettibili di ledere ancora la situazione giuridica protetta e di cagionare così una ulteriore ragione di danni, non introduce alcuna valida domanda, ne', una volta che tali fatti si siano verificati, può legittimare alla sua proposizione nel corso del giudizio.
Ne deriva che la richiesta di ristoro del danno per fatti sopravvenuti in corso di causa comporta un non consentito mutamento della primitiva domanda, con la conseguente inammissibilità della stessa anche in appello, senza che, in contrario, possa argomentarsi dalla deroga al divieto di domande nuove in appello con riferimento ai danni sofferti dopo la sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 345 c.p.c., comma 1, trovando tale norma applicazione solo quando nel giudizio di primo grado sia stato richiesto il risarcimento del danno maturato in precedenza, e giustificandosi tale deroga solo nel presupposto che si incrementino le conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa, senza che gli ulteriori danni siano ricollegabili anche a fatti nuovi e diversi.

La Corte di merito si è conformata agli enunciati principi onde la relativa statuizione si sottrae alla censura all'esame.

14. L'ottavo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 9 del c.c.n.l. enti locali 1999 ed art.16 contratto collettivo decentrato 1998-2001, degli artt. 97 Cost. , 1175, 1375, 1218 c.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c.
Si critica la statuizione con la quale è stato denegato il diritto a conseguire il conferimento di una posizione organizzativa. Si deduce che, pur sussistendo un margine di discrezionalità della P.A., è comunque possibile ravvisare la sussistenza di un diritto soggettivo in capo al lavoratore all'ottenimento della posizione, in caso di violazione delle regole che disciplinano l'agire della P.A.
15. Anche questo motivo è privo di fondamento.
E' bene rammentare che il conferimento delle posizioni organizzative al personale non dirigente delle Pubbliche Amministrazioni inquadrato nelle aree, esula dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, assunti dall'Amministrazione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro, a norma dell'art.5, comma secondo, del d.lgs. n. 165 del 2001 (S.U. n. 16540 del 2008 e n. 8836 del 2010 , Cass. n. 2836 del 2014).

Dette posizioni organizzative, si concretano nel conferimento al personale inquadrato nelle aree, di incarichi relativi allo svolgimento di compiti che comportano elevate capacità professionali e culturali corrispondenti alla direzione di unità organizzative complesse e all'espletamento di attività professionali e nell'attribuzione della relativa posizione funzionale.
Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione - nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto - è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva (SS.UU. n. 16540 del 2008 e n. 8836 del 2010, nonché, Cass. nn 6367 e 20855 del 2015).

E' stato in via ulteriore chiarito che anche per quanto attiene al conferimento di tali posizioni organizzative, l'Amministrazione è tenuta al rispetto dei criteri di massima indicati dalle fonti contrattuali e all'osservanza delle clausole generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., senza tuttavia che la predeterminazione dei criteri di valutazione comporti un automatismo nella scelta, la quale resta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro (vedi Cass. 27/1/2017 n.2141).
Orbene, la Corte di merito, nel proprio incedere argomentativo, ha dato atto che l'appellante non aveva indicato specifiche circostanze per le quali potesse presumersi la violazione dei principi di buona fede e correttezza da parte del datore di lavoro, essendosi limitato a rivendicare il diritto al conferimento di un incarico di posizione organizzativa, sul mero rilievo del pregresso svolgimento di mansioni di Capo Reparto Pronto Intervento e di capo del Reparto Unità Mobile Controllo Rete.

In tale prospettiva, le critiche svolte nella presente sede, appaiono prive di pregio, perché non idonee ad inficiare le ricordate statuizioni, mediante specifiche ed esaurienti argomentazioni, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità; affermazioni che invece, per quanto sinora detto, appaiono conformarsi ai condivisi orientamenti tracciati dalla Corte di legittimità.
16. Con l'ultimo motivo è denunciata violazione degli artt.421, 425 e 437 cpc in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia dichiarato inammissibile la produzione della documentazione offerta dal lavoratore in grado di appello, attinente alla descrizione delle attività (predisposizione di progetti, direzione di appalti) svolte dal ricorrente prima del demansionamento, alle interlocuzioni con il precedente difensore, alla descrizione del sistema delle posizioni organizzative.
17. Il motivo soffre di un irredimibile difetto di specificità.

Secondo i principi affermati da questa Corte, da ribadirsi in questa sede, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall'art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l'atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (vedi Cass. 13/11/2018 n. 29093).
Detto principio è volto ad agevolare la comprensione dell'oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell'impugnazione: ne deriva che il ricorrente ha l'onere di operare una chiara esposizione funzionale alla piena valutazione di detti motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte di cassazione (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale riproduzione, in tutto o in parte, è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (vedi Cass. 4/10/2018 n. 24340).
Nello specifico detta documentazione non viene riprodotta nel suo contenuto, neanche nelle parti più rilevanti.
Gli approdi ai quali è pervenuto il Collegio di merito sono del resto conformi a diritto perché coerenti coi dieta di questa Corte secondo cui ai sensi dell'art.437, secondo comma, cod.proc.civ, che pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova - fra i quali devono annoverarsi anche i documenti l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o , dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione; e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e
decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello (vedi per tutte, Cass.S.U. 20/4/2005 n.8202).
Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento - ispirato alla esigenza della ricerca della "verità materiale", cui è funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse; ma nello specifico non risulta comprovata la decisività della documentazione cui si è fatto richiamo, onde la censura testè formulata non può che essere respinta.
La pronuncia deve, pertanto essere cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d'appello designata in dispositivo la quale provvederà a scrutinare la vicenda ad essa devoluta, alla stregua degli enunciati principi di diritto, disponendo anche in ordine alle spese inerenti al presente giudizio di legittimità.
 

P.Q.M.
 


La Corte accoglie i primi tre motivi di ricorso, respinti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d'appello di Milano in diversa compos1z1one, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma nella Adunanza camerale del 23 marzo 2012.