Cassazione Penale, Sez. 1, 15 febbraio 2023, n. 6339 - Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro


 

Presidente: BONI MONICA
Relatore: MANCUSO LUIGI FABRIZIO AUGUSTO
Data Udienza: 15/09/2022
 

Nota a cura di Gianluca Taiani, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2/2023, pp.161-169 " Sull'estensione applicativa della cd aggravante prevenzionistica

 


Letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona della dott.ssa Franca Zacco, Sostituto Procuratore generale presso questa Corte, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi con le conseguenti statuizioni.

 

Fatto




1. Con sentenza del 2 ottobre 2020, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo, in esito a giudizio abbreviato, dichiarava: V.C., VE.C., quali promotrici, ed E.L., G.G. e N.S., quali partecipi, responsabili del reato di cui al capo "l", di associazione per delinquere semplice finalizzata a commettere più delitti, fra i quali quello di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina; V.C., VE.C., R.B., E.L., G.G. e N.S. responsabili del reato di cui al capo "4", di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, con le aggravanti di cui all'art. 603-bis, quarto comma, nn. 1 e 3, cod. pen.; V.C. e VE.C. responsabili del reato di cui al capo "5", di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, con le aggravanti di cui all'art. 12, comma 3, lett. a) e comma 3-ter, lett. a) e b), d.lgs. n. 286 del 1998; VE.C. responsabile del reato, di cui al capo "6", di detenzione abusiva di munizioni.
Il giudice di primo grado assolveva: V.C., VE.C., N.S. e G.G. dal reato di cui al capo "2", di favoreggiamento della permanenza illegale dello straniero; G.G. e N.S. dal reato di cui al capo "3", di impiego di stranieri privi di permesso di soggiorno valido per lavoro stagionale; G.G., E.L. e N.S. dal reato di cui al capo "5", di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Il giudice di primo grado, applicata la disciplina della continuazione, riconosciute le circostanze attenuanti generiche nei confronti di tutti gli imputati ad eccezione di V.C., con giudizio di prevalenza nei confronti di E.L. e di equivalenza per gli altri imputati, computata la diminuente per la scelta del rito, condannava: V.C. alla pena di sette anni e dieci mesi di reclusione ed euro 22.000,00 di multa; VE.C. alla pena di sette anni e quattro mesi di reclusione ed euro 14.400,00 di multa; R.B. alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione ed euro 600,00 di multa; E.L. alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione; G.G. alla pena di tre anni di reclusione; N.S. alla pena di tre anni di reclusione. Il giudice di primo grado ricostruiva il fatto sulla base dei risultati delle indagini; di intercettazioni di conversazioni; di documenti di proprietà delle C. contenenti dati relativi alla gestione della complessiva attività illecita; di dichiarazioni rese dai lavoratori sfruttati - tra i quali K.Y., O.H., H.B., Y.S.; di dichiarazioni autoaccusatorie ed eteroaccusatorie rese da E.L..
In particolare, il giudice di primo grado, in relazione al reato di associazione per delinquere di cui al capo "1", riteneva accertata la sussistenza di una organizzazione, connotata da stabilità e affidabilità, avente ad oggetto come programma criminoso il reclutamento e il successivo impiego di lavoratori stranieri. In base a quanto ricostruito nella sentenza di primo grado, tale piano delinquenziale era per un verso gestito in via esclusiva da V.C. e VE.C. - rispettivamente madre e figlia - e per altro verso partecipato nella fase esecutiva da E.L., G.G. e N.S., quali addetti al trasporto sui campi dei citati stranieri mediante automezzi.
In relazione al reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di cui al capo "5", il giudice di primo grado riteneva accertata la sussistenza di un'attività, realizzata con carattere programmatico, di reclutamento di manovalanza straniera mediante la strumentalizzazione dei visti per il turismo. In particolare, il giudice di primo grado riteneva accertato che i lavoratori stranieri venivano assoldati direttamente nei Paesi di origine e fatti entrare in Italia attraverso i citati visti per il turismo - i quali sono caratterizzati da un termine di validità pari a 90 giorni - al fine di svolgere attività lavorativa anche oltre il citato termine, così aggirando i decreti di programmazione dei flussi d'ingresso dei lavoratori provenienti da Paesi estranei all'Unione europea.
In relazione al reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, di cui al capo "4", il giudice di primo grado riteneva accertata la responsabilità di tutti gli imputati per i loro rispettivi ruoli. In particolare, il giudice di primo grado affermava che l'impiego di lavoratori presso terzi avvenne in assenza di qualsivoglia tutela giuridica, in violazione della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e della regolamentazione, prevista nei contratti collettivi nazionali di lavoro, della durata massima delle ore lavorative settimanali e della retribuzione minima. Il giudice di primo grado riteneva accertato che i committenti corrispondevano alle C. una somma, comprensiva dei costi di trasporto, pari a euro 42,00 per ogni singolo lavoratore somministrato, di cui soltanto euro 30,00 venivano poi consegnati ai lavoratori impiegati. Lo stesso giudice precisava che lo svolgimento dell'attività lavorativa avveniva sia sotto la sorveglianza talora esercitata anche da G.G. e E.L., sia sotto il controllo di N.S., il quale talora si prestava a lavorare sui campi al fine di svolgere il ruolo di caposquadra e controllore, come affermato in sede di sommarie informazioni da K.Y., uno degli stranieri. Per quanto concerne il ruolo assunto da R.B., il quale era legato a VE.C. da una relazione sentimentale, il giudice di primo grado affermava che costui assunse il ruolo di procacciatore di impieghi, attraverso la pattuizione dei compensi e del numero di lavoratori con i proprietari agricoli committenti.

2. Avverso la sentenza di primo grado tutti gli imputati proponevano appello a mezzo dei rispettivi difensori.

3. Con sentenza del 30 settembre 2021, la Corte di assise di appello di Palermo confermava integralmente la sentenza appellata.
Con riferimento alla posizione di E.L., il giudice di appello rigettava tutti i motivi di gravame, compreso quello concernente la sussistenza del dolo del reato associativo, sulla base del contenuto delle dichiarazioni rese dallo stesso E.L. sia durante l'udienza di convalida del fermo dell'8 novembre 2019, sia nel corso dell'interrogatorio del 4 maggio 2020.
Con riferimento alla posizione di G.G., il giudice di appello qualificava come tardiva l'eccezione di incompetenza territoriale avanzata dalla difesa, poiché sollevata per la prima volta con l'atto di gravame. La sentenza di appello precisava che, in ogni caso, tale questione fu risolta a monte dal decreto del Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo, con il quale era stato affrontato il conflitto insorto tra la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo e quella presso il Tribunale di Agrigento. Il giudice di appello condivideva, inoltre, le valutazioni del giudice di primo grado concernenti la condotta di partecipazione di G.G. all'associazione per delinquere ed escludeva la possibilità di qualificare G.G. come lavoratore sfruttato a sua volta. In particolare, il giudice di appello indicava a suffragio delle proprie considerazioni il contenuto delle conversazioni intercettate dalle quali emergeva il contributo fattivo di G.G. al trasporto dei lavoratori - confermato anche dalle dichiarazioni di E.L. - e l'attività di coordinamento con gli altri autisti. Infine, il giudice di appello confermava anche il giudizio di bilanciamento delle circostanze e il trattamento sanzionatorio determinato dal giudice di primo grado.
Con riferimento alla posizione di N.S., il giudice di appello affermava, anche sulla base delle dichiarazioni di E.L., che N.S. aveva offerto un contributo di assoluto e significativo rilievo mettendo a disposizione la propria autovettura per il trasporto dei lavoratori. Lo stesso giudice escludeva che N.S. potesse essere considerato un mero lavoratore, sia perché egli aveva assunto una posizione libera e fattiva, anche se subalterna rispetto alle C.; sia perché lo stesso, secondo quanto affermato da K.Y., era uno degli organizzatori del lavoro delle squadre, dotato di autonomia gestionale, e perciò tutt'altro che un semplice lavoratore. Il giudice di appello affermava inoltre, a conferma delle statuizioni di condanna, che N.S., in una conversazione intercettata con VE.C., aveva concordato con costei le mendaci dichiarazioni da rendere a seguito di una ispezione lavoristica, aveva esternato le sue preoccupazioni e si era dimostrato proattivo. Infine, il giudice di appello confermava anche il giudizio di bilanciamento delle circostanze e il trattamento sanzionatorio determinato dal giudice di primo grado.
Con riferimento alla posizione di R.B., il giudice di appello confermava il ruolo attribuito a costui dal giudice di primo grado e poneva alla base delle proprie considerazioni il contenuto delle conversazioni intercettate - già indicate nella sentenza di primo grado - tra R.B. e altri imprenditori e tra lo stesso e VE.C.. Infine, il giudice di appello confermava anche il giudizio di bilanciamento delle circostanze e il trattamento sanzionatorio determinato dal giudice di primo grado.
Con riferimento alle posizioni delle C., il giudice di appello confermava le statuizioni di condanna, basando la propria decisione sui documenti acquisiti e ritenendo irrilevanti le dichiarazioni di D.D., uno dei lavoratori stranieri, il quale aveva riferito di essere giunto in Italia di propria iniziativa.

4. Avverso la sentenza di appello, la difesa di E.L. e G.G., con atto unitario, ha proposto ricorsi per cassazione, lamentando, con richiamo dell'art. 606, comma 1, lett. a), b), e) ed e), cod. proc. pen., esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri e vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione alle statuizioni di condanna per i reati di cui ai capi "l" e "4". Secondo le doglianze difensive, il giudice di appello avrebbe dovuto tenere conto dell'eccezione di incompetenza territoriale, seppur tardiva. La sentenza di appello sarebbe inoltre affetta da insufficienza di motivazione, nella parte in cui è stata affermata la colpevolezza di E.L. e G.G.. In particolare, la difesa contesta l'equiparazione effettuata dai giudici di merito tra la posizione di tali ricorrenti e quella degli altri imputati. Secondo le doglianze difensive, E.L. e G.G. sarebbero stati dei meri lavoratori mal remunerati. Infine, l'atto di ricorso censura la motivazione della sentenza di appello, nella parte in cui è stata esclusa la possibilità di un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti in relazione alla posizione di G.G..

5. Avverso la sentenza di appello, la difesa di N.S. ha proposto ricorso per cassazione, con il quale lamenta, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., violazione di legge e vizi di motivazione circa la ritenuta responsabilità penale per i reati di cui ai capi"1" e "4".
Per quanto concerne il reato associativo di cui al capo "1", il ricorrente lamenta l'illogicità e contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui i giudici di merito, da un lato, hanno assolto N.S. dai reati fine in materia di immigrazione clandestina, presupposti logici per quello di caporalato; dall'altro lato, hanno ritenuto che lo stesso N.S. fosse partecipe dell'associazione. L'assoluzione dai reati fine sarebbe perciò prova negativa della partecipazione all'associazione. Secondo le doglianze difensive, non vi sarebbe la prova né dello stabile e non occasionale contributo dato dallo N.S. per la realizzazione del programma dell'associazione criminosa, né della consapevolezza e volontà di prendere parte ad essa. Il ricorrente precisa che egli non partecipò ad alcuna riunione organizzativa, ed afferma che ciò dimostri che lo stesso non era altro che un mero lavoratore, il quale guidava la propria autovettura per giungere nei luoghi di lavoro. Secondo quanto esposto nel ricorso, N.S. avrebbe potuto tutt'al più rispondere di concorso nel reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, ma la condanna per questo sarebbe comunque erronea.
Infatti, per quanto concerne il reato di cui al capo "4", il ricorrente sostiene che non vi sia la prova della sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie contestata. In particolare, secondo le doglianze difensive, il contenuto di alcune conversazioni intercettate dimostrerebbe la mancata conoscenza in capo a N.S. della circostanza che alcuni stranieri fossero privi di permesso di soggiorno. Il ricorrente precisa che, tra l'altro, dalle dichiarazioni di alcuni lavoratori non emergerebbe alcuna forma di loro soggezione alle C., e sostiene che ciò escluda il reato di cui all'art. 603-bis cod. pen. Del tutto irrilevanti sarebbero le dichiarazioni rese da altri lavoratori in sede di sommarie informazioni, perché contraddette da quanto riferito in sede di incidente probatorio. Il ricorrente sostiene che abbia valenza neutra quanto riferito da K.Y. circa i contatti tra uno dei committenti e lo stesso N.S., poiché spiegabile in ragione della capacità di quest'ultimo di comprendere il dialetto siciliano. Nel ricorso si precisa, inoltre, che le asserite utilità che N.S. avrebbe ottenuto per il suo ruolo - individuate dai giudici di merito in alloggio, sigarette, utilizzo dei mezzi dell'associazione e flessibilità degli orari di lavoro - sarebbero in alcuni casi contraddette dalle risultanze istruttorie, in altri casi prive di riscontro. Infine, il ricorrente richiede la specificazione, nell'ipotesi di conferma delle statuizioni di condanna, che N.S. abbia ricoperto il ruolo di mero partecipe, poiché il capo "1" farebbe generico riferimento all'art. 416 cod. pen.

6. Avverso la sentenza di appello, la difesa di R.B. ha proposto ricorso per cassazione, con atto articolato in due motivi.
6.1. Con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazione dell'art. 603-bis, primo comma, n. 1, secondo comma e quarto comma, nn. 1 e 3, cod. pen. Secondo le doglianze difensive, la condotta di R.B. non potrebbe essere in alcun modo sussunta nella citata fattispecie penale, non avendo costui reclutato manodopera da destinare allo svolgimento di attività lavorativa presso terzi in condizioni di sfruttamento, né utilizzato, assunto o impiegato lavoratori nelle citate condizioni. Il ricorrente sostiene che dalle conversazioni intercettate indicate dai giudici di merito non emerga alcun elemento sintomatico delle citate condotte, poiché il R.B. si sarebbe limitato a prendere tempo rispetto alla richiesta di aiuto, avanzata da un imprenditore, avente ad oggetto la richiesta di lavoratori per lo svolgimento di attività di raccolta nei campi. Secondo quanto affermato dal ricorrente, le altre conversazioni intercettate avrebbero invece un contenuto del tutto neutro. Secondo quanto esposto nel ricorso, R.B. sarebbe estraneo alle attività contestate ai coimputati, tanto che E.L. aveva affermato di non conoscerlo. Il ricorrente sostiene perciò, alla luce di tutti i precedenti elementi, che i giudici di merito siano incorsi in travisamento del materiale probatorio, il quale non conterrebbe elementi rivelatori di una sua responsabilità penale.
6.2. Con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazione dell'art. 62-bis cod. pen. Secondo le doglianze difensive, la sentenza impugnata, nella parte in cui ha formulato giudizio di equivalenza fra le circostanze, sarebbe viziata poiché non ha tenuto conto, ai fini di un possibile giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, del ruolo marginale di R.B. e del suo atteggiamento collaborativo, stante l'interrogatorio reso.

7. Avverso la sentenza di appello, la difesa di VE.C. ha proposto ricorso per cassazione, con atto articolato in tre motivi.
7.1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazioni dell'art. 416, primo, secondo, terzo e sesto comma, e dell'art. 603-bis, primo comma, n. 1, secondo comma e quarto comma, nn. 1 e 3, cod. pen. Secondo le doglianze difensive, difetterebbe la prova della esistenza della citata associazione e del ruolo di promotrice assunto da VE.C.. La ricorrente sostiene infatti, da un lato, che non sussistano gli elementi della esistenza di una struttura organizzata di mezzi e di persone e della permanenza dell'associazione per un arco temporale sufficiente; dall'altro lato, che difetti la prova di uno stabile e non occasionale contributo realizzato da VE.C. e sorretto da affectio societatis. La ricorrente afferma che sul punto siano dirimenti le dichiarazioni di E.L., il quale ha riferito che tanto VE.C., quanto V.C., dovessero sborsare denaro per le spese relative al proprio trasporto per raggiungere i campi. Né i giudici di merito avrebbero fornito adeguata motivazione sulla distinzione tra il reato associativo e una possibile diversa qualificazione del fatto in un mero concorso nei singoli reati contestati. Secondo le doglianze difensive, anche la dichiarazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 603-bis cod. pen. sarebbe viziata, poiché non vi sarebbe stato alcun contatto telefonico con soggetti terzi che facevano arrivare in Italia manodopera clandestina e poiché gli stranieri escussi, tra cui D.D., avevano sempre affermato di aver provveduto in prima persona a comprare i titoli di viaggio per l'ingresso in Italia.
7.2. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazioni dell'art. 110 cod. pen, dell'art. 12, commi 3, 3-bis, lett. a) ed), 3-ter, lett. a) e b), d.lgs. n. 286 del 1998, e dell'art. 61, n. 2, cod. pen.
Secondo le doglianze difensive, non vi sarebbero elementi per ritenere provata la condotta contestata. La ricorrente afferma, innanzitutto, che lei stessa prendeva parte alle attività lavorative svolte sui campi. Inoltre, sostiene che tutti i lavoratori abbiano riferito di non aver subito intimidazioni e di vivere in case confortevoli. Tra l'altro, afferma che la somma corrisposta ai lavoratori era determinata in misura pari a circa euro 30,00 poiché la restante quota, trattenuta dalle C., era utilizzata per il pagamento dell'affitto e di altre spese. Perciò, secondo quanto esposto nel ricorso, difetterebbero nel caso in esame gli elementi costitutivi dei reati contestati ai capi "4" e "5", tra cui la clandestinità di chi faceva ingresso in Italia. La ricorrente sostiene sul punto che tutti i lavoratori fecero ingresso nel territorio nazionale muniti di visto per il turismo e mediante bus di linea fruibili per tutti. Né sussisterebbe una ipotesi di favoreggiamento della permanenza di stranieri in Italia, poiché non vi sarebbe alcun episodio di soggetti che siano stati costretti a rimanere sul territorio nazionale dopo la scadenza del visto e a continuare a prestare attività lavorativa. Le sentenze di merito sarebbero contraddittorie, nella parte in cui affermano, da un lato, che le C. si sarebbero attivate per far arrivare in Italia persone in stato di bisogno; dall'altro lato, che i lavoratori contattavano le stesse C. dopo essere arrivati sul territorio nazionale. La ricorrente sostiene, inoltre, che non vi sarebbero elementi per ritenere la sussistenza di un fine di profitto in ipotesi perseguito, poiché non era stata rinvenuta alcuna somma ingente di denaro né era stata disposta una misura patrimoniale. La ricorrente sostiene che non vi siano elementi per ritenere sussistenti le circostanze aggravanti di cui all'art. 12, comma 3-ter, lett. a) e b), d.lgs. n. 286 del 1998. Tra l'altro, le conversazioni intercettate avrebbero riguardato la ricorrente solamente in un periodo in cui la madre V.C. era ricoverata, elemento questo non considerato dai giudici di merito. Alla luce di quanto finora esposto, i giudici di merito sarebbero incorsi in errore, nella parte in cui hanno dichiarato la responsabilità penale della ricorrente, la quale avrebbe agito solamente per scopi filantropici, al fine di aiutare i connazionali regolarmente arrivati in Italia a cercare un lavoro.
7.3. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazione dell'art. 62-bis cod. pen. Secondo le doglianze difensive, i giudici di merito avrebbero dovuto tener conto, al fine di svolgere un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, dell'atteggiamento collaborativo della ricorrente, la quale aveva reso interrogatorio nel corso del procedimento.
8. Avverso la sentenza di appello, la difesa di V.C. ha proposto ricorso per cassazione, con atto articolato in tre motivi, con argomentazioni pressoché sovrapponibili a quelle esposte nel ricorso di VE.C..
8.1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazioni dell'art. 416, primo, secondo, terzo e sesto comma, e dell'art. 603-bis, primo comma, n. 1, secondo comma e quarto comma, nn. 1 e 3, cod. pen.
8.2. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazioni dell'art. 110 cod. pen, dell'art. 12, commi 3, 3-bis, lett. a) ed), 3-ter, lett. a) e b), d.lgs. n. 286 del 1998, e dell'art. 61, n. 2, cod. pen.
8.3. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, richiamando l'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e lamentando vizi di motivazione e violazione dell'art. 62-bis cod. pen. Secondo le doglianze difensive, i giudici di merito sarebbero incorsi in errore, nella parte in cui non hanno tenuto conto dell'atteggiamento collaborativo di V.C. - da ricollegare alla sottoposizione a interrogatorio - al fine di riconoscere le circostanze attenuanti generiche, con eventuale giudizio di prevalenza delle stesse sulle circostanze aggravanti.

 

Diritto



1. I ricorsi proposti da E.L. e G.G. sono inammissibili per le seguenti ragioni.
1.1. La giurisprudenza di legittimità ha stabilito che il ricorso per cassazione è inammissibile quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto d'impugnazione, atteso che quest'ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425-01). È stato inoltre precisato che è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino genericamente a lamentare l'omessa valutazione di una tesi alternativa a quella accolta dalla sentenza di condanna impugnata, senza indicare precise carenze od omissioni argomentative ovvero illogicità della motivazione di questa, idonee ad incidere negativamente sulla capacità dimostrativa del compendio indiziario posto a fondamento della decisione di merito (Sez. 2, n. 30918 del 07/05/2015, Falbo, Rv. 264441-01).
La giurisprudenza di legittimità ha statuito che, in tema di circostanze, il giudizio di bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall'art. 133 cod. pen., senza che occorra un'analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati (Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Martinenghi, Rv. 279838-02).
1.2. Nel caso ora in esame, deve innanzitutto rilevarsi l'impossibilità di esaminare l'eccezione di incompetenza territoriale avanzata dai ricorrenti qui citati, poiché essa risulta tardiva. Infatti, come affermato dallo stesso difensore, tale eccezione è stata proposta per la prima volta con l'atto di appello. Al contrario, l'art. 21, comma 2, cod. proc. pen., prescrive un termine decadenziale per la proposizione di un'eccezione avente ad oggetto la competenza territoriale. Poiché tale termine non è stato rispettato nel caso in esame, ne consegue l'impossibilità di approfondire le argomentazioni difensive sul punto.
Per quanto concerne le ulteriori doglianze difensive - relative alle statuizioni di condanna emesse nei confronti di entrambi i ricorrenti e il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche in relazione alla posizione di G.G. - esse non risultano caratterizzate dal requisito di specificità che gli artt. 581, comma 1, e 591, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. impongono ai fini dell'ammissibilità di un atto di impugnazione. Infatti, i ricorrenti si limitano a censurare genericamente quanto affermato nella sentenza di appello ora impugnata, proponendo una propria ricostruzione alternativa del fatto e una soggettiva valutazione degli elementi, senza però indicare, per un verso, ragioni specifiche a fondamento delle proprie doglianze e, per altro verso, travisamenti di prova. Ciò vale sia in riferimento alle doglianze concernenti la dichiarazione di responsabilità penale di entrambi i ricorrenti, poiché questi ultimi si limitano ad affermare in maniera assertiva una loro estraneità ai fatti; sia in relazione al giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti stabilito per la posizione di G.G., poiché le deduzioni difensive consistono nell'allegazione di ragioni in fatto.

2. Il ricorso proposto dalla difesa di N.S., articolato in un unico motivo con il quale costui si duole delle statuizioni di condanna per i capi "l" e "4", è manifestamente infondato, dunque inammissibile.
2.1. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, ai fini della configurabilità di un'associazione per delinquere, legittimamente il giudice può dedurre i requisiti della stabilità del vincolo associativo - trascendente la commissione dei singoli reati-fine - e dell'indeterminatezza del programma criminoso che segna la distinzione con il concorso di persone, dal susseguirsi ininterrotto, per un apprezzabile lasso di tempo, delle condotte integranti detti reati ad opera di soggetti stabilmente collegati (Sez. 2, n. 53000 del 04/10/2016, Basso, Rv. 268540-01). È stato inoltre stabilito che la prova della partecipazione all'associazione, stante l'autonomia del reato associativo rispetto ai reati-fine, può essere data con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla commissione dei predetti, sicché non rileva, in tale logica, il fatto che l'imputato di reato associativo non sia stato condannato per i reati-fine dell'associazione (Sez. 3, n. 40749 del 05/03/2015, Sabella, Rv. 264826-01).
La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di concorso di persone nel reato, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale, fermo restando l'obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell'esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività compiute dagli altri concorrenti (Sez. 4, n. 1236 del 16/11/2017, dep. 2018, Raduano, Rv. 271755-01).
2.2. Alla luce di quanto poc'anzi richiamato, non risulta che la sentenza di appello sia affetta dai vizi denunciati dal ricorrente.
In relazione al capo "l", i giudici di merito, con motivazione rispettosa di quanto precisato dalla giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto integrati tutti gli elementi costitutivi del reato associativo, escludendo la possibilità che il fatto configurasse un mero concorso di persone nei singoli reati-fine. Infatti, i giudici di merito hanno ritenuto sussistente una stabile organizzazione di mezzi e di persone, finalizzata alla realizzazione di un programma criminoso consistente nel reclutamento e nel successivo impiego di lavoratori stranieri in condizioni di sfruttamento. In particolare, come si vedrà più approfonditamente nell'esame dei ricorsi delle C., i giudici di merito hanno desunto l'esistenza di tale stabile organizzazione dal contenuto delle conversazioni intercettate e dalla documentazione afferente alla gestione dell'attività illecita. In tale contesto associativo, i giudici di merito hanno ritenuto che tutti i sodali, tra cui lo N.S., fossero pienamente consapevoli delle finalità del gruppo. In particolare, per la posizione di N.S., i giudici di merito hanno indicato l'ansia mostrata da costui, nel corso di una sua conversazione intercetta con VE.C., per una ispezione lavoristica in corso. Ansia che, secondo quanto plausibilmente ritenuto dai giudici di merito, non avrebbe avuto ragion d'essere se tali problematiche non avessero riguardato N.S.. I giudici di merito hanno altresì ritenuto sussistente, fornendo sul punto motivazione adeguata, il requisito della partecipazione di N.S.n alla citata associazione, individuando tale elemento nella disponibilità di costui ad accompagnare i lavoratori sui campi e nello svolgimento da parte dello stesso della funzione di caposquadra e controllore. Alla luce di quanto finora esposto, il giudice di appello ha plausibilmente ritenuto che N.S., insieme a G.G. e E.L., aveva messo a disposizione le proprie energie lavorative e il proprio contributo, con piena consapevolezza dell'illiceità reiterata delle condotte che egli contribuiva a consumare nell'interesse del programma associativo. Tale motivazione non risulta incorrere nei vizi indicati dal ricorrente, poiché i giudici di merito, aderendo a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità precedentemente richiamata, hanno desunto dalla protrazione nel tempo dei reati fine la sussistenza di una stabile organizzazione.
Le doglianze difensive prospettate dal ricorrente sul punto non risultano invece persuasive. Infatti, le stesse consistono in diverse ricostruzioni del fatto, alternative rispetto a quelle accolte dai giudici di merito, poiché sostengono che N.S. non fosse un partecipe dell'associazione, ma un lavoratore a sua volta sfruttato. Il giudice di appello ha smentito tale diversa argomentazione con motivazione adeguata, deducendo dal contenuto delle conversazioni intercettate tra N.S.e V.C. - nel corso della quale quest'ultima impartiva direttive operative - una posizione del primo che, sebbene subalterna, era libera, consapevole e fattiva nella cooperazione finalizzata al raggiungimento dei risultati associativi. Tale soluzione è stata suffragata dal giudice di appello anche con l'indicazione delle dichiarazioni di K.Y., il quale ha affermato che N.S. era uno degli organizzatori del lavoro delle squadre. Né risultano decisive le deduzioni difensive circa l'assoluzione di N.S. per alcuni reati-fine dell'associazione. Infatti, tale circostanza, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità richiamata, non è incompatibile con la partecipazione ad un'associazione per delinquere, essendo possibile che un sodale realizzi anche solo taluno dei reati-fine oggetto del programma criminoso.
Anche in relazione al capo "4" la sentenza ora impugnata non risulta affetta dai vizi denunciati dal ricorrente, poiché il giudice di appello ha congruamente motivato circa la sussistenza del contributo consapevole realizzato da N.S. alla realizzazione del reato di cui al capo 603-bis cod. pen. In particolare, i giudici di merito hanno puntualmente ricostruito il contributo da costui fornito, individuato nell'accompagnamento sui campi dei lavoratori sfruttati e nell'attività di controllo dallo stesso svolta. Condotte queste che si sono innestate sulla condotta tipica realizzata dalle concorrenti V.C. e VE.C.. I giudici di merito hanno poi plausibilmente desunto la libera e consapevole partecipazione di N.S. al reato dal contenuto di conversazioni intercettate avvenute tra costui e uno dei committenti dei lavori. Sul punto, non risultano significative le doglianze avanzate dal ricorrente, il quale si limita a prospettare giustificazioni alternative, consistenti nella proposizione di ragioni in fatto o in un'alternativa ricostruzione dello stesso, non prospettabili in sede di giudizio di legittimità. Sono affette da genericità le ulteriori doglianze difensive nella parte in cui sostengono, senza però esplicitare in merito argomenti a sostegno delle proprie affermazioni, che alcuni lavoratori abbiano reso versioni tra loro discordanti e contraddittorie. Né risulta persuasiva la doglianza difensiva circa lo stato di inconsapevolezza di N.S. relativamente alla mancata disponibilità di permessi di soggiorno da parte di alcuni stranieri, circostanza questa che non si confronta con la motivazione della sentenza ora impugnata, la quale riporta il contenuto specifico della conversazione intercettata, già in precedenza citata, nel corso della quale lo stesso N.S., consapevole delle condizioni di irregolarità in cui versavano alcuni stranieri, aveva mostrato preoccupazione per lo svolgimento di controlli da parte dell'Ispettorato del lavoro.

3. Il ricorso proposto dalla difesa di R.B. è inammissibile, poiché espone motivi manifestamente infondati.
3.1. Circa il primo motivo, con il quale il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazioni di legge e vizi di motivazione circa la dichiarazione di responsabilità per il reato di cui al capo "4", deve innanzitutto rilevarsi che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di intercettazioni telefoniche costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337-01). Il ricorrente, infatti, propone una diversa e alternativa valutazione del contenuto delle conversazioni intercettate, volta a sostenere l'estraneità dello stesso al fatto contestato. Al contrario, i giudici di merito hanno fornito sul punto una lettura - non manifestamente illogica o irrazionale - secondo la quale R.B. aveva coadiuvato VE.C. nell'opera di intermediazione illecita e sfruttamento dei braccianti agricoli. Lettura, questa, che è stata compiuta dai giudici di merito non solo mediante l'analisi isolata di ogni singola conversazione, ma anche attraverso la specifica sequenza di conversazioni intercettate del 30 giugno 2019, avvenute sia tra R.B. e un imprenditore, sia tra R.B. e VE.C.. Alla luce del contenuto delle conversazioni intercettate e di una loro lettura sistematica, i giudici di merito hanno plausibilmente ritenuto sussistente, ad opera di R.B., un attivismo nell'intermediazione. Sul punto, le doglianze difensive non risultano persuasive o idonee a privare di logicità la sentenza impugnata. Infatti, da un lato, già il giudice di appello ha escluso la rilevanza dell'affermazione di E.L. - che aveva negato di conoscere R.B. - sulla base della plausibile considerazione che lo stesso R.B. non fosse un associato; dall'altro lato, le doglianze difensive non si confrontano puntualmente con la contestazione in fatto a carico del ricorrente, nella quale è descritto il concorso nel reato di cui all'art. 603-bis cod. pen., e non la realizzazione da parte dello stesso R.B. del fatto tipico di reclutamento o assunzione di lavoratori da sottoporre a condizioni di sfruttamento con approfittamento del loro stato di bisogno. Condotte tipiche, queste ultime, che, come già notato nell'approfondimento del ricorso di N.S., i giudici di merito hanno attribuito agli altri concorrenti.
3.2. Circa il secondo motivo, con il quale il ricorrente censura il giudizio di equivalenza delle circostanze effettuato dai giudici di merito, deve rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità - già richiamata - ha affermato che, in tema di circostanze, il giudizio di bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall'art. 133 cod. pen., senza che occorra un'analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati (Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Martinenghi, Rv. 279838-02). Nel caso in esame, il giudice di appello ha puntualmente motivato circa l'impossibilità di pervenire a un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti in considerazione della gravità delle condotte di sfruttamento. Così facendo, il giudice di appello ha fornito sul punto una motivazione che non risulta manifestamente illogica o irragionevole, recante un richiamo espresso al criterio della gravità della condotta, previsto dall'art. 133 cod. pen.

4. I ricorsi avanzati da VE.C. e V.C. possono essere trattati congiuntamente - con le dovute distinzioni motivazionali nelle parti in cui si devono affrontare le argomentazioni difensive relative alle posizioni delle singole ricorrenti - poiché entrambi gli atti di impugnazione vertono sulle medesime questioni giuridiche.

5. Il primo motivo del ricorso di VE.C. e del ricorso di V.C., con i quali le ricorrenti lamentano violazioni di legge e vizi di motivazione in relazione alle statuizioni di condanna per il reato di cui al capo "l", sono manifestamente infondati.
5.1. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, ai fini della configurabilità del delitto di associazione per delinquere, è necessaria la predisposizione di un'organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l'attuazione del programma criminoso comune (Sez. 2, n. 20451 del 03/04/2013, Ciaramitaro, Rv. 256054- 01). Tale orientamento è da ritenersi consolidato, rinvenendosi precedenti pronunce sul punto secondo le quali il reato associativo si caratterizza per tre elementi fondamentali, costituiti: a) da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati; b) dall'indeterminatezza del programma criminoso, che distingue tali reati dall'accordo che sorregge il concorso di persone nel reato; c) dall'esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea, e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira (Sez. 1, n. 10107 del 14/07/1998, Rossi, Rv. 211403-01; Sez. 6, n. 11413 del 14/06/1995, Montani, Rv. 203642-01).
In particolare, è stato precisato che, ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere, non è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di assoluta stabilità, essendo sufficiente che esso non sia a priori e programmaticamente circoscritto alla consumazione di uno o più delitti predeterminati, in quanto l'elemento temporale insito nella nozione stessa di stabilità del vincolo associativo non va inteso come necessario protrarsi del legame criminale, occorrendo soltanto una partecipazione all'associazione pur se limitata ad un breve periodo (Sez. 2, n. 19917 del 15/01/2013, Bevilacqua, Rv. 255914-01).
5.2. Alla luce di quanto esposto, non risulta che la sentenza ora impugnata sia affetta dai vizi denunciati dalle ricorrenti. Infatti, i giudici di merito hanno ritenuto sussistenti tutti i requisiti della fattispecie associativa, suffragando le proprie considerazioni con l'indicazione del contenuto delle conversazioni intercettate e del documento - già citato - contenente dati contabili relativi alla gestione dell'attività illecita. In particolare, i giudici di merito hanno individuato il programma criminoso dell'associazione nella finalità di reclutare manodopera all'estero al fine di destinarla presso terzi per lo svolgimento di lavoro in condizioni di sfruttamento. I giudici di merito hanno anche affrontato puntualmente i rilievi difensivi volti a sostenere l'insufficienza della protrazione nel tempo del vincolo associativo. Infatti, i giudici di merito hanno precisato sul punto che nelle conversazioni intercettate tra V.C. e VE.C. le stesse si auguravano di ampliare il loro giro di affari. Ne conseguiva, secondo quanto affermato plausibilmente nelle sentenze di merito, che il progetto prevedeva che l'illecita attività durasse ancora per anni. Tra l'altro, i giudici di merito hanno desunto l'esistenza di una stabile organizzazione anche dalla pluralità dei reati­ fine commessi, circostanza che costituisce, secondo quanto congruamente affermato nelle sentenze di merito, un serio indizio della sussistenza dell'associazione, in quanto rivelatrice di rapporti connotati da reciproca affidabilità e disponibilità garantita nel tempo.
Per quanto concerne lo specifico aspetto del ruolo ricoperto dalle C. all'interno dell'associazione, i giudici di merito hanno attribuito alle stesse, con motivazione che non risulta manifestamente illogica o contraddittoria, il ruolo di promotrici, attribuendo alle stesse l'attività di reperimento all'estero dei lavoratori, di direzione dell'associazione e di contrattazione delle prestazioni lavorative con i committenti. In particolare, il giudice di appello ha attribuito tale ruolo ad entrambe sulla base del contenuto delle conversazioni intercettate, in cui le stesse avevano mostrato mutuo compiacimento con riguardo al progetto di ampliamento dell'attività illecita. Non risultano al contrario persuasive le doglianze difensive sul punto, sia perché consistenti in ragioni in fatto, sia perché il giudice di merito ha ritenuto che la testimonianza di D.D. abbia minima rilevanza in confronto al quadro probatorio e, in particolare, al contenuto di conversazioni intercettate dal quale era emersa la sussistenza di una centrale collettrice di contatti ed intermediazioni di lavoratori irregolari e oggettivamente disagiati.

6. Il secondo motivo del ricorso di VE.C. e di V.C., con quali le ricorrenti lamentano violazioni di legge e vizi di motivazione circa le statuizioni di condanna in relazione al capo "4" e "5", sono manifestamente infondati.
6.1. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, ai fini dell'integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (Sez. 4, n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport Soc. Coop. Sociale, Rv. 281405-01). Sul punto è stato precisato che ai fini della configurabilità del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, di cui all'art. 603-bis cod. pen., non realizza le condizioni di sfruttamento l'assunzione di una persona in stato di bisogno, ove sia assicurato il rispetto delle prerogative retributive ed orarie del lavoratore e sia garantita la sua sicurezza nel luogo di lavoro (Sez. 4, n. 7861 del 11/11/2021, dep. 2022, Cirigliano, Rv. 282604-01).
È stato inoltre statuito che è configurabile il reato di favoreggiamento all'immigrazione clandestina con riferimento all'ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in modo formalmente regolare, ma finalizzato, in realtà, ad una permanenza illegale (Sez. 1, n. 15531 del 05/02/2020, Gozzoli, Rv. 278979- 01; fattispecie relativa all'ingresso nello Stato con regolare visto turistico di diverse ragazze straniere che venivano successivamente avviate alla prostituzione).
La giurisprudenza di legittimità ha statuito che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti capaci di imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che attaccano la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747-01).
6.2. Nel caso ora in esame, la sentenza impugnata non risulta affetta dai vizi di violazione di legge e di motivazione denunciati dalle ricorrenti.
Per quanto concerne il reato di cui al capo "4", di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro di cui all'art. 603-bis cod. pen., deve innanzitutto precisarsi che la fattispecie di reato non richiede quale elemento del fatto tipico la realizzazione di condotte volte ad ingenerare uno stato di intimidazione nel lavoratore. Infatti, la realizzazione di violenza o minaccia rappresenta una circostanza aggravante prevista dal secondo comma del citato articolo, e non invece un elemento costitutivo della fattispecie base, di cui al primo comma, la quale richiede, per l'ipotesi di reato che qui rileva, di cui al n. 1, solo il reclutamento di manodopera al fine di destinarla a lavori in condizioni di sfruttamento e l'approfittamento dello stato di bisogno. Tenuto conto di tale premessa, i giudici di merito hanno correttamente ritenuto sussistenti tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato contestata, in particolare indicando gli indici rivelatori della sussistenza di uno sfruttamento dei lavoratori, quali: lo stato di clandestinità dei lavoratori; il mancato accertamento sanitario in ordine all'idoneità alla mansione degli stessi; la carenza di dispositivi di protezione e di locali idonei in cui espletare esigenze fisiologiche; le condizioni di trasporto e di sorveglianza. Sul punto non risultano persuasive le doglianze difensive avanzate dalle ricorrenti, le quali sono solamente volte ad intaccare lo spessore di singoli elementi probatori, affermando che le C. viaggiavano a bordo degli stessi automezzi usati dai lavoratori sfruttati e che le stesse sostenevano le spese per il proprio trasporto. Al tempo stesso, non risulta confacente al caso in esame la giurisprudenza di legittimità richiamata dalle ricorrenti (in particolare, Sez. 4, n. 11546 del 18/02/2020, non mass., e Sez. 4, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia, Rv. 279961-01) in tema di rapporto tra condizione di irregolarità dello straniero e integrazione del reato di cui all'art. 603-bis cod. pen. Tale giurisprudenza, infatti, si limita ad affermare che non risulta sufficiente, ai fini dell'emissione di una pronuncia di condanna per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, la sussistenza di una condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale accompagnata da una situazione di disagio e bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, essendo altresì necessario l'elemento dello sfruttamento del lavoratore. Elementi questi che i giudici di merito hanno ritenuto sussistenti nel caso in esame, con motivazione che non risulta contraddittoria o manifestamente illogica.
Per quanto concerne il reato di cui al capo "5", i giudici di merito hanno reso puntuale motivazione e hanno aderito a quanto stabilito sul punto dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, deve innanzitutto rilevarsi che il reato contestato alle ricorrenti è quello di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di cui all'art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, e non quello di favoreggiamento della permanenza del clandestino. Di conseguenza, sono irrilevanti in questa sede le doglianze difensive volte a sostenere un'asserita lacuna probatoria circa la realizzazione di condotte finalizzate a costringere gli stranieri a permanere illegalmente nel territorio nazionale. Per quanto concerne le ulteriori doglianze difensive, il giudice di appello ha ritenuto integrato il reato sulla base del contenuto di varie conversazioni intercettate: innanzitutto, quella tra V.C. e una cittadina ucraina, nel corso della quale la prima affermava di gestire braccianti che, pur se dotati del solo visto turistico, si trattenevano al lavoro molti mesi e, in alcuni casi, anche per più anni; poi, anche quella del 6 luglio 2019, nel corso della quale V.C., interloquendo con un intermediario ucraino, affermava di occuparsi lei stessa, insieme alla figlia VE.C., del reperimento dei bus turistici che servivano per portare in Italia i lavoratori. Di conseguenza, il giudice di appello ha congruamente affermato la sussistenza sia dell'elemento oggettivo del reato, dato l'ingresso degli stranieri finalizzato alla permanenza illegale, sia dell'elemento soggettivo, stante la piena consapevolezza dell'illegalità della permanenza di uno straniero al di là del termine trimestrale previsto per i visti turistici. I giudici di merito hanno perciò correttamente qualificato il fatto come favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, stante la finalità dell'ingresso dello straniero alla permanenza illegale sul territorio nazionale. Né può rilevare in senso contrario la deduzione difensiva circa il mancato reperimento di risorse economiche che potessero configurare il profitto del reato conseguito dalle C., doglianza questa già affrontata puntualmente dal giudice di appello, che ha ritenuto tale elemento irrilevante rispetto al quadro probatorio complessivo e al contenuto delle conversazioni intercettate. In particolare, i giudici di merito hanno desunto la sussistenza di un fine di profitto anche dalle conversazioni intercettate in cui le C. si erano augurate di accrescere il giro di affari promettendo anche di «incarognirsi» coi lavoratori nei campi.
Deve infine rilevarsi che sono manifestamente infondate le deduzioni difensive volte a sostenere l'estraneità di VE.C. ai fatti contestati, sulla base della considerazione che le conversazioni intercettate coinvolgenti costei riguarderebbero un breve lasso temporale in cui la madre V.C. era ricoverata. Tali doglianze, infatti, consistono nella indicazione di ragioni in fatto, volte solamente a intaccare in modo meramente confutativo lo spessore probatorio di singoli elementi, e perciò non proponibili in sede di giudizio di legittimità.

7. Il terzo motivo del ricorso di VE.C. e di V.C., con i quali la prima censura il giudizio di equivalenza delle circostanze e la seconda il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, sono manifestamente infondati.
7.1. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che il giudizio di bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall'art. 133 cod. pen., senza che occorra un'analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati (Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Martinenghi, Rv. 279838-02). È stato inoltre statuito che, ai fini del diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la valutazione di tale rilevanza tenga conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (Sez. 3, n. 2233 del 17/06/2021, dep. 2022, Bianchi, Rv. 282693-01).
7.2. Nel caso ora in esame, la sentenza impugnata non risulta affetta dai vizi denunciati dalle ricorrenti. Infatti, per quanto concerne la posizione di VE.C., il giudice di appello ha ritenuto, sulla base di motivazione che non risulta manifestamente illogica o contraddittoria, che non possa essere espresso un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti e che la pena determinata dal giudice di primo grado sia congrua, adeguata al disvalore dei reati e conforme ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen. Per quanto concerne la posizione di V.C., il giudice di appello ha confermato con puntuale motivazione il diniego al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche sulla base della capacità a delinquere di costei e della circostanza che quest'ultima sia stata la vera domina del generale contesto. Le doglianze avanzate dalle ricorrenti sul punto si limitano a contrapporre proprie valutazioni, alternative rispetto a quelle svolte dai giudici di merito, ma non risultano idonee a inficiare la logicità della sentenza ora impugnata.

8. In conclusione, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, per le ragioni sopra esposte. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma indicata nel seguente dispositivo alla Cassa delle ammende, non essendo dato escludere - alla stregua del principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000 - la sussistenza dell'ipotesi della colpa nella proposizione dei ricorsi.

 

P. Q. M.

 


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 15 settembre 2022.