Cassazione Penale, Sez. 4, 15 luglio 2022, n. 27675 - Infortunio mortale di un esperto lavoratore autonomo. Se non si raggiunge la prova di colpevolezza il committente va assolto


 

 

Presidente: MONTAGNI ANDREA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 23/06/2022
 

Fatto


1. A.E. veniva rinviato a giudizio dinanzi al Tribunale di Viterbo in composizione monocratica per rispondere del reato di cui all'art. 589 cod. pen., per non avere, quale committente dei lavori di pittura, ripristino intonaci presso la villa denominata "Casino di Poggio della Rota", sita in Bassano Romano loc. Poggio della Rota, adeguatamente valutato la formazione professionale o comunque richiesto e verificato l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti in tema di sicurezza del lavoro e cagionato per colpa e cioè per imprudenza e negligenza ed imperizia lesioni gravissime al lavoratore T.B., il quale, mentre era intento a lavori di pittura con un trabattello, il cui piano di calpestio era ad altezza di ml. 1,06 da terra, cadeva in terra riportando trauma cranico che ne imponeva il ricovero presso la rianimazione del Policlinico dell'Università Cattolica di Roma ove venivano accertate fratture multiple del cranio con esteso ematoma subdurale e fratture cervicali e dove il T.B. decedeva. In Bassano Romano il 6/5/2014.
Con sentenza del 20/03/2019, il giudice di primo grado, tuttavia, lo assolveva con la formula perché il fatto non costituisce reato.
La sentenza di primo grado ricostruisce i fatti sulla base delle dichiarazioni dei testi escussi, dell'esame dell'imputato e della documentazione acquisita. Vi si dà conto che, dalle emergenze dibattimentali, risultava che, in data 30/4/2014, T.B., che era un muratore particolarmente qualificato, si recava, di propria iniziativa, presso la Villa di proprietà dell'imputato, denominata "Casino di Poggia della Rota", sita in Bassano Romano, ove frequentemente esercitava la propria attività lavorativa, pur non dovendo compiere quel giorno alcuna opera e alla stessa insaputa del proprietario. Nell'ipotesi accolta dal giudice di prime cure, il T.B. certamente si issava sul trabattello per visionare da vicino una macchia di umidità sul muro e poi, per un motivo non identificato, ma non costituito da un malore, probabilmente precipitava al suolo da modesta altezza, pari ad 1,00 mt - 1,50 mt., impattando violentemente il capo a terra. In una prima fase egli si muoveva e parlava, e probabilmente effettuava qualche piccolo movimento subito dopo l'impatto. Dall'evento, però, scaturivano gravissime lesioni, che conducevano prima al coma e poi alla morte.
In particolare -come ricorda anche la sentenza impugnata- i figli della vittima, T.G. e T.P., dichiaravano che il padre in quel periodo stava svolgendo lavori di manutenzione nella villa dell'imputato, ed in particolare su un muro macchiato di umidità. Riferivano che il padre era un muratore esperto che aveva lavorato per decenni presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna e che era molto apprezzato per le sue abilità nel paese di Bassano Romano, come dichiarava anche l'amico, S.E., e lo stesso imputato. Quest'ultimo chiariva che il T.B., nei giorni precedenti al suo infortunio, aveva già effettuato i lavori di ripristino di intonaco e di verniciatura di un muro adiacente alla piscina, come confermava anche il figlio, E.L.. Pertanto, il giorno dell'incidente il T.B. non avrebbe dovuto effettuare dei lavori, che sarebbero stati inopportuni, essendovi in corso un sopralluogo da parte di una coppia di sposi per la preparazione del matrimonio. Di tale circostanza dava conto anche la teste B., la quale riferiva che il giorno del sinistro si trovava nella villa in qualità di cantante, insieme a degli sposi, per effettuarvi un sopralluogo. E che in tale occasione ebbe a vedere una persona anziana lavorare sopra il trabattello.
In merito alle dinamiche dell'incidente, secondo il medico legale A.G., la tipologia delle lesioni sofferte doveva ritenersi compatibile con una "precipitazione" dall'alto e doveva escludersi l'ipotesi di un malore precedente la caduta. Secondo l'ispettore dell'ASL, P. Daniele, la macchia di umidità, sulla quale verosimilmente il T.B. doveva intervenire, era ad un'altezza di 2,93 mt. da terra. Pertanto, per lavorarvi, egli avrebbe dovuto stazionare ad una altezza non superiore ad 1 mt.- 1,50 mt. da terra ove operavano le prescrizioni della normativa antinfortunistica.
Dalle fotografie emergeva che il trabattello era correttamente montato ed a norma. Il Maresciallo R. Daniele precisava di avere trovato l'infortunato riversato in terra senza gli abiti da lavoro. Lo stesso si trovava distante dal trabattello circa 1,40- 1,50 mt. e in una posizione che suscitava delle perplessità in merito all'ipotesi della caduta dal ponteggio. Tali perplessità erano condivise dagli ispettori della ASL nella loro relazione e dal Consulente Tecnico della Difesa, Ing. Paolo F., che forniva una propria ricostruzione della dinamica degli accadimenti.
Sulla base di tali elementi veniva esclusa la penale responsabilità dell'imputato.

2. Avverso l'assoluzione in primo grado proponevano tempestivamente appello il difensore delle parti civili, che chiedevano la rinnovazione dell'esame dei testi B.D., T.G., T.P., R. Daniele e anche il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo, che chiedeva la con­danna dell'imputato per il reato contestato, per gli stessi motivi evidenziati nell'appello della parte civile.
Secondo quanto ritenuto dalla Difesa delle parti civili, il giorno dell'infortunio, il T.B., che da anni svolgeva lavori di manutenzione per l'A.E., ricevendo un compenso settimanale, si era recato, "come nei giorni precedenti, a lavorare", così come risultante dalle emergenze dibattimentali, avendo la teste B.D. riferito che la vittima era nell'atto di lavorare. Per il teste T.P., inoltre, il padre "era da febbraio che andava tutti i giorni" e, a quanto risultava a lui ed a sua madre, quel giorno si era recato alla Villa per ultimare il già detto lavoro di manutenzione. Tale circostanza - aggiungevano le parti civili in sede di gravame del merito risultava anche al teste T.G. e non era incompatibile, ma coerente, con la sussistenza dell'anzidetto sopralluogo da parte della coppia di sposi. Lo stesso teste riferiva che, mentre era nella sala di attesa del pronto soccorso, l'imputato tentava di dare a sua madre 200 euro per i lavori, a riprova della consapevolezza del fatto che quel giorno la vittima li stava ultimando. Inoltre, l'imputato riferiva che nel periodo dei lavori veniva fornito al T.B. un mazzo di chiavi, ma le stesse non erano state restituite dal medesimo. Infine, osservava la Difesa delle parti civili che il fatto di non indossare abiti da lavoro da parte del T.B. non aveva alcun significato, in quanto il predetto indossava gli abiti che comunemente utilizzava per effettuare i lavori ad esso commissionati, ovvero, dei piccoli interventi manutentivi. In ultimo, sarebbe inverosimile che l'infortunato era andato "per passione" sul luogo di lavoro ove, sempre per lo stesso motivo, vi svolgeva anche attività di manutenzione.
Doveva ritenersi dimostrata pure la colpa dell'imputato, che avrebbe effettuato una "superficiale valutazione dei rischi per la salute e sicurezza" della vittima, nonché un "errore di valutazione in ordine all'idoneità tecnico professionale del lavoratore in relazione alla pericolosità dei lavori affidati". Invero, il T.B. si serviva - "in modo erroneo, ma comunque prevedibile" - del trabattello fornito dal datore di lavoro: se da una parte non si poteva ritenere - dati i ritardi nelle indagini - che la struttura fosse stata montata correttamente, era certo che il lavoratore non aveva ricevuto istruzioni sull'uso dell'attrezzo, che non era stato visto in possesso del manuale, e che l'imputato, prima di accorgersi della caduta, udiva un forte rumore come se il ponteggio fosse stato trascinato (circostanza indicativa del fatto che le ruote non fossero state bloccate). Inoltre, la vittima non era in possesso delle certificazioni richieste per effettuare i lavori, rispetto alla quale non era esperto, atteso che alla Galleria Nazionale svolgeva per lo più lavori "a terra". Poiché il deceduto aveva 77 anni, l'A.E. quantomeno, in ragione della sua posizione di garanzia, avrebbe dovuto predisporre le necessarie misure precauzionali. Peraltro, evitare la caduta del lavoratore rientrava nel suo generale obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro, infine, non sarebbe stata integrata la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ove questa avesse aggiunto specificazioni di colpa alla contestazione, concernente globalmente la condotta addebitata come colposa.
La Corte d'Appello, con sentenza del 17/2/2021, confermava la pronuncia, condannando la parte civile alle spese del grado.

3. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, agli effetti civili, le parti civili T.G., T.P. e I.P., deducendo i tre motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo le parti civili ricorrenti deducono mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla prova in ordine alla perdurante vigenza del rapporto di lavoro al momento dei fatti sulla base delle risultanze dell'istruttoria svoltasi avanti al Tribunale di Viterbo.
Si lamenta che la Corte territoriale, pur riprendendo alcuni spunti della sentenza emessa in primo grado, abbia operato una errata lettura delle prove dichiarative, in forza della quale è giunta a negare l'esistenza di un nesso di causa tra l'attività lavorativa svolta dal defunto T.B. e la caduta da un ponteggio mobile, il c.d. "trabattello", che ne ha provocato il decesso. Sarebbe, in sintesi, insussistente la prova in ordine alla perdurante vigenza del rapporto di lavoro al momento dei fatti.
Ripercorsi i fatti, il difensore ricorrente contesta la conclusione cui sono giunti i giudici del gravame del merito secondo cui quanto emerso non sarebbe sufficiente ad indicare l'esistenza di una specifica commissione del lavoro manutentivo, risultando invece più credibile l'ipotesi per cui il lavoratore si fosse recato esclusivamente per passione, essendo persona scrupolosa presso il luogo di lavoro ed ivi si fosse issato su un ponteggio di proprietà della società datrice di lavoro per dipingere, coi i propri attrezzi, una macchia d'umido.
Si sostiene in ricorso l'affermazione della Corte territoriale secondo cui la credibilità e coerenza di questa ipotesi, peraltro coincidente con la tesi difensiva dell'imputato, non sarebbe messa in discussione ne dal possesso delle chiavi del luogo (aspetto evidentemente collegato con la prosecuzione dei lavori), nè dalla circostanza, pure emersa in dibattimento, riferita dal figlio maggiore della vittima, T.G., che dopo l'incidente, mentre lui e i suoi familiari erano nella sala di attesa del pronto soccorso, l'A.E. aveva tentato di dare a sua madre 200 euro a titolo dì saldo del lavoro svolto da Bartolomeo T.B., in quel momento in rianimazione.
Quanto all'abbigliamento della vittima, che il teste Daniele R., affermava essere incompatibile con il lavoro, elemento valorizzato nella sentenza di primo grado a supporto della tesi per cui la presenza del lavoratore in cima al ponteggio mobile sarebbe stata un caso fortuito ed imprevedibile per il titolare della società committente, per le parti civili ricorrenti occorre, invece, considerare che il T.B., da quanto si evince dalla fotografia dei vestiti in atti (acquisita all'udienza del 13.4.2018, in allegato alla relazione ad esito della deposizione del teste R.), quel giorno indossava semplicemente un paio di pantaloni sportivi, una maglietta con le maniche corte e delle normali scarpe sportive, tenuta che egli utilizzava normalmente per lavorare, atteso che, trattandosi di piccoli interventi manutentivi -per lo più a terra- non era solitamente richiesto l'impiego di tute o di particolare abbigliamento e in ogni caso non può certo dirsi che egli quel giorno si trovasse in abito borghese", come sostenuto dalla difesa dell'imputato.
Tale circostanza apparirebbe dunque irrilevante ai fini dell'esclusione della presenza sul luogo di lavoro nel caso di specie, potendo semmai rilevare invece ai fini di individuare un ulteriore profilo di responsabilità del committente in ordine all'omessa predisposizione di cautele volte a scongiurare l'evento verificatosi, quali ad esempio la vigilanza sull'uso di scarpe antiscivolamento o di un casco protettivo. Con un secondo motivo le parti civili ricorrenti lamentano erronea applicazione degli art. 40, 43 e 589 comma 2 cod. pen. in relazione agli artt. 15 e 90 D.lgs. 81/2008, nonché all'art. 2087 cod. civ.
Evidenzia il difensore ricorrente che, in ogni caso, occorre considerare che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che l'eventuale contegno colposo concorrente della persona offesa -anche qualora si dovesse accogliere la invero­ simile ricostruzione del provvedimento in esame in base alla quale il lavoratore si sarebbe issato su un ponteggio di propria iniziativa per svolgere il lavoro - non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza, di garanzia o comunque di osservanza di alcune regole cautelari, dei cui inadempimenti si siano comunque resi responsabili, violando le relative prescrizioni. Ciò perché il datore di lavoro può essere esentato dalla responsabilità per l'esito in­ fausto che abbia attinto il lavoratore solo quando il contegno di quest'ultimo si sia rivelato come totalmente abnorme e straordinario, travalicando lo stadio della imprudenza prevedibile, ponendosi insomma quale condotta esorbitante ed avulsa dall'attività lavorativa o mansione assegnata o comunque "eccentrico" rispetto al uscito che il titolare della posizione di garanzia e chiamato a governare. (sul punto vengono richiamati i dieta di Sez. Un. n. 38343/2014 e Sez. 4 nn. 49373/2018 e 5483/2018).
Si evidenzia in ricorso che nella vicenda che ci occupa l'attività lavorativa assegnata al T.B. era la manutenzione e verniciatura di alcune infiltrazioni di umidità collocate nella parte superiore di un muro adiacente ad una piscina, e che, in particolare dai rilievi dei Carabinieri emerge che la macchia oggetto dell'intervento era ad un'altezza di 2,93 metri da terra sicché per lavorarvi i egli doveva stazionare ad un'altezza di 1-1 5 metri da terra. Nell'ambito di questo tipo di opera viene, perciò, ritenuto perfettamente coerente il comportamento del lavoratore il quale, per poter verniciare la macchia in questione, si serviva - evidentemente in modo erroneo, ma comunque prevedibile- del trabattello all'uopo fornito dal datore di lavoro.
Pertanto, sarebbero state violate le regole cautelari antinfortunistiche di cui all'art. 15 del D.lgs 81/08 applicabile anche al committente d'opera in forza del richiamo di cui all'art. 90 del medesimo decreto legislativo - vertendosi nel caso di specie nell'ambito della tutela della sicurezza dei lavoratori nei cantieri temporanei e mobili siccome definiti all'art. 89 co. 1 lett a) - e il committente era tenuto al rispetto delle misure generali di tutela tra le quali vi sono a) la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza; b) l'eliminazione dei rischi e ove ciò non sia possibile la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base alpi progresso tecnico; c) la riduzione dei rischi alla fonte; d) l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi i sanitari inerenti alla sua persona e l'adibizione, ove possibile. ad altra mansione; e) le istruzioni adeguate ai lavora­ tori. L'articolo 90, comma 9, lett. a) del Dlgs. 81/08, inoltre, imponeva al committente la verifica dell'idoneità tecnico professionale dei lavoratori autonomi, in relazione alle funzioni o ai lavori da affidare, ed ai sensi dell'art. 95, co. 1 lett. d) tra le misure generali di tutela vi e anche la manutenzione, il controllo prima dell'entrata, in servizio degli impianti e dei dispositivi al fine di eliminare i difetti che possono pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Ricordano le parti civili ricorrenti che nella vicenda oggetto del presente procedimento il T.B., che all'epoca dei fatti aveva 76 anni, veniva visto, prima della caduta dall'unica testimone oculare mentre lavorava in piedi sul ponteggio mobile "abbastanza alto". E che dalle fotografie scattate dai carabinieri, unica indagine svolta al momento dell'evento, era possibile stimare che l'altezza di stazionamento fosse di circa un metro - un metro e mezzo, motivo per cui veniva esclusa l'applicabilità della normativa antiinfortunistica relativa ai lavori in quota.
Si sostiene in ricorso, però, che, a causa dei ritardi nelle indagini, non è stato possibile accertare se il trabattello fosse montato correttamente, elemento che quindi, contrariamente a quanto si legge nella sentenza impugnata, non apparirebbe minimamente confermato.
Ciò che invece sarebbe stato accertato (e il riferimento è alla testimonianza T.P.) è che il defunto lavoratore - che veniva pagato a giornata con cadenza settimanale- non aveva mai ricevuto le istruzioni in ordine al corretto utilizzo del summenzionato ponteggio mobile, né era stato mai visto in possesso del manuale d'uso, rinvenuto dagli operanti nella villa un mese dopo l'accaduto.
Emergeva inoltre dall'esame dell'imputato in dibattimento che questi, prima di accorgersi della caduta, aveva udito un forte rumore come se il ponteggio fosse stato trascinato, indice del fatto che evidentemente le ruote non dovevano essere bloccate.

