Tribunale Cosenza, Sez. Lav., 29 marzo 2023 n. 557 - Mobbing. Risarcimento danni


 


TRIBUNALE DI COSENZA
SEZIONE CONTROVERSIE DI LAVORO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO



Il Tribunale di Cosenza, in composizione monocratica, in funzione di Giudice del Lavoro, nella persona del dott. Vincenzo Lo Feudo, ha pronunciato la seguente
SENTENZA


nella causa iscritta al n. 2276/2021 RGAL



TRA



rappresentato e difeso dall'avv.


E



ricorrente

in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.
resistente


oggetto: risarcimento danni


 

FattoDiritto


Con ricorso ritualmente notificato conveniva in giudizio la società persona legale rappresentante p.t., e, premesso di aver lavorato alle dipendenze della convenuta dal 23.09.1997, con mansioni dal 2012 di responsabile di negozio, fino al 17.06.2016, quando era stata licenziata per superamento del periodo di comporto, chiedeva una condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni biologico e morale, che deduceva essere diretta conseguenza di una condotta mobbizzante, realizzata attraverso una serie di atti di gestione del rapporto di lavoro posti in essere con intento vessatorio.

In particolare esponeva che in ragione della suddetta condotta era stata costretta ad un surplus lavorativo e segnatamente esponeva:

che nella qualità di Store Manager, dal 18.12.2012 aveva doveva recarsi a cadenza mensile alle riunioni di area, mentre, successivamente - in particolare negli ultimi 18 mesi del rapporto - era stata continuativamente chiamata a recarsi fuori sede (Lecce, Napoli, Bari, Salerno, Milano e Lamezia Terme) permanendovi per periodi medio/lunghi (da tre a sei giorni) e lavorando fino a 14 ore al giorno, dalle h. 5.00/6.00 del mattino, sia per l'allestimento di nuovi punti vendita, sia per la formazione dei nuovi store manager, ovvero per effettuare inventari in orario di chiusura dei negozi e quindi in orario notturno; che anche presso il negozio di Rende aveva effettuato lavoro straordinario non riconosciuto, in quanto il capo area le aveva imposto di sostituirlo per sue esigenze personali, obbligandola ad anticipare il turno di almeno due ore per raccogliere, in sua vece, i dati dei punti vendita del centro sud e di relazionare alla società;

che aveva lavorato in negozio per sei giorni alla settimana, dalle h. 8.00 alle h. 22.00, senza pausa pranzo, consumando pasti da asporto veloce; che l'orario previsto in contratto era, per contro, di otto ore giornaliere per cinque giorni la settimana;

che al fine di assecondare le esigenze datoriali la ricorrente non riusciva a dedicarsi al marito e alla figlia di 9 anni, tanto da doverla trasferire presso i nonni, in un paese del circondario;

che a causa delle modalità di svolgimento della prestazione aveva iniziato a soffrire di violenti attacchi di panico e dall'ottobre 2015 era già in cura presso una psicologa per il trattamento della "sindrome ansiosa/reattiva, verosimilmente causata da forte stress lavorativo" e che a causa di ciò in data 27 novembre 2015, mentre si stava recando al lavoro, aveva un incidente automobilistico, riportando danni alla persona, dovendo, inoltre, continuare a lavorare sin dal giorno successivo all'incidente e con turni particolarmente intensi; che analoghi comportamenti erano stati tenuti dal datore di lavoro fino al licenziamento (applicazione pretestuosa di una sanzione disciplinare, ingiurie a lei rivolte dal Capo Area).

Dedotta la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., per averla costretta a svolgere attività incompatibile con il proprio stato di salute (sindrome ansioso depressiva reattiva) di cui era a conoscenza, lamentava una lesione dell'integrità psico fisica corrispondente ad un danno biologico del 20%. Concludeva come sopra indicato, chiedendo una condanna al risarcimento dei danni quantificati in euro 92.345,00.

Si costituiva la società convenuta, contestando l'assunto attoreo e chiedendo il rigetto della domanda per infondatezza.
Veniva fissata per la discussione l'udienza del 29.03.2023, poi sostituita dal deposito di note scritte ex art. 127 ter c.p.c. con provvedimento comunicato alle parti il 28.02.2023; le parti depositavano le note di trattazione scritta rispettivamente nelle date del 20.03.2023 e del 01.03.2023.

Si premette che la cessione del ramo di azienda nel quale la ricorrente è stata occupata fino al 17.06.2016 (cessione avvenuta nel 2021) non giustifica la richiesta di una interruzione del giudizio (con eventuale riassunzione, come suggerito dalla società convenuta) non sussistendo in capo alla cessionaria alcun obbligo nei confronti della ricorrente.

