Cassazione Civile, Sez. 6 Lav., 10 novembre 2021, n. 33123 - Valutazione negativa illegittima ma nessun risarcimento al dirigente medico che lamenta un abuso compiuto dal primario. Mancano le prove concrete del danno morale



Presidente Leone – Relatore Boghetich

Rilevato che:

1. Con sentenza n. 4641/2019, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia del giudice di primo grado, ha ritenuto illegittima la valutazione negativa effettuata dal Responsabile […] nei confronti del Dott. B.D. dirigente medico Responsabile dell'Ambulatorio (omissis) presso l'Azienda ospedaliera (omissis) (valutazione negativa effettuata sulla base delle numerose assenze dal servizio, tutte giustificate da certificati medici), ma ha respinto la domanda di risarcimento del danno morale posto che il ricorrente ha dedotto "di aver subito un travaglio psichico e una profonda frustrazione senza alcun riferimento a specifici e precisi fatti concreti idonei ad evidenziare la sussistenza di un tale stato psicologico";

2. avverso tale statuizione ha proposto ricorso per cassazione il Dott. B. deducendo un motivo di censura; la controparte ha resistito con controricorso;

3. veniva depositata proposta ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in Camera di consiglio.

Considerato che:

1. Con l'unico motivo di ricorso si denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 2059,2727 e 2729 c.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo trascurato, la Corte territoriale, che la prova del danno non patrimoniale e, in specie, del danno morale, può essere fornita anche per il tramite delle presunzioni, a fronte della violazione datoriale degli specifici obblighi di protezione non solo verso l'integrità fisica dei dipendenti ma, altresì, con riguardo alla loro personalità morale;

2. il motivo è manifestamente infondato;

2.2. come lo stesso ricorrente ha ricordato, le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che, in caso di violazione dell'art. 2087 c.c., il risarcimento del danno non patrimoniale (nell'ambito del quale va ricondotto il danno morale visto la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale) è dovuto solamente qualora sia fornita la prova della sussistenza del pregiudizio, che può essere offerta anche tramite presunzioni (sentenza n. 6572 del 2006);

2.3. inoltre, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 26972 del 2008, hanno definitivamente chiarito che l'art. 2059 c.c., opera esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale "ai soli casi previsti dalla legge" (ossia 1 - illecito astrattamente configurabile come reato: art. 185 c.p., comma 2; 2 - illecito, non qualificabile come reato, ma che per espressa previsione di legge impone il ristoro di un danno non patrimoniale; 3- illecito - non bagatellare- che abbia leso diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale), lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell'illecito ex art. 2043 c.c. (la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso);

2.4. il principio ha trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità, per cui può conclusivamente affermarsi che il "danno non patrimoniale", costituendo anch'esso pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi "in re ipsa" (cfr. Cass., Sez. 3, n. 20987 del 2007, con riferimento alla prova del danno esistenziale; id. Sez. 3, n. 10527 del 2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 13614 del 21/06/2011; id. Sez. L, n. 7471 del 2012, relativa alla prova del danno non patrimoniale derivato dalla lesione della dignità personale; id. Sez. 3, n. 20643 del 2016 -con riferimento alla prova del danno non patrimoniale per lesione della reputazione sociale di un ente collettivo);

2.5. che il danno morale soggettivo per essere risarcito dovesse essere sempre accertato in concreto, era peraltro nozione già da tempo affermata da questa Corte che aveva riconosciuto, anche ai parenti della vittima offesa dal reato di lesioni personali, il ristoro di detto danno, ma sempre subordinandolo al concreto accertamento dell'an e della sua derivazione causale ex art. 1223 c.c., dall'illecito (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 9556 del 2002), specificando ulteriormente che, costituendo il danno morale un paterna d'animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici e, dall'altra, come per tutti i moti d'animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (cfr. Cass., Sez. 3, n. 11001 del 2003; id. n. 13754 del 2006; id. n. 8546 del 2008);

2.6. questa Corte, nel solco delle autorevoli pronunce citate, ha ribadito che - in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 c.c. - la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai sensi dell'art. 1218 c.c., è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile - ma è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (Cass. n. 8855 del 2013), posto che l'art. 2087 c.c., non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (v. ex plurimis, da ultimo, Cass. 29 gennaio 2013 n. 2038);

3. nel caso di specie, la Corte territoriale ha rilevato che il lavoratore aveva allegato, nel ricorso introduttivo del giudizio, "di aver subito un travaglio psichico e una profonda frustrazione senza alcun riferimento a specifici e precisi fatti concreti idonei ad evidenziare la sussistenza di un tale stato psicologico";

3.1. il giudice di appello ha interpretato correttamente i principi di diritto enunciati da questa Corte considerata la mancata descrizione, nell'atto introduttivo del giudizio (che non viene trascritto, nemmeno per estratto, nel presente ricorso, con conseguente violazione del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), delle regole di condotta violate dal datore di lavoro, delle clausole contrattuali o delle norme inderogabili violate ritenute fonte di pregiudizio alla personalità morale del lavoratore nonché dell'assenza di indicazione dell'elemento indiziario da utilizzare ai fini della prova presuntiva della sofferenza morale;

4. il ricorso va, pertanto, rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall'art. 91 c.p.c.;

5. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello - ove dovuto - per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 20012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.