Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 settembre 2022, n. 27334 - Perdurare delle assenze per infortunio e licenziamento


 

"Nel sistema delineato dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., è nullo e le sue conseguenze sono disciplinate, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal comma 7, che a sua volta rinvia al comma 4, del medesimo articolo 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro".


 

Presidente: RAIMONDI GUIDO
Relatore: PONTERIO CARLA
Data pubblicazione: 16/09/2022
 

Fatto



1. F.F. ha agito in giudizio, nei confronti della GARO s.r.l. (già Garo s.n.c. di Z.G. & C.) e dei soci Z.G. e R.C., per far accertare la nullità o annullabilità del licenziamento intimatole ai sensi dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., con declaratoria di continuazione del rapporto di lavoro nonché condanna di parte datoriale alla reintegra nelle mansioni precedentemente svolte e al risarcimento del danno nella misura fissata dall’art. 18, commi 4 e 7, legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
2. Il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza emessa all’esito della fase sommaria (art. 1, comma 49, l. n. 92 del 2012), ha accolto la domanda della F.F. e, con successiva sentenza n. 31 del 2019, ha rigettato l’opposizione proposta dalla GARO s.r.l. e dai soci Z.G. e R.C..
3. La società ed i soci hanno proposto reclamo e la Corte d’appello di Bologna, in parziale accoglimento dell’impugnazione e in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la parte datoriale a riassumere la lavoratrice entro tre giorni o a corrisponderle, a titolo di risarcimento del danno, una indennità pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
4. La Corte di merito ha accertato che la lavoratrice si era infortunata nell'espletamento della mansione assegnatale, consistente nel posizionare merce sugli scaffali, avendo utilizzato uno sgabello fornito dal datore di lavoro e privo di uno dei piedini antiscivolo, quindi instabile. Ha ritenuto che la lavoratrice avesse assolto all’onere di dimostrare sia l'esistenza del danno e sia il nesso causale tra la prestazione lavorativa e l'evento dannoso verificatosi e che invece parte datoriale non avesse dato prova di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica della dipendente. Dalla comprovata responsabilità datoriale nella causazione dell’infortunio, i giudici di appello hanno tratto la conseguenza della non computabilità, ai fini del comporto, dei periodi di assenza dal lavoro per la malattia derivata dall’infortunio ed hanno ritenuto non superato il periodo di comporto.
5. Sulla tutela applicabile al licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, la sentenza impugnata non ha condiviso l’interpretazione data dal Tribunale, secondo cui il combinato disposto dell’art. 18, commi 4 e 7, legge n. 300 del 1970, modificato dalla legge n.92 del 2012, sarebbe destinato a regolare, in via generale, il regime della nullità per violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., in deroga alla disciplina delle nullità prevista dai commi 1 e 2 del medesimo art. 18 ed a prescindere dal requisito dimensionale del datore di lavoro.
6. La Corte d’appello ha ritenuto che la lettura data dal primo giudice si ponesse in contrasto con l’art. 18, comma 8, della legge cit., che esplicitamente esclude l’applicazione dei commi dal quarto al settimo al datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali individuati nel medesimo comma 8. Con la conseguenza che il combinato disposto dell’art. 18, commi 4 e 7, deve considerarsi operante nei limiti della tutela cd. reale e non applicabile ai licenziamenti intimati da datori di lavoro privi del requisito occupazionale. Ha poi osservato, richiamando la sentenza di questa S.C. n. 17589 del 2016 relativa ad una ipotesi di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione, come l’applicazione alla fattispecie oggetto di causa (di licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto in un rapporto di lavoro rientrante nell’area della cd. tutela obbligatoria) della disciplina delle nullità cd. di diritto comune comporterebbe conseguenze irragionevoli, determinando per i datori di lavoro privi del requisito occupazionale un apparato sanzionatorio più gravoso rispetto a coloro che occupano più di quindici dipendenti. Ha quindi ricondotto il caso in esame alla previsione dell’art. 8, della legge n. 604 del 1966, quantificando l’indennità risarcitoria nella misura di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
7. Avverso tale sentenza F.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. La GARO s.r.l. e i soci Z.G. e R.C. hanno resistito con controricorso e impugnazione incidentale condizionata. Entrambe le parti hanno depositato memoria. È stato depositato atto di costituzione anche di un nuovo difensore, avv. Andrea Boni, nell’interesse della ricorrente F.F., con allegata procura speciale.
8. La causa, originariamente fissata in adunanza camerale, è stata rinviata per la trattazione in pubblica udienza. Il procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del ricorso. La difesa della parte controricorrente ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
 