Come da tempo chiarito dalla Suprema Corte (cfr., ex multis n. 12899/1997) il nuovo testo dell'art. 2112 c.c., così come sostituito dalla legge n. 428 del 1990 ("legge comunitaria per il 1990", correlata alla legge 9 marzo 1989 n. 86, recante le norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari) deve essere interpretato alla luce della lettera e della "ratio" della direttiva CEE attuata (n. 77/187) e della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea formatasi sulla direttiva stessa, alla cui interpretazione il giudice nazionale deve uniformarsi, "posto che soprattutto sul piano ermeneutico - come pure è stato affermato dalla Corte Costituzionale - V ordinamento comunitario manifesta la sua prevalenza su quello nazionale, nel senso che, tra i molteplici possibili significati che possa presentare la norma statale interna, V interprete è tenuto ad adeguarsi al significato che risulti più conforme al diritto comunitario".

Nello stesso senso, più di recente. "L'art. 2112, secondo comma, cod. civ., che prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario, presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d'azienda, sicché non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi a tale momento, salva in ogni caso l'applicabilità dell'art. 2560 cod. civ. che contempla, in generale la responsabilità dell'acquirente per i debiti dell'azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori. (Nella specie, i lavoratori erano stati licenziati dalla cedente in assenza di contestazione, attesa la chiusura dell'esercizio, poi riaperto, dopo alcuni mesi, a seguito di ristrutturazione ed assunzione di altro personale)" (Cass., Sez. L. n. 4598/2015). In questa prospettiva ai fini di una corretta interpretazione dell'attuale testo dell'art. 2112 cod. civ., è necessario muovere dalle disposizioni della citata direttiva comunitaria ed in particolare dal disposto dell'art. 3, punto 1 prima parte, il quale prevede che, nel caso di trasferimento d'azienda ad un nuovo soggetto imprenditore, siano trasferiti al cessionario obblighi (o diritti) del cedente derivanti dai rapporti di lavoro sussistenti alla data del trasferimento stesso (testualmente la direttiva sul punto recita: "I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento... sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario").

Tale previsione chiaramente esclude che a carico del cessionario possano ritenersi trasferiti obblighi o diritti derivanti da rapporti di lavoro che, pur se già intercorsi con il cedente, non siano più esistenti, perché cessati per una delle varie cause di risoluzione, nel momento in cui il cessionario subentra nella titolarità dell'azienda.

Ciò premesso, ritiene il Tribunale che il ricorso non possa trovare accoglimento. Secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito con il termine mobbing ci si riferisce a una situazione di aggressione, di esclusione, di emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei suoi superiori, che si manifesta attraverso una serie coordinata e sistematica di azioni con cui l'aggressore (mobber) intenzionalmente mette in atto strategie comportamentali volte alla distruzione psicologica, sociale e professionale della vittima (mobbizzato).

L'accertamento dell'illecito comporta dunque il riscontro di una condotta sistematica e dolosa di soprusi finalizzati a danneggiare il lavoratore e del nesso causale esistente tra il pregiudizio lamentato e detto comportamento. La Suprema Corte ha più volte affermato che "Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè V intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi" (ex multis, Sez. L. n. 17698 del 06.08.2014).

Ebbene, nel caso di specie non può che evidenziarsi come la ricorrente nell'atto introduttivo del giudizio abbia in modo estremamente generico allegato che dalla asserita condotta vessatoria sia derivata l'insorgenza di uno stato di profondo malessere psico - fisico (con sintomi particolarmente gravi) senza tuttavia senza offrire idonei riscontri in ordine alla sussistenza della condotta datoriale e del necessario nesso eziologico tra le patologie stesse e la condotta stessa.

La ricorrente ha infatti chiesto di provare attraverso la prova per testi il comportamento vessatorio del datore di lavoro ed ha chiesto, altresì, al giudice di disporre una CTU che accerti e quantifichi la sussistenza delle lesioni all'integrità fisica.

Ebbene, premesso che l'eccezione di giudicato sollevata dalla società resistente deve ritenersi infondata, posto che il Tribunale di Cosenza si è pronunciato sulla vicenda lavorativa della ricorrente, ma solo al fine di valutare, escludendolo, l'eccepito intento ritorsivo del licenziamento, si osserva che, come correttamente dedotto dalla convenuta, non vi sono elementi per affermare la sussistenza di una condotta mobbizzante e soprattutto il necessario nesso eziologico tra tale asserita condotta e l'insorgenza della patologia. La società ha documentalmente provato:
 

che durante tutto il rapporto di lavoro - ed ancor di più negli ultimi 18 mesi - la ricorrente ha sempre fruito del giorno di riposo settimanale di ferie, di permessi e di ROL;

che per tutto l'anno 2015 la ricorrente ha sempre fruito di giornate di ferie; che lo straordinario è stato sempre retribuito;


che nell'anno 2016, al netto delle assenze per malattie seguite agli infortuni, di riposi settimanali e di altre assenze, la ricorrente ha lavorato solo per 24 giorni; che nel corso del 2015 la ricorrente ha percepito una serie di premi mensili per un importo complessivo di Euro 1.490,00 lordi;


che nel mese di febbraio 2016 la lavoratrice è stata premiata come Store Manager del miglior scontrino medio 2015 del Centro Sud;


che con la busta paga del mese di aprile alla ricorrente è stato riconosciuto il cosiddetto premio "Shop Profit" per un importo pari ad Euro 2.464,11 lordi, sebbene fosse assente da oltre due mesi;


che, prima del licenziamento, la lavoratrice non ha mai censurato la condotta del Capo Area né ha denunciato surplus lavorativo.


