Cassazione Penale, Sez. 4, 07 marzo 2023, n. 9451 - Frana mortale nello scavo per la realizzazione dell'impianto fognario. Datore di lavoro dell'impresa che non esiste
Presidente: DOVERE SALVATORE Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 08/02/2023
Fatto
1. La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 23/2/2022, ha confermato la sentenza con cui il 6/10/2014 Tribunale di Napoli, in composizione monocratica, all'esito di giudizio ordinario, dichiarati improcedibili per intervenuta prescrizione i reati contravvenzionali originariamente contestatigli, lo ha condannato alle pene di giustizia, in quanto ritenutolo colpevole del reato (capo L) "previsto e punito dall'art. 589 co. 1 e 2 c.p., in qualità di datore di lavoro di F.F. e di appaltatore dei lavori di scavo per la realizzazione di un impianto fognario commissionati da G.F., perché, per colpa consistita in negligenza imprudenza e imperizia e nella violazione della normativa in materia di sicurezza del lavoro e anche per non avere osservato le elementari regole prudenziali di buona tecnica nella effettuazione dei lavori di scavo e per non avere adottato le misure che, per la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica erano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro (art. 2087 c.c.), e segnatamente, omettendo di verificare e di assicurarsi della consistenza e della stabilità del terreno su cui eseguire lo scavo; non effettuando lo scavo in modo da garantire un'adeguata pendenza delle pareti, ma viceversa. realizzando impropriamente lo scavo "a sezione verticale" ossia con una larghezza uguale per tutta la profondità dello scavo pari a 0,80 m.; procedendo. mentre F.F. si trovava nel fondo scavo, alla movimentazione di terreno in prossimità dello scavo mediante l'escavatore indicato al capo C) da lui personalmente condotto, in modo da creare pericolo di franamenti o di cedimenti; e comunque, non apprestando le misure di prevenzione e di protezione contro il rischio di seppellimento da adottare negli scavi, cagionava il decesso di F.F.. In particolare, mentre F.F. si trovava all'interno dello scavo avente lunghezza pari a m. 36 circa e profondità pari a m. 4 e larghezza pari a 0,80 m. , intento a posizionare un tubo in PVC che doveva collegare abusivamente gli scarichi fognari del costruendo manufatto con la fogna comunale, a causa delle violazioni della normativa antinfortunistica e delle regole prudenziali di buona tecnica, le pareti franavano e seppellivano il medesimo F.F. cagionandone il decesso per asfissia meccanica violenta causata dal seppellimento. Fatto commesso in Napoli il 3.8.2006".
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, l'A., deducendo i due motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia mancanza, insufficienza o contraddittorietà di motivazione quanto alla affermata responsabilità, ribadendo la linea difensiva proposta nelle fasi di merito ed assumendo che la responsabilità dovrebbe essere ascritta al fratello dell'imputato, S.A., reale datore di lavoro.
Con il secondo motivo di ricorso si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
Diritto
1. I motivi sopra illustrati tendono a sollecitare a questa Corte una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità. Peraltro, gli stessi si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito.
Per contro, l'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.
2. Ne deriva che il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della corte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e pertanto immune da vizi di legittimità.
Il provvedimento impugnato, con motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, ha rilevato che la difesa dell'imputato ha speso maggiori energie ad introdurre elementi di accusa nei confronti del fratello dell'imputato piuttosto che ad addurre argomenti propriamente difensivi rispetto all'addebito.
Il motivo di ricorso in punto di responsabilità, peraltro, si palesa generico e meramente assertivo.
La Corte partenopea ha chiarito come non vi sia alcun dubbio in ordine alla responsabilità dell'imputato nella gestione dei lavori di scavo effettuati il 3/8/2006 in Napoli, in Cupa Orefice allo Scudillo, emergendo dalla compiuta istruttoria che P. A. era il titolare in fatto dell'impresa edile cui era stata conferita in appalto la realizzazione dei lavori in questione e responsabile in prima persona delle attività di cantiere. Egli, peraltro, ad ulteriore riscontro della sua qualità, presiedeva al momento della verificazione del sinistro, come dimostrato, peraltro, dalla incontestata presenza sul luogo teatro del sinistro non soltanto della sua persona ma anche di un automezzo a lui intestato, gravando su P.A. la posizione di garanzia connessa alla sua qualità di datore di lavoro.
Le doglianze proposte, in particolare, non si confrontano criticamente con le prove dichiarative acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale e scrutinate dal giudice di merito, che hanno chiaramente individuato nell'odierno ricorrente il datore di lavoro del lavoratore deceduto.
Come ricorda il provvedimento impugnato, il teste M.G. ebbe a riferire di conoscere P.A., poiché da molto tempo lavorava alle sue dipendenze e che anche nel 2006 prestava la propria attività lavorativa come muratore per conto del prevenuto, ricordando in particolare di avere lavorato per lui in un cantiere sito in Napoli, nella zona dei Camaldoli. E con riguardo ai fatti per cui è processo il M.G. ebbe a chiarire che la vittima, F.F., era il suo migliore amico ("più di un fratello") e che lavorava anch'egli in quello stesso cantiere come operaio a giornata. Aggiunse che il giorno dell'incidente, mentre stavano lavorando insieme ad uno scavo della profondità di circa 4 metri, alla presenza anche dell'A., improvvisamente aveva visto il terreno su cui stava operando il F.F. franare.
Il teste chiariva, ancora, che il datore di lavoro odierno ricorrente non aveva fornito loro alcun presidio antinfortunistico, ma si era limitato a dotarli di pale e a dire loro di scavare, rappresentando, altresì, che le pareti dello scavo non erano state assicurate o puntellate in alcun modo. Aggiungeva che l'A. non fornì loro alcuna indicazione, né pose altre persone a controllare i lavori, cui di fatto soprintendeva, invece, in prima persona, pur senza scendere personalmente nello scavo, e precisava che, prima dell'incidente, sia lui che il F.F. stavano lavorando nel cantiere in questione da una settimana, ed anche in precedenza avevano lavorato presso un altro cantiere sempre alle dipendenze di P.A., sapendo di lui che nel 2006 era titolare di un'impresa edile ed era "uno scavatore" (così le pagg.5 e 6 della sentenza di primo grado richiamate dai giudici del gravame del merito)
Ricordano i giudici partenopei che anche il fratello e la moglie della vittima, OMISSIS, confermavano che P.A. era da molto tempo il datore di lavoro del manovale deceduto, che anche in quella occasione svolgeva al "nero" l'attività lavorativa su disposizione dell'imputato (pagg.7 e 10 della sentenza di primo grado). E che, d'altronde lo stesso P.A., in sede di interrogatorio delegato svoltosi in data 14/6/2007 (alla presenza del difensore, preceduto dagli avvisi ex art.66 cod. proc. pen.), rendeva dichiarazioni sostanzialmente ammissive della sua qualità di datore di lavoro affermando, in particolare: a. che la pala meccanica rinvenuta sul cantiere dove lavoravano da tre giorni era di sua proprietà; b. che i lavori erano stati commissionati da G.F., previa pattuizione di un corrispettivo di 1300 euro, già pagato per metà a titolo di anticipo; c. di essere stato titolare di un'impresa, poi fallita nel 2003, e di aver continuato ad operare nel campo dell'edilizia, svolgendo lavori per conto terzi e interpellando altri operai in caso di necessità (per l'esecuzione di lavori "di una certa entità"), ed in particolare il M.G. ed il F.F., come di fatto già avvenuto in alcune precedenti occasioni; d. che al momento della disgrazia era in corso la posa in opera della condotta nello scavo e che il F.F. ed il M.G. si trovavano all'interno dello scavo ad una distanza di circa 9 metri l'uno dall'altro mentre lui si trovava sul ciglio dello stesso, in procinto di scendere all'interno per aiutarli, quando all'improvviso, circa un'ora dopo la realizzazione dell'ultimo tratto di scavo, il terreno era franato dal lato del F.F., travolgendolo completamente, riuscendo a liberarlo soltanto dopo l'arrivo del fratello, S.A., chiamato telefonicamente; e. di avere ricevuto un acconto da G.F. e di aver corrisposto a M.G. e F.F., il cui ausilio gli era apparso necessario non dovendosi limitare alla realizzazione dello scavo, ma occorrendo altresì procedere alla posa in opera delle tubazioni, la somma di 150 euro ciascuno a titolo di anticipo (pagg.11 e 12 della sentenza di primo grado)
3. Con motivazione logica e congrua, pertanto, in tale contesto di convergenza di un rilevante coacervo di elementi fondanti la responsabilità dell'odierno ricorrente, la Corte territoriale ha ritenuto assolutamente prive di fondamento le obiezioni difensive relative alla dedotta carenza probatoria circa la sussistenza in capo allo stesso della posizione di garanzia, rilevando come non possa nè ritenersi particolarmente significativa la circostanza che S.A. fosse presente sui luoghi del sinistro e si attivasse, al contrario che P.A., per precostituire una situazione diversa da quella reale e, comunque, per tentare di ristorare, in qualche modo, la famiglia della vittima per la perdita subita. Ciò in quanto, proprio lo strettissimo rapporto di parentela tra i due, consente per i giudici partenopei di poter fondatamente ritenere che S.A. si attivasse in prima persona per salvaguardare l'interesse del fratello, preferendo, invece, l'imputato prendere le distanze dai fatti, proprio per evitare il proprio coinvolgimento negli stessi, almeno nella prima fase in cui la responsabilità non si era ancora appuntata su uno specifico soggetto.
La sentenza impugnata, pertanto, opera un buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità -che, peraltro, richiama- secondo cui assume posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto (cfr. ex multis Sez. 4 nn. 22079/2019 e 31863/2019), risultando, pertanto, irrilevante, ai fini che ci occupano, la prospettata inesistenza di una impresa edile facente capo all'odierno ricorrente, titolare di una impresa individuale dichiarata fallita, e rappresentando, al contrario, la totale abusività dell'esercizio di attività d'impresa da parte del prevenuto, un ulteriore fattore di incremento del disvalore dei fatti.
Corretto appare anche il rilievo, che si legge in sentenza, che, in tema di infortuni sul lavoro, la stessa disposizione di cui all'art. 299 D.lgs. n. 81/08, ha chiarito che la posizione di garanzia grava anche su colui che, non essendone formalmente investito, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e agli altri garanti ivi indicati, sicché l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale. (cfr. sul punto Sez. 4 n. 18090/2017).
4. Analogamente generica e assertiva deve ritenersi la formulazione del motivo di doglianza riferito alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena.
Rileva la Corte partenopea come, in particolare, dalle fotografie in atti e dalle prove dichiarative e documentali, siano emerse, in maniera inconfutabile, condizioni di assoluta ed inescusabile mancanza di qualsiasi presidio di sicurezza all'interno del cantiere edile in questione, a maggior ragione alla luce dell'obiettiva e intrinseca pericolosità della specifica lavorazione - peraltro completamente abu siva - in corso al momento del fatale incidente, dimostrative di una macroscopica mente evidente negligenza, imprudenza ed imperizia oltre che della violazione di numerose nonne antinfortunistiche.
Le circostanze attenuanti generiche vengono negate sul rilievo, peraltro, che non sono emersi elementi positivi che inducessero a concederle e in tal senso il provvedimento impugnato appare collocarsi nell'alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità, che ha più volte chiarito che, ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle atte nuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (così Sez. 3, n. 23055 del 23/4/2013, Banic e altro, Rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell'imputato, nonché al suo nega tivo comportamento processuale).
In caso di diniego, soprattutto dopo la specifica modifica dell'articolo 62bis c.p. operata con il d.l. 23.5.2008 n. 2002 convertito con modif. dalla I. 24.7.2008 n. 125 che ha sancito essere l'incensuratezza dell'imputato non più idonea da sola a giustificarne la concessione va ribadito che è assolutamente sufficiente, come avvenuto nel caso che ci occupa, che il giudice si limiti a dare conto in motivazione di avere ritenuto l'assenza di elementi o circostanze positive a tale fine (cfr. Sez. 3 n. 14595/2018).
In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in conside razione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del sog getto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza.
La pena irrogata in primo grado viene, dunque, ritenuta assolutamente adeguata alla intrinseca gravità del fatto ed alla elevata rimproverabilità della con dotta, nonché in linea con i criteri di cui all'art. 133 cod. pen., pur essendosi il giudice di prime cure discostato in maniera significativa dal minimo edittale, cor rettamente ancorando tale discostamento non soltanto agli elementi sopra indi cati, ma anche e soprattutto ai meccanismi attivati dall'imputato, immediatamente dopo il luttuoso evento, per distogliere dalla sua persona la responsabilità per i fatti ascritti.
5. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissi bilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma l'8 febbraio 2023