Cassazione Penale, Sez. 5, 08 giugno 2022, n. 22278 - Falsa attestazione di non aver commesso gravi infrazioni alle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro nell'offerta di partecipazione a gara pubblica
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: CAPUTO ANGELO Data Udienza: 11/05/2022
Fatto
1. Con sentenza deliberata il 14.4.2021, la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza del 18.7.2019 con la quale il tribunale di Milano, all'esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato G.P. responsabile del reato di cui all'art. 483 cod. pen. (perché, quale legale rappresentante dell'impresa "Carrozzerie Giusti", nell'offerta di partecipazione a gara pubblica inoltrata al Reparto tecnico Logistico Amministrativo Lombardia il 18/08/2018, allegava la dichiarazione sostitutiva di certificazione e di atto di notorietà relativa al possesso dei requisiti di legge, in cui attestava falsamente di non aver commesso gravi infrazioni alle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, nonché agli obblighi di cui all'art. 30 d. lgs. n. 50 del 2016, essendo stato condannato nel 2017 in via definitiva per il reato di cui all'art. 137 d. lgs. n. 162 del 2006) e lo aveva condannato alla pena di giustizia.
2. Avverso l'indicata sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione G.P., attraverso i difensori Avv.ti Gianfranco Giunta e Simona Polimeni, articolando cinque motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo denuncia inosservanza degli artt. 121 e 649 cod. proc. pen. e 483 cod. pen., in relazione agli artt. 80 e 213, d. lgs. 18 aprile 2016, n. 150 e all'art. 11 della legge n. 689 del 1981, avendo la sentenza impugnata dichiarato inammissibile la richiesta difensiva, proposta oralmente e attraverso una memoria, di declaratoria del ne bis in idem in relazione all'irrogazione per lo stesso fatto di una sanzione amministrativa da parte dell'ANAC.
2.2. Il secondo motivo denuncia inosservanza dell'art. 546 cod. proc. pen. e degli artt. 43 e 483 cod. pen., in relazione agli artt. 80 e 213 d. lgs. n. 50 del 2016 e all'art. 11 della legge n. 689 del 1981. A fronte della decisione dell'ANAC, che aveva qualificato la condotta in termini di colpa grave, irrogando il minimo della sanzione, considerata la definitività della stessa delibera dell'ANAC, la difesa aveva chiesto l'esclusione del dolo con motivi aggiunti, ma la Corte di appello si è limitata a rilevare la non vincolatività della delibera indicata, senza spiegare le ragioni per cui essa, frutto dei medesimi elementi confluiti nel processo penale, non avrebbe potuto spiegare i propri effetti favorevoli per l'imputato.
2.3. Il terzo motivo denuncia inosservanza dell'art. 546 cod. proc. pen. e degli artt. 43 e 483 cod. pen., in quanto la sentenza impugnata non si è confrontata con i motivi di appello relativi alla dedotta insussistenza del fatto e al carattere colposo e non doloso della condotta.
2.4. Il quarto motivo denuncia vizi di motivazione in relazione agli artt. 192 e 546 cod. proc. pen. e agli artt. 43 e 483 cod. pen. L'illogicità della motivazione della sentenza impugnata emerge dal riferimento alla gravità del reato per il quale G.P. aveva riportato condanna, che, in realtà, consisteva in un decreto penale di condanna per il reato di cui all'art. 137 d. lgs. 152 del 2016, violazione, attinente a reato ambientale, che non ricade nell'ambito della "grave infrazione", ossia nella locuzione utilizzata nell'autodichiarazione incriminata.
L'illogicità della motivazione, inoltre, emerge dall'omessa valutazione globale delle prove in atti, tra le quali l'interrogatorio di G.P. dinanzi al GUP, dove aveva affermato di aver inteso il decreto penale di condanna all'ammenda come una sanzione non avente i caratteri di una condanna penale stricto sensu.
2.5. Il quinto motivo denuncia inosservanza degli artt. 43, 483, 131-bis, 133 cod. pen., in relazione al diniego di applicazione della causa di non punibilità della lieve entità del fatto.