Ebbene alla luce dell'istruttoria dibattimentale, per le parti civili ricorrenti non solo, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, non appare credibile che l'imputato ignorasse che il defunto T.B. fosse quel giorno al lavoro, ma apparirebbero altresì provati i profili di colpa di cui all'imputazione, in primo luogo quanto all'inadeguata valutazione della formazione professionale e all'idoneità tecnico­ professionale dei lavoratori autonomi prescelti in relazioni e anche alla pericolosità dei lavori affidatigli (si richiama in proposito il dictum di Sez. 4 n. 10608/2013 e, soprattutto, quello di Sez. 3 n. 35185/2016, relativo alla morte di un lavoratore edile precipitato al suolo dall'alto della copertura di un fabbricato, nella quale è stata riconosciuta la responsabilità per il reato di omicidio colposo (lei committenti che, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa si erano rivolti ad un artigiano, ben sapendo che questi non era dotato di una struttura organizzativa d'impresa clic gli consentisse di lavorare in sicurezza).
Sotto questo profilo -si sottolinea in ricorso- non appare dirimente il fatto che il T.B. fosse un muratore esperto e che avesse lavorato per decenni alla Galleria Nazionale come custode, in quanto la maggior parte dei lavori che svolgeva erano "a terra" e non richiedevano l'utilizzo dei cantieri mobili.
Per le parti civili ricorrenti appare, del resto, piuttosto contraddittorio che la Corte territoriale, pur avendo statuito sulla insussistenza di prove in ordine all'esistenza del rapporto lavorativo e sulla circostanza che il T.B. quel giorno non fosse lì per lavorare, ma per chiedere la paga, si diffonda poi ampiamente sulla idoneità tecnico professionale dello stesso rispetto alle opere affidategli (pag. 8).
Le considerazioni sull'esperienza professionale contenute nel provvedimento impugnato, oltre ad essere incoerenti, data l'età del lavoratore, non sarebbero in ogni caso sufficienti a fa venir meno la responsabilità del datore di lavoro che abbia violato gli obblighi di formazione ed informazione.
Si richiama in proposito la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui l'attività di formazione del lavoratore alla quale è tenuto il datore di lavoro non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore formatosi per lunga esperienza operativa o per il travaso di conoscenze che comune­ mente si realizza nella collaborazione- tra lavoratori (ex multis Sez. 4 n. 22147/2016 e Sez. 4 n. 27242/2020) e che afferma come il dovere di sicurezza a carico del datore di cui all'art. 2087 cod. civ. ben può assumere una maggiore cogenza in considerazione delle qualità personali del lavoratore, in ragione delle quali può atteggiarsi in maniera particolarmente intensa (Sez. lav. n. 534/2013). La tesi proposta in ricorso è che, anche ammesso che il T.B. fosse in grado di utilizzare il trabattello senza pericolo, pur non avendo mai ricevuto indicazioni in proposito, certamente la maggiore rischiosità insita in tale attività per un lavoratore di quell'età avrebbe imposto un livello di diligenza di molto maggiore nell'adozione di misure precauzionali che potevano evitare l'evento, come ad esempio assicurarsi che le ruote fossero correttamente bloccate, valutare l'impiego di un casco protettivo o di scarpe antiscivolamento, verificare che i parapetti del ponteggio fossero correttamente montati, o anche semplicemente assicurarsi che vi fosse qualcun altro presente al momento dell'opera ad assicurare la stabilita del ponteggio.
L'imputato, in ogni caso, avrebbe omesso di fornire le istruzioni adeguate all'uso del ponteggio al lavoratore.
Ricordata la pacifica posizione di garanzia di committente, quanto alla conte­ stata colpa generica viene evidenziato che per configurare la responsabilità del datore di lavoro non è necessario che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si verifichi a causa dell'omessa adozione di quelle misuri ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore con la conseguenza che ricadono sul datore di lavoro anche quei rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza. disattenzione o malori comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo (Sez. 4, n. 4679/2016, Sez. Lav. nn. 13956/2012; 17092/2012: 18626/2013; 22710/2015).
Per cui, se è vero che la normativa specifica relativa ai lavori in quota non può trovare applicazione alle ipotesi in cui il piano di calpestio sia inferiore ai due metri di altezza, la giurisprudenza ha tuttavia sottolineato come l'obbligo di protezione del lavoratore contro le cadute dall'alto, vada inquadrato nel più generale obbligo di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, in virtù della norma di chiusura di cui all'art. 2087 cod. civ., ben possa integrare un profilo di colpa nelle ipotesi in cui tale rischio di caduta non sia stato opportunamente prevenuto (Sez, 4, n. 4679/2016).
Per le parti civili ricorrenti il capo d'imputazione formulato dalla Procura della Repubblica nei confronti dell'A.E. comprendeva l'omessa valutazione della formazione professionale, l'omessa verifica dell'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti in tema di sicurezza del lavoro e l'aver cagionato per colpa e cioè imprudenza, negligenza e imperizia le lesioni che hanno condotto il T.B. alla morte.
Ebbene, nel caso in esame non sarebbe possibile addivenne all'esclusione della colpa - con conseguente esclusione della responsabilità civile in relazione al danno - operata nel provvedimento di secondo grado, ed attribuire l'intera causa­ zione dell'evento unicamente al lavoratore che avrebbe tenuto un contegno ab­ norme ed imprevedibile recandosi al lavoro di sua sponte per ultimare la cura delle infiltrazioni.
Con un terzo motivo di ricorso le parti civili ricorrenti lamentano mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla prova della causa della morte evidenziata nell'accertamento tecnico dell'8/5/2014 e ricostruita nella relazione di consulenza tecnica legale a firma del Dott. A.G., acquisita in dibattimento.
Con lo stesso motivo si dolgono, inoltre, della mancata riassunzione della testimonianza di D. B., e difetto di motivazione in relazione alle richieste ex art. 603 cod. proc. pen.
Si ricorda che la Corte territoriale ha rilevato in motivazione che circostanza assorbente rispetto alla esclusione della colpa, ancorché non valutata nella sentenza di primo grado, sarebbe il difetto di piova in ordine alla causa della morte del T.B., che non sarebbe possibile ricondurre alla caduta dal trabattello, attesa la mancanza di testimoni oculari della caduta stessa. E che il giudice di appello, in particolare, ha valorizzato gli elementi della posizione del corpo rispetto alla presunta posizione del ponteggio mobile, nonché l'assenta presenza di barriere anticaduta per affermare aderendo alla ricostruzione del consulente della difesa l'impossibilità di una caduta dal ponteggio stesso.
Ebbene, per le parti civili ricorrenti, tali circostanze non possono essere ritenute dimostrate in quanto, come emerge anche dagli atti del dibattimento, i sopralluoghi e le indagini sul luogo del fatto ed in ordine al ponteggio sono avvenuti un mese dopo l'incidente, il 30 maggio, ed il trabattello su cui la vittima stava lavorando non è mai stato posto in sequestro.
Quanto alla posizione del corpo, neppure tale aspetto apparirebbe valutabile ai fini della prova della caduta, in quanto dalle testimonianze emerge ampiamente come il T.B. non abbia immediatamente perso coscienza, che il dott. R.lo aveva in un primo momento definito vigile, e che perciò avrebbe anche potuto spostarsi, sia pure non di molto dal punto dell'impatto, nel corso del tempo intercorso tra la caduta ed il momento dell'arrivo dei soccorsi e dei rilievi fotografici dei carabinieri.
Depone nel senso della caduta dall'alto, invece, la relazione tecnica medico­legale relativa alla morte del T.B., di cui si riporta in ricorso il paragrafo "cause dei decesso", dalla cui lettura si sostiene che emergerebbe l'ulteriore incongruenza delle considerazioni del collegio con riguardo all'assenza di tracce ematiche sul suolo, in forza della quale si esclude la possibilità che la vittima abbia potuto muoversi dal punto di impatto.
Nella relazione medico legale sulle cause del decesso sarebbe, invece, chia­ ramente spiegato, che le lesioni cutanee erano di lieve entità a fronte di una lesione interna al cranio molto più pronunciata, a riprova di un urto violento discen­ dente da una caduta dall'alto, come già riscontrato in sede di diagnosi al ricovero (nella cartella clinica si legge infatti "trauma cranico da precipitazione" e null'altro).
In altri termini, poiché le ferite erano prevalentemente interne, la mancanza di macchie ematiche sul terreno sarebbe irrilevante.
Peraltro, anche con riferimento ai rilievi sulle eventuali tracce ematiche sul pavimento, varrebbero i limiti di prova e l'impossibilità di apprezzare le risultanze di un accertamento svolto ad un mese di distanza dall'evento.
Lamentano le pp.cc. ricorrenti che gli elementi che vengono valorizzati in motivazione sarebbero meramente ipotetici e formulati all'esito di una ricostruzione operata ex post dal consulente di parte, incrociando variabili e prove parziali in un programma informatico. Viceversa, la relazione medico legale del perito della Procura, è stata fatta pressoché immediatamente dopo la morte sulla base di un esame autoptico che, unitamente all'esame documentale degli esiti degli esami clinici svolti in ospedale, ha consentito di escludere ogni causa alternativa alla caduta dai ponteggio, si legge infatti chiaramente che non risulta alcun malore.
Non si comprenderebbe, risultando ulteriormente carente sul piano logico la motivazione con riferimento all'art. 192 cod. proc. pen., per quale ragione nella sentenza sia stata ritenuta di maggiore efficacia la ricostruzione del consulente della difesa in forza della quale la vittima avrebbe potuto inciampare a velocità di corsa di 5 metri al secondo ed impattare nel medesimo punto. E infatti se nessun testimone ha visto il T.B. cadere, come neppure nessuno lo ha visto transitare a velocità di corsa di cinque metri al secondo sotto il portico prima di inciampare nella ruota del ponteggio (secondo la ricostruzione alternativa proposta), andrebbe rimarcato invece che la teste D. B., tra i pochi testimoni estranei sia alla famiglia dell'imputato che della vittima, ha dichiarato di aver visto una persona di una certa età su un ponteggio mobile circa una mezz'ora prima di sentire le urla, circostanza rilevante e non debitamente valutata dal giudice di seconde cure, che sarebbe molto più coerente con la caduta dal ponteggio e che consente, se collegata alle risultanze dell'esame autoptico, di escludere ogni ricostruzione al­ ternativa del decesso.
Il difensore ricorrente ricorda che aveva richiesto in appello la rinnovazione
dell'istruttoria dibattimentale allo scopo di ascoltare nuovamente la teste B. ma la Corte d'Appello ha ritenuto di non accogliere tale richiesta, senza peraltro pronunciarsi minimamente sulle ragioni di tale decisione.
Le parti civili chiedono, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

