Responsabilità del legale rappresentante di una cava per il reato di omicidio colposo in danno di un operaio e custode della cava stessa nonchè della moglie e della figlia di quest'ultimo, abitanti all'interno della ditta, in particolare:
"a .1) per aver omesso ogni manutenzione sull'edificio in cui era compreso l'alloggio occupato dal K.E.J.S. e, in particolare, per non aver garantito il funzionamento dell'impianto termico e del camino in condizioni di efficienza e tali da garantire la sicurezza del lavoro, pur essendo tenuto a tale incombenza in virtù della sua qualità di datore di lavoro e delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 3, lett. r), al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 347 e - con specifico riferimento all'omissione consistita nel non aver garantito il tiraggio della caldaia - al D.P.R. n. 303 del 1956, art. 12 (disposizioni applicabili per il principio di specialità rispetto alla norma generale di cui al D.P.R. n. 41 del 1983, art. 11, comma 2, e/o per il criterio intertemporale;
a.2) per aver omesso di indicare nel documento di valutazione del rischio, datato febbraio 2002, ogni elemento concernente il pericolo derivante dall'utilizzo dell'impianto di riscaldamento e, in particolare, dalla mancanza di manutenzione periodica dello stesso, cosi come di fornire altrimenti tale informazione necessaria per prevenire ogni possibile rischio, come quello concretamente verificatosi, per la sicurezza e la salute del predetto dipendente (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2 e D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 21);
a.3) per aver omesso comunque di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori (art. 2087 c.c); si che, in conseguenza di tale condotta, la caldaia di cui era dotato l'alloggio delle persone offese, da considerarsi luogo di lavoro, riversava nell'ambiente un quantitativo anomalo e letale di CO., a causa della totale ostruzione che un nido di uccelli, presente almeno dalla precedente stagione primaverile, che impediva l'evacuazione all'esterno dei prodotti della combustione, con conseguente reflusso nell'ambiente abitato, provocando il decesso per intossicazione acuta di monossido di carbonio di tutte le sopra citate persone offese."
Condannato in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Rigetto.
"I giudici di merito hanno evidenziato, in base ad accertamento di fatto insindacabile in questa sede, che l'appartamento era occupato dalla vittima per motivi strettamente collegati alla sua attività lavorativa alle dipendenze dello S.; di tal che l'obbligo di manutenzione dell'impianto termico - e di verifica dell'efficienza del tiraggio del camino - incombeva senza dubbio alcuno sul datore di lavoro: come peraltro dimostrato inequivocabilmente dalla circostanza che il libretto relativo alle operazioni di manutenzione dell'impianto stesso era nella disponibilità dello S..
Nè rileva che l'imputato avesse affidato ad una ditta specializzata l'incarico di predisporre un adeguato piano di previsione dei rischi.
Dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8, commi 3 e 10, emerge a chiare lettere che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non può essere chiamato a rispondere direttamente del suo operato, perchè difetta di un effettivo potere decisionale: si tratta di un consulente che opera come "ausiliario" del datore di lavoro e i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico), vengono fatti propri dal vertice che lo ha scelto e che della sua opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario.
Peraltro, il soggetto cui viene affidato il compito di predisporre il piano di previsione dei rischi, qualora, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischi - inducendo, cosi, il datore di lavoro ad omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale - deve rispondere insieme a questi dell'evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale.
Lo schema originario cosi delineato nel D.Lgs. n. 626 del 1994 - quanto alla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, quale soggetto che, non trovandosi in posizione di garanzia, può essere chiamato a rispondere delle proprie negligenze solo nei limiti e nei casi di cui si è appena detto, in quanto la responsabilità fa capo al datore di lavoro - ha poi subito nel tempo una evoluzione, che ha indotto il legislatore ad introdurre con il D.Lgs. n. 195 del 2003 una norma (con l'art. 8 bis) che prevede la necessità in capo alla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una qualifica specifica.
La modifica normativa ha comportato in via interpretativa una revisione della suddetta figura, nel senso che il soggetto designato responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur rimanendo ferma la posizione di garanzia del datore di lavoro, possa, ancorchè sia privo di poteri decisionali e di spesa, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere, nel sistema elaborato dal legislatore, che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione.
Orbene, venendo al caso in esame, è emerso che nel piano di previsione dei rischi mancava qualsiasi riferimento all'esistenza di un'unità abitativa sovrastante gli uffici, occupata, per motivi di lavoro, da un dipendente e dalla sua famiglia.
Dunque, due sono le ipotesi che si possono formulare: o l'imputato non aveva fornito alla ditta incaricata di redigere il piano per la sicurezza tutte le informazioni necessarie per consentirle di ben adempiere il compito ad essa affidato, omettendo di sottoporre all'attenzione della stessa anche l'unità abitativa occupata dal dipendente per motivi strettamente legati alle mansioni svolte, anche di custode; oppure, l'imputato aveva adempiuto all'obbligo di completa informazione, ed in tal caso avrebbe però poi dovuto rilevare, all'atto del controllo del piano quale redatto dalla ditta incaricata, l'assenza di qualsiasi riferimento, nel piano stesso, all'unità abitativa in argomento.