Diritto
1. Il ricorso è solo parzialmente fondato.
2. Il primo motivo è inammissibile.
In limine, mette conto ribadire che, in tema di ricorso per cassazione, qualora sia sottoposta al vaglio del giudice di legittimità la correttezza di una decisione in rito, la Corte stessa è giudice dei presupposti della decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, quale che sia il ragionamento esibito per giustificarla (Sez. 5, n. 17979 del 05/03/2013, Iamonte, Rv. 255515); infatti, se è censurata l'applicazione di una norma processuale, non ha alcuna rilevanza, in sede di legittimità, il fatto che tale scelta sia stata, o non, correttamente motivata dal giudice di merito, atteso che, quando viene sottoposta al giudizio della Corte suprema la correttezza di una decisione in rito, la Corte stessa è giudice dei presupposti della decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, quale che sia il ragionamento esibito per giustificarla (Sez. 5, n. 15124 del 19/03/2002, Ranieri, Rv. 221322).
Ciò premesso, rileva la Corte l'assoluta genericità del motivo, che (così come la memoria prodotta al giudice di appello in esso trasfusa) si limita a invocare in ne bis in idem senza fornire alcuna specifica allegazione in ordine ai presupposti di applicabilità dello stesso. La stessa attribuibilità alla sanzione irrogata da Anac della natura "sostanzialmente penale" è evocata attraverso il mero richiamo ai cc.dd criteri Engel, in carenza di alcuna disamina dei profili contenutistici e funzionali della sanzione stessa. Ma la genericità della doglianza si rivela ancor più evidente con riguardo alla fattispecie concreta, rispetto alla quale l'irrevocabilità della sanzione irrogata da Anac è sono enunciata nel ricorso (peraltro nel corpo di un diverso motivo), in assenza di alcuna allegazione a sostegno; nessuna indicazione è prospettata al fine di verificare la sussistenza o meno di un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, per riprendere l'espressione della più recente giurisprudenza della Corte EDU, tra i diversi procedimenti in questione; infine, nessuna deduzione è articolata con riguardo all'entità della sanzione complessivamente irrogata, avendo anzi rimarcato il ricorso il carattere del tutto contenuto della sanzione Anac. L'assoluta genericità della doglianza rende ragione dell'inammissibilità del motivo.
3. Il secondo motivo è manifestamente infondato. La Corte di appello, come si vedrà in sede di scrutinio degli ulteriori motivi, ha esaminato il tema della riconoscibilità in capo all'imputato del dolo del falso, ma ha correttamente ritenuto non vincolante la valutazione fatta dall'autorità amministrativa e, dunque, non necessario il confronto con la relativa motivazione, il che rende ragione della evidente. inconsistenza della censura del ricorrente in merito alla mancata disamina di tale motivazione, resa in un procedimento amministrativo governato da finalità e valutazioni proprie dell'autorità amministrativa.
4. Il terzo e il quarto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro riferibilità agli elementi costitutivi del reato e per la parziale sovrapponibilità delle doglianze, non meritano accoglimento.
4.1. Muovendo, in ordine di priorità logico-giuridica, dalle censure attinenti alla sussistenza del fatto, il ricorso, in estrema sintesi, contesta la riconducibilità del fatto-reato per il quale G.P. ha riportato condanna nel novero delle "gravi infrazioni debitamente accertate" oggetto della falsa dichiarazione. Le censure non sono fondate.
Il ricorso insiste - sia nel terzo motivo (con la riproduzione del corrispondente motivo di appello), sia nel quarto - sul rilievo che il processo per violazioni della normativa ambientale si era concluso con l'irrogazione dell'ammenda, ma per le due fattispecie contestate è comminata la pena congiunta dell'arresto e dell'ammenda (comma 5) e solo quella dell'arresto (comma 8), sicché è la conversione dell'arresto che - come riconosce lo stesso ricorso - ha determinato l'irrogazione della sola pena pecuniaria ; d'altra parte, dal decreto penale di condanna allegato al ricorso risulta che l'iter commisurativo ha preso le mosse dalla pena di giorni 60 di arresto, oltre alla pena pecuniaria, laddove per i fatti di cui alla prima parte del comma 5 dell'art. 137 del d. lgs. n. 12 del 2006 è comminata la pena detentiva dell'arresto fino a due anni, sicché quella individuata è senz'altro superiore al minimo edittale sancito dall'art. 26 cod. pen. Del tutto assertivi sono poi i riferimenti ai connotati delle condotte, laddove il richiamo alla concessione dei benefici di legge opera un'indebita traslazione dal piano delle valutazioni penalistiche a quelle afferenti un obbligo di autodichiarazione; del resto, come si evince dalla sentenza di primo grado, che si integra con quella conforme di secondo grado (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv . 209145), l'impresa di G.P. si era aggiudicata (sia pure provvisoriamente) la gara, dalla quale fu poi esclusa proprio per l'accertamento della precedente condanna; il ricorso si sofferma sulle valutazioni di Anac, ma trascura di considerare quelle, non certo irrilevanti, dell'autorità appaltante.
