Cassazione Penale, Sez. 5, 05 aprile 2022, n. 12827 -  Il comportamento rilevabile come mobbing tenuto dal datore di lavoro integra il reato di stalking nel momento in cui le sue azioni generano abusi nei confronti dei lavoratori


 


 Presidente Pezzullo – Relatore Romano
 

Fatto


 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Salerno ha parzialmente riformato la sentenza del 6 febbraio 2020 del Tribunale di Salerno che aveva affermato la penale responsabilità di V.G. per il delitto di atti persecutori aggravato ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 11, (capo a), ritenendo in esso assorbite le condotte di minaccia contestate ai capi d), e) e g), e per il delitto di lesione personale di cui al capo c) e, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti e ritenuta la continuazione tra i reati, lo aveva condannato alla pena di giustizia, condizionalmente sospesa, ed al risarcimento del danno, da liquidarsi separatamente, in favore delle parti civili F.A., V.Z., F.D., A.V. e G.P..
 
 In particolare, la Corte di appello ha assolto V.G. dall'imputazione di cui al capo c) perché il fatto non sussiste, riducendo la pena inflitta e confermando nel resto la sentenza di primo grado.
 
 Al V. si contesta di avere, quale presidente di una società di servizi denominata (omissis) e quindi titolare di una posizione di supremazia nei confronti delle persone offese, dipendenti della stessa società e svolgenti funzioni di ausiliari del traffico, tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, ingenerato nelle persone offese un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita.
 
 2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso V.G., a mezzo del suo difensore avv. (omissis), chiedendone l'annullamento ed articolando tre motivi.
 
 2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il travisamento per omissione di una prova decisiva costituita dalla missiva firmata dall'avv. B., sindaco del Comune di (omissis) , nella quale si affermava che tutti i provvedimenti adottati nei confronti dei lavoratori erano stati condivisi ed esaminati dal consiglio di amministrazione della società e che le iniziative dell'organo gestorio erano finalizzate esclusivamente al miglioramento della produttività della stessa.
 
 Da detto documento e dalla testimonianza dell'avv. B., che pure si era chiesto di ammettere, sarebbe emerso che alcuni dipendenti avevano assunto un particolare atteggiamento di assoluta ed illegittima resistenza alle trasformazioni produttive ed organizzative che il V. stava attuando in seno alla società in house, cosicché si era venuto a creare un conflitto tra l'imputato ed alcuni dipendenti iscritti alla medesima associazione sindacale. Il conflitto aveva natura puramente lavorativa e derivava dalle molteplici direttive di lavoro disattese e dagli ordini di servizio ignorati dalle persone offese per tutta la durata della presidenza del V..
 
 Inoltre, la missiva suddetta, affermando che i comportamenti addebitati all'imputato erano stati sicuramente discussi e condivisi in seno al consiglio di amministrazione, si poneva in contrasto con la delibera del consiglio comunale n. 16 del 13 novembre 2012, dalla quale era stata desunta la sussistenza del dolo generico.
 
 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), della mancata assunzione di una prova decisiva sopravvenuta, costituita dalla deposizione dell'avv. B. sulle circostanze menzionate nella suddetta missiva.
 
 Sostiene che in caso di prove sopravvenute, il giudice di appello è tenuto ad ammetterle salvo che esse risultino manifestamente superflue od irrilevanti, mentre nel caso di specie la prova appariva decisiva per le ragioni già sopra esposte. La Corte di appello avrebbe affermato la irrilevanza della prova utilizzando formule generiche ed apodittiche, nonostante il V. avesse depositato una memoria per argomentare la natura decisiva della prova.
 
 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), della violazione dell'art. 612-bis c.p., e della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, dovuta ad un'indebita selezione delle prove acquisite nel corso dell'istruttoria.
 
 La Corte di appello avrebbe selezionato solo alcuni degli elementi di fatto emersi dall'istruttoria arrivando, sulla base degli stessi, ad affermare la sussistenza del delitto di atti persecutori, in realtà inesistente.
 
 La Corte di appello ha sostenuto che per la sussistenza del delitto non basta il reiterato maltrattamento del lavoratore da parte del datore di lavoro, ma occorre che le varie condotte vessatorie rispondano ad un disegno preordinato alla prevaricazione.
 
 Il mobbing, inteso come la reiterata attuazione di condotte volte ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro, può integrare il delitto di atti persecutori, laddove esso produca nella vittima uno stato di prostrazione psicologica che si manifesti con uno dei tre eventi previsti dall'art. 612-bis c.p..
 
 Sostiene, quindi, il ricorrente che il mobbing è concetto non del tutto sovrapponibile a(delitto di atti persecutori, che richiede comportamenti fortemente invasivi della sfera privata. Inoltre, i due fenomeni hanno finalità antitetiche poiché l'autore del delitto di atti persecutori mira ad instaurare un rapporto con la vittima, mentre il mobbing è finalizzato alla espulsione della vittima dal contesto lavorativo.
 
 La Cassazione, ammette il ricorrente, ha affermato che "l'ambiente lavorativo non è una zona franca dello stalking e che la determinazione del contesto in cui si è consumata la condotta è irrilevante allorché i reiterati comportamenti ostili abbiano procurato un danno psicologico nei termini indicati dall'art. 612-bis c.p. ", ma, sostiene il V., neppure può negarsi che il contesto assuma una sua rilevanza specifica e nel caso di specie la circostanza che le condotte dell'imputato fossero riconducibili ad un disegno persecutorio unificante e preordinato alla prevaricazione delle parti civili viene apoditticamente affermata in assenza di dimostrazione. La condotta del V. costituiva invece la reazione alla sistematica violazione degli ordini di servizio e delle direttive impartiti dalla governance della società ed al clima di tensione che si era creato con i dipendenti e di cui il B. aveva dato atto nella sua missiva.
 