 

Diritto


9. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18, commi 1, 4, 7 e 8 della legge n. 92 del 2012, in relazione agli artt. 1418 e 2110 cod. civ, nonché violazione dell’art. 8, legge n. 604 del 1966.
10. Si sostiene, richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 12568 del 2018, che il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110 cod. civ. costituisca ipotesi del tutto autonoma, e che il comma 7 dell’art. 18 cit., là dove richiama l’art. 2110 cod. civ. debba essere letto in stretta correlazione col primo comma, a cui è legato da un rapporto tra species e genus, e non in relazione al comma 8 del medesimo art. 18. Che tale conclusione costituisce logico corollario della radicale nullità del licenziamento intimato nonostante il mancato superamento del periodo di comporto, a cui non può che conseguire il rimedio della reintegra a prescindere dal requisito dimensionale, per il livello di disvalore riconosciuto dall’ordinamento in relazione alla tutela del diritto alla salute, di cui all’art. 32 Cost. e del diritto al lavoro, di cui agli artt. 1, 4 e 35 Cost.
11. Si afferma che ove si ritenesse preclusa, in ragione dell’art. 18, comma 8 cit., l’applicazione alla fattispecie oggetto di causa del disposto dei commi 7 e 4 del medesimo articolo, dovrebbe farsi riferimento alla disposizione generale dettata dall’art. 18, comma 1, concernente gli “altri casi di nullità previsti dalla legge”, con conseguente identica sanzione della reintegra e risarcimento del danno in misura astrattamente più elevata. Risulta invece del tutto improprio, secondo parte ricorrente, il richiamo della Corte di merito alla sentenza di legittimità n. 17589 del 2016 concernente la diversa fattispecie di inefficacia del licenziamento per difetto di motivazione.
12. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2110 cod. civ., degli artt. 32 e 35 Cost., dell’art. 1418 cod. civ. e dell’art. 8, legge n. 604 del 1966, per avere la sentenza impugnata ricondotto alla legge n. 604 del 1966, la fattispecie del licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto.
13. Parte ricorrente afferma che la decisione impugnata, là dove ha ritenuto applicabile la disciplina di cui alla legge n. 604 del 1966, si sia posta in contrasto con l’orientamento consolidato di legittimità, secondo cui il recesso intimato prima del superamento del periodo di comporto costituisce un’ipotesi del tutto peculiare, soggetta alla speciale disciplina dettata dall’art. 2110 cod. civ. e sanzionata con la nullità. L’interpretazione data dai giudici di appello in quanto privilegia, rispetto alla lesione del medesimo bene giuridico, una esclusiva misura indennitaria, impedisce i normali effetti ripristinatori collegati alla nullità e vanifica in modo irragionevole le esigenze di tutela effettiva e adeguata che trovano fondamento negli artt. 32 e 35 Cost.
14. Con il ricorso incidentale condizionato la società ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., error in procedendo per errata o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dell’art. 1, commi 47 e ss. (in particolare, commi 51 e 58) della legge n. 92 del 2012 nonché degli artt. 329 e 333 cod. proc. civ.
15. Si sostiene come l'applicazione dell'art 18, comma 1, legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del 2012, non possa più essere oggetto di discussione, ed analogamente la c.d. nullità di diritto comune poiché, a fronte dell'applicazione del meno rigoroso regime sanzionatorio di cui all'art. 18, commi 4 e 7, la signora F.F. non ha proposto opposizione all'ordinanza resa all'esito del procedimento a cognizione sommaria e non ha proposto reclamo neppure in via incidentale.
16. I due motivi di ricorso principale, che possono trattarsi congiuntamente per ragioni di connessione logica, pongono la questione della disciplina applicabile al licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., nel vigore dell’art. 18, legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del 2012, da parte di un datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali previsti dal comma 8 del medesimo art. 18.
17. Costituisce punto fermo, nella giurisprudenza di questa Corte, che «il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c.» (così Cass., S.U. n. 12568 del 2018).
18. Come osservato dalle Sezioni Unite nella sentenza appena citata, in continuità con un orientamento radicato (cfr., ex aliis, v. Cass. n. 24525 del 2014; Cass. n. 1404 del 2012; Cass. n. 12031 del 1999; Cass. n. 9869 del 1991), il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all'art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966.