4. In data 25/5/2022 è stata presentata memoria scritta a firma dell'Avv. Federico Monaco, nell'interesse dell'imputato A.E., il quale chiede rigettarsi il ricorso proposto dalle parti civili, evidenziando che le censure mosse alla sentenza della Corte di Appello di Roma sono inammissibili perché tutte in fatto. Nella memoria si sottolinea che nei due giudizi di merito è risultato provato che;
a) la vittima non era un lavoratore subordinato bensì un esperto lavoratore auto­nomo; b) non vi è alcuna prova che la vittima sia caduta dal trabattello e che questo non fosse montato a regola d'arte; e) il giorno dell'incidente non era previsto alcun lavoro; d) manca totalmente la prova dell'esistenza di un nesso di causalità tra l'azione dell'imputato e l'evento; e) la vittima era in possesso delle chiavi per accedere all'interno della villa; f) il vestiario della vittima non era quello "da lavoro" ("circostanza che, stante la sua ambivalenza, rimane neutra ai fini probatori" - cfr. sent. impugnata) e nessun prodotto o arnese per verniciare veniva rinvenuto nelle vicinanze della caduta. E come Tutte queste circostanze (con motivazione esaustiva e coerente con tutte le prove documentali e testimoniali assunte) sono state trattate nella sentenza impugnata e tutte le censure sulla "mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione" contenute nel ricorso sono inconsistenti, ipotetiche e, quindi, inammissibili.
Quanto al profilo di doglianza circa la mancata rinnovazione istruttoria si evidenzia che, oltre a richiedere l'assunzione di una prova testimoniale già esperita in primo grado (e correttamente considerata a pag. 11 della sentenza di appello) i ricorrenti non forniscono alcuna precisazione sul tema dell'investigazione né sulla possibile "diversa lettura" e sulla "diversa conclusione" alla quale avrebbe potuto condurre detta rinnovazione testimoniale.
 