Nell'uno e nell'altro caso appare evidente la sussistenza dei profili di colpa contestati all'imputato, non potendo in alcun modo essere posta in discussione la natura di luogo di lavoro dell'abitazione posta a disposizione del K.E.J. S. affinchè questi potesse svolgere anche le mansioni di custode dell'azienda.
Quanto sopra detto vale a destituire di giuridico fondamento l'assunto difensivo secondo cui (pagg. 13 e 14 del ricorso) ci si troverebbe in presenza di condanna a titolo di responsabilità oggettiva.
In proposito appare anche opportuno ricordare il consolidato indirizzo interpretativo delineatosi in materia nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui "in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, gli obblighi di vigilanza e di controllo che gravano sul datore di lavoro non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cui sono demandati dalla legge compiti diversi intesi ad individuare i fattori di rischio, ad elaborare le misure preventive e protettive e le procedure di sicurezza relative alle varie attività aziendali" (Sez. 4A, n. 27420 del 20/05/2008 Ud. - dep. 04/07/2008 - Rv. 240886).
Resta solo da dire, in punto di responsabilità dello S., che neppure è fondato l'assunto del ricorrente secondo cui l'evento sarebbe ascrivibile anche alla condotta del K.E. J.S. per non avere costui mai segnalato anomalie di sorta nel funzionamento dell'impianto termico dell'abitazione; ed invero, secondo quanto precisato dal perito, e come ricordato dalla Corte d'Appello, "l'accumulo nell'ambiente abitativo di gas velenosi non è percepibile e dunque può essere insidioso ed improvviso come in questo caso".
A ciò aggiungasi, "ad abundantiam", che in tema di infortuni sul lavoro, l'eventuale colpa concorrente dei lavoratori non può spiegare alcun effetto esimente per uno dei soggetti indicati dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, che si sia reso comunque responsabile di violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica, in quanto la normativa relativa è diretta a prevenire pure la condotta colposa dei lavoratori per la cui tutela è adottata".
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANATO Graziana - Presidente
Dott. IACOPINO Silvana Giovanna - Consigliere
Dott. ROMIS Vincenzo - rel. Consigliere
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere
Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) S.W. N. IL (OMISSIS); avverso la sentenza n. 13303/2006 CORTE APPELLO di TORINO, del 29/01/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 15/12/2009 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROMIS Vincenzo;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. D'AMBROSIO Vito che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per la parte civile, avv. Moretti Franco in sostituzione dell'avv. Pezzali che ha chiesto il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. Correnti Giovanni che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
Nei confronti di S.W. - nella qualità di legale rappresentante della "N.C.D. s.r.l." - il P.M. presso il Tribunale di Ivrea presentava richiesta di citazione a giudizio in ordine al reato di cui all'art. 40 c.p., art. 589 c.p., commi 1, 2 e 3, secondo un articolato capo di imputazione così formulato: per aver provocato, ovvero non impedito, il decesso:
1) di K. E.J.S., che svolgeva l'attività di operaio e di custode della cava (con mansioni non rientranti tra quelle comprese nel campo di applicazione della normativa speciale per le lavorazioni estrattive, e per questo motivo necessariamente occupante l'alloggio sito al primo piano del fabbricato posto all'interno dei locali della ditta, in località (OMISSIS), dovendo esercitare la custodia anche e soprattutto in ore notturne e nei periodi festivi;
2) di K.S.M.I. e K.E.G. G.S., moglie e figlia del predetto dipendente e con lui conviventi; e ciò per colpa generica e specifica, e in particolare:
a.1) per aver omesso ogni manutenzione sull'edificio in cui era compreso l'alloggio occupato dal K.E.J.S. e, in particolare, per non aver garantito il funzionamento dell'impianto termico e del camino in condizioni di efficienza e tali da garantire la sicurezza del lavoro, pur essendo tenuto a tale incombenza in virtù della sua qualità di datore di lavoro e delle disposizioni di cui al
D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 3, lett. r), al
D.P.R. n. 547 del 1955 art. 347 e - con specifico riferimento all'omissione consistita nel non aver garantito il tiraggio della caldaia - al
D.P.R. n. 303 del 1956, art. 12 (disposizioni applicabili per il principio di specialità rispetto alla norma generale di cui al D.P.R. n. 41 del 1983, art. 11, comma 2, e/o per il criterio intertemporale;
a.2) per aver omesso di indicare nel documento di valutazione del rischio, datato febbraio 2002, ogni elemento concernente il pericolo derivante dall'utilizzo dell'impianto di riscaldamento e, in particolare, dalla mancanza di manutenzione periodica dello stesso, così come di fornire altrimenti tale informazione necessaria per prevenire ogni possibile rischio, come quello concretamente verificatosi, per la sicurezza e la salute del predetto dipendente (
D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2 e
D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 21);
a.3) per aver omesso comunque di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori (art. 2087 c.c); sì che, in conseguenza di tale condotta, la caldaia di cui era dotato l'alloggio delle persone offese, da considerarsi luogo di lavoro, riversava nell'ambiente un quantitativo anomalo e letale di CO., a causa della totale ostruzione che un nido di uccelli, presente almeno dalla precedente stagione primaverile, che impediva l'evacuazione all'esterno dei prodotti della combustione, con conseguente reflusso nell'ambiente abitato, provocando il decesso per intossicazione acuta di monossido di carbonio di tutte le sopra citate persone offese.
In sede di udienza preliminare l'imputato formulava richiesta di definizione del procedimento con l'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. ma il P.M. non prestava il proprio consenso; a carico dello S. veniva quindi emesso decreto di citazione a giudizio, e l'imputato dinanzi al Giudice del dibattimento reiterava la richiesta di definizione del procedimento ai sensi dell'art. 444 c.p.p.; anche in tale sede il P.M., sottolineando il mancato risarcimento del danno, non prestava il consenso: il Tribunale procedeva oltre, ed all'esito del dibattimento condannava l'imputato alla pena ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, ponendo altresì a carico dell'imputato una provvisionale immediatamente esecutiva da versare alle parti civili stesse per importi legati al grado di parentela (Euro 100.000,00 a favore della madre del lavoratore, Euro 100.000,00 a favore del padre della moglie del lavoratore, Euro 32.000,00 per ciascuno dei fratelli del lavoratore, Euro 10.000,00 per la cognata del lavoratore).
Lo S. proponeva gravame alla Corte d'Appello di Torino, e nel corso del giudizio di secondo grado la difesa dell'imputato produceva un atto di transazione per un importo di Euro 185.000,00 a titolo di integrale risarcimento dei danni a favore delle parti civili, recante le sottoscrizioni delle parti civili P.E. e K.R.J.S. - quest'ultimo per sè e quale procuratore di tutte le altre parti civili - autenticate dai loro difensori: in base a detto documento, la difesa dello S. chiedeva che la Corte distrettuale non consentisse alle parti civili di rassegnare le proprie conclusioni; dette parti civili disconoscevano tali firme, ed i loro nuovi difensori producevano documentazione attestante l'avvenuta presentazione di querela ai Carabinieri di Livorno nonchè certificazione da cui risultava che nel giorno corrispondente alla data apposta in calce all'atto di transazione la P. si trovava detenuta presso la Casa Circondariale di (OMISSIS) dove, in quel giorno, non aveva ricevuto alcuna visita.
La Corte territoriale confermava l'affermazione di colpevolezza nei confronti dello S., riduceva la pena allo stesso inflitta, previa esclusione della recidiva contestata trattandosi di reato colposo, dichiarava interamente condonata la pena così rideterminata, e confermava nel resto l'impugnata sentenza condannando l'imputato alle spese del grado in favore delle parti civili.
In risposta alle deduzioni dell'appellante, la Corte d'Appello motivava il proprio convincimento con argomentazioni che possono così sintetizzarsi:
a) per il Tribunale non sussisteva alcun obbligo di acquisire il fascicolo del P.M. per valutare la reiterata richiesta di patteggiamento avanzata dall'imputato ed il dissenso espresso dal P.M., essendo il consenso del P.M. indispensabile per l'applicazione della pena: il Tribunale avrebbe solo dovuto valutare, all'esito del dibattimento, come poi in effetti aveva fatto, la fondatezza o meno del dissenso del P.M. ed applicare la diminuzione di un terzo sulla pena determinata, nel caso di dissenso ritenuto ingiustificato: donde la mancanza di qualsiasi ragione di incompatibilità ex art. 34 c.p.p.; appariva poi del tutto legittima la decisione del primo giudice laddove questi aveva disatteso la richiesta di applicazione della diminuzione di un terzo della pena non per aver ritenuto condivisibile il motivo addotto dal P.M. a fondamento del dissenso espresso a fronte della richiesta di patteggiamento avanzata dall'imputato (e cioè il mancato risarcimento del danno), bensì per aver ritenuto non congrua la pena proposta avuto riguardo alla gravità del fatto (come ricordato dalla Corte a pag. 3 della sentenza nel riassumere il percorso argomentativo seguito dal primo giudice): la macroscopica entità della colpa, la gravità degli eventi letali causati e l'assenza di qualunque colpa in capo alla vittima, imponevano "di non relegare la vicenda nella fascia dei reati meno gravi" (pag. 8 della sentenza della Corte d'Appello);
b) alcuna nullità era ravvisabile nella sentenza di primo grado perchè carente delle esatte generalità delle parti civili, trattandosi di irregolarità non ricompresa nella tassativa previsione di nullità ex art. 546 c.p.p., comma 3;
c) nel merito, appariva fuori discussione la condotta colposa dell'imputato: il nido d'uccelli trovato all'interno della canna fumaria, creatosi progressivamente nel corso degli anni, aveva impedito, fungendo da vero e proprio tappo, lo smaltimento dei prodotti velenosi provocati dalla combustione, come accertato dal consulente del P.M. le cui conclusioni non erano state scientificamente contrastate dalla difesa dell'imputato; non poteva condividersi l'assunto dell'appellante secondo cui, non avendo il lavoratore segnalato alcuna anomalia, la formazione del nido sarebbe avvenuta in epoca prossima all'evento, posto che "l'accumulo nell'ambiente abitativo di gas velenosi non è percepibile e dunque può essere insidioso ed improvviso come in questo caso" (così testualmente a pag. 7 della sentenza di appello);
d) se fossero stati rispettai i tempi normativamente previsti per le operazioni di manutenzione dell'impianto termico, sarebbe stato possibile prendere atto della presenza del nido e provvedere alla sua rimozione nonchè all'installazione di una rete: di tal che l'evento sarebbe stato evitato;
e) responsabile della manutenzione della caldaia era lo S., quale datore di lavoro: ed invero il K.E.J.S. abitava in quell'appartamento (con la famiglia) non quale affittuario o comodatario ma in quanto custode, come dimostrato dalle inequivoche indicazioni rilevabili dal contratto di lavoro, dalle pratiche edilizie, dal contratto assicurativo, dalla stessa testimonianza di chi aveva preceduto il K.E.J.S. in quel ruolo: d'altra parte, per come si legge testualmente a pag. 7 della sentenza di secondo grado, "il fatto stesso che il libretto manutentivo dell'impianto non fosse in casa ma fosse rimasto in possesso del datore di lavoro della vittima raffigura plasticamente quale fosse il titolare dell'obbligo conseguente e come fosse assolutamente impossibile per la vittima ovviarvi personalmente";
f) a nulla rilevava che l'imputato avesse affidato ad una ditta specializzata l'incarico di redigere un adeguato piano di previsione dei rischi, posto che mancava in tale piano qualunque riferimento all'esistenza di un'unità abitativa sovrastante gli uffici: dunque, l'imputato non aveva messo tale ditta in grado di ben adempiere il compito ad essa affidato; bisognava poi considerare che, per previsione di legge, il responsabile per la sicurezza nominato ai sensi del
D.P.R. n. 626 del 1994 non si sostituisce al datore di lavoro ma si limita ad affiancarlo, essendo suo mero ausiliario;
g) quanto alla legitimatio ad causam delle parti civili, il grado di parentela delle stesse con le vittime risultava adeguatamente dimostrato dalle rispettive autocertificazioni, derivando la valenza certificativa di tali atti dal sistema introdotto con il D.P.R. n. 445 del 2000 e dalla contestuale assunzione da parte dell'interessato dell'obbligo, penalmente rilevante, di dichiarare la verità: peraltro la difesa dell'imputato non aveva nemmeno denunciato la falsità di dette dichiarazioni;
h) il quantum liquidato a titolo di provvisionale dal primo giudice appariva condivisibile perchè adeguato agli ingentissimi danni non patrimoniali causati dalla luttuosa vicenda in ragione del grado di parentela che ciascuna delle parti civili aveva con il giovane lavoratore, sua moglie e la loro figlia in tenerissima età: era risultato azzerato un intero nucleo familiare, e l'elevato grado della colpa dell'imputato acuiva ancor più il dolore della perdita dei cari, tenuto conto della sottrazione del libretto manutentivo dell'impianto di riscaldamento al giovane lavoratore;
i) infine non poteva aderirsi alla richiesta della difesa dell'appellante di decidere la questione relativa all'autenticità o falsità delle sottoscrizioni dell'atto di transazione; pur trattandosi di questione che ben avrebbe potuto trovare soluzione nel processo penale - non rientrando in alcuna delle eccezioni previste - la stessa, essendo stata sollevata nell'ambito dell'innesto del processo civile in quello penale, avrebbe dovuto essere affrontata e risolta secondo le regole del rito civile; dalla documentazione acquisita risultava che era stata formalmente denunciata la falsità dell'atto di transazione e non era stata chiesta dall'imputato la verificazione secondo le modalità previste dall'art. 216 c.p.c.: il che determinava un impasse nella risoluzione della questione posto che "l'inerzia di una parte, nell'ambito di un processo civile, non è colmabile con poteri officiosi" (pag. 9 della sentenza della Corte d'Appello); appariva opportuno limitarsi a prendere atto del disconoscimento della scrittura privata utilizzata dalla difesa dell'imputato, con conseguente mantenimento della legittimazione delle Parti Civili a concludere: una diversa interpretazione dell'art. 2 c.p.p. avrebbe imposto tempi lunghi alla celebrazione ed al completamento del processo penale, "il che per giunta sarebbe entrato in rotta di collisione con il nuovo principio costituzionale della ragionevole durata del processo" (così, ancora a pag. 9 della sentenza); peraltro la questione avrebbe comunque trovato poi sede e risoluzione nel processo civile che prevedibilmente sarebbe stato instaurato fra le parti all'esito del processo penale.
Ricorre per cassazione lo S. riproponendo sostanzialmente le tesi sottoposte al vaglio dei giudici di merito, deducendo violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alle valutazioni della Corte distrettuale ed alle statuizioni dalla stessa conseguentemente adottate; i motivi di ricorso possono cosi sintetizzarsi:
1) i giudici di merito si sarebbero limitati a prendere atto del dissenso del P.M., considerando di per sè ostativa al patteggiamento la volontà del P.M., mentre avrebbero dovuto ritenere ingiustificato tale dissenso, con conseguente applicazione della diminuzione di pena prevista per il patteggiamento, avendo il P.M. rifiutato di prestare il consenso esclusivamente sul rilievo del mancato risarcimento del danno; ove invece i giudici avessero ritenuto di dover condividere, per effetto di una specifica delibazione in proposito, il dissenso del P.M. considerandolo quindi giustificato, non potrebbe affermarsi che "esso non abbia, ex lege, dovuto prendere visione degli atti del procedimento penale, ritenendo all'esito, attraverso criteri non specificati, incongrua la pena proposta e fondato il dissenso del Pubblico Ministero" (così testualmente a pag. 5 del ricorso): in tal caso il giudice di prime cure sarebbe divenuto immediatamente incompatibile;
2) si ribadisce l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado sull'asserito rilievo della mancata indicazione in sentenza della specifica indicazione delle parti civili;
3) l'obbligo di manutenzione dell'impianto termico esistente nell'unità immobiliare occupata dal K.E.J.S. gravava su quest'ultimo ai sensi della L. n. 10 del 1991 e del relativo Regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n. 412 del 1993 (modificato dal D.P.R. n. 551 del 1999), trattandosi di normativa di carattere generale applicabile a tutti gli immobili, dettata con riferimento a rapporti civilistici, priva di qualsiasi carattere giuslavoristico; nè avrebbe potuto trovare spazio di applicazione il D.Lgs. n. 626 del 1994 dovendo escludersi che l'abitazione "de qua" presentasse le connotazioni di luogo di lavoro: l'immobile era stato concesso in comodato al K.E.J.S. il quale svolgeva le mansioni di operaio per conto dell'impresa di cui era dipendente, e non sarebbe stata neanche acquisita la prova concreta che egli svolgesse lavoro di guardiana o custodia: e comunque anche tale eventuale attività non avrebbe in alcun modo implicato l'obbligo per il datore di lavoro di concessione di alloggio in favore del dipendente, dovendo qualificarsi siffatta disponibilità come forma di retribuzione indiretta; a riprova della mancanza di qualsiasi collegamento tra l'abitazione in argomento e l'attività lavorativa, vi sarebbe il Piano per la sicurezza, la cui redazione era stata affidata ad una ditta specializzata, nel quale non figurava in alcun modo l'abitazione stessa come ambiente di lavoro; l'eventuale errore nella predisposizione del Piano per la sicurezza, per non essere stato preso in considerazione l'alloggio occupato dal dipendente e dalla sua famiglia, non potrebbe in alcun modo essere addebitato allo S.; affermare la sussistenza di una responsabilità in capo a quest'ultimo, nonostante la formale nomina e la presenza di un soggetto quale responsabile per la sicurezza, significherebbe colpevolizzare lo S. stesso a titolo di mera responsabilità oggettiva; peraltro anche il dipendente sarebbe venuto meno ai suoi doveri di informazione, specificamente previsti dalla L. n. 626 de 1994, non avendo mai segnalato al datore di lavoro nè al dirigente nè al preposto il cattivo funzionamento dell'impianto termico;
4) le parti civili non avrebbero dichiarato nelle forme prestabilite il proprio grado di parentela con le vittime, non potendo ritenersi l'autocertificazione mezzo idoneo a soddisfare l'onere probatorio, ed i giudici di merito erroneamente avrebbero liquidato i danni morali in mancanza di prove adeguate circa le relazioni affettive tra le parti civili stesse e le persone decedute, non avendo neanche indicato i giustificati motivi richiesti dall'art. 540 c.p.p.;
5) avrebbe infine errato la Corte territoriale nel non assumere decisione di fronte alla richiesta avanzata dal Procuratore Generale di udienza e dal difensore dell'imputato di non far concludere le parti civili: l'atto transattivo era del tutto regolare e di ciò facevano fede le firme dei difensori apposte per autentica di quelle delle parti, di tal che lo S. era legittimamente convinto di aver soddisfatto le obbligazioni risarcitorie assunte.
Ha presentato memoria il difensore di parte civile con argomentazioni finalizzate a contrastare quanto dedotto dal ricorrente con i motivi di ricorso.
Diritto
I motivi addotti, posti a base del ricorso, sono infondati; sicchè il ricorso deve essere rigettato.
Quanto al primo motivo, la Corte territoriale, a pag. 3 della sentenza (come sopra ricordato, nella parte relativa allo "svolgimento del processo"), ha precisato che il Tribunale aveva disatteso la richiesta di applicazione di un terzo della pena, non per aver condiviso il parere negativo del P.M. basato esclusivamente sul mancato risarcimento del danno (situazione che non avrebbe potuto di per sè rendere giustificato il dissenso del P.M.), bensì per avere considerato inadeguata la pena proposta con la richiesta di patteggiamento, sul rilievo della ritenuta particolare gravità del fatto (situazione processuale che lo stesso ricorrente, per quel che si rileva da pag. 5 del ricorso, non sembra peraltro aver contestato, e che, comunque, corrisponde esattamente a quella riportata dalla Corte, per come è agevole rilevare a pag. 8 della sentenza di primo grado (pag. 76 Atti Tribunale)): potere questo espressamente conferito al giudice dall'art. 444 c.p.p., comma 2; nè le valutazioni di merito del giudice, circa l'incongruità della pena proposta dall'imputato, possono essere sottoposte al sindacato di legittimità.
Per quel che riguarda la prospettata incompatibilità del giudice di primo grado, basta osservare - quale argomento tranciante ed assorbente, ed a prescindere quindi da qualsiasi altra considerazione - che eventuali cause di incompatibilità possono solo legittimare la richiesta di ricusazione del giudice (richiesta non avanzata nel caso di specie) ma non determinano alcuna nullità, secondo il condivisibile e consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte: "L'incompatibilità ex art. 34 c.p.p., comma 2 non attiene alla capacità del giudice, intesa quale capacità ad esercitare la funzione giudiziaria, in difetto della quale e soltanto per tale causa, opera utilmente la nullità assoluta di cui all'art. 178 c.p.p., lett. a).
Ed invero il difetto di capacità del giudice va inteso come mancanza dei requisiti occorrenti per l'esercizio delle funzioni giurisdizionali e non anche in relazione al difetto delle condizioni specifiche per l'esercizio di tale funzione in un determinato procedimento.
Ne consegue che, non incidendo sui requisiti della capacità, la incompatibilità ex art. 34 c.p.p. non determina, comunque, la nullità del provvedimento ex artt. 178 e 179 c.p.p., ma costituisce soltanto motivo di possibile astensione, ovvero di ricusazione dello stesso giudice, da far tempestivamente valere con la procedura di rito ex artt. 37 e seg. c.p.p." (in termini, "ex plurimis": Sez. 2^, n. 30448 del 26/06/2003 Cc. - dep. 21/07/2003 - Rv. 226572).
Parimenti infondata è l'eccezione di nullità della sentenza, dedotta, sotto il profilo della violazione dell'art. 546 c.p.p., sul rilievo della mancata indicazione nella sentenza stessa delle generalità delle parti civili costituite.
Trattasi invero di questione già affrontata nella giurisprudenza di legittimità e risolta con l'enunciazione del condivisibile principio secondo cui la mancata indicazione in sentenza delle parti civili non ne determina la nullità (cfr. Sez. 5^, n. 1137 del 17/12/2008 Ud. - dep. 13/01/2009 - Rv. 242549); l'art. 546 c.p.p., comma 3, invero, prevede espressamente che la sentenza è nulla solo se manchi della motivazione o di elementi essenziali del dispositivo o della sottoscrizione del giudice. Passando ora ad esaminare le censure concernenti le valutazioni della Corte di merito in ordine alla ritenuta colpevolezza dell'imputato, il Collegio rileva che le stesse risultano in parte inammissibili (laddove ripropongono questioni già compiutamente affrontate e persuasivamente risolte dai giudici del merito) ed in parte infondate.
Mette conto sottolineare, preliminarmente, che lo S. con il ricorso ha sostanzialmente riproposto le tesi difensive già sostenute in sede di merito e disattese dal Tribunale prima e dalla Corte d'appello poi.
Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui "è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.
La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità" (in termini, Sez. 4^, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. - dep. 03/05/2000 - Rv. 216473; CONF: Sez. 5^, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708).
E va altresì evidenziato che già il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni sollevate dall'imputato seguendo un percorso motivazionale completo e puntuale in ordine alla posizione dello S.; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, i giudici di seconda istanza legittimamente hanno anche richiamato la diffusa ed articolata motivazione addotta dal Tribunale a fondamento del convincimento espresso, senza peraltro limitarsi ad un semplice richiamo meramente ricettizio a detta motivazione, non avendo mancato di fornire autonome valutazioni ed indicare specifiche risultanze processuali a fronte delle deduzioni dell'appellante: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione ("ex plurimis", Sez. 3^, n. 4700 del 14/02/1994 Ud.-dep. 23/04/1994 - Rv. 197497).
La Corte distrettuale ha, invero, affrontato e risolto le questioni sollevate dall'imputato seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti normativi e giurisprudenziali rilevanti ai fini dell'esame della posizione dell'imputato stesso. Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta dunque formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali - quali sopra riportati (nella parte relativa allo "svolgimento del processo") e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni - forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti il tragico fatto oggetto del processo: la Corte di merito, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica e causa dell'evento, nonchè posizione di garanzia dello S.) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità dell'imputato.
