SEMINARIO FORMATIVO

 

DLGS 9 aprile 2008 N. 81 modificato con DLGS 5 agosto 2009 N. 106

Aspetti giuridici, tecnici e organizzativi

 

“DAI DPR DEGLI ANNI ’50 AL TU 81/08: LINEE FONDAMENTALI

 E ASPETTI INNOVATIVI”

 

Firenze, 20 gennaio 2010



 

1. Con la pubblicazione nello scorso agosto del decreto legislativo n. 106 del 2009 si è concluso il cammino normativo del nuovo testo unico sulla sicurezza del lavoro (questa è almeno la mia fervida speranza dal momento che ad ogni nuovo intervento si entra in uno stato di comprensibile apprensione). Di fronte al definitivo assetto normativo non è inutile chiedersi a che punto siamo sulla strada del raggiungimento della tutela di quei diritti fondamentali dei lavoratori che sono la salute e la sicurezza sul lavoro.

Tra l’altro, capire a che punto siamo ci aiuta a misurare il percorso compiuto, caratterizzato da un antico impegno assunto dal legislatore che è rimasto irrealizzato per trent’anni esatti: l’approvazione appunto di un testo unico sulla sicurezza del lavoro, il cui ritardo non può essere stato casuale. Bisogna dire che il tentativo di adottarne uno era  stato fatto anche in altre legislature e, soprattutto, dal precedente governo Berlusconi.

Il tentativo non ha avuto successo perché era deliberatamente dedicato non a rafforzare, ma a ridurre le tutele dei lavoratori. La precedente legge delega n. 329 del 2003 e la bozza governativa che ne era seguita costituivano un tentativo troppo rozzo di vanificazione di istituti giuridici radicati nella giurisprudenza italiana, perché potesse avere successo. E, come tutti sappiamo, è stato affossato senza pietà addirittura dal Consiglio di Stato.

 Ricordo queste cose perché quello è stato un momento in cui era diffusa la consapevolezza che la massiccia produzione legislativa del legislatore comunitario, andandosi ad integrare con le norme vigenti in Italia da molti decenni, finisse per produrre una situazione in cui convivevano, non sempre armoniosamente, norme ispirate a filosofie diverse e nate in contesti  e con necessità completamente diverse: i gloriosi dpr degli anni ’50 e i decreti legislativi di recepimento delle direttive comunitarie che dagli anni ‘90 in poi hanno fatto la loro comparsa nell’ordinamento italiano. E insieme al disagio degli operatori, cresceva una sempre più acuta consapevolezza della intollerabilità di un fenomeno infortunistico che da noi era più sviluppato che in altri paesi.

 

Per capire il cammino percorso dai D.P.R. ai primi decreti legislativi degli anni ’90 bisogna sapere che fino a quel momento l’Italia era il paese europeo con la legislazione più longeva in materia di sicurezza dei lavoratori. Dal 1955-56 erano in vigore il DPR 547, che era un vero e proprio testo unico in materia antinfortunistica; il DPR 303, testo unico in materia di igiene del lavoro; il DPR 164, testo veramente analitico in materia di cantieri mobili e temporanei e un’altra decina di DPR che avevano visto la luce dalla metà degli anni ‘50, destinati a coprire le varie aree di rischi conosciuti. Questi testi di legge sono rimasti in vigore, salvo trascurabili modifiche, fino al maggio 2008, quando il legislatore li ha formalmente abrogati, non dopo avere relegato nelle appendici del TU alcune norme tecniche e di comportamento che vi erano contenute.

C’è da capire le ragioni profonde per le quali i DPR degli anni ‘50 hanno avuto vita così lunga. Per molto tempo alcuni commentatori ne denunciavano la vetustà, soprattutto perchè superati dallo sviluppo scientifico e tecnologico. Ma non credo che la critica cogliesse nel segno. Lo sviluppo della scienza e della tecnica dal dopoguerra fino ad oggi è stato tale che avrebbe determinato il superamento di qualsiasi norma tecnica  molto prima dei cinquanta anni che sono stati necessari per abrogare i DPR 547 e 303. Devono essere dunque diverse le ragioni che hanno determinato una vigenza così lunga di quei decreti.

Credo che la ragione vera stia nella natura delle norme stesse, nella tecnica di redazione e, in ultima analisi, nella loro filosofia.

E’ stato affermato giustamente che la straordinaria fioritura normativa degli anni 50 trovava la sua urgenza nella necessità di adeguare le norme sul lavoro ai nuovi perincipii costituzionali per garantire a tutti i lavoratori i diritti irrinunciabili della libertà sul lavoro, della sicurezza e della dignità del lavoro. E il legislatore degli anni 50 è riuscito in effetti nella straordinaria opera di garantire la salute e l’incolumità dei lavoratori attraverso una fitta rete di norme di prevenzione cogenti per i datori di lavoro, le cui caratteristiche più salienti mi paiono queste:

a) le contravvenzioni alle norme antinfortunistiche venivano per lo più configurate come  reati di pericolo presunto. Il che comporta che è penalmente rilevante il comportamento di chi introduce nell’ambiente di lavoro macchine impianti o condizioni di lavoro irregolare, a prescindere dall’effettivo impiego, purchè si trovino in condizione di essere utilizzati;

b) le norme di prevenzione contenute nei DPR costituivano precetti dettati in vista di certe situazioni di rischio per le quali non è possibile una soluzione o un rimedio diversi da quelli dettati dal legislatore. Si tratta del requisito della tassatività delle norme, in conseguenza del quale non è consentito al datore di lavoro di proporre soluzioni alternative a quelle imposte dal legislatore, neppure se si riuscisse a provare che si tratta di soluzioni tecniche di pari efficacia:

c) la disciplina antinfortunistica approntata dal legislatore dei DPR si ispirava al criterio della cosidetta protezione oggettiva, nel senso che si è preoccupata di proteggere il lavoratore apprestando dispositivi e misure di sicurezza capaci di tutelarlo anche nelle situazioni che derivavano da imperizia, da negligenza e, addirittura, dall’imprudenza dello stesso lavoratore. Dunque il lavoratore viene protetto attraverso meccanismi oggettivi, quale che sia la sua preparazione o formazione specifica per il lavoro che è chiamato a svolgere.

 

2. Queste caratteristiche della legislazione degli anni ’50, insieme ad una applicazione puntuale e molto evoluta dell’art. 2087 del codice civile, hanno permesso di sviluppare un sistema di protezione della salute e dell’incolumità dei lavoratori di tutto riguardo, capace per molti lustri di costituire, specie per merito della Corte di Cassazione, un corpus  di sicuro riferimento in materia di prevenzione della sicurezza sul lavoro.

Ma la ragione più vera della enorme longevità delle norme solo di recente abolite dal Testo Unico sta nella tecnica della loro formulazione, cui il legislatore acutamente ha fatto ricorso, come sempre capita, perché costretto dalla forza delle cose. Il legislatore degli anni ‘50 si è trovato dinanzi alla pesantissima situazione lasciata dalla fine del  conflitto mondiale. Il patrimonio abitativo era stato distrutto, molte città rase al suolo, la produzione delle più importanti fabbriche era stata azzerata e si trattava di ricostruire urgentemente. Il primo obiettivo della ricostruzione non poteva essere che quello della ricostituzione del patrimonio abitativo. Le fabbriche in grado di riprendere il lavoro avrebbero usato le vecchie macchine di prima della guerra, ceto obsolete e superate, ma capaci ancora di produrre.

Ora quelle macchine, diversamente da quelle moderne, non avevano “la c.d. sicurezza integrata”; avevano invece un grado di pericolosità che era dato dalla accessibilità alle zone in cui ci sono gli organi in moto, dal rischio di finire con le mani negli imbocchi pericolosi e così via. L’unico modo di provvedere alla sicurezza di macchine per loro natura così insicure fu individuata dal legislatore nella necessità di “rivestirle” di sicurezza, di creare loro intorno un “involucro” che impedisse il contatto tra il lavoratore e gli organi pericolosi. Insomma l’obiettivo che appare evidente a chi scorra le norme del D.P.R. 547, era quello di tenere lontani i lavoratori dalle macchine. Ed ecco allora comparire nel corpo degli artt. del D.P.R. 547 l’esigenza di mettere “i ripari”, “le protezioni”, “i carter”; di istituire i “blocchi automatici” degli organi in moto, alimentare le macchine con “gli spingitoi” anziché con le mani e così via.

Ne è venuta fuori una legislazione fondata non già sugli accorgimenti tecnici o sulle caratteristiche intrinseche di sicurezza delle macchine, che come tutte le caratteristiche tecniche sarebbe stata destinata a essere superata nel tempo,  ma preoccupata soltanto di mettere distanza di sicurezza tra gli organi pericolosi e gli arti dei lavoratori. E’ chiaro che una legislazione di tal genere non è destinata ad invecchiare perché fondata sulla lapalissiana intuizione che, se il lavoratore non impegna le mani vicino agli organi pericolosi oppure ha le mani impegnate per provocare le operazioni della macchina, non può farsi male.

Questa è dunque la ragione per la quale fino al maggio 2008 i D.P.R. degli anni 50 hanno mantenuto intatto il loro vigore e la loro funzione all’interno dell’ordinamento prevenzionistico italiano.

 

La vigenza dei D.P.R. di cui abbiano parlato ha inoltre conosciuto un fenomeno tutto italiano. Le norme, improntate alla preoccupazione che sopra abbiamo sottolineato, sono rimaste di difficile applicazione nella stragrande maggioranza delle aziende italiane. Credo che non si sia verificato in nessuna parte di Europa che ancora dopo cinquant’anni molte aziende non riuscissero ad osservare le norme contenute nei D.P.R. Ma qui il discorso si allargherebbe all’esame del tasso di legalità che i nostri datori di lavoro sono stati in grado di esprimere negli anni. Tuttavia, anche se non può essere oggetto della presente trattazione, non vi è dubbio che questa scarsa disponibilità all’osservanza delle leggi da parte del mondo del lavoro deve essere tenuta in gran conto quando si tratta di capire l’evoluzione delle norme nel tempo e della loro applicazione.

 

3. La legislazione della prevenzione dopo gli anni ’50, come si è detto, è rimasta immobile per molti anni. Qualche sussulto si è avuto a metà degli anni ‘80 soprattutto per l’eco che alcune iniziative della CEE hanno prodotto anche in Italia. Ma è soltanto nei primi anni ‘90 che il legislatore italiano inizia a recepire le direttive europee in materia di sicurezza del lavoro. Il primo decreto legislativo ormai storico è stato il D.L. 277 del 1991 sui rischi derivanti da piombo, amianto e rumore. Per la prima volta irrompono nel nostro ordinamento espressioni e concetti che sono insoliti nella fino ad allora vigente filosofia della prevenzione. Si parla ora di valutazione dei rischi, si parla non più di eliminare i rischi ma anche di ridurli per quanto possibile; si introduce il concetto fondamentale  che occorre gestire il rischio e non soltanto averne paura. Non solo, ma si introduce l’idea fondamentale che qualunque programma di prevenzione deve far parte di un progetto che sia conseguente ad un’attenta valutazione delle condizioni e della tipologia di ogni produzione lavorativa. Infine vengono introdotti valori limite per ogni rischio, sulla scia di una tradizione (che non è italiana) secondo cui il valore limite è la condizione minimale per operare in sicurezza. L’interpretazione che subito se ne dà in Italia è invece quella di valore oltre il quale c’è l’illecito e al di qua del quale c’è il lecito.

Dopo pochi anni vengono introdotte nell’ordinamento italiano della prevenzione otto direttive comunitarie che costituiscono l’ossatura del D.L. 626. Il resto è storia recente che non ha bisogno di essere ripercorsa.

Basti dire che c’è un evidente continuità tra l’impianto e il senso profondo del decreto 626 e  il Testo Unico vigente n. 81/2008, modificato dal D.L. n.106 del 2009. Questa continuità non può essere offuscata neppure da alcuni strappi o regressioni che il nuovo testo ha operato  rispetto al decreto 626. E d’altra parte non si può tacere che il nuovo Testo Unico ha portato a compimento alcune delle intuizioni più fertili del decreto 626.

Il sistema che oggi ci troviamo di fronte ha alcune linee portanti di grande significato.

 

A) La prima linea portante è rappresentata dal ruolo e centralità del datore di lavoro. E’ noto che il decreto legislativo 626/94, riprendendo l’assetto risalente ai famosi DPR degli anni ’50, aveva, anche sulla scorta di un’imponente elaborazione giurisprudenziale, confermato la tradizionale triade dei soggetti titolari delle posizioni di garanzia della salute dei lavoratori e cioè datore di lavoro, dirigenti e preposti. Inoltre per la prima volta nel nostro ordinamento, aveva fornito la definizione di datore di lavoro, distinguendo il datore di lavoro pubblico dal datore di lavoro privato. E soprattutto aveva offerto una consacrazione normativa al criterio giurisprudenziale che considera preminente, rispetto al dato formale della qualifica assunta nell’organizzazione aziendale, l’effettivo svolgimento delle funzioni in materia di sicurezza. Talché, secondo la definizione contenuta nell’art. 2 del decreto 626, il datore di lavoro è non solo il titolare del rapporto di lavoro (criterio formale), ma comunque “il soggetto che secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa (criterio funzionale o sostanziale).

Il decreto legislativo 626 non si è limitato ad introdurre una definizione normativa della figura del datore di lavoro i cui contorni erano fino a quel momento affidati all’elaborazione giurisprudenziale, ma ha introdotto nuovi attori protagonisti della prevenzione in azienda: due del tutto nuovi, il servizio di prevenzione e protezione ambientale e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e uno, il medico competente, che già era stato introdotto dal d. 277/91 in materia di rischi da piombo amianto e rumore, ma che il d. 626 profondamente  ridefinisce nelle sue funzioni e nelle sue responsabilità. Ebbene, questi nuovi attori della prevenzione hanno competenze, hanno obblighi e responsabilità che sono caratterizzati da una stretta correlazione tra tutte le figure in campo, di modo che la sicurezza sui luoghi di lavoro è la risultante della collaborazione che deve esistere tra i vari soggetti della prevenzione.

Viene introdotto così il concetto di prevenzione come “sistema articolato”, che richiede la partecipazione di più soggetti e l’adozione di procedure e comportamenti rigidamente predeterminati dal legislatore. Questo carattere sistematico della prevenzione, che è la novità più saliente della legislazione di derivazione comunitaria, si è andato confermando nell’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza nei tre lustri di vigenza del decreto 626 ed ha trovato il suo punto di arrivo con il varo del Testo Unico n. 81/08.

 

In questo sistema il perno centrale è costituito dal datore di lavoro. Anche nella legislazione precedente si poteva parlare di centralità del datore di lavoro. Ma significato dell’espressione era tutto nel rilievo secondo cui, nella gerarchia dei soggetti tenuti per legge ad attuare le norme di sicurezza, il datore di lavoro occupava il primo posto. La centralità del datore di lavoro dopo il D. 626 scaturisce soprattutto dal fatto che il datore di lavoro non è più soltanto chiamato ad attuare le singole norme di prevenzione cui è obbligato, ma deve anche dotarsi di una rete organizzativa e gestionale i cui requisiti sono predeterminati dal legislatore.

Se in passato il datore di lavoro poteva discrezionalmente adottare il modello organizzativo della sicurezza che più gli piaceva, non dovendo rispondere d’altro che dell’attuazione dei singoli precetti della prevenzione, oggi egli deve:

*istituire obbligatoriamente il servizio di prevenzione e protezione aziendale

*nominare obbligatoriamente il responsabile di tale servizio

*procedere alla nomina del medico competente nei casi previsti dalla legge

*designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione degli incendi, dell’evacuazione rapida e del salvataggio, di pronto soccorso e di gestione dell’emergenza.

Deve insomma dotarsi di una rete organizzativa a struttura rigida che è l’espressione più eloquente del carattere sistematico che il legislatore ha voluto dare agli adempimenti di prevenzione della salute dei lavoratori.

Cose analoghe devono dirsi per quanto riguarda le modalità di gestione del modello di sicurezza adottato. Il datore di lavoro, cioè, non ha piena discrezionalità di gestire la sicurezza secondo i moduli che più gli aggradano, come se la sicurezza potesse ritenersi una variabile indipendente dell’assetto produttivo. Al contrario: gli articoli 28 e 29 del decreto gli impongono di procedere preventivamente alla valutazione di tutti i rischi aziendali, che è la premessa necessaria per la redazione di un documento in cui sono descritte le misure di prevenzione che devono adottarsi sulla scorta della valutazione effettuata. Non solo. Gli articoli 36 e 37 del decreto impongono ancora di fornire ai lavoratori una preventiva e adeguata formazione ed informazione su tutti i rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi all’attività dell’impresa.

E che altro sono la valutazione dei rischi, l’informazione e la formazione dei lavoratori, se non modalità obbligatorie di gestione del sistema di sicurezza aziendale? Ma -ha detto qualcuno- come si conciliano questi obblighi così penetranti di gestione e di organizzazione a carico del datore di lavoro con il principio costituzionale della libertà d’impresa? Ebbene, il legislatore ci impone di leggere il principio soprattutto alla luce del capoverso dell’articolo 41 della Costituzione, secondo cui l’iniziativa privata non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza alla libertà e alla dignità dei lavoratori. Le nuove norme del testo unico ci dimostrano infatti che la libertà d’impresa, che certamente caratterizza il nostro ordinamento, non può estendersi fino all’adozione di un modello di organizzazione del lavoro che subordini la tutela della salute ad altri interessi, pur legittimi.

Le numerose ragioni che ho esposto stanno a fondamento di questa “nuova centralità” del datore di lavoro che emerge dall’attuale assetto normativo. Al centro del sistema di sicurezza aziendale  sta il datore di lavoro senza il quale non può essere neppure pensata l’istituzione del sistema di sicurezza. La legge vuole cioè che il datore di lavoro sia non solo il promotore del sistema di sicurezza, ma anche il regista e il controllore attento dell’attuazione delle misure adottate in una concezione dinamica ed attenta ai mutamenti delle condizioni produttive.

 

B) Il servizio di prevenzione e protezione aziendale. La seconda linea portante del sistema di sicurezza è data dall’istituzione del servizio di prevenzione e protezione, interno o esterno all’azienda. E’ bene precisare da subito i compiti e la natura del servizio nonché le sue responsabilità, perchè l’applicazione pratica che si è fatta di questo istituto è assai deludente rispetto alla costruzione normativa.

Intanto è da chiarire che la legge ha voluto istituire una linea meramente consultiva, del tutto svincolata da compiti di attuazione delle singole norme. Il servizio di prevenzione ed il suo responsabile sono consulenti del datore di lavoro, non hanno obblighi penalmente sanzionati e non sono punibili in caso di mancata attuazione delle norme di prevenzione. A riprova della particolare collocazione che il legislatore ha riservato al servizio vi è il contenuto dell’art. 33 che enumera i compiti del servizio di prevenzione (“compiti”, si badi, e non “obblighi”). Vi si rinvengono compiti di individuazione e valutazione del rischio, compiti di elaborazione delle misure di prevenzione, compiti di studio e di proposta, compiti di partecipazione alle consultazioni, compiti di formulazione dei programmi di formazione ecc., ma non si prevedono mai obblighi di fare. Dunque per quanto i compiti del servizio siano dal punto di vista tecnico vitali per il buon andamento della sicurezza in azienda, tuttavia il responsabile e i membri del servizio non diventano soggetti attivi della prevenzione aziendale.

Naturalmente la irresponsabilità penale dei membri del servizio in ordine all’applicazione delle norme di sicurezza (applicazione che spetta al datore di lavoro e alla sua linea operativa) non significa che essi siano immuni da censure tutte le volte che con la loro azione od omissione abbiano cagionato un evento dannoso. Essi, come tutti i tecnici, risponderanno per colpa professionale derivante dall’ignoranza o dall’incapacità nell’esercizio del loro mestiere.

Se i contorni normativi della figura sono chiari, la pratica attuazione è deludente. Soprattutto ha preso piede la pessima prassi di attribuire alla nomina del RSPP un effetto liberatorio del datore di lavoro, come se la nomina di un fondamentale collaboratore e consulente potesse essere l’occasione per trasferire su di lui gli obblighi del datore di lavoro. Si è pensato insomma che quella nomina potesse equivalere ad un atto di delega con conseguente responsabilizzazione del consulente. Naturalmente questa costruzione è del tutto errata e non ha trovato molte adesioni nella giurisprudenza che ha stabilito più volte che il RSPP , in quanto tale, non può essere ritenuto responsabile dell’attuazione delle norme di sicurezza. E’ accaduto allora che molti datori di lavoro abbiano attribuito al RSPP deleghe precise ed efficaci rispettose dei requisiti che la giurisprudenza aveva elaborato perché si potesse parlare di deleghe efficaci. E conseguentemente una parte della giurisprudenza ha ritenuto le deleghe conferite al RSPP produttive di effetti giuridici, condannando il delegato. Dico molto francamente che questa soluzione non mi convince. Infatti nell’ipotesi in cui il RSPP venga incaricato dell’attuazione delle misure di prevenzione con apposita delega, vi sarebbe una irrimediabile commistione tra la linea consultiva e la linea operativa, attraverso la designazione di un soggetto che contestualmente avrebbe compiti di consulenza  del datore di lavoro e di attuazione delle norme di prevenzione in sostituzione del datore di lavoro. Ma la scelta del legislatore è stata di segno opposto: quella di rendere obbligatoria nel luogo di lavoro l’istituzione di un servizio che ha il ruolo di consulente e di consigliere del datore di lavoro in materia di sicurezza e che non sia in alcun modo coinvolto nell’attuazione delle misure di sicurezza. Se così non fosse verrebbe meno la ragione prima dell’istituzione di un servizio di consulenza e si vanificherebbe la ratio dell’innovazione legislativa. In pratica avremmo un dirigente sostanzialmente incaricato di compiti per la sicurezza con lo spolverino della nomina a RSPP. E davvero non mi pare essere questa la volontà del legislatore.

 

C) La valutazione dei rischi in azienda. Si tratta di un altro elemento essenziale del sistema di sicurezza voluto dalla legge, che, insieme all’istituzione del servizio di prevenzione costituisce una profonda innovazione della normativa in materia. E’ infatti il servizio ad avere il compito di effettuare una puntuale analisi dei processi di lavoro al fine di valutare i rischi ed individuare correttamente le misure di prevenzione più efficaci per eliminarli alla fonte o ridurli  per quanto possibile. Dal momento in cui il D. 626 ha introdotto l’obbligo di valutazione dei rischi credo si possa dire che tutela della salute e organizzazione del lavoro sono diventati intimamente interdipendenti.

Non vi è dubbio che l’impatto delle nuove norme sull’organizzazione aziendale è stato traumatico, anche per la scarsa abitudine dei datori di lavoro in Italia di considerare l’organizzazione della sicurezza come parte integrante della strategia produttiva: si trattava di formalizzare una serie di obblighi e responsabilità in materia di sicurezza nei vertici aziendali; di aggiungere competenze tecniche specifiche in materia di salute dei lavoratori: di promuovere ed avviare procedure di interazione e consultazione dei vari soggetti impegnati nella prevenzione; di valutare i rischi e redigere un documento di prevenzione da aggiornare costantemente; si trattava insomma di tradurre coattivamente in pratica quanto il legislatore aveva stabilito in astratto. Tutto ciò non poteva non avere conseguenze sull’organizzazione aziendale nel suo complesso, perché ha significato la necessità di considerare e progettare la sicurezza come momento ineliminabile dell’intera organizzazione aziendale.

Tutto ciò era certamente nella ratio della valutazione dei rischi introdotta con il d. 626/94. Ma il passaggio formale che impone i correlativi obblighi lo troviamo realizzato nel decreto 81 e nel decreto correttivo 106. Basti leggere gli artt. 28 e 29 del decreto per rendersi conto dell’incisività con cui il legislatore pretende che nel documento di valutazione dei rischi debbano essere individuate le procedure per  l’attuazione delle misure di prevenzione e i ruoli dell’organizzazione aziendale che vi devono provvedere.

Ma soprattutto con l’articolo 30 il legislatore il legislatore adotta un modello che è prima di tutto culturale e poi tecnico-scientifico, secondo il quale la sicurezza sul lavoro è inscindibile dalla progettazione organizzativa e dal sistema organizzativo adottato. E così l’articolo 30 non solo prospetta la non assoggettabilità alle sanzioni amministrative per coloro che dimostrano di avere adottato un adeguato modello di gestione della sicurezza, ma finisce per rendere giuridicamente rilevante l’adozione del modello organizzativo visto come un esimente della responsabilità penale.

 

4. Abbiamo descritto un modello legislativo attualmente vigente che contiene significative indicazioni capaci di fare ripartire non solo l’elaborazione culturale dei temi della prevenzione ma anche di alzare definitivamente il livello dell’attuazione pratica delle regole di sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro.

Tuttavia il panorama che abbiamo tracciato non sarebbe completo se non si ponessero in luce anche le scelte del legislatore che, sia nel Testo del 2008 che in quello del 2009, hanno in qualche modo indebolito il disegno complessivo e talvolta inferto un colpo notevole ad alcuni principi che sembravano ormai acquisiti nell’ordinamento giuridico italiano.

Il primo strappo si verifica nella costruzione della figura del medico competente. Il quale, già dalla definizione di cui all’art. 2 lett.h), subisce una notevole torsione rispetto alla figura disegnata nel decreto 626, giacchè viene individuato come il medico che “collabora, secondo quanto previsto dall’art. 29 comma 1, con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria”. Sembra dunque che venga valorizzata la funzione di consulente del datore di lavoro soprattutto per ciò che riguarda il processo di valutazione dei rischi, piuttosto che la sua funzione tecnica di medico che provvede al rilascio dei giudizi di idoneità. Ci si sarebbe aspettati, coerentemente con la tradizionale costruzione del collaboratore consulente del datore di lavoro che, per questa sua funzione, il medico competente non subisse alcuna sanzione. E invece all’art. 58 il medico competente è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da 400 a 1.600 euro per la violazione dell’art. 25 comma 1 lett. a) con riferimento esplicito alla mancata collaborazione nella valutazione dei rischi.

E’ difficile capire a quale esigenza risponda questa scelta del legislatore. I più superficiali potrebbero pensare che la sanzione possa servire a responsabilizzare maggiormente il medico nella fase della valutazione dei rischi. In realtà si colpisce il medico per una responsabilità che non può essergli attribuita. Infatti la gestione dell’intero processo di valutazione del rischio sfugge al  medico competente il quale non può prendere l’iniziativa, né può obbligare il datore di lavoro a consultarlo. E’ vero il contrario: che il datore di lavoro può “obbligare” il medico competente a partecipare alla valutazione dei rischi dal momento che egli ha in mano l’arma formidabile della sua sostituzione. Poiché nel nostro ordinamento vige il principio della responsabilità personale nel diritto penale ci si chiede quale obbligo il medico competente abbia in materia di valutazione dei rischi che non è, come è noto, obbligo principale del medico competente, ma del datore di lavoro. Con la stessa logica distorta, ed a maggior ragione, si sarebbe dovuto sanzionare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione aziendale in caso di omessa o malfatta valutazione dei rischi.

 

5. Il secondo strappo è stato consumato dal decreto correttivo 106/09 e riguarda la sorveglianza sanitaria sotto la forma dell’introduzione delle visite mediche preventive in fase cosiddetta preassuntiva. Occorre sapere che fino ad ora il nostro ordinamento ha bandito le visite mediche preassuntive, facendone esplicito divieto  anche nella prima formulazione dell’art. 41 del T.U. Con il decreto 106 invece vengono introdotte al comma 2 le lett. e bis ed e ter che introducono rispettivamente la visita medica preventiva in fase preassuntiva e la visita medica precedente alla ripresa del lavoro quando l’assenza si sia protratta per oltre 60 giorni.

Ora il divieto della visita medica prima dell’assunzione costituiva un punto fermo dell’ordinamento per effetto dell’art. 5 dello Statuto dei Lavoratori  che faceva divieto al medico privato di effettuare visite sulla salute di chi non era ancora stato assunto. Unico medico deputato a verificare l’idoneità dell’aspirante lavoratore era il medico pubblico. Si trattava di un istituto di garanzia che preservava il lavoratore da possibili discriminazioni o da possibili accertamenti invasivi dello spazio di privatezza e di libertà personale. Ora, per la discutibile innovazione del legislatore, è possibile che il medico del datore di lavoro possa valutare le caratteristiche di idoneità al lavoro prima dell’assunzione. Vero è che la legge continua a mantenere il divieto di visite mediche ad opera del medico privato per accertare stati di gravidanza o negli altri casi che la normativa vigente rende espliciti. Ma si tratta di una clausola che rispetta solo formalmente i principi costituzionali.

Chi sa di cosa si parla, vede bene il pericolo che si possa coi mezzi odierni costituire una gigantesca banca dati contenente elementi assolutamente riservati e che comunque attengono agli aspetti più intimi della personalità. Un legislatore appena più sensibile ai valori costituzionali si sarebbe risparmiato questo scivolone. Ma temo che ormai degli scivoloni di questo tipo si accorgano in pochi.

 

 

 

Beniamino Deidda


in Ambiente e Lavoro nn. 1-2/2010.