Diritto


1. In primis, va evidenziato che, ad avviso del Collegio il ricorso è in astratto ammissibile, ritenendosi di dover aderire all'orientamento della giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui sussiste l'interesse della parte civile ad impugnare la decisione assolutoria pronunciata con la formula "perché il fatto non costituisce reato", in quanto le limitazioni all'efficacia del giudicato previste dall'art. 652 cod. proc. pen. non incidono sull'estensione del diritto all'impugnazione ad essa riconosciuto in termini generali nel processo penale dall'art. 576 cod. proc. pen., imponendosi altrimenti alla stessa di rinunciare agli esiti dell'accerta­ mento compiuto nel processo penale e a riavviare "ab initio" l'accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (così questa Sez. 4, n. 14194 del 18/3/2021, Sisti Maron:, Rv. 281016; conf. Sez. 2, n. 10638 del 30/1/2020 Enderlin, Rv. 278519, Sez. 4, n. 10114 del 21/11/2019 dep. 2020, Zanini. Rv. 278643; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519; Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Marzuoli, Rv. 276640).

Giungendo, condivisibilmente alle medesime conclusioni, altra pronuncia ha anche posto l'accento sul fatto che, chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della controparte, si giova di tale accertamento e si trova in posizione migliore di chi deva cominciare il giudizio "ex novo" (Sez. 6, n. 36526 del 28/10/2020, Pilato, Rv. 280182).
E' noto alla Corte che esiste anche un orientamento di segno contrario, che tuttavia si ritiene non condivisibile, con cui si è affermato essere inammissibile per carenza di interesse il ricorso della parte civile avverso la sentenza di assoluzione con la formula "perché il fatto non costituisce reato", trattandosi di accertamento che non ha efficacia di giudicato nell'eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno (così Sez.4, n.33255 del 9/7/2019, PC Gancia c/ Luparelli Rv.276598; Sez.4, n. 25141 del 14/3/2019, Alo: C/ De Torna, Rv. 276338; Sez.4, n.18781 del 12/3/2019, Comellini C/ Montaguti, Rv.275761; Sez. 3, n. 24589 del 15/03/2017, PC in Proc. Saporito, Rv. 270053).
A seguire tale tesi, tuttavia, si costringerebbe la parte civile che intende impugnare la sentenza assolutoria perché il fatto non costituisce reato, a rinunciare agli esiti dell'accertamento compiuto nel processo penale ed a riavviare ab initio l'accertamento in sede civile, con grave nocumento anche per i tempi complessivi dell'accertamento giurisdizionale.
Come ricorda la sentenza 56626/20, sul tema si sono già pronunziate le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un., n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815), che hanno affermato l'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di assoluzione "perché il fatto non costituisce reato", sebbene priva di efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno, "al fine di ottenere l'affermazione di responsabilità per il fatto illecito perché", come già ricordato, "chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della sua controparte si giova di tale accertamento e si trova in una posizione migliore di chi deve cominciare dall'inizio".
In tale prospettiva il diritto all'impugnazione, che è riconosciuto in termini generali alla parte civile dall'art. 576 cod. proc. pen., «non soffre alcuna limitazione in relazione alla formula di assoluzione, dato che la scelta di esercitare i propri diritti in sede penale implica che la parte abbia la prerogativa di percorrere l'intero itinerario processuale previsto per le impugnazioni a nulla rilevando le limitazioni all'efficacia di giudicato previste dall'art. 652 cod. proc. pen., che non incidono sull'estensione del diritto all'impugnazione, ma operano sul piano dell'efficacia del giudicato penale nel giudizio civile» (cfr. Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Mazzini, Rv. 276640; Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Tola, Rv. 275416; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, cit.).

2. Peraltro, la più recente pronunzia delle Sezioni Unite Papaleo (Sez. Un., n. 28911 del 28/03/2019, Papaleo, Rv. 275953), in un caso in cui il Supremo Collegio era chiamato a risolvere la diversa questione dell'ammissibilità dell'impugnazione della parte civile avverso la sentenza che abbia dichiarato l'estinzione del reato per prescrizione, ha ribadito i principi affermati dalla sentenza Guerra, affermando che in base all'art. 576 cod. proc. pen. la parte civile è legittimata all'impugnazione di tutte le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio, senza alcuna distinzione (e quindi anche quelle prive di efficacia di giudicato nel giudizio civile e amministrativo), e senza che alcuna limitazione possa desumersi dalla previsione di cui all'art. 538 cod. proc. pen., stante la natura derogatoria della previsione dell'art. 576 rispetto a quella dell'art. 538 cod. proc. pen. e il diverso ambito applicativo delle due norme, consentendo l'art. 576 cod. proc. pen. alla parte civile di ottenere la condanna al risarcimento dei danni in sede di appello, laddove in primo grado sia mancata la sentenza di condanna.
Va ancora una volta, pertanto, richiamato il condivisibile dictum di Sez. 6 n. 56626/20, ove, a commento di SSUU Papaleo si legge: "Sotto il profilo della sussistenza dell'interesse a ricorrere la Corte ha escluso la rilevanza della mancanza di efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno ai sensi dell'art. 652 cod. proc. pen. della sentenza oggetto di impugnazione della parte civile, sulla base della considerazione «che, se lo stesso sistema ha riconosciuto al danneggiato la possibilità di azionare la propria pretesa di carattere civilistico percorrendo, oltre alla via del giudizio civile, anche quella del giudizio penale mediante la costituzione in esso di parte civile, una interpretazione che venisse a ritenere insussistente l'interesse alla impugnazione nel processo penale sol perché sarebbe pur sempre possibile la residua azione civile si tradurrebbe nella sostanziale ripulsa dello stesso congegno normativo e nella indebita "amputazione" di una facoltà riconosciuta dallo stesso legislatore; né può condividersi un ragionamento che, rispetto all'interesse a che, con il mezzo di impugnazione, si possa ottenere un risultato più favorevole rispetto a quello avutosi per effetto della decisione impugnata, privilegi, fino a farla diventare esclusiva, la valutazione di elementi esterni a quelli del raffronto, appunto, tra contenuto della decisione impugnata (che non sia venuta, ovviamente, meno per altre ragioni) e contenuto della decisione che, attraverso l'impugnazione, si intenda perseguire». Ritenendo che la possibilità, per la parte civile, di assicurarsi quegli stessi vantaggi al di fuori del processo penale non possa annullare l'interesse ad ottenerli, ancor prima e in modo processualmente più rapido e conveniente innanzitutto in sede penale, nella sentenza "Papaleo" è stato ribadito il principio (già affermato da Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815) secondo cui, «avendo il danneggiato, con la costituzione di parte civile, inteso trasferire in sede penale l'azione civile di danno, lo stesso ha «interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto», sì che non gli si può negare l'interesse ad impugnare la decisione di proscioglimento anche quando questa manchi, come è nel caso in esame, di efficacia preclusiva»; è stata inoltre ritenuta condivisibile la richiamata considerazione secondo cui, «in caso di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, le limitazioni a/l'efficacia di giudicato, previste dall'art. 652 cod. proc. pen., non incidono sull'estensione del diritto all'impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile nel processo penale dall'art. 576 cod. proc. pen., giacché, tra l'altro, ove si ritenesse il contrario, la parte civile che intendesse impugnare la sentenza assolutoria sarebbe costretta a rinunciare agli esiti dell'accertamento compiuto nel processo penale e a riavviare ab initio l'accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Edilscavi, Rv. 275416, e Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519)».

