Cassazione Civile, Sez. Lav., 02 dicembre 2022, n. 35576 - Neoplasia polmonare maligna. Escluso il nesso causale tra fattore lavorativo e malattia


 

 

Presidente: ESPOSITO LUCIA
Relatore: PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI
Data pubblicazione: 02/12/2022
 

Rilevato che
1. con sentenza 9 luglio 2018, la Corte d’appello di Messina ha rigettato la domanda di risarcimento del danno differenziale proposta da C.D.L., M.C. e S.C., quali eredi di G.C., in conseguenza del suo decesso per neoplasia polmonare maligna a causa dell’ambiente nocivo cui era stato esposto durante l’attività lavorativa prestata dal 1985 al 1999 (alle dipendenze prima di Sicomi, poi di Imprendil, entrambe fallite e infine di Sicem) all’interno della Raffineria di Milazzo, nei confronti di ENI s.p.a. e di Raffineria Milazzo s.c.p.a., nel contraddittorio anche con l’assicuratrice Generali Italia s.p.a., chiamata in causa: così riformando la sentenza di primo grado, che l’aveva invece accolta nei loro confronti, quali società proprietarie degli impianti e rigettata nei confronti della datrice Sicem coop. a r.l.;
2. in esito ad attento e argomentato scrutinio delle risultanze istruttorie, la Corte territoriale ha ritenuto adempiuti da ENI s.p.a. gli obblighi di sicurezza, ai fini della sua responsabilità di committente a norma dell’art. 2087 c.c., sulla base della comunicazione ed attuazione degli strumenti di prevenzione e di protezione, con riguardo in particolare ai cd. “permessi di lavoro” per l’esecuzione delle attività in massima sicurezza nelle aree e nei reparti a maggiore rischio espositivo. E per avere il lavoratore deceduto prestato la propria attività di addetto al pranzo e alla pulizia della mensa e soltanto talvolta all’officina, pertanto in ambienti non esposti ad amianto, essa ha escluso alcun nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia, nemmeno essendo stati rinvenuti corpuscoli di asbesto né fibre di amianto nel suo apparato respiratorio; avendo piuttosto avuto efficienza eziologica fattori extra – lavorativi, quali risalenti patologie neuro – midollare con successiva sclerosi laterale amiotrofica e bronchite cronica per postumi di TBS dell’apice polmonare destro (dove poi contratto il carcinoma) e, in misura preminente, il tabagismo;
3. con atto notificato il 5 luglio 2019, gli eredi Corica hanno proposto ricorso per cassazione con unico motivo, cui le società suindicate hanno resistito con distinti controricorsi e ENI s.p.a. anche con memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c.

Considerato che
1. i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 132 c.p.c., 40, 41 c.p., 2087 c.c., 7 d.gs. 626/1994 (ora art. 26 d.lgs. 81/2008), 3 d.lgs. 1124/1965, vizio motivo e violazione degli artt. 2, 32 e 35 Cost., per avere la Corte territoriale negato il nesso causale, non osservando il criterio civilistico di ragionevole e adeguata probabilità, tra l’attività prestata dal lavoratore deceduto e la neoplasia polmonare maligna contratta, invece ritenuta dal Tribunale sulla scorta di prove decisive e delle risultanze di C.t.u. medico-legale; avendo invece essa erroneamente escluso l’incidenza, almeno concausale, dell’esposizione lavorativa ad amianto in combinazione con il tabagismo, senza operare un serio approfondimento scientifico ed anzi disattendendo le acquisizioni degli studi specialistici; pure avendo i ricorrenti ricostruito il meccanismo di azioni di fibre di amianto nella induzione della trasformazione neoplastica, secondo la teoria multistadio della cancerogenesi e della sua natura dose dipendente e ribadito la sufficienza, ai fini del nesso presuntivo di causalità, dell’onere (assolto in virtù del riconoscimento di un rischio ambientale come agente morbigeno tabellato), a carico del soggetto danneggiato, di provare le caratteristiche dell’ambiente morbigeno e antiergonomico (unico motivo);
2. esso è inammissibile;
3. la Corte territoriale ha individuato i presupposti di responsabilità della committente ENI s.p.a., in esatta applicazione dei principi di diritto regolanti la materia, secondo cui, ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 (di disciplina dell'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda), vigente ratione temporis, il committente, nella cui disponibilità permanga l'ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice: consistenti nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata (Cass. Cass. 13 gennaio 2017, n. 798; Cass. 25 febbraio 2019, n. 5419);
3.1. in base ad essi, essa ha escluso in concreto una responsabilità della committente, avendo accertato l’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi al luogo di lavoro e all’attività lavorativa (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 12 all’ultimo di pg. 15 della sentenza), alla luce del condotto approfondimento delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa del Corica, ritenuto necessario (così dal sesto all’ottavo alinea di pg. 16 della sentenza) ;
4. è noto che il lavoratore, il quale agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito, a seguito di infortunio sul lavoro, ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione prevista dall’art. 1218 c.c. In particolare, nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, cd. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall’art. 2087 c.c., cd. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione (Cass. 19 luglio 2007, n. 16003; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319).
E più specificamente, al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute incombe l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra (Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26495; Cass. 6 novembre 2019, n. 28516);
5. nel caso di specie, la Corte d’appello ha esattamente applicato i principi di diritto regolanti la materia e il criterio causale tipicamente proprio del giudizio civile (modulato nei due momenti di ricostruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità e di applicazione della regola dell'art. 1223 c.c., di determinazione dell'intero danno cagionato oggetto dell'obbligazione risarcitoria, con attribuzione di rilievo alle serie causali che, nel momento in cui si produce l'evento, non appaiano del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio formulato in termini ipotetici: Cass. 23 dicembre 2010, n. 26042), diverso da quello operante nel processo penale (in cui vige un’esigenza di prova “oltre il ragionevole dubbio”), ispirato alla regola di preponderanza dell'evidenza o “del più probabile che non” (Cass. 3 gennaio 2017, n. 47; Cass. 27 settembre 2018, n. 23197);
5.1. in base a tale criterio e in esito ad un accertamento fondato sulla critica e argomentata valutazione delle risultanze istruttorie complessivamente acquisite (comprese quelle di C.t.u. medico – legale, avendo “i consulenti nominati dal primo giudice … dato preminente rilevanza al tabagismo”: così all’esordio del primo capoverso di pg. 20 della sentenza), essa ha escluso l’esistenza di alcun nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia contratta, per avere il lavoratore deceduto prestato la propria attività di addetto al pranzo e alla pulizia della mensa, soltanto talvolta all’officina e pertanto in ambienti non esposti ad amianto (così dal penultimo alinea di pg. 20 al quarto di pg. 22 della sentenza);
6. occorre poi rilevare il difetto di specificità del motivo, in violazione della prescrizione dell'art. 366, primo comma, n. 6 c.p.c. (interpretato, anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021, in modo non eccessivamente formalistico, tale da tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all'interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito: Cass. s.u. 18 marzo 2022, n. 8950), non avendo i ricorrenti in particolare trascritto le conclusioni della C.t.u. medico – legale (Cass. s.u. 27 dicembre 2019, n. 34469; Cass. 1 luglio 2021, n. 8695), da cui assumono essersi la sentenza impugnata dissociata (all’ultimo capoverso di pg. 21 del ricorso). E questa affermazione è stata pure confutata da Raffineria di Milazzo s.c.p.a., che ha puntualmente trascritto i passaggi della relazione e della risposta dei consulenti alla richiesta di chiarimenti nel senso di non consentire “i dati disponibili … di individuare nell’attività lavorativa del sig. Corica un rischio professionale di esposizione all’amianto … a fronte di informazioni anamnestiche sulla attività tabagistica dello stesso” (così a pg. 8 della relazione trascritta al penultimo capoverso di pg. 25 del controricorso);
7. non si configurano poi le violazioni di norme di legge denunciate, non essendo stata in realtà censurata l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una previsione normativa, implicante un problema interpretativo, né di falsa applicazione della legge, che consiste nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione (Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851); trattandosi piuttosto di allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, pertanto esterna all'esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155), oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui non ricorrenti;
8. giova pure ribadire che, in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l'interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo di attendibilità e di concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento; sicché, è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente argomentato, come appunto nel caso di specie per le ragioni dette, anche eventualmente diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass. 10 giugno 2014, n. 13054; Cass. 8 agosto 2019, n. 21187);
9. la censura si risolve, nella sostanza, in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali e di ricostruzione della fattispecie operata dalla Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. s.u. 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987), siccome esclusivamente spettanti al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione;
10. pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.


La Corte
dichiara inammissibile il ricorso e condanna gli eredi alla rifusione, in favore di Eni s.p.a., delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali; in favore di ognuna delle altre controricorrenti, liquidate in € 200,00 per esborsi e € 3.500,00 per compensi professionali; tutto oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 26 ottobre 2022