Cassazione Penale, Sez. 4, 21 giugno 2022, n. 23809 - Caduta dalla scala durante un lavoro in quota "in nero". Definizione di "lavoratore"
Presidente: DOVERE SALVATORE
Relatore: CAPPELLO GABRIELLA
Data Udienza: 11/05/2022
Fatto
1. La Corte d'appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Siena, con la quale M.M. era stato condannato - nella qualità di datore di lavoro di B.E.H. - per il reato di cui all'art. 590, cod. pen. ai danni del predetto lavoratore, aggravato dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare: dell'art. 18, comma 1, lett. f), d. lgs. n. 81 del 2008, non avendo fornito al lavoratore, impegnato su sua richiesta in un lavoro in quota, i mezzi di protezione adeguati rispetto alla prestazione lavorativa; dell'art. 18, comma 1, lett. g), stesso decreto, per non aver sottoposto il lavoratore a sorveglianza sanitaria; dell'art. 20, comma 2, lett. h), stesso decreto, per non avere formato il lavoratore. Nella specie, secondo l'editto accusatorio recepito dai giudici del merito, il M.M. aveva incaricato la persona offesa di eseguire "in nero" la rimozione di un pergolato antistante l'esercizio di ristorazione gestito dall'imputato, fornendogli all'uopo la scala dalla quale il lavoratore cadeva, mentre era intento nello svolgimento della mansione assegnatagli (in Colle Val d'Elsa il 10/3/2013).
2. Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso l'imputato con proprio difensore, formulando quattro motivi.
Con il primo, la difesa ha dedotto erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione quanto alla sussistenza della posizione di datore di lavoro dell'infortunato. Osserva la difesa che lo stesso Tribunale aveva configurato in capo al M.M. una duplice veste, ritenendolo anche committente dell'opera, pur in difetto dei relativi parametri, atteso che l'imputato non conosceva lo stato dei luoghi, svolgendo altrove la sua attività, laddove la vittima aveva sempre lavorato nel settore edile e la rimozione del pergolato costituiva un'operazione semplice. La Corte territoriale, di contro, aveva illogicamente negato il presupposto acclarato dal Tribunale, quello cioè della occasionalità del rapporto creatosi tra l'imputato e l'infortunato.
Con il secondo, ha dedotto inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e vizio della motivazione quanto alla omessa valutazione della memoria difensiva del 4/12/2020 e della sentenza del Tribunale del lavoro di Siena del 11/5/2020, con la quale era stata accertata l'insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra imputato e infortunato, elemento che, secondo la difesa, "scardinerebbe" il costrutto accusatorio.
Con un terzo motivo, ha dedotto vizio della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di una posizione di garanzia, avendo la Corte equiparato la posizione della vittima a quella del padre (soggetto titolare dell'apporto di locazione intercorrente con l'imputato) per il sol fatto che il primo alloggiava presso il secondo.
Assume il deducente che, anche a voler ammettere che i lavori fossero stati eseguiti a titolo di compensazione di un pregresso debito per canoni di locazione maturato in capo al conduttore, tale proposta non poteva che essere rivolta all'intestatario della locazione e non anche al figlio, il M.M. non potendo sapere che i lavori concordati con il padre sarebbero stati da questi eseguiti con l'ausilio del figlio.
