Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 marzo 2022, n. 8042 - Obbligo di provvedere alla manutenzione e lavaggio delle tute degli addetti alla raccolta dei rifiuti. Comune di Napoli quale datore di lavoro di fatto e nozione di DPI
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: SARRACINO ANTONELLA FILOMENA
Rilevato che:
La Corte di Appello di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda del lavoratore C.A. - addetto alla raccolta dei rifiuti differenziati per l’Ente di bacino Napoli 5 - intesa ad ottenere l’accertamento della violazione, da parte del Comune di Napoli, dell’obbligo di provvedere alla manutenzione ed al lavaggio del vestiario fornitogli (tute con barre catarifrangenti), costituente - secondo le allegazioni contenute in ricorso - dispositivo di protezione individuale.
Per quello che qui rileva, la Corte territoriale ha rigettato la domanda del lavoratore sulla scorta di due argomenti: a) il Comune di Napoli non è il datore di lavoro e, quand’anche lo si fosse ritenuto tale, avrebbe dovuto essere qualificato come datore di mero fatto, responsabile, pertanto, nei soli limiti di cui all’art. 2126 c.c. (pagamento delle retribuzioni e contributi), ma non anche per le pretese risarcitorie; b) le tute con strisce luminose utilizzate dagli addetti al prelievo dei rifiuti urbani non possono essere qualificate quali D.P.I. (dispositivi di protezione individuale).
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore, articolandolo su due motivi.
Resiste con controricorso il Comune di Napoli.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che:
1. Con il primo motivo di ricorso viene lamentata la violazione e falsa applicazione di legge, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., in ordine alla ritenuta carenza di legittimazione passiva (rectius: di titolarità del rapporto nel lato datoriale) del Comune di Napoli; si sostiene che detto ente era datore di lavoro di fatto del ricorrente, avendone utilizzato e diretto il rapporto in tutti gli aspetti in luogo dell’Ente Bacino Napoli 5, in realtà mai costituito; per l’effetto, ex art. 2126 c.c. il Comune di Napoli era responsabile nei confronti del C.A. anche in termini risarcitori.
1.1. Il primo motivo è fondato e va accolto.
Emerge dalla sentenza di appello (cfr. pag. 4) – il che, peraltro, è incontestato tra le parti - che il Consorzio di Bacino Napoli 5 non è mai stato costituito e che:
a) l’Ente di Bacino Napoli 5 (non costituito in consorzio) è stato gestito, sin dall’origine e sia pure in via di mero fatto, come un ramo dell’amministrazione del Comune di Napoli (cfr. sentenza di appello pag. 4);
b) i rapporti di lavoro degli operatori impegnati nel servizio di raccolta differenziata - tra cui il C.A. - venivano gestiti in via diretta proprio dal Comune di Napoli (o dall’assessore preposto), che ne organizzava prestazione lavorativa e turni di lavoro, pagando poi le retribuzioni (cfr. sentenza della Corte territoriale pag. 4-6);
c) la prestazione lavorativa veniva resa in favore del Comune di Napoli, che ha anche fornito gli indumenti di lavoro e i D.P.I.
Tali essendo i presupposti fattuali del rapporto di lavoro accertati in sede di merito, risulta fondata la dedotta violazione degli art. 2094 e 2126 c.c.
È noto, infatti, che elemento essenziale e caratterizzante la subordinazione è l’assoggettamento alla eterodirezione datoriale, ovvero la conformazione della prestazione alle direttive del datore di lavoro.
La sentenza impugnata nega (cfr. pag. 5) la legittimazione passiva del Comune (rectius: la titolarità del rapporto) in quanto “non fu mai il Comune di Napoli a procedere per proprio nome e conto all’assunzione del personale impiegato nel complessivo progetto ora descritto, ma la relativa azione amministrativa fu sempre posta in essere dai soggetti sopra indicati (n.dr. Commissario e Sub-Commissario di governo nominati per l’emergenza rifiuti), limitandosi il ruolo del Comune appellante a quello di soggetto attuatore”.
Tale percorso motivazionale non considera che proprio il ricorrente aveva dedotto non già un valido rapporto di pubblico impiego, ma un rapporto di mero fatto nell’aver lavorato “alle dipendenze del Comune di Napoli dal 1.11.2000 al 30.01.2009, svolgendo le mansioni di addetto alla raccolta di rifiuti differenziati, di cui al 3^ livello del c.c.n.l., per i dipendenti di aziende municipalizzate di igiene urbana”, non essendo stato costituito l’Ente Bacino Napoli 5.