Per completezza argomentativa si impongono solo talune ulteriori precisazioni in relazione alle tesi difensive prospettate dal ricorrente, tesi infondate sia dal punto di vista fattuale che dal punto di vista normativo.
I giudici di merito hanno evidenziato, in base ad accertamento di fatto insindacabile in questa sede, che l'appartamento era occupato dalla vittima per motivi strettamente collegati alla sua attività lavorativa alle dipendenze dello S.; di tal che l'obbligo di manutenzione dell'impianto termico - e di verifica dell'efficienza del tiraggio del camino - incombeva senza dubbio alcuno sul datore di lavoro: come peraltro dimostrato inequivocabilmente dalla circostanza che il libretto relativo alle operazioni di manutenzione dell'impianto stesso era nella disponibilità dello S..
Nè rileva che l'imputato avesse affidato ad una ditta specializzata l'incarico di predisporre un adeguato piano di previsione dei rischi.
Dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8, commi 3 e 10, emerge a chiare lettere che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non può essere chiamato a rispondere direttamente del suo operato, perchè difetta di un effettivo potere decisionale: si tratta di un consulente che opera come "ausiliario" del datore di lavoro e i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico), vengono fatti propri dal vertice che lo ha scelto e che della sua opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario.
Peraltro, il soggetto cui viene affidato il compito di predisporre il piano di previsione dei rischi, qualora, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischi - inducendo, cosi, il datore di lavoro ad omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale - deve rispondere insieme a questi dell'evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale.
Lo schema originario cosi delineato nel D.Lgs. n. 626 del 1994 - quanto alla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, quale soggetto che, non trovandosi in posizione di garanzia, può essere chiamato a rispondere delle proprie negligenze solo nei limiti e nei casi di cui si è appena detto, in quanto la responsabilità fa capo al datore di lavoro - ha poi subito nel tempo una evoluzione, che ha indotto il legislatore ad introdurre con il D.Lgs. n. 195 del 2003 una norma (con l'art. 8 bis) che prevede la necessità in capo alla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una qualifica specifica.
La modifica normativa ha comportato in via interpretativa una revisione della suddetta figura, nel senso che il soggetto designato responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur rimanendo ferma la posizione di garanzia del datore di lavoro, possa, ancorchè sia privo di poteri decisionali e di spesa, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere, nel sistema elaborato dal legislatore, che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione.
Orbene, venendo al caso in esame, è emerso che nel piano di previsione dei rischi mancava qualsiasi riferimento all'esistenza di un'unità abitativa sovrastante gli uffici, occupata, per motivi di lavoro, da un dipendente e dalla sua famiglia.
Dunque, due sono le ipotesi che si possono formulare: o l'imputato non aveva fornito alla ditta incaricata di redigere il piano per la sicurezza tutte le informazioni necessarie per consentirle di ben adempiere il compito ad essa affidato, omettendo di sottoporre all'attenzione della stessa anche l'unità abitativa occupata dal dipendente per motivi strettamente legati alle mansioni svolte, anche di custode; oppure, l'imputato aveva adempiuto all'obbligo di completa informazione, ed in tal caso avrebbe però poi dovuto rilevare, all'atto del controllo del piano quale redatto dalla ditta incaricata, l'assenza di qualsiasi riferimento, nel piano stesso, all'unità abitativa in argomento.
Nell'uno e nell'altro caso appare evidente la sussistenza dei profili di colpa contestati all'imputato, non potendo in alcun modo essere posta in discussione la natura di luogo di lavoro dell'abitazione posta a disposizione del K.E.J. S. affinchè questi potesse svolgere anche le mansioni di custode dell'azienda.
Quanto sopra detto vale a destituire di giuridico fondamento l'assunto difensivo secondo cui (pagg. 13 e 14 del ricorso) ci si troverebbe in presenza di condanna a titolo di responsabilità oggettiva.
In proposito appare anche opportuno ricordare il consolidato indirizzo interpretativo delineatosi in materia nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui "in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, gli obblighi di vigilanza e di controllo che gravano sul datore di lavoro non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cui sono demandati dalla legge compiti diversi intesi ad individuare i fattori di rischio, ad elaborare le misure preventive e protettive e le procedure di sicurezza relative alle varie attività aziendali" (Sez. 4A, n. 27420 del 20/05/2008 Ud. - dep. 04/07/2008 - Rv. 240886).
Resta solo da dire, in punto di responsabilità dello S., che neppure è fondato l'assunto del ricorrente secondo cui l'evento sarebbe ascrivibile anche alla condotta del K.E. J.S. per non avere costui mai segnalato anomalie di sorta nel funzionamento dell'impianto termico dell'abitazione; ed invero, secondo quanto precisato dal perito, e come ricordato dalla Corte d'Appello, "l'accumulo nell'ambiente abitativo di gas velenosi non è percepibile e dunque può essere insidioso ed improvviso come in questo caso".