Infine, con un quarto motivo, la difesa ha dedotto vizio della motivazione in relazione alla ritenuta insussistenza della violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, non avendo i giudici d'appello sciolto l'ambiguità contenuta nella sentenza appellata, quanto alla situazione sulla quale si fonderebbe la posizione di garanzia. Rileva il difensore che al M.M., secondo imputazione, è stata contestata la violazione di specifici obblighi, laddove i giudici del merito hanno ritenuto il suo ruolo di committente, giudicando sussistente una responsabilità da violazione di obblighi che deriverebbero da tale diversa posizione (verifica idoneità tecnico-professionale del lavoratore, informazioni sui rischi, cooperazione nell'attuazione delle misure preventive). Tale riqualificazione non ha solo una valenza giuridica ma anche sostanziale, in quanto avrebbe modificato la materialità dell'accusa, avendo la difesa tecnica evidenziato come al M.M. potesse astrattamente attribuirsi il ruolo di committente nei confronti del padre della vittima, svolgendo però considerazioni atte a dimostrare finanche la insussistenza di tale qualifica. Nel recepire tale impostazione, tuttavia, i giudici avrebbero privato l'imputato della facoltà di espletare una effettiva difesa, ampliando il tema di prova, anche in punto formazione specifica dei lavoratori.
Diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. La Corte fiorentina ha esaminato le doglianze difensive veicolate con l'atto di appello, muovendo dalla questione inerente alla posizione cli garanzia ricoperta dall'imputato. A tale fine, ha ritenuto di rinvenire la soluzione della questione nella definizione di "lavoratore" offerta dall'art. 2, d. lgs. n. 81/2008 che definisce tale la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato con o senza retribuzione. Ha, pertanto, ritenuto rilevante, non già la qualifica del soggetto, quanto piuttosto il fatto che costui avesse svolto, su richiesta del "datore di lavoro", nel luogo da questi indicato e con i mezzi da questi messi a disposizione, mansioni lavorative.
Proprio muovendo da tale premessa, quel giudice ha intanto ritenuto provato che la persona offesa aveva svolto attività lavorativa (rimozione del pergolato) su richiesta del M.M. (sul punto, avendo in premessa richiamato le convergenti evidenze fattuali rappresentate dalle dichiarazioni testimoniali della p.o., del padre e dello zio, in parte anche del S., che aveva agito nell'interesse del M.M., presenziando alla esecuzione dei lavori, nonché quelle del medico del pronto soccorso che aveva visto un uomo di nazionalità italiana che appariva interessato alle condizioni dell'infortunato; ma anche i tabulati telefonici; la denuncia INAIL e la documentazione sanitaria); che il M.M. aveva assunto la qualifica e la conseguente posizione di garanzia di datore di lavoro, al quale competeva pertanto di verificare i rischi inerenti alla prestazione richiesta, informare il lavoratore e dotarlo di strumenti adeguati e idonei a scongiurare l'avverarsi di rischi connessi a quell'attività. Peraltro, quanto a questi ultimi, si era trattato di un rischio generico di caduta dall'alto, dovendo il lavoro eseguirsi in quota, servendosi il lavoratore di una scala di mt. 4, priva di ancoraggio (la caduta era infatti avvenuta a seguito di un'oscillazione dello strumento, semplicemente appoggiato alla parete). Inoltre, in replica a specifica osservazione difensiva, la Corte ha precisato che la necessità dei presidi omessi non poteva essere esclusa in considerazione del fatto che, al momento della caduta, il lavoratore fosse posizionato a un'altezza inferiore ai mt. 2, dato peraltro neppure accertato e asserito in maniera del tutto apodittica: infatti, le previsioni normative che indicano la necessità dei presidi omessi prendono in considerazione l'intero campo di lavoro sul quale il lavoratore deve muoversi e non le singole posizioni assunte nel corso dell'opera e, nella specie, il lavoro doveva svolgersi sicuramente a quota maggiore di due metri, avendo il pergolato un'altezza non superiore a mt. 3 e tale essendo pure l'altezza del sottostante balcone.
Quanto, poi, alla questione sollevata con il gravame, inerente alla presunta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, la Corte territoriale ha rilevato che il tema della corretta qualificazione giuridica del rapporto esistente tra imputato e vittima era stato introdotto dalla stessa difesa che, peraltro, aveva ampiamente interloquito sul punto, escludendo una violazione del diritto di difesa.
3. I motivi sono tutti manifestamente infondati e la trattazione unitaria è ampiamente giustificata dalla stretta correlazione dei temi trattati.