3. Detto dell'ammissibilità in astratto del ricorso, ritiene, tuttavia il Collegio che i motivi proposti siano, in concreto, inammissibili in quanto la parti civili ricorrenti, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si sono, nella sostanza, limitate a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione. Ed è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Corte di legittimità come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Can­ navacciuolo non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). E, ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparente­ mente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Carialo e altri, Rv. 260608).

4. Non va trascurato che, questa Corte, con orientamento che il Collegio con­divide e ribadisce, ritiene che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'assoluzione dell'imputato per difetto dell'elemento soggettivo del reato) il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636 secondo cui, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), introdotta da/la L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, La Gumina ed altro, Rv. 269217).
Nel caso dì specie, al contrario, la Corte territoriale ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione in termini di insussistenza della responsabilità dell'imputato, decisione rispetto alla quale, in concreto, le parti civili ricorrenti si limitano a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa lettura delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.

In ogni caso, i motivi in questione sono manifestamente infondati, in quanto tesi ad ottenere una rilettura degli elementi di prova che non è consentita in questa sede, e pertanto il proposto ricorso vada dichiarato inammissibile.

S. Va valutata, in primis, la censura di natura processuale, ovvero la mancata risposta alla richiesta di rinnovazione istruttoria avanzata nelle conclusioni dell'atto di appello a firma dell'Avv. Arturo Salemi, peraltro in maniera assai generica, tra gli altri, della teste D. B..
Si tratta della cantante che accompagnava la coppia di futuri sposi che stava visitando il giorno dell'infortunio mortale del T.B. la villa "Casina Poggio delle Rose".
La Corte territoriale non dedica spazio alla confutazione di tale richiesta, il perché deducendosi dalla sua stessa motivazione, come da quella del giudice di primo grado, nel senso che alcun dubbio si nutre circa quanto affermato dalla B., ovvero che, mezz'ora prima dell'incidente, la stessa abbia visto una per­ sona che lavorava sul "trabattello". E, a ben guardare, le sentenze di merito nemmeno escludono che la persona in questione fosse il T.B..
Il tema su cui la Corte territoriale dà conto di nutrire ragionevoli dubbi è che al momento dell'incidente il T.B. fosse sul trabattello. E su questo punto, poi-­ ché è pacifico che rispetto a quel momento non ci sia alcun testimone oculare, la rinnovazione della testimonianza della B. si palesava, dunque, superflua, laddove, al contrario, va rimarcata la natura eccezionale dell'istituto della rinnovazione dibattimentale di cui all'art. 603 cod. proc. pen., cui si può fare ricorso, su richiesta di parte o d'ufficio, solamente quando il giudice lo ritenga indispensa­ bile ai fini del decidere, non potendolo fare allo stato degli atti (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556; Sez. 2, n.41808 del 27/09/2013, Mongiardo, Rv. 25696801; Sez.2, n.3458 del 1/12/2005, dep. 2006, Di Gloria, Rv. 23339101).
Costituisce, peraltro, ius receptum che, considerata tale natura, una motivazione specifica è richiesta solo nel caso in cui il giudice disponga la rinnovazione, poiché in tal caso deve rendere conto del corretto uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, mentre in caso di rigetto è ammessa anche una motivazione implicita, ricavabile dalla stessa struttura argomentativa posta a sostegno della pronuncia di merito, nella quale sia evidenziata la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep.2014, Coppola, Rv. 25989301; Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Trecca, Rv. 25774101; Sez. 3, n.24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 24787201).

6. Quanto agli altri temi oggi riproposti, va ricordato che le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio e dell'attribuzione dello stesso alla persona dell'imputato non sono, infatti, proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.
Il ricorso, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.
Questa Corte ha chiarito in più occasioni come non possa dubitarsi che, in tema di nesso di causalità, il giudizio controfattuale - imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, o, in ipotesi di condotta commissiva, l'assenza della condotta commissiva vietata, avrebbe potuto evitare l'evento (cd. giudizio predittivo) richieda preliminarmente l'accertamento di ciò che è effettivamente accaduto (cd. giudizio esplicativo) per il quale la certezza processuale deve essere raggiunta (cfr. ex multis Sez. 4, n. 23339 del 31/1/2013, Giusti, Rv. 256941 che, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione del giudice di appello che aveva affermato la responsabilità di un medico per avere, sulla base di un'errata interpretazione del tracciato cardiografico del feto, ritardato il parto con taglio cesareo, causandone il decesso, ritenendo non provato il momento di insorgenza della sofferenza fetale e, quindi, la circostanza che il feto potesse essere salvato nel momento in cui gli esami vennero sottoposti all'attenzione del medico, se quest'ultimo fosse tempestivamente intervenuto; conf. Sez. 4 n. 34296 dell'S/5/2015, Dolce, non mass.).
Già in precedenza, peraltro, questa Corte di legittimità aveva affermato che in tema di responsabilità medica, ai fini dell'accertamento del nesso di causalità è necessario individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell'evento, in quanto solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l'analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l'evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012 Albiero ed altri Rv. 255008).
Dunque, con condivisibile ragionamento logico-giuridico, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità fissa una regola ermeneutica di indubbia esattezza: in materia di reato omissivo improprio, ancor prima di applicare il c.d. giudizio controfattuale, è necessario individuare con precisione quanto effettivamente è naturalisticamente accaduto, al fine di verificare, su siffatta incontrovertibile ricostruzione, se la identificazione di una condotta omessa possa valutarsi come adeguatamente e causalmente decisiva in relazione alla evitabilità dell'evento, ovvero alla sua verificazione in epoca significativamente posteriore.
Orbene, tali verifiche risultano operate nel caso di specie. Ma non hanno portato risposte certe.
Per la Corte territoriale, dall'ampia ed articolata istruttoria svolta, non è risultato provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il T.B. ebbe a cadere dal trabattello; ed anzi diversi sono gli elementi emersi che depongono a favore di una diversa ricostruzione dell'incidente, e dunque dello stesso fatto in contestazione.
Della caduta di T.B. -ricorda la sentenza impugnata- non vi sono testimoni oculari. E la dinamica del sinistro è parsa dubbia sin dal primo intervento dei carabinieri che esprimevano in modo netto le incertezze emerse, in ragione del fatto che "la posizione in cui è stato trovato il T.B. e la distanza che intercorreva dal punto dove lo stesso era riverso per terra dal "trabattello", lasciavano comunque molte perplessità circa una eventuale caduta dello stesso da quel ponteggio, considerata anche l'altezza della sbarra di protezione presente nel trabattello che impedisce eventuali cadute in avanti" (così il richiamato verbale di accertamenti urgenti sui luoghi e sulle cose), evidenziando così ben tre circostanze che ponevano in dubbio la possibilità che il T.B. sia caduto dal ponteggio.
I giudici del gravame del merito evidenziano anche che gli ispettori della ASL di Viterbo, nella loro relazione, giungevano ad analoghe conclusioni e che il fulcro della questione è rappresentato proprio da elementi quali la posizione del corpo del T.B. e la distanza dello stesso dal trabattello, unitamente alla presenza di barriere anti-caduta; elementi che hanno condotto il consulente di parte, ing. F., ad escludere che la caduta sia avvenuta da sopra il trabattello.
Viene dato atto che diversi sono i testimoni che hanno confermato il fatto che T.B. si trovasse ad una distanza di due metri e mezzo o tre dal trabattello (S., R. e P.) e che il dato della distanza è validamente comprovato dal fatto che testimoni R. ed E.P. e i carabinieri intervenuti hanno constatato la presenza di una chiazza ematica all'altezza della testa della vittima, mentre non vi è evidenza alcuna di altre tracce ematiche o segni che facciano presumere che il T.B. si sia spostato da! punto di impatto con il piano del suolo, tracce che, data le importantissime lesioni subite, vi sarebbero senz'altro state qualora egli si fosse mosso.