In breve, lo stesso ricorrente aveva dedotto un rapporto di lavoro di mero fatto, regolato dall’art. 2126 c.c., alle dipendenze del Comune di Napoli quale soggetto che ne aveva diretto e retribuito la prestazione.
Obietta la Corte territoriale che l’art. 2126 c.c. farebbe salvi solo i diritti retributivi e contributivi maturati a seguito di un rapporto di lavoro nullo e non anche quelli risarcitori ad esso connessi (cfr. sul punto pag. 6 della sentenza).
Osserva, invece, questa Suprema Corte che siffatta affermazione si pone in contrasto con la ratio stessa dell’art. 2126 c.c., che è quella di garantire al lavoratore gli stessi diritti – anche ulteriori rispetto a quelli meramente retributivi e previdenziali - che egli avrebbe avuto se il rapporto fosse stato validamente instaurato.
Non a caso, ad esempio, l’obbligo di apprestare ogni tutela antinfortunistica per il lavoratore sussiste anche in capo al datore di lavoro di fatto ed indipendentemente dalla conclusione di un valido contratto.
Il principio, del resto, è stato già affermato da Cass. 23372/2013, sebbene in relazione al disposto dell'art. 3 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (abrogato dall'art. 304 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ma applicabile "ratione temporis").
La pronunzia è risultata, infatti, così massimata: in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro di apprestare adeguate tutele antinfortunistiche in favore dei lavoratori subordinati sussiste - in conformità al disposto dell'art. 3 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (abrogato dall'art. 304 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ma applicabile "ratione temporis") - indipendentemente dalla conclusione di un formale contratto di lavoro e si estende, pertanto, nei confronti di tutti gli addetti, anche solo di fatto, ad una determinata attività lavorativa, anche se questa sia svolta senza compenso alcuno e per mero spirito religioso.
Siffatto principio è tuttora immanente nel nostro sistema e ricavabile, oltre che dall’art. 2087 c.c., anche dagli artt. 2, lett. b), e 299 del d.lgs. n. 81 del 2008, con la conseguenza che chi di fatto esercita i poteri decisionali e di spesa (si vedano gli artt. 1 e 299) ed ha la responsabilità dell'organizzazione del lavoro deve predisporre ogni presidio atto a tutelare salute e sicurezza dei relativi addetti.
Alla luce di quanto detto è, quindi, erronea anche la ritenuta esclusione di obblighi risarcitori in capo al datore di lavoro di fatto.
2. Con il secondo motivo, sempre in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., viene lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 40, 42 e 43 del d.lgs. n. 626/1994, come modificati dal d.lgs. n. 81 del 2008.
Nel dettaglio si assume che ciò che vale a differenziare i D.P.I. rispetto agli ordinari indumenti di lavoro è l’astratta idoneità dei primi a preservare la salute del lavoratore rispetto ai rischi connessi all’espletamento della prestazione lavorativa, avuto riguardo al contenuto della prestazione stessa e alle modalità di tempo e di luogo in cui viene effettuata, assumendo le elencazioni contenute nei testi normativi portata meramente esemplificativa.
2.1. Il motivo è fondato.
La nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non si riduce alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c., come nel caso delle tute con barre catarifrangenti; ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di fornitura e di mantenimento in stato di efficienza di tali indumenti di lavoro, anch'essi inquadrabili nella categoria dei D.P.I..
Al principio innanzi ricordato, affermato in Cass. n. 16749/2019 proprio con riguardo agli addetti alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, va data continuità pure nella presente sede sul rilievo che le caratteristiche intrinseche degli indumenti descritti nella sentenza della Corte territoriale (“indumenti ad alta visibilità”, “giacca e pantalone di colore arancione fluorescente” - cfr. pag. 8 della sentenza), in relazione all’attività lavorativa del prestatore, addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti, sono sufficienti a qualificarli come D.P.I. perché volti a proteggere i lavoratori dai pericoli connessi alla raccolta dei rifiuti in strada in concomitanza con la normale circolazione dei veicoli.
3. Ne discende l’accoglimento anche del secondo motivo di ricorso e la cassazione della sentenza con rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e rinvia alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 22 febbraio 2022.