4.2. Del pari infondate sono le doglianze relative alla sussistenza del dolo. La Corte di appello ha puntualmente trattato il punto, rilevando che la condotta di G.P. non può essere addebitata a mera colpa, ma deve ascriversi alla consapevole scelta di omettere di informare l'ente appaltante dell'esistenza a suo carico di un decreto penale di condanna divenuto esecutivo e avente a oggetto un reato in materia ambientale. La sentenza di primo grado, richiamata adesivamente da quella conforme di appello, ha sottolineato, a sostegno della riconoscibilità del dolo in capo all'imputato, la natura penale della condanna (che smentiva la tesi difensiva sostenuta dall'imputato), la vicinanza temporale rispetto alla partecipazione alla gara, l'attinenza della condanna taciuta alla specifica attività professionale di G.P.: elementi, questi, che conducono a escludere che l'imputato non avesse colto la natura del provvedimento di condanna emesso nei suoi confronti.
Le doglianze del ricorso non inficiano la tenuta dell'apparato giustificativo delineato dai giudici di merito. Il riferimento all'ammenda non priva il provvedimento sanzionatorio (un decreto "penale" di condanna e non una sentenza di patteggiamento al quale fa riferimento il precedente di questa Corte richiamato dal ricorso) e il relativo illecito della sua natura penale, tanto più che la pena pecuniaria è stata irrogata, come si è detto, all'esito della conversione di quella detentiva. Gli ulteriori elementi sono presi in considerazione dal ricorrente in modo parcellizzato, laddove, complessivamente considerati, danno corpo a un accertamento - quello appunto sul dolo - che, per sua natura, deve far leva su dati esteriori e obiettivi, valutati, nella loro valenza dimostrativa, sulla base di massime di esperienza: ossia, su un modus procedendi, che «consiste nell'inferire da circostanze esteriori significative di un atteggiamento psichico l'esistenza di una rappresentazione e di una volizione, sulla base di regole di esperienza» (Sez. 6, n. 2800 del 08/02/1995, Rv. 200809, in motivazione); modus procedendi al quale si sono attenuti i giudici di merito, disattendendo la tesi difensiva (prospettata anche dall'imputato) sulla base di una motivazione in linea con i dati probatori richiamati ed esente da vizi logici.
5. Il quinto motivo è fondato . Si deve alle Sezioni unite di questa Corte (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj) una compiuta ricostruzione dell'istituto della causa di non punibilità ex art. 131 bis cod. pen. e dei parametri valutativi sui quali fondare il giudizio di particolare tenuità del fatto. Tale giudizio richiede «una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen.», ossia «una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta» e «non solo di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto». Sottolinea poi Sez. U, Tushaj che il richiamo normativo alla necessità di compiere le valutazioni in questione alla luce dell'art. 133, primo comma, cod. pen. «mette in campo, oltre alle caratteristiche dell'azione e alla gravità del danno o del pericolo, anche l'intensità del dolo e il grado della colpa»: «essendo richiesta la ponderazione della colpevolezza in termini di esiguità e quindi la sua graduazione, è del tutto naturale che il giudice sia chiamato ad un apprezzamento di tutte le rilevanti contingenze che caratterizzano ciascuna vicenda concreta ed in specie di quelle afferenti alla condotta». Un analogo approccio, rilevano le Sezioni unite, deve riguardare la ponderazione dell'entità del danno o del pericolo, rispetto alla quale «nessuna precostituita preclusione categoriale è consentita, dovendosi invece compiere una valutazione mirata sulla manifestazione del reato, sulle sue conseguenze»: in questa prospettiva, «l'esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza» e ben potrà accadere che «si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente»; discende da ciò la conclusione che «la valutazione inerente all'entità del danno o del pericolo non è da sola sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità del fatto».
La sentenza impugnata ha fatto esclusivo riferimento all'ingente valore della gara di appalto alla cui aggiudicazione era funzionale la falsa dichiarazione (euro 140 mila), ma si è sottratta al puntuale «apprezzamento di tutte le rilevanti contingenze che caratterizzano ciascuna vicenda concreta». Ne consegue che, in parte qua, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, mentre nel resto il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente all'art. 131 bis cod. pen., con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 11/05/2022.