I giudici del gravame del merito rispondono anche sul tema -oggi acritica­mente riproposto- inerente al fatto che il T.B. era ancora cosciente quando fu rinvenuto, e che potesse ancora fare dei movimenti, evidenziando logicamente che ciò non implica che lo stesso si sia spostato in modo significativo dalla posizione di urto, stante l'assenza di prove di un tale movimento.
L'ing. F. - si legge ancora in sentenza- ha poi evidenziato che la chiazza ematica "se fosse caduto dal trabattello si sarebbe dovuta trovare proprio alla base del trabattello". Ciò perché, per la dinamica delle cadute dall'alto, la testa della vittima - al momento dell'impatto - si sarebbe dovuta trovare dalla parte opposta (verso il trabattello) e le gambe nell'altra direzione.
Per i giudici capitolini, dunque, secondo la ricostruzione dinamica proposta, se la vittima fosse caduta dall'alto del trabattello sarebbe atterrata di schiena, mentre il T.B. è caduto sulla parte ventrale, riportando lesioni solo al capo, al collo e alla gabbia toracica.
La sentenza impugnata dà conto, come già fatto dal giudice di primo grado, che le lesioni riscontrate sono state ritenute compatibili e ricondotte, dal medico legale, alla precipitazione o caduta dall'alto, circoscrivendo ad una ipotesi teorica meramente funzionale l'intervento di un malore quale ad esempio una vertigine transitoria. Ritengono, tuttavia, che tale ipotesi neppure possa essere perentoria­mente esclusa, in assenza di prove della caduta della vittima dal trabattello e stanti le evidenze che alla stessa si oppongono.
A tal proposito viene precisato che l'ing. F. ha fornito una valida ricostruzione alternativa della dinamica dell'incidente che - sommandosi alla possibilità sia pure remota di un malore - inficia ancor più la tesi accusatoria della caduta dal trabattello. Ciò in quanto tale consulente ha spiegato - svolgendo i relativi calcoli e simulando al computer l'accaduto - che se la vittima, a velocità di corsa di 5 metri al secondo, fosse inciampata nella ruota sporgente del trabattello e quindi caduta, avrebbe avuto l'energia cinetica per arrivare esattamente nel punto ove è stata rinvenuta. E ciò coinciderebbe con quanto affermato dal medico legale per cui "la minima componente lesiva cutanea, di lieve entità e pressoché concentrata al capo antera-lateralmente a sinistra, a fronte dell'entità lesiva degli organi in­ terni" è "trasmissione di energia cinetica» che «come noto, si realizza in determinate circostanze tra cui la precipitazione od anche la caduta dall'alto".

7. Va aggiunto che, ancorché la sentenza impugnata dia conto del ragionevole dubbio che i giudici del gravame del merito nutrono circa le cause che hanno portato il T.B. ad impattare al suolo, ovvero -come si è appena detto - circa il fatto che lo stesso sia caduto dal c.d. trabattello e non, ad esempio, inciampato, da terra, nelle ruote dello stesso, la conferma della formula assolutoria del giudice di primo grado ("perché il fatto non costituisce reato) dà conto che elemento che viene ritenuto dirimente ai fini della decisione assolutoria è l'assenza dell'elemento psicologico del reato in capo all'imputato.
Le sentenze di merito, dunque, al di là delle diverse certezze che palesano circa il fatto che il T.B. sia caduto dall'alto (opinando in tal senso il giudice di primo grado e non palesandone certezza quello di appello) sono conformemente orientate nel senso che non vi sia prova che il giorno dell'incidente la vittima avesse ancora in corso la propria prestazione di lavoro, ormai esauritasi, e che sia maggiormente verosimile che lo stesso, presentatosi alla villa per ottenere il pagamento del compenso, avendo un rapporto di consuetudine con quel luogo e con l'imputato, vista la macchia di umidità sul soffitto, abbia preso l'iniziativa di ovviarvi, senza averne avuto alcun incarico.
La sentenza oggi impugnata, dunque, bissa la valutazione del giudice di primo grado secondo cui le testimonianze portate dalla Difesa - segnatamente quelle dei figli della vittima e della B. - non valgono a provare la perdurante sussistenza del rapporto di lavoro, rapporto pur in vigore sino a qualche giorno prima, in relazione a specifiche e distinte commissioni d'opera. Ciò perché, dalla circostanza che la vittima si trovasse sul luogo dei fatti, e che (probabilmente) sia stata vista sul trabattello quella mattina dalla B., non può trarsi quale conseguenza certa che vi fosse una specifica commissione rispetto al lavoro che - quando la teste lo vide - presumibilmente si accingeva a compiere o predisporre per una futura esecuzione.
Per la Corte capitolina una serie di elementi depone in senso contrario e con­duce a ritenere che quel giorno la vittima operasse su propria iniziativa .
A cominciare dal fatto che gli specifici lavori, della cui esecuzione era stato incaricato T.B. - con precisione indicati dall'imputato quali "ripristino di un intonaco, otturare dei buchi e passare la vernice su un muro", da effettuarsi su un muro "sotto la piscina, distante dal fabbricato principale"- anche secondo il teste E.P., si erano conclusi in precedenza, e nessun intervento doveva svolgersi quel giorno, essendo previsti ospiti per un sopralluogo.
Il teste E.P. - si legge ancora in sentenza- ha anche chiarito che era stato lui stesso a posizionare il trabattello dove poi è stato rinvenuto, in pre­visione della tinteggiatura di un "trasudo" che egli stesso avrebbe eseguito - ed eseguiva - successivamente al 30/4/2014, in previsione di un imminente matrimonio. Aggiungeva che non avrebbe avuto senso tingerlo sino alla mattina stessa del matrimonio, "di lì a due giorni". La vittima -viene ricordato- era inoltre in pos­sesso di un paio di chiavi che utilizzava per accedere in autonomia alla villa nei periodi di lavoro. Viene perciò ritenuto del tutto verosimile che - non avendo ancora ricevuto la retribuzione maturata, e stante la cordialità dei rapporti intercorrenti con l'imputato - non le avesse ancora restituite e si fosse recato quel giorno di propria iniziativa sul luogo di lavoro, senza aver ricevuto indicazioni in tal senso. La circostanza che l'imputato abbia consegnato la somma di 200 euro alla moglie della vittima mentre si trovavano in ospedale si spiegherebbe, dunque, per i giudici di appello, con il fatto che il T.B. non avesse ancora ricevuto quanto gli spettava e tale condotta, ancorché possa ritenersi inopportuna, non proverebbe certo che vi fosse un incarico specifico per quel giorno in relazione al lavoro cui la vittima si stava presumibilmente dedicando.
A ciò, secondo il giudice del gravame del merito, devono aggiungersi le valide motivazioni per le quali il giudice di primo grado ha ritenuto maggiormente con vincente la tesi difensiva. Ovvero, in primis, il fatto che i figli dell'A.E., per quanto in contatto con il padre, di certo non ricevevano costante e puntuale aggiornamento sulle di lui attività lavorative. T.G. - che dichiarava tra l'altro di non dimorare nello stesso paese del padre - ha affermato che fosse sot­tinteso che "l'input" di eseguire quei lavori provenisse dall'imputato, con ciò chiarendo che nulla il padre gli aveva espressamente riferito al riguardo.

