- Datore di Lavoro
- Lavoratore
- Infortunio sul Lavoro
- Delega di Funzione
- Dirigente e Preposto
Secondo quanto esposto nell'impugnata sentenza, la D., intenta a sistemare sul banco gli anelli dei cuscinetti, era intervenuta per rimuovere l'anello superiore che si era bloccato e si schiacciava il dito per l'improvviso movimento dell'anello.
I tecnici dell'ASL avevano ritenuto il sistema di lavoro insicuro per la mancanza di dispositivi utili a rimuovere gli anelli e ad evitare contatti con le mani degli addetti.
Era stato accertato che "La L." aveva ottemperato alle prescrizioni dell'ASL solo dopo l'infortunio, provvedendo a fornire ai lavoratori attrezzi che evitano l'avvicinamento delle mani alla zona di incastro e a formalizzare per iscritto le corrette procedure di operatività.
Condannato in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Respinto.
Il Giudice a quo ha esplicitamente fatto riferimento alla "carenza di una specifica delega in materia di sicurezza (a cui si era significativamente provveduto dopo l'infortunio), non potendosi nemmeno ravvisare nell'ambito dell'organigramma aziendale la persona a cui ricondurre l'evento, solo in via ultimativa ed estrema, avendo sostanzialmente chiarito come non fosse possibile rinvenire norme attributive delle competenze interne di contenuto determinato e specifico circa il conferimento di poteri relativi alla materia antinfortunistica al direttore di produzione, non essendo sufficiente il generico riferimento all'attività di gestione tecnica e di manutenzione del patrimonio mobiliare che eventualmente avrebbe potuto solo comportare una corresponsabilità di preposto, ma non certo escludere quella del datore di lavoro".
"Infatti, è stato affermato che in materia antinfortunistica devono ritenersi destinatari delle disposizioni di prevenzione coloro che presiedono direttamente o per delega alla organizzazione aziendale; mentre non sono responsabili dell'incidente derivante dalla mancanza o dalla insufficienza di cautele e mezzi antinfortunistici coloro ai quali - non esplicando essi un potere di supremazia e di direzione nell'organizzazione del lavoro - spetta unicamente l'onere di vigilare sull'osservanza dei precetti imposti: al preposto (destinatario delle norme per la prevenzione di infortuni sul lavoro, ma svolgente attività sussidiaria), peraltro, può essere delegato l'apprestamento delle misure preventive, ma non anche quei compiti affidati in via esclusiva dalla legge ai dirigenti o all'imprenditore., onde nemmeno la delega scagiona dalla responsabilità penale l'imprenditore o il direttore dei lavori, in quanto il preposto non è tenuto ad assumere da solo l'obbligo di predisporre, far realizzare e pretendere in concreto la utilizzazione delle norme protettive previste dalla legge".
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino - Presidente -
Dott. GALBIATI Ruggero - Consigliere -
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere -
Dott. IZZO Fausto - Consigliere -
Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) G.T. N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 21/11/2008 CORTE APPELLO di BRESCIA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. MASSAFRA UMBERTO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IANNELLI Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. Bonvicini Massimo del Foro di Brescia, che chiede l'accoglimento del ricorso.
Fatto
Con sentenza in data 21.11.2008 la Corte di Appello di Brescia confermava quella
emessa in data 25.9.2006 dal Tribunale di Brescia in composizione monocratica
che, tra l'altro, condannava G. T. alla pena di giustizia per il reato di cui
all'art. 40 cpv. c.p., art. 590 c.p., commi 1 e 3, art. 583 c.p., comma 1, n. 1,
per aver cagionato con colpa generica e specifica consistente in violazione
delle norme sulla prevenzione sugli infortuni sul lavoro, quale Consigliere
delegato dell'impresa "La L. S.p.A", alla dipendente D.D., lesioni personali
gravi, consistite nella frattura esposta P3 V dito mano dx dalla quale derivava
una malattia di durata superiore a 40 gg. con esiti invalidanti permanenti
(commesso in (OMISSIS)).
Secondo quanto esposto nell'impugnata sentenza, la D., intenta a sistemare sul
banco gli anelli dei cuscinetti, era intervenuta per rimuovere l'anello
superiore che si era bloccato, essendosi schiacciata il dito per l'improvviso
movimento dell'anello.
