Cassazione Penale., Sez. 4, 07 marzo 2023, n. 9473 - Legittimità costituzionale dell'art. 603 bis cod. pen.


 

 

Nota a cura di Natalini Aldo, in Guida al diritto, 24/2023, pp. 81-86  "La valutazione del giudice assicura l’aderenza al caso"

 

Fatto




1. H.G. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, emessa, ex art. 444 cod. proc. pen., nei propri confronti, in ordine ai reati di cui agli artt. 603 bis cod. pen. e 12 e 22 d. lg. 25 luglio 1998, n. 286.

2. Il ricorrente prospetta una questione di legittimità costituzionale dell'art. 603 bis cod. pen., in relazione agli artt. 22, comma 12 e 12 bis, d. lg. 25 luglio 1998, n. 286 e 3, 25, 27, comma 3, e 117 , comma 1, Cost., poiché la condotta sanzionata dall'art. 22, commi 12 e 12 bis, d. lg. 286/98 è sostanzialmente analoga all'utilizzo di manodopera in condizioni di sfruttamento ex art. 603 bis cod. pen. ma con profili di ulteriore disvalore derivanti dalla violazione di normative in tema di immigrazione. Eppure la pena è sensibilmente inferiore a quella comminata dall'art. 603 bis cod. pen: ciò che sembra porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza. Infatti l'art. 22, commi 12 e 12 bis, d. lg. 286/98 punisce lo sfruttamento di soggetti irregolari che non possono essere assunti e che non possono ottenere tutele mentre, al contrario, l'art. 603 bis cod. pen. disciplina la stessa condotta di sfruttamento ma con riferimento a soggetti regolari sul territorio italiano.
2.1. Per di più, la tecnica normativa con cui è formulato l'art. 603 bis cod. pen. è contrassegnata da una vaghezza descrittiva degli indici di sfruttamento che confligge con il principio di determinatezza. In particolare, il comma 3, n 1) rinvia ai contratti collettivi nazionali o territoriali e cioè ad atti negoziali di natura privatistica e che valgono esclusivamente per i soggetti iscritti alle organizzazioni sindacali contraenti. Anche nel comma 3 l'eliminazione del requisito della messa in pericolo della salute, della sicurezza o dell'incolumità personale del lavoratore rende rilevante, ai fini della riscontrabilità della condizione di sfruttamento, qualunque violazione, anche di carattere formale, come la mancata apposizione di un cartello o l'omessa redazione di un documento da parte del datore di lavoro. Dunque la nozione di sfruttamento finisce per assumere contorni così vaghi da risultare inidonea a selezionare i comportamenti davvero meritevoli di sanzione penale, difformemente da quanto dispone l'art. 25 Cost.


 