8. Non va trascurato, peraltro, come non ha fatto la Corte, che per la riforma di una decisione assolutoria, occorre la c.d. motivazione rafforzata, non essendo sufficiente cioè una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura mino­re plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contra-sto. Com'è stato analiticamente affermato in un condivisibile arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. il 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556) la radicale riforma, in appello, di una sentenza di assoluzione, non può essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualifi­cate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, ma debba fondarsi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineatasi situazione conflitto valutativo delle prove.
Ed è stato condivisibilmente affermato, sul punto - e va qui ribadito- che: "...la decisione del giudice di appello, che comporti la totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa, convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati... Il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha dunque l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, -ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuri-dico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti" (Sez. 3, n. 19322 del 20/01/2015, Ruggeri, Rv. 263513, in motivazione).
Va ricordato, infatti, che il giudizio di condanna presuppone la certezza processuale della colpevolezza, mentre all'assoluzione deve pervenirsi in tutti quei casi in cui vi sia la semplice "non certezza" - e, dunque, anche il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza (cos ex plurimis Sez. 6, n. 20656 del 22/11/2011, dep. il 2012, De Gennaro ed altro, Rv. 252627; Sez. 3, n. 42007 del 27/9/2012, M. e altro, Rv. 253605).
Nello specifico, il principio in ragione del quale la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto "se l'imputato risulta colpevole del reato contestato­ gli al di là di ogni ragionevole dubbio", formalmente introdotto nell'art. 533 cod. proc. pen., comma 1, dalla L. n. 46 del 2006, "presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l'eventuale rivisitazione in senso peggiorati­ vo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sor­ retta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza" (Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 251066, e n. 4996 del 26/10/2011, dep. il 2012, Abbate ed altro, rv 251782).

9. Perché potesse riformare in appello di una assoluzione deliberata in primo grado non sarebbe stato, pertanto, sufficiente alla Corte capitolina prospettare una ricostruzione dei fatti connotata da uguale plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, bensì era necessario che la ricostruzione in ipotesi destinata a legittimare - in riforma della precedente assoluzione - la sentenza di condanna sia dotata di "una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non pre­suppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza" (così la citata sez. 2 n. 677/2015).
Ebbene, se questi sono i principi giuridici di riferimento, la Corte territoriale ha fatto buon governo degli stessi, riconoscendo che non vi erano le condizioni per ribaltare il verdetto assolutorio favorevole all'imputato e ritenendo, per quanto attiene all'elemento soggettivo del reato, di condividere la conclusione del giudice di primo grado secondo cui non si è raggiunta la prova della colpa a carico dell'imputato e che anzi si ritiene che le contestazioni mosse all'A.E. siano state confutate dai risultati dell'istruttoria.
Con motivazione logica e congrua nonché corretta in punto di diritto la Corte territoriale, evidentemente ad adiuvandum della propria decisione e non, come ritiene il ricorrente, in maniera contraddittoria con la prova che aveva ritenuto non raggiunta quanto alle circostanze del fatto e alla perdurante esistenza di un rapporto di lavoro, ritiene, peraltro: 1. che era ampiamente dimostrata, in particolare, l'idoneità tecnico professionale del T.B. rispetto all'esecuzione delle opere affidategli; 2. che era risultata la conformità del trabattello a tutte le normative in materia di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, essendo dotato di tutti i dispositivi di sicurezza previsti, praticamente nuovo e correttamente montato; 3. che, stante l'altezza massima di stazionamento sul trabattello (base di camminamento 106 cm, base 162 cm, barra di protezione 175 cm), non erano operative le prescrizioni previste per i lavori in quota; a nulla perciò valendo, a fronte dei dati oggettivi, l'affermazione della teste B. che lo ha definito "abbastanza alto";
4. che, in riferimento poi alla prevenzione del rischio di caduta, in ogni caso il trabattello era dotato di barre di protezione idonee proprio a prevenzione di una eventuale caduta dallo stesso.
Con tali rilievi il ricorso proposto dalle parti civili non si confronta logicamente. E anche la circostanza che il trabattello non sia stato sequestrato e sia stato indagato a distanza dall'accaduto lascia trapelare un retropensiero che possa essere stato modificato o sostituito che rimane allo stato di mera enunciazione. E logico appare anche il rilievo che la Corte territoriale opera, quanto agli abiti indossati dal T.B. al momento dell'incidente, abiti con cui avrebbe potuto recarsi a lavorare ma non tecnicamente abiti da lavoro, secondo cui tratta di una circostanza che, stante la sua ambivalenza, rimane neutra a fini probatori.
Nessun reale argomento critico risulta, dunque introdotto per contrastare le conclusioni della Corte capitolina secondo cui numerosi sono gli elementi che contrastano con la tesi accusatoria e che fanno dubitare che il T.B. si trovasse sul trabattello e sia di lì caduto, pur essendovi probabilmente salito nel corso della stessa mattinata e che non solo non può muoversi all'A.E. alcun rimprovero a titolo di colpa, essendo emerso che il giorno dei fatti il T.B. stesse agendo di propria iniziativa, ma è incerta la stessa dinamica dell'infortunio, non potendosi stabilire con certezza donde e per quali cause il T.B. sia caduto, cagionandosi le lesioni riportate.

10. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cast. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna delle parti civili ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
 

P.Q.M.
 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna la parti civili ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuna in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 23 giugno 2022