I tecnici dell'ASL avevano ritenuto il sistema di lavoro insicuro per la
mancanza di dispositivi utili a rimuovere gli anelli e ad evitare contatti con
le mani degli addetti.
La lavorazione cui era adibita la D. consisteva nel prelevare l'anello esterno e
posizionarlo sul banco di lavoro, appoggiare su questo altro anello, spingere
manualmente per consentire lo scivolamento nel primo ed quindi inserire le sfere
nell'apposito foro.
Nel giorno dell'infortunio, la D. aveva cercato di rimuovere con le mani
l'anello superiore che si era bloccato.
Era stato accertato che "La L." aveva ottemperato alle prescrizioni dell'ASL
solo dopo l'infortunio, provvedendo a fornire ai lavoratori attrezzi che evitano
l'avvicinamento delle mani alla zona di incastro e a formalizzare per iscritto
le corrette procedure di operatività.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il difensore di fiducia di G.T.,
deducendo i seguenti motivi.
1. L'inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme
giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale;
mancanza e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla ritenuta
violazione del
D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, e alla
ritenuta sussistenza del nesso di causalità e riferibilità al G. dell'addebito
relativo alla carenza di fornitura di attrezzature adeguate.
2. L'inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme
giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale;
violazione dei principi della responsabilità penale personale e della
effettività delle posizioni giuridiche di garanzia nell'ambito dell'impresa,
conseguente all'inosservanza dell'art. 43 c.p. e
D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 del 2008 artt. 16,
17, 18, 19, e mancanza e manifesta illogicità della motivazione circa
l'affermazione di responsabilità dell'imputato.
Diritto
Il ricorso è infondato.
Con la prima censura si contesta la sussistenza della violazione del
D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 1 (che
sancisce l'obbligo per il datore di lavoro o per il suo delegato di fornire
attrezzature adeguate al lavoro da svolgere).
Si richiama, a tal proposito, non condividendola, l'ultima osservazione svolta
dalla sentenza che, dopo aver rilevato che nella fase di lavorazione in
questione, relativa all'inserimento dell'anello inferiore in quello superiore
(per l'assemblaggio di cuscinetti), consentendosi che detta manovra avvenisse
senza apposito attrezzo ma direttamente con le mani si era ingenerata nei
lavoratori la convinzione che si potesse intervenire con le mani anche
nell'analoga operazione di disincastrare il disco, così agevolando una prassi
pericolosa e sbagliata ulteriormente incentivata dall'assenza di specifiche
istruzioni lavorative all'epoca, aveva affermato che: "nè il suddetto nesso
causale viene meno per il fatto che la procedura corretta era quella che
prevedeva l'utilizzo del paranco, poichè non era affatto imprevedibile che il
lavoratore potesse ricorrere all'uso delle mani, sistema certo più rapido e
semplice, al quale, pur nella pericolosità, era quasi naturale fare ricorso".
Successivamente, per contestare la sussistenza del nesso causale di cui all'art.
40 c.p., si richiama la relativa argomentazione del Giudice d'appello che, nel
controdedurre ad analogo motivo di gravame, aveva rilevato dalla comunicazione
di ottemperanza dell'ASL che gli attrezzi manuali forniti ai lavoratori a
seguito dei rilievi mossi dall'organo di vigilanza erano funzionali ad evitare
l'avvicinamento delle mani alla zona di incastro dei cuscinetti e, quindi, ad
evitare l'infortunio.
A ben vedere, in entrambi i casi, più che esplicitare le ragioni della
prospettata violazione di legge o dell'assenza del nesso causale, si critica
(come del resto espressamente detto: "la motivazione sul punto non è condivisa";
"anche qui la motivazione appare censurabile") solo la motivazione della
sentenza al riguardo, per giunta omettendo di considerare le significative
argomentazioni che precedono l'inciso sopra riportato: la specifica censura che
viene successivamente ripresa in via autonoma, lamentando l'omessa
considerazione di circostanze di decisivo rilievo risultanti dalle prove orali
dibattimentali idonee ad escludere la violazione di cui all'art. 35 comma 1 cit.
e la mancata indicazione degli elementi di fatto sui quali era stata basata
l'esistenza del nesso causale.
Ma tali doglianze, in buona sostanza, oltre ad essere in buona parte generiche e
nemmeno rappresentanti incongruenze logiche macroscopiche, si risolvono, tutte,
in censure di merito afferenti la valutazione dei mezzi di prova che non valgono
a scalfire i dati giuridici acquisiti, in quanto la motivazione in proposito
fornita dal giudice di appello appare logica e congruamente articolata per le
connotazioni di coerenza, completezza e razionalità dei suoi contenuti.
Non è inutile ricordare, in proposito, che il nuovo testo dell'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi
prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione
anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del
giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in
un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora
consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione
dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite,
trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della
possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della
prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel
vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile
rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli
elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto
sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della decisione
(Cass. pen. Sez. 4^, 19.6.2006, n. 38424).
Ciò peraltro vale nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di
primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del
devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità,
salva l'ipotesi (non ricorrente nel caso di specie) in cui il giudice d'appello,
al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami
atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass. pen., Sez.
2^, 15.1.2008, n. 5994).
Analoghe considerazioni s'impongono in relazione al secondo motivo di ricorso.
Anche in questo caso si ripropone la medesima censura prospettata al giudice
d'appello, allorchè veniva contestato che l'obbligo pretesamente violato
incombesse al G..
Il ricorrente evidenzia di non avere mai eccepito che il G. non dovesse essere
ritenuto responsabile del reato per effetto di una delega di funzioni conferita
al responsabile di produzione, signor M. (indicato in sentenza come (OMISSIS)),
ma piuttosto che la natura della violazione che aveva causato l'evento
infortunistico determinasse nel M. la persona a cui, in forza della posizione di
garanzia assunta direttamente per effetto della legge, poteva essere attribuito
il rimprovero a titolo di colpa.
Ma si tratta di una involuzione argomentativa che, ancora una volta, pretermette
le deduzioni del Giudice a quo.
Questi, infatti, ha palesemente fatto riferimento alla carenza di una specifica
delega in materia di sicurezza (a cui si era significativamente provveduto dopo
l'infortunio), non potendosi nemmeno ravvisare nell'ambito dell'organigramma
aziendale la persona a cui ricondurre l'evento, solo in via ultimativa ed
estrema, avendo sostanzialmente chiarito come non fosse possibile rinvenire
norme attributive delle competenze interne di contenuto determinato e specifico
circa il conferimento di poteri relativi alla materia antinfortunistica al
direttore di produzione, non essendo sufficiente il generico riferimento
all'attività di gestione tecnica e di manutenzione del patrimonio mobiliare che
eventualmente avrebbe potuto solo comportare una corresponsabilità di preposto,
ma non certo escludere quella del datore di lavoro, rappresentato dal G..
Infatti, è stato affermato che in materia antinfortunistica devono ritenersi
destinatari delle disposizioni di prevenzione coloro che presiedono direttamente
o per delega alla organizzazione aziendale; mentre non sono responsabili
dell'incidente derivante dalla mancanza o dalla insufficienza di cautele e mezzi
antinfortunistici coloro ai quali - non esplicando essi un potere di supremazia
e di direzione nell'organizzazione del lavoro - spetta unicamente l'onere di
vigilare sull'osservanza dei precetti imposti: al preposto (destinatario delle
norme per la prevenzione di infortuni sul lavoro, ma svolgente attività
sussidiaria), peraltro, può essere delegato l'apprestamento delle misure
preventive, ma non anche quei compiti affidati in via esclusiva dalla legge ai
dirigenti o all'imprenditore., onde nemmeno la delega scagiona dalla
responsabilità penale l'imprenditore o il direttore dei lavori, in quanto il
preposto non è tenuto ad assumere da solo l'obbligo di predisporre, far
realizzare e pretendere in concreto la utilizzazione delle norme protettive
previste dalla legge (cfr. Cass. pen. Sez. 4^, 12.10.2005 n. 44650, Rv. 232617).
E' chiaro, dunque, come anche sotto tale profilo, la motivazione e le
argomentazioni addotte dalla Corte territoriale siano congrue ed ineccepibili e
non possa ravvisarsi alcuna violazione delle norme richiamate.
Consegue il rigetto del ricorso e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 aprile 2009.
Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2009