19. Il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva - o, in difetto, dagli usi o secondo equità - di per sé non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate); né per dare luogo a licenziamento si richiede un'accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l'assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell'impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.
20. Nell'art. 2110, comma 2, cod. civ. si rinviene un'astratta predeterminazione (legislativo- contrattuale) del punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre d'un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale.
21. Le Sezioni Unite (n. 12568 del 2018 cit., e già Cass., S.U. n. 2072 del 1980), nell’interpretare l’art. 2110, comma 2, cod. civ., ne hanno sottolineato il carattere di norma imperativa, in combinata lettura con l'art. 1418 cod. civ., in quanto finalizzata all’esigenza di tutela della salute, il cui valore è sicuramente prioritario all'interno dell'ordinamento - atteso che l'art. 32 Cost. lo definisce come «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» - così come lo è quello del lavoro (artt. 1, comma 1, 4, 35 e ss. Cost.). Hanno posto in rilievo come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il posto di lavoro.
22. Il tema della nullità del licenziamento e delle sue conseguenze è oggetto di una disciplina normativa stratificata e di una altrettanto complessa elaborazione giurisprudenziale.
23. L’art. 18 della legge 300 del 1970, nella formulazione originaria (anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 108 del 1990), prevedeva la tutela reintegratoria (cd. reale) per le ipotesi di licenziamento (oltre che inefficace ai sensi dell’art. 2, legge 604 del 1966 e annullabile perché intimato senza giusta causa o giustificato motivo) “nullo” ai sensi della legge 604 del 1966. Il licenziamento nullo è definito dall’art. 4 della legge del 1966 come quello “determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione ad attività sindacali, indipendentemente dalla motivazione adottata”.
24. La legge 108 del 1990 ha esteso la categoria giuridica della nullità ad altre ipotesi di “licenziamento discriminatorio”. L’art. 3 di tale legge ha stabilito che «il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dall’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti».
25. Già prima delle modifiche apportate nel 1990, la Corte Costituzionale (sentenza n. 204 del 1982 relativa al licenziamento disciplinare intimato senza la tutela dell’apposita procedura) aveva riconosciuto forza espansiva alle disposizioni contenute nell'art. 18 della legge 300 del 1970, ritenendole suscettibili di assicurare la tutela reale del posto di lavoro anche nei casi in cui l'invalidità del licenziamento non dipendesse da una delle ragioni specificamente risultanti dal combinato disposto dello stesso art. 18 e dell'art. 4 della legge n. 604 del 1966. Ciò sul rilievo (v. Corte Cost., sentenze n. 17 del 1987 e n. 338 del 1988) che «l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, non è né speciale né eccezionale ma dotato di forza espansiva che lo rende riferibile ed applicabile anche a casi diversi da quelli in esso contemplati e tuttavia ad essi però assimilabili sotto il profilo della identità di ratio».
26. La forza espansiva dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 è stata ribadita dalla giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto applicabile tale disposizione «a tutte le ipotesi di invalidità del recesso del datore di lavoro, qualora non assoggettate ad una diversa, specifica disciplina, e quindi anche nel caso di nullità per inosservanza delle norme di cui ai primi tre commi dell'art. 7 della stessa legge 300 del 1970» (v. Cass. n. 4938 del 1994; Cass. n. 11547 del 2012; v. anche Cass. n. 5083 del 2000 e Cass. n. 21412 del 2006 che hanno definito il recesso in violazione dell’art. 7 St. Lav. ingiustificato e non nullo) ed «in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo determinante ed, in particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o di rappresaglia», in tal caso a prescindere dal numero dei dipendenti ed anche ai dirigenti (v. Cass. n. 4543 del 1999; nello stesso senso Cass. n. 3837 del 1997; Cass. n. 14982 del 2000; Cass. n. 5635 del 2006; Cass. n. 24347 del 2010).

27. Una regolamentazione specifica è stata ritenuta applicabile al licenziamento intimato in violazione del divieto di cui all’art. 2, legge 1204 del 1971, affetto da nullità a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61 del 1991. Esso è stato giudicato «improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall'inadempimento, in ragione dal mancato guadagno» (Cass. n. 18537 del 2004), e ciò anche «in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto - ripristino che deriva da tale nullità indipendentemente dalle dimensioni aziendali, configurandosi in modo diverso dalla reintegrazione di cui all'art. 18 st. lav.- » (Cass. n. 16189 del 2002). La sanzione della nullità è era espressamente prevista dall’art. 54 del decreto legislativo n. 151 del 2001.
28. In tema di licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità, tra la tesi della nullità del recesso oppure la sua temporanea inefficacia (v. Cass. ordinanza interlocutoria n. 24766 del 2017), risolto dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12568 del 2018, è probabilmente all’origine della mancanza di una elaborazione giurisprudenziale specifica sul regime di tutela applicabile (v. Cass. n. 12031 del 1999 e Cass. n. 24525 del 2014 che confermano sentenze di merito dichiarative della nullità del licenziamento per mancato superamento del comporto con applicazione dell’art. 18, legge 300 del 1970, in presenza dei requisiti oggettivi (di tipo dimensionale) e soggettivi (relativi all’attività svolta dal datore di lavoro) costituenti presupposti normativi della tutela cd. reale.
29. In relazione ai rapporti di lavoro assistiti dalla tutela cd. obbligatoria, di cui all’art. 8, legge 604 del 1966, questa Corte, con orientamento costante, ha osservato come gli effetti del licenziamento dichiarato nullo (v. Cass. n. 15093 del 2009: licenziamento nullo per illiceità del motivo; Cass. n. 18537 del 2004; Cass. n. 9549 del 1995: licenziamento nullo perché intimato in violazione dell'art. 2, comma 2, della legge n. 1204 del 1971; Cass. n. 2856 del 1979: licenziamento per rappresaglia, ante disciplina dell'art. 3 della legge nr. 108 del 1990;) non fossero disciplinati, in via di estensione analogica, dalla normativa dettata dall'art. 8 della legge 604 del 1966, recando quest'ultima esclusivamente la disciplina per la diversa ipotesi dell'annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, bensì secondo il regime delle nullità di diritto comune di cui all’art. 1418 cod. civ. (v. da ultimo Cass. n. 19661 del 2019 cit.).
30. La legge n. 92 del 2012, nel modificare l’art. 18, legge 300 del 1970, ha raggruppato nel primo comma le fattispecie di nullità del licenziamento, dettando per esse una disciplina unitaria.
31. Il nuovo art. 18, comma 1, prevede: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela a sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1354 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti […]».
32. Ai sensi del comma 2 dell’art. 18, nuovo testo, «Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali».
33. Come la dottrina ha rilevato, con la riscrittura dell'articolo 18 St. lav. ad opera della legge n. 92 del 2012, le ipotesi precedentemente assoggettate al regime delle nullità di diritto comune sono state ricondotte nella previsione dell'articolo 18, comma 1, in forza della clausola che dispone l'applicazione della tutela reale piena, oltre che nelle fattispecie tipizzate dalla norma, anche negli “altri casi di nullità previsti dalla legge” e «quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro».
34. Il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., viziato da nullità in base all’orientamento di questa Corte (S.U. n. 12568 del 2018 cit.), non è compreso nella previsione di cui all’art. 18, comma 1, cit. ma è contemplato nel comma 7 che, nel primo periodo, stabilisce: «Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68 per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile».
35. Il problema interpretativo posto dalla fattispecie in esame, in cui il licenziamento in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. è stato intimato da datore di lavoro privo del requisito dimensionale, è reso particolarmente complesso sia dalla collocazione sistematica nel comma 7, anziché nel comma 1 dell’art. 18, delle conseguenze del licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto e sia dal contenuto del comma 8, dell’art. 18 nella versione del 2012.
36. Il comma 8, infatti, stabilisce che «Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti».
37. Sul disposto del comma 8 cit. fa leva, essenzialmente, la sentenza impugnata per ritenere non applicabile alla fattispecie oggetto di causa la tutela reintegratoria ed applicabile, invece, la disciplina di cui all’art. 8, legge 604 del 1966.
38. Deve, anzitutto, affermarsi l’erroneità, in diritto, della tesi accolta dai giudici di secondo grado.

39. Costituisce affermazione costante di questa S.C. che l’art. 8 della legge 604 disciplini unicamente le conseguenze del licenziamento illegittimo perché intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo. La legge 604 ha espressamente previsto, nell’art. 4, ipotesi di nullità del licenziamento ma, altrettanto espressamente, ha limitato la tutela cd. obbligatoria di cui all’art. 8 ai casi in cui «non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo».
40. Anche recentemente, questa Corte (Cass. n. 19661 del 2019 cit.), a proposito proprio di un licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., da datore di lavoro privo dei requisiti occupazionali, ha escluso che gli effetti del licenziamento dichiarato nullo, perché intimato in mancanza del superamento del periodo di comporto, fossero regolati, in via di estensione analogica, dalla disciplina dettata dall'art. 8 della l. n. 604 del 1966, che riguarda esclusivamente la diversa ipotesi dell'annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo.
41. Escluso quindi che possa invocarsi l’art. 8 della legge 604 cit., occorre individuare la disciplina applicabile al licenziamento nullo adottato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., nell’ambito di un rapporto di lavoro rientrante nell’area della cd. tutela obbligatoria e sotto il vigore della legge 92 del 2012.
42. Se si ritenesse la fattispecie per cui è causa soggetta al regime delle nullità di diritto comune (v. Cass. n. 19661 del 2019 cit.) oppure regolata dall’art. 18, comma 1, come modificato nel 2012, quale disposizione che ingloba la (vecchia) categoria delle nullità di diritto comune, e si considerasse la disciplina dettata dai commi 7 e 4 dell’art. 18 limitata a regolare i licenziamenti intimati in violazione dell’art. 2110 cod. civ. da datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali descritti dal comma 8 del medesimo articolo 18, si creerebbe una evidente irragionevolezza nel sistema ed una disarmonia nel regime delle tutele per il caso di licenziamento. L’applicazione, ai licenziamenti nulli intimati nell’area della tutela cd. obbligatoria, dell’art. 18, comma 1 cit. oppure dell’art. 1418 cod. civ., comporterebbe una tutela più forte di quella garantita dai commi 7 e 4 dell’art. 18 che, per i lavoratori dipendenti da datori aventi i requisiti dimensionali, limita a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto il risarcimento del danno.
43. Ai fini dell’inquadramento sistematico del licenziamento nullo per violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. nel vigore della legge n. 92 del 2012, indicazioni significative si traggono dalla sentenza delle S.U. n. 12568 del 2018.
44. Questa sentenza ha affrontato anche, per completezza, il tema della nullità del licenziamento per mancato superamento del comporto nel vigore della legge n. 92 del 2012 ed ha sostenuto: «All'affermazione della nullità del licenziamento in discorso non osta l'avere il vigente testo dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 (come novellato ex lege n. 92 del 2012) collocato la violazione dell'art. 2110, comma 2, cod. civ., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno. Infatti, in considerazione d'un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell'art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge».
45. In modo netto la pronuncia delle Sezioni Unite ribadisce la nullità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ma anteriormente alla sua scadenza, escludendo in modo esplicito che questo licenziamento «sia meramente ingiustificato, tale dovendosi - invece - considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all’esito della verifica giudiziale» (v. par. 3.5). Lo stesso concetto è ribadito con riferimento alle previsioni di cui alla legge del 2012, puntualizzandosi che la collocazione della disciplina del licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. nel comma 7, anziché nel comma 1, dell’art. 18 non depone nel senso di una opzione in favore della illegittimità di tale forma di recesso ma costituisce, unicamente, espressione della scelta legislativa di sanzionare con minor rigore la fattispecie di licenziamento in esame, attraverso una «norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel comma 1». Il licenziamento in violazione dell’art. 2110 cod. civ., pur rientrando tra gli «altri casi di nullità previsti dalla legge» di cui al comma 1, è inserito nel comma 7 soltanto quoad poenam, al fine cioè della applicazione del rimedio meno rigoroso quale è la tutela reintegratoria attenuata.
46. In continuità con quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza appena citata, deve ritenersi che la disciplina derogatoria dettata dal comma 7, rispetto alla disciplina generale di cui al primo comma dell’art. 18, attenga unicamente alle conseguenze sanzionatorie del licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. che resta qualificabile come nullo e non annullabile. La commistione, all’interno del comma 7, di fattispecie di licenziamento nullo e di licenziamento annullabile e l’espresso rinvio alla disciplina di cui al quarto comma, relativa alla annullabilità del licenziamento, non intaccano la natura giuridica del vizio del recesso per mancato superamento del comporto che deve ritenersi virtualmente incluso nella previsione dell’art. 18, comma 1, eccetto che per il rimedio ripristinatorio individuato, ex lege, nei commi 7 e 4.
47. In tal senso si è già pronunciata questa S.C. (v. Cass. n. 9548 del 2019 in motivazione) a proposito di un licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., sotto il vigore della legge 92 del 2012 e da datore di lavoro avente i requisiti dimensionali, confermando la declaratoria di nullità del recesso, in conformità alla sentenza delle S.U. n. 12568 del 2018, e ritenendo applicabile, ai soli fini del rimedio sanzionatorio, la previsione di cui al comma 7 dell’art. 18.
48. Al di là dello speciale regime sanzionatorio applicabile, il licenziamento in violazione dell’art. 2110 cod. civ. resta quindi assoggettato alla disciplina generale del licenziamento nullo le cui conseguenze, per espressa previsione normativa (già l’art. 3 della legge 108 del 1990 ed ora l’art. 18, comma 1, modificato dalla legge 92 del 2012) sono indifferenti al «numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro», e tale previsione che non è attratta nella deroga disposta, quoad poenam, dal comma 7. D’altra parte, la categoria giuridica della nullità, in quanto volta alla protezione di beni di rilievo costituzionale, è di applicazione generale e non consente diverse articolazioni.
49. Ciò comporta l’irrilevanza, rispetto alla fattispecie di cui si discute, del criterio selettivo basato sul numero dei dipendenti che, se può giustificare livelli diversi di tutela in ipotesi di licenziamento annullabile (v. Corte Cost., sentenze n. 81 del 1969 e n. 55 del 1974), non può legittimare una diversificazione delle conseguenze del licenziamento nullo.
50. L’interpretazione accolta, che si pone in continuità con la sentenza delle Sezioni Unite n. 12568 del 2018, oltre che coerente con criteri di ordine sistematico e con la scelta legislativa di raccogliere nel primo comma dell’art. 18 tutte le ipotesi di nullità del licenziamento a prescindere dal numero dei dipendenti occupati, è la sola compatibile con l’esigenza di garantire ragionevolezza al sistema delle tutele nel caso di licenziamento, esigenza più volte sottolineata dalla Corte Costituzionale nelle pronunce adottate su questioni attinenti alla legge n. 92 del 2012 e al decreto legislativo n. 23 del 2015 (v. Corte Cost., sentenze n. 194 del 2018; n. 150 del 2020; n. 59 del 2021; n. 183 del 2022). Una diversa opzione interpretativa, che riconducesse il licenziamento nullo per violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., nel primo comma dell’art. 18 per alcuni lavoratori (in regime di tutela obbligatoria) e nel settimo comma per altri (in regime di tutela reale), creerebbe nel sistema una vistosa irrazionalità, in quanto ai dipendenti di aziende più piccole sarebbe riservata una tutela più forte rispetto ai lavoratori di aziende di grandi dimensioni, e vanificherebbe lo sforzo legislativo di sistematizzare la disciplina del licenziamento viziato da nullità.
51. Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto «Nel sistema delineato dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ., è nullo e le sue conseguenze sono disciplinate, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal comma 7, che a sua volta rinvia al comma 4, del medesimo articolo 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro».
52. La Corte di merito ha deciso in maniera non conforme a tale principio ed anzi, in contrasto con l’unanime giurisprudenza di questa Corte, ha ritenuto applicabile ad una fattispecie di nullità del licenziamento l’art. 8 della legge 604 del 1966.
53. Devono quindi trovare accoglimento i motivi di ricorso principale, nei sensi appena descritti, risultando assorbito il ricorso incidentale in quanto condizionato all’eventuale applicazione dell’art. 18, comma 1 cit. oppure delle nullità di diritto comune. La sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello che, in diversa composizione, provvederà ad un nuovo esame della fattispecie uniformandosi al principio di diritto enunciato, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
 

P.Q.M.
 


La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma l’11.7.2022