 3. V.G. ha proposto ricorso anche attraverso l'altro suo difensore, avv. (omissis), che ha ribadito che la missiva inviata dall'avv. B. è decisiva perché idonea ad escludere l'elemento soggettivo del reato, in quanto dimostra che ogni condotta del V. era stata condivisa dal consiglio di amministrazione della società ed improntata esclusivamente alla esigenza di rendere produttiva ed efficiente l'attività della (omissis).
 
 4. Il ricorrente ha anche dichiarato, con atto del 18 giugno 2021, di rinunciare alla prescrizione.


 
Diritto


 
 1. Il primo motivo del ricorso sottoscritto dall'avv. (omissis) è infondato.
 
 Del tutto correttamente la Corte di appello non ha preso in considerazione la missiva inviata dall'avv. B. se non al limitato scopo di valutare la ammissibilità e rilevanza della deposizione testimoniale del predetto e quindi di escluderla.
 
 Laddove la Corte di appello, pur non ammettendo la prova testimoniale, avesse utilizzato la lettera come prova della veridicità dei fatti in essa dichiarati, sarebbe stato violato il principio di oralità, trattandosi di dichiarazioni provenienti da soggetto che semmai avrebbe dovuto essere sentito come testimone in dibattimento. Qualora il documento rappresenti un atto descrittivo o narrativo, lo stesso può fungere da prova solo qualora la dichiarazione documentata abbia rilevanza innanzitutto essa stessa come fatto, e non quando abbia rilevanza esclusivamente come rappresentazione di un fatto, come dichiarazione, perché in questa ultima ipotesi, essa va acquisita e documentata nelle forme del processo; in altre parole, è inammissibile la prova quando con il documento si vuole accertare il fatto attestato nella dichiarazione, perché ciò può avvenire soltanto introducendola nel processo come testimonianza (vedi Sez. 2, n. 29645 del 14/09/2020, D'Annibale, Rv. 279857; Sez. 2, n. 38871 del 04/10/2007, Lattanzio, Rv. 238220).
 
 2. Anche il secondo motivo ed il terzo motivo del ricorso sottoscritto dall'avv. (omissis), nonché il ricorso sottoscritto dall'avv. Pastore, che possono essere trattati unitariamente essendo strettamente connessi, sono infondati.
 
 Deve in primo luogo osservarsi che, come ricordato dal Procuratore generale nella sua memoria e come ammesso anche dal ricorrente nel suo atto introduttivo, questa Corte di cassazione ha già affermato che integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell'ambiente di lavoro - che ben possono essere rappresentati dall'abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi - tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p. (vedi Cass., Sez. 5, n. 31273 del 14/09/2020 - dep. 2020, F., Rv. 279752).
 
 Deve comunque sottolinearsi che anche nel caso di stalking "occupazionale" per la sussistenza del delitto art. 612-bis c.p., è sufficiente il dolo generico, con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico.
 
 Nel caso di specie, come emerge dalle sentenze di merito, il V. ha reiteratamente minacciato le persone offese di "cementarle" in un pilastro, li ha invitati a confrontarsi fisicamente con lui, li ha sottoposti a pubblici rimproveri inutilmente mortificanti e ad una serie di provvedimenti disciplinari culminati anche in un licenziamento al fine di creare terrore tra i dipendenti iscritti ad una associazione sindacale.
 
 Si tratta di comportamenti, secondo quanto accertato dai giudici del merito, voluti e reiteratamente attuati nella consapevolezza che da essi ben poteva derivare, proprio per la loro reiterazione e per le loro modalità, uno degli eventi alternativamente previsti dall'art. 612-bis c.p..
 
 Il ricorrente sostiene che egli ha agito allo scopo di rendere più efficiente la società (omissis) , controllata dal Comune di (omissis), e che le iniziative da lui assunte nei confronti dei dipendenti erano condivise dal consiglio di amministrazione della società e dal Sindaco allora in carica, l'avv. B. , ma trattasi di circostanze prive di alcun rilievo, atteso che l'efficienza della società non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l'umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti ai danni della persona, dovendo la tutela della persona e, nel caso specifico, del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici, e che la condivisione da parte degli altri componenti del consiglio di amministrazione e, in particolare, dell'avv. B. della scelta di compiere atti persecutori caratterizzati anche da gravi minacce ai danni dei dipendenti potrebbe semmai comportare una condivisione da parte di tali soggetti della penale responsabilità a tali condotte, giammai l'assoluzione dell'imputato.
 
 Correttamente, quindi, la Corte di appello ha ritenuto assolutamente irrilevante la deposizione dell'avv. B..
 
 Nel resto, laddove il ricorrente sostiene che la decisione poggia su una arbitraria selezione degli elementi di fatto emersi dall'istruttoria, le censure attengono al merito e sono inammissibili in questa sede.
 
 3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., comma 1.
 
 Ai sensi dell'art. 541 c.p.p., il ricorrente, rimasto soccombente, deve pure essere condannato al pagamento in favore delle parti civili delle spese processuali sostenute nel grado, liquidate come da dispositivo.
 

P.Q.M.
 


 Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili difese dall'avv. (omissis) che liquida in complessivi Euro 6.000,00, oltre accessori di legge, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile P.G. che liquida in complessivi Euro 4.500,00, oltre accessori di legge.