La Corte d'appello ha chiaramente inquadrato la fonte degli obblighi violati dal ricorrente nella figura del datore di lavoro, muovendo dalla definizione contenuta nell'art. 2, del d. lgs. n. 81/2008, riferita al "lavoratore". Trattasi di premessa corretta, atteso che la definizione di cui alla lett. b) della stessa norma (quella, cioè, di datore di lavoro) deriva dalla prima. Sul punto, pare sufficiente un richiamo al consolidato orientamento dei giudici di legittimità e di questa stessa sezione, per ricordare che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, le norme di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che presuppongono necessariamente l'esistenza di un rapporto di lavoro, come quelle concernenti l'informazione e la formazione dei lavoratori, si applicano anche in caso di insussistenza di un formale contratto di assunzione (sez. 4, n. 38623 del 5/10/2021, Pe., Rv. 282102). Da tale premessa deriva che la stessa definizione di "lavoratore" di cui all'art. 2, comma primo, lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008, fa leva sullo svolgimento dell'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale, ed è definizione più ampia di quelle previste dalla normativa pregressa, che si riferivano invece al "lavoratore subordinato" (art. 3, d.P.R. n. 547 del 1955) e alla "persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro" (art. 2, comma primo, lett. a, d. lgs. n. 626 del 1994); ne consegue che, ai fini dell'applicazione delle norme previste nel decreto citato, rileva l'oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell'impresa (anche eventualmente a titolo di favore) nel luogo deputato e su richiesta dell'imprenditore, a prescindere dal fatto che il "lavoratore" possa o meno essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore autonomo (sez. 3, n. 18396 del 15/3/2017, Cojocaru, Rv. 269637).
Nella specie, i giudici d'appello, prima di valutare gli obblighi incombenti sull'imputato e la situazione di rischio che egli era tenuto a gestire, hanno correttamente proceduto alla valutazione della natura del rapporto esistente tra lo stesso e la vittima e della situazione fattuale sottostante (accertamento la cui necessità è stata richiamata anche in sez. 4, n. 27305 del 4/4/2017, Massetti, Rv. 270105), posto che la posizione di garanzia - che può essere generata da investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante - deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere-dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro (sez. 4, n. 57937 del 9/10/2018, Ferrari, RV. 274774; n. 38624 del 19/6/2019, B., Rv. 277190; n. 37224 del 5/6/2019, Piccioni, Rv. 277629; n. 19558 del 14/1/2021, Mussano, Rv. 281171).
4. Orbene, nel caso in esame, era rimasto accertato (e la giustificazione fornita dai giudici del merito è esente da censure, siccome congrua, coerente con le evidenze acquisite e non contraddittoria, come tale non potendo esser rimessa in discussione in questa sede, attraverso prospettazioni fattuali alternative, estranee allo scrutinio di legittimità) che il pergolato, della cui rimozione era stato incaricato l'infortunato, era pertinente a un esercizio di ristorazione gestito dal M.M.; che l'incarico, evidentemente funzionale all'attività lavorativa dell'imputato, era stato da costui affidato e che, pertanto, attraverso tale conferimento, egli aveva di fatto assunto la gestione dei rischi relativi al campo di lavoro, collocato in quota, stanti le caratteristiche dell'immobile e del manufatto da rimuovere tanto più che gli strumenti erano stati messi a disposizione dal M.M. e, tra questi, la scala utilizzata dal lavoratore, sprovvista dei più basilari presidi di sicurezza, trattandosi di strumento utilizzato semplicemente appoggiandolo alla parete interessata. Il che toglie pregio in maniera definitiva alla osservazione difensiva per la quale il rapporto di lavoro sarebbe semmai intercorso con il padre della vittima, rimanendo del tutto indifferente agli obblighi di prevenzione del M.M. il fatto che costui avesse inteso pagare il lavoratore scomputandogli un pregresso debito, avendo fornito per la esecuzione di quel lavoro uno strumento del tutto inadeguato, fonte del rischio poi concretizzatosi. Peraltro, nella specie, si era trattato di un rischio generico di caduta dall'alto, con conseguente esigibilità della condotta da parte del soggetto tenuto a governarlo. La violazione colposa degli obblighi (di formazione del lavoratore e, ancor prima, di dotazione di presidi di prevenzione adeguati) si è posta in diretta correlazione con il rischio che le norme violate erano intese a scongiurare, poiché, come già precisato, la caduta dall'alto, in qualsiasi fase della lavorazione e in qualsiasi posizione il lavoratore si sia venuto a trovare, costituiva proprio la concretizzazione di esso.