Diritto



1. La questione di legittimità costituzionale prospettata è infondata.

La Corte costituzionale ha, infatti, ripetutamente affermato che le scelte legislative in materia sanzionatoria penale sono censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio (Corte cost. n. 35 del 6-12-2017; n. 148 del 1-6-2016; n. 23 del 13-1-2016; n. 81 del 26-2-2014). Per quanto attiene alla problematica in disamina non è certamente ravvisabile alcuna manifesta irragionevolezza o alcun arbitrio, poiché la norma incriminatrice di cui all'art. 603 bis cod. pen. tutela il bene giuridico della dignità del lavoratore (Sez. 4, n. 45615 del'll/11/2021) e risponde alla ratio di reprimere il fenomeno del c.d. "caporalato" e di impedire che i lavoratori, e dunque i soggetti appartenenti alle fasce economico - sociali più deboli, possano venire assoggettati a condizioni di sfruttamento. La risposta sanzionatoria è quindi modellata sulle esigenze di contrasto ad una fenomenologia assai frequente nella prassi, che lede un interesse costituzionalizzato dall'art. 36 Cost. e che si iscrive nell'orizzonte più generale della tutela della dignità umana nell'esercizio dell'attività lavorativa, fondamentale momento di esplicazione della personalità dell'individuo. Le disposizioni di cui all'art. 22, commi 12 e 12 bis, d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 attengono invece ad un ambito più circoscritto e cioè a quello della regolamentazione del fenomeno dell'immigrazione e rispondono alla ratio di impedire lo sfruttamento degli immigrati extracomunitari clandestini. Tali disposizioni hanno dunque un oggetto giuridico diverso e più delimitato, che impedisce l'utilizzo di esse come tertium comparationis, disciplinando situazioni assai eterogenee. La Corte Costituzionale, con orientamento costante, ha, infatti, da tempo, affermato il principio che il legislatore, in presenza di situazioni eterogenee e in applicazione del principio di uguaglianza, può prevedere una disciplina diversificata, purché le predette situazioni siano disciplinate in modo non irragionevole, rispettando il principio di proporzionalità (ex plurimis, Corte cast. n. 83 del 2010). I principi di eguaglianza e di ragionevolezza esprimono, infatti, un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere identica disciplina e, all'inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti (Corte cost., sent. 25/3/1996, n. 89). Il giudice delle leggi, conseguentemente, ha ritenuto che i principi di uguaglianza, di ragionevolezza e di proporzionalità possano dirsi violati solo allorquando il legislatore tratti in maniera sensibilmente diversa una fattispecie rispetto ad un'altra limitrofa senza alcuna plausibile e ragionevole giustificazione (Corte cost., ord. n. 240 del 2011). Ove ciò non sia riscontrabile, l'individuazione del trattamento penale delle condotte previste dalle fattispecie criminose, in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all'allarme sociale generato dai singoli reati, resta affidata, secondo la Corte costituzionale, alla discrezionalità del legislatore. Le relative scelte possono essere sindacate dalla Corte costituzionale solo allorquando la sperequazione normativa tra figure omogenee di reato assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione (Corte cost. orci. n. 455 /06 ; ord. n. 247/13). Ciò che non può certamente essere ravvisato in relazione alla problematica in esame, tanto più che la Corte costituzionale ha chiarito che solo allorquando le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto come reato si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa ( Corte cost. n. 236 del 2016; n. 68 del 2012 n. 341 del 1994; n. 40 del 2019), poiché le predette norme costituzionali esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria, sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale (Corte cost. n. 179 del 2017). E non può certo ritenersi che le pene comminate sia dall'art. 603 bis cod. pen. che dall'art. 22, commi 12 e 12 bis, d. lgs. n. 298 del 1996 siano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità dei reati rispettivamente previsti. Né può ritenersi che la comminatoria di una pena _più grave per le condotte previste dall'art. 603 bis cod. pen. susciti dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo della violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità (ex plurimis, Corte cast. n. 83 del 2010), soprattutto in considerazione del persistente dilagare del fenomeno antigiuridico di riferimento e dell'intensa lesività di quest'ultimo. Del resto, una eventuale trasposizione della questione in disamina sul terreno del giudizio costituzionale incontrerebbe il limite più volte indicato dal giudice delle leggi, il quale ha sempre ribadito il consolidato principio per cui la Corte costituzionale non può rimodulare le sanzioni degli illeciti penali, trattandosi di campo riservato alla sfera di discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è sottratto al sindacato di legittimità costituzionale, salvo che sconfini nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio ( cfr., in particolare, Corte cost. sent. n. 81 del 2014), in quanto le scelte legislative nella commisurazione delle sanzioni involgono apprezzamenti tipicamente politici e dunque, in linea di principio, non sono sindacabili (Corte cost. ord. n. 247/13).

2. Nemmeno sono prospettabili dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo della determinatezza della fattispecie di cui all'art. 603 bis cod. pen. Come è noto, il principio di tassatività e di determinatezza, importante corollario del principio di legalità, concerne le modalità di formulazione della norma penale, sancendo l'obbligo, in capo al legislatore, di delineare con assoluta precisione gli elementi costitutivi della fattispecie, incentrando l'incriminazione su fatti oggettivamente accertabili e dimostrabili nel processo, attraverso le metodologie e i parametri offerti dalla scienza e dall'esperienza, in modo da circoscrivere gli spazi di discrezionalità dell'Autorità giudiziaