- Datore di Lavoro
- Cantiere Temporaneo e Mobile
- Informazione, Formazione, Addestramento
- Infortunio sul Lavoro
Responsabilità del legale rappresentante di una s.r.l. e del direttore del cantiere aperto dalla società presso una scuola elementare, per colpa consistita nella omessa fornitura al personale dipendente di attrezzature adeguate e di informazioni specifiche sui lavori da svolgere.
La legale rappresentante era stata tratta a giudizio anche per aver omesso l'aggiornamento delle procedure di sicurezza.
Era infatti accaduto che un lavoratore, nel corso della installazione di un giunto a T ad un'altezza di circa 2 metri e 30 centimetri dal suolo - lavoro effettuato a mezzo di una scala doppia priva di uno spazio libero idoneo a permettere i normali movimenti all'operatore, nonchè di una chiave inglese lunga centimetri 85, del peso di 5 chilogrammi, e quindi non agevolmente maneggevole - aveva perso l'equilibrio ed era rovinato a terra, decedendo a seguito della violenta caduta - Sussiste.
La Corte afferma che:
"Le critiche relative al merito del giudizio di colpevolezza, articolate nel primo e nel secondo motivo, non hanno fondamento.
Il nucleo argomentativo centrale intorno al quale esse ruotano è la modestia dell'altezza dal suolo alla quale doveva essere eseguita l'operazione e dunque l'insussistenza di qualsivoglia profilo di colpa, sia generica che specifica, nell'aver consentito che il lavoratore, per svolgerla, si avvalesse di una scala doppia.
In definitiva, secondo il punto di vista degli impugnanti, il sinistro, ove non imputabile a un malore del dipendente, sarebbe stato una imprevedibile e disgraziata fatalità.
Il collegio non condivide siffatta impostazione."
"In realtà, trattandosi di un lavoro da svolgere comunque in quota, ancorchè modesta, e la conseguente, pacifica "utilità" dell'uso di un mezzo che ne agevolasse l'espletamento, il rischio di caduta era evidentemente in re ipsa, sicchè le critiche mosse dagli impugnanti all'omesso esame del "necessario profilo della prevedibilità dell'evento" appaiono fuorvianti e speciose.
Per altro verso il decidente, considerato che l'operazione di avvitamento del giunto, a mezzo di una chiave inglese di notevole peso, plausibilmente comportava l'oscillazione del corpo del lavoratore, ha compiutamente esplicitato le ragioni per le quali, a suo giudizio, la scala fornita al D.S. era inadeguata a garantirne la stabilità, per l'insufficiente larghezza degli scalini e l'inesistenza di appoggi ai quali un operatore, che avesse entrambe le mani occupate, potesse aggrapparsi, laddove l'esecuzione in sicurezza dell'incombente avrebbe richiesto, oltre all'apprestamento delle opportune informazioni, l'uso di un qualunque impalcato fisso e con spazio di calpestio idoneo a permettere l'agevole spostamento dei piedi."
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente -
Dott. GALBIATI Ruggero - Consigliere -
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
1) M.A., N. IL (OMISSIS);
2) B.R., N. IL (OMISSIS);
3) MA.SA. S.R.L.;
avverso SENTENZA del 23/04/2004 CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. AMENDOLA ADELAIDE;
Udito il Procuratore Generale, Dott. Bua Francesco, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
Udito per le parti civili l'avvocato Maccioni Stefano che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Udito per il responsabile civile l'avvocato Carriero Marcello, che ha chiesto l'assoluzione degli imputati con la formula "perchè il fatto non costituisce reato" e, in subordine, l'annullamento con rinvio;
Udito per i ricorrenti M. e B. l'avvocato Carmona Angelo, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
In motivazione osservava il giudicante, per quanto qui interessa, che non erano condivisibili le critiche mosse al convincimento maturato dal giudice di prime cure in ordine all'impossibilità di ricondurre il sinistro a un malore della vittima, essendo tale assunto resistito dai "motivi di natura scientifica e a carattere obbiettivo" esposti nella sentenza impugnata.
Lamentano segnatamente i ricorrenti la mancata risposta da parte del giudice di appello alle numerose problematiche sollevate nei motivi di gravame, sbrigativamente liquidate con la sola notazione della insufficienza della superficie di appoggio offerta dal gradino della scala utilizzata. Rilevano quindi che, considerata la modestia dell'altezza alla quale doveva essere svolto il lavoro (pari a 2 metri e 30 centimetri, raggiungibile agevolmente anche rimanendo con i piedi a terra, da parte di un operatore dell'altezza del D. S.), nonchè la semplicità dell'operazione di avvitamento del giunto a T, praticabile in pochi secondi e con una sola mano, l'affermazione della loro colpevolezza appariva effettuata sulla base di una norma cautelare formulata ex post, in contrasto con le regole che presidiano la responsabilità colposa e con le emergenze istruttorie, univocamente indicative dell'adempimento dell'obbligo di sorveglianza e della assoluta routinarietà della lavorazione.
Aggiungono che, considerate le circostanze del caso concreto, l'allestimento di un tavolato o piano di calpestio a un'altezza adeguata al comodo espletamento dell'incombente, costituiva onere ancor più pressante di quello prescritto dal D.Lgs. n. 626 del 1994 artt. 36 bis, introdotto nel 2003 ma in vigore dal 19 luglio 2005 (e ora trasfuso nel D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 111), norma in base alla quale l'utilizzazione di una scala a pioli per lavori in quota è consentita quando quella di altre attrezzature non appare giustificata "a causa del limitato livello di rischio e della breve durata dell'impiego oppure delle caratteristiche" di siti che non sia possibile modificare.
Il nucleo argomentativo centrale intorno al quale esse ruotano è la modestia dell'altezza dal suolo alla quale doveva essere eseguita l'operazione e dunque l'insussistenza di qualsivoglia profilo di colpa, sia generica che specifica, nell'aver consentito che il lavoratore, per svolgerla, si avvalesse di una scala doppia.
In definitiva, secondo il punto di vista degli impugnanti, il sinistro, ove non imputabile a un malore del dipendente, sarebbe stato una imprevedibile e disgraziata fatalità.
Il collegio non condivide siffatta impostazione.
Merita preliminarmente ricordare che, per giurisprudenza consolidata di questo Supremo Collegio, allorchè le sentenze di primo e di secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello - tanto più laddove, come nella fattispecie, il giudice del gravame si richiami espressamente e integralmente alla ricostruzione dei fatti operata dal primo decidente, limitandosi all'analisi critica delle doglianze prospettate dall'impugnante - si salda con quella precedente per formare un unico, complesso corpo argomentativo" (Cass. pen., sez. 1, 26 giugno 2000, n.8868).
Per altro verso il decidente, considerato che l'operazione di avvitamento del giunto, a mezzo di una chiave inglese di notevole peso, plausibilmente comportava l'oscillazione del corpo del lavoratore, ha compiutamente esplicitato le ragioni per le quali, a suo giudizio, la scala fornita al D.S. era inadeguata a garantirne la stabilità, per l'insufficiente larghezza degli scalini e l'inesistenza di appoggi ai quali un operatore, che avesse entrambe le mani occupate, potesse aggrapparsi, laddove l'esecuzione in sicurezza dell'incombente avrebbe richiesto, oltre all'apprestamento delle opportune informazioni, l'uso di un qualunque impalcato fisso e con spazio di calpestio idoneo a permettere l'agevole spostamento dei piedi.
In tale contesto i pur dotti rilievi sulla insussistenza di una norma di prevenzione che, nella fattispecie, vietasse l'uso della scala "a libretto", non hanno pregio, perchè inconferenti rispetto alla niente affatto illogica valutazione in termini di specificità della lavorazione della quale era incaricato il D.S., e, conseguentemente, di inadeguatezza dell'attrezzo che nell'occorrenza gli venne fornito.
A ciò aggiungasi che la pista ricostruttiva del malore del dipendente, come causa, piuttosto che effetto dell'evento letale, lungi dall'essere stata ignorata, è stata scartata sulla base di un esame completo ed esaustivo del materiale istruttorio, e segnatamente dei rilievi formulati dal consulente medico.
Le critiche dell'impugnante non valgono quindi a insidiare la tenuta logica dei criteri di apprezzamento seguiti dal giudice di merito, tanto più che nel giudizio di legittimità sono inammissibili i motivi di ricorso che si risolvano nella prospettazione di una diversa lettura del contesto probatorio, non essendo la Cassazione giudice delle prove, ma giudice della correttezza dell'interpretazione del materiale istruttorio e dell'esistenza di un plausibile e coerente apparato argomentativo a sostegno della scelta operata in dispositivo dal giudicante.
2.2 Fondate sono invece le critiche sviluppate nel terzo motivo di ricorso.
La sentenza di appello ha negato che in quella di primo grado ci fosse stata pronuncia sul concorso di colpa, per tal via pervenendo alla declaratoria di inammissibilità del gravame col quale le parti civili ne avevano contestato il riconoscimento.
Il collegio non condivide la lettura degli atti processuali che è alla base di siffatta decisione.
In proposito mette conto evidenziare che il carattere unitario della sentenza e il principio della naturale, vicendevole integrazione tra motivazione e dispositivo,comporta che non sempre la divergenza tra l'una e l'altro possa tout court essere risolta con il criterio della prevalenza del secondo sulla prima.
E invero, pur avendo il dispositivo il carattere di immediata espressione della volontà decisoria del giudice, la motivazione conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni per cui il giudice è pervenuto alla decisione e pertanto ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso (confr. Cass. pen., sez. 4, 13 dicembre 2004, n.7643).
Nella fattispecie alla secca operatività del criterio per cui il dispositivo letto in udienza, in quanto "attuazione della volontà della legge nel caso concreto", rende irrilevanti le statuizioni diverse o comunque ulteriori contenute nella motivazione, si oppone la considerazione che il riconosciuto concorso di colpa della vittima nella causazione dell'incidente ha avuto sicura incidenza nella concessione delle attenuanti generiche e quindi nella individuazione dello stesso trattamento sanzionatorio.
Non appare pertanto condivisibile l'assunto che nella sentenza di primo grado non vi fosse stata pronuncia sul concorso di colpa della persona offesa. Ed è di immediata evidenza l'interesse dei ricorrenti al riconoscimento della sua esistenza.
Consegue da tanto che la sentenza impugnata deve essere annullata nella parte in cui il giudice del gravame ha dichiarato inammissibili gli appelli proposti dalle parti civili, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma.
I ricorsi devono nel resto essere rigettati.
La parziale, reciproca soccombenza, giustifica la compensazione tra le parti delle spese del grado.
Rigetta nel resto i ricorsi.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questo grado del giudizio.
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2008