A ciò aggiungasi, "ad abundantiam", che in tema di infortuni sul lavoro, l'eventuale colpa concorrente dei lavoratori non può spiegare alcun effetto esimente per uno dei soggetti indicati dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, che si sia reso comunque responsabile di violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica, in quanto la normativa relativa è diretta a prevenire pure la condotta colposa dei lavoratori per la cui tutela è adottata (cfr., tra le tante, Sezione 4^, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri).
Infondate sono, infine, anche le doglianze relative alle statuizioni concernenti le questioni civilistiche.
Per quel che riguarda la "legitimatio ad causam" delle parti civili, la Corte territoriale ha evidenziato la portata del sistema introdotto a partire dal D.P.R. n. 445 del 2000 in virtù del quale il privato assolve ai suoi oneri di prova attraverso l'autocertificazione che, quanto all'attendibilità, è supportata dalla contestuale assunzione dell'obbligo, penalmente rilevante, di dichiarare la verità.
A ciò aggiungasi poi che le censure del ricorrente, quanto all'effettivo grado di parentela esistente tra le parti civili e le vittime, risultano generiche ed assertive, non essendo state indicate le specifiche ragioni, in diritto, per le quali le certificazioni presentate dalle parti civili non dovrebbero considerarsi idonee a soddisfare l'onere probatorio: tra l'altro, non è stata neanche prospettata l'eventuale falsità delle autocertificazioni prodotte quanto al grado di parentela indicato nelle autocertificazioni stesse.
In ogni caso è opportuno ricordare che le statuizioni civilistiche, pronunciate dal giudice penale, in ordine al risarcimento del danno a favore della parte civile, sono caratterizzate dalla loro provvisorietà, posto che le relative questioni sono destinate a trovare poi risposta definitiva dinanzi al giudice civile, così come condivisibilmente affermato da questa Corte: "Ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della P.C. non è necessario che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia infatti costituisce una mera "declaratoria juris" da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione" (in termini, Sez. 6^, n. 12199 del 11/03/2005 Ud. - dep. 29/03/2005 - Rv. 231044; conf., Sez. 1^, n. 3220 del 28/02/1992 Ud. - dep. 18/03/1992 - Rv. 189917).
Discorso questo che, a maggior ragione, vale per le decisioni del giudice penale concernenti la provvisionale, stante, appunto, la "provvisorietà" di quanto deliberato all'esito del giudizio penale, così come ripetutamente precisato da questa Corte: "Il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento" (in termini, Sez. 5^, n. 5001 del 17/01/2007 Ud. - dep. 07/02/2007 - Rv. 236068; conf., Sez. 4^, n. 36760 del 04/06/2004 Ud. - dep. 17/09/2004 - Rv. 230271).
Quanto appena detto - circa la natura di mera "declaratoria juris", che deve essere riconosciuta alla statuizione del giudice penale concernente non solo ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, ma anche le valutazioni ai fini della determinazione del "quantum" della provvisionale - vale a destituire di giuridico fondamento la doglianza del ricorrente relativamente alla decisione dei giudici di merito di consentire alle parti civili di rassegnare le conclusioni pur in presenza della scrittura privata, transattiva, prodotta dalla difesa dell'imputato: ed invero dagli atti si rileva che detto documento è oggetto di controversia tra le parti, sia in sede penale, in conseguenza di querela proposta dalle parti civili indicate nell'atto di transazione quali destinatane del relativo importo (di Euro 185.000,00, a fronte di una provvisionale pari a Euro 100.000,00 a favore della madre del lavoratore, Euro 100.000,00 a favore del padre della moglie del lavoratore, Euro 32.000,00 per ciascuno dei fratelli del lavoratore, Euro 10.000,00 per la cognata del lavoratore), sia in sede civile a seguito dell'opposizione dello S. avverso il precetto notificatogli per l'importo di Euro 185.000,00 (pag. 23 del ricorso); nè può portare ad una diversa valutazione, allo stato ed in questa sede, la richiesta di archiviazione presentata al GIP dal P.M. del Tribunale di Novara - e prodotta in copia all'odierna udienza dal difensore dello S. - relativamente al procedimento avviato nei confronti dello S. stesso a seguito della querela sopra ricordata.
Correttamente, dunque, la Corte distrettuale, anche nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo, ha lasciato al giudice civile la risoluzione della questione insorta tra le parti circa la valenza da riconoscere all'atto di transazione in argomento, muovendo dal presupposto che all'esito del processo penale sarebbe stato certamente avviato un contenzioso civile finalizzato proprio ad addivenire alle statuizioni definitive sul versante civilistico.
Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; il ricorrente deve essere altresì condannato a rifondere alle parti civili le spese di questo giudizio che si liquidano in Euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione dellespese delle parti civili di questo giudizio che liquida in Euro 2.500,00, oltre accessori di legge.Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2009.Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2010.