Si aggiunga che la ricorrente lamenta di aver svolto lavoro straordinario non retribuito, ma non agisce per ottenerne il ristoro, né ha mai impugnato la sanzione conservativa applicatale, che pure definisce ingiusta. Ma ciò che non è davvero sostenibile nel caso di specie è proprio il nesso di causalità tra l'asserita condotta datoriale e l'insorgenza della grave patologia denunciata.

Si osserva che secondo il pacifico e costante orientamento della Suprema Corte

"In relazione alla finalità propria della consulenza tecnica d'ufficio, che è quella di aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere uri indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati" (cfr. ex multis, n. 2887/2003) nel caso di specie non può che rilevarsi come, in difetto di idonei riscontri documentali, la richiesta consulenza avrebbe avuto la suddetta inammissibile finalità di verificare circostanze non provate. Considerato, infatti, che nell'anno 2016 la ricorrente ha lavorato solo per 24 giorni e che, quindi, la condotta asseritamente vessatoria che si assume all'origine delle lamentate patologie deve necessariamente collocarsi negli anni precedenti, osserva il Tribunale che la documentazione medica in atti non consente in alcun modo, già prima facie, di ritenere che la sindrome depressiva ansiosa reattiva diagnosticata possa ricondursi a dinamiche lavorative. Prescindendo da tutta la certificazione successiva al licenziamento, si osserva che il certificato in data 04.05.2016 (documento allegato n.15) riferisce la patologia "verosimilmente a stress lavorativo".

Dal certificato in data 10.06.2016 (documento allegato n. 17) risulta che "dalla raccolta dei dati anamnestici si registra una condizione disadattiva in seno al contesto lavorativo".
Il certificato in data 15.09.2016 non indica alcuna "possibile o verosimile" origine della patologia.

Ebbene, da tale documentazione nulla può ricavarsi quanto al dedotto nesso eziologico tra la sindrome depressiva ansiosa reattiva e la condotta datoriale denunciata, atteso che il riferimento (in soli due certificati) all'ambiente lavorativo è stato chiaramente riferito dalla stessa ricorrente nel corso delle visite mediche.

Quanto alla certificazione contestata dalla società (non prodotta nel pregresso giudizio e non menzionata nella relazione di parte redatta nel 2021) non può che rilevarsi che anche tale documento è inidoneo allo scopo, posto che in esso si legge, ancora una volta, che la ricorrente è stata sottoposta ad un trattamento psicoterapeutico dal 05.10.2016 al 5.02.2016 per "sindrome depressiva ansiosa reattiva, verosimilmente causata da forte stress lavorativo". Lo "stress lavorativo" anche questa volta è definito "verosimile", perché tale è la causa riferita dalla ricorrente.

Dalla stessa relazione in data 11.01.2021 si ricava che è la ricorrente ha suggerire l'origine lavorativa della patologia, in modo particolare alle dinamiche che hanno portato al licenziamento.

Inoltre nessuno dei capitoli della prova per testi articolata in ricorso risulta finalizzato a provare la sussistenza dei pregiudizi di cui si chiede il ristoro (se non con un generico richiamo alla documentazione esaminata), essendo sostanzialmente tutti volti alla sola ricostruzione dell'iter lavorativo della ricorrente.

In tale situazione non può che trovare applicazione, allora, il noto e costante orientamento della Suprema Corte la quale, in rigorosa coerenza ai principi in materia di onere della prova, più volte ha statuito in tema di risarcimento danni asseritamente cagionati dal datore di lavoro: "Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto.. .deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 cod. civ.. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito sul punto in quanto il giudice, invece di verificare se il prestatore di lavoro aveva nella specie provato, conformemente all'onere probatorio da cui era gravato, il danno ed il nesso di causalita1 con l'inadempimento datoriale, aveva affermato che al demansionamento professionale andava riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pur in mancanza della dimostrazione di un effettivo pregiudizio"
Cass., n. 10361 del 28.5.2004, n. 7905/1998 e 8904/2003; più di recente n. 29047/2017). La domanda non può, dunque, trovare accoglimento.

Le spese di lite come di norma seguono la soccombenza e si liquidano nella misura indicata in dispositivo.


 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in euro 5.360,00, oltre IVA, CPA e rimborso spese forfettarie come per legge.


Cosenza, 29 marzo 2023.