A fronte di tale ricostruzione, la difesa ha continuato a opporre argomentazioni già esposte nel gravame, senza prendere atto della decisa opzione effettuata dai giudici d'appello, per i quali era irrilevante fornire una motivazione rafforzata (come aveva fatto il Tribunale allorchè aveva ritenuto sussistente la violazione di obblighi specifici di salvaguardia anche a voler configurare in capo al M.M. la posizione di committente del lavoro che, in ogni caso, finirebbero con il sovrapporsi agli obblighi propri datoriali). Rispetto a tale situazione e alla luce dei principi sopra richiamati, poi, è del tutto inconferente la dedotta mancanza di scrutinio esplicito del contenuto di una memoria e della sentenza del giudice del lavoro che aveva disconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra imputato e infortunato, sul punto rilevandosi, peraltro, la genericità del motivo, con il quale la difesa neppure ha evidenziato il contenuto della memoria e i punti con i quali la Corte territoriale avrebbe omesso di confrontarsi. Sul punto, peraltro, non è ultroneo ricordare che - in sede di legittimità - non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (cfr. sez. 1 n. 27825 del 22/5/2013, Caniello e altri, Rv. 256340; sez. 5 n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Currò Nicola, Rv. 275500).
5. Di qui la manifesta infondatezza anche del motivo con il quale la difesa ha continuato ad agitare il tema della violazione del principio di correlazione di cui all'art. 521, cod. proc. pen., rispetto al quale, va peraltro ricordato che essa non discende da qualsiasi modificazione dell'accusa originaria, essendo necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato. Pertanto, la violazione non sussiste quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni (cfr. sez. 5 n. 7984 del 24/9/2012, dep. 2013, RV. 254648). Tali principi sono coerenti con quelli costituzionali racchiusi nella norma di cui al novellato art. 111 Costituzione, ma anche con l'art. 6 della Convenzione E.D.U., siccome interpretato, in base alla sua competenza esclusiva, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a partire dalla nota pronuncia Drassich c. Italia (cfr. CEDU 2 sez. 11 dicembre 2007); ma anche, più di recente, con la pronuncia del 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia (n.2), con la quale la Corte di Strasburgo ha escluso la violazione dell'art. 6 cit. nel caso in cui l'interessato abbia avuto una possibilità di preparare adeguatamente la propria difesa e di diSCL!tere in contraddittorio sull'accusa alla fine formulata nei suoi confronti.
Nella specie, non solo è emerso (e la Corte di merito lo ha succintamente, ma efficacemente, sottolineato) che il tema della diversa posizione di garanzia ricoperta era stato introdotto proprio dalla difesa (risultando, per tale via, evidentemente travolti eventuali profili di violazione del diritto di difesa), ma soprattutto, alla luce della motivazione della sentenza impugnata, esso risulta de-assiale rispetto alla decisa opzione dei giudici d'appello circa la natura della posizione giuridica ricoperta dal ricorrente.
6. Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. cost. n. 186/2000), nonché alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità in favore della parte civile costituita, ritenute congrue nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità in favore della parte civile B.E.H. liquidate in euro tremila, oltre accessori di legge.
Deciso il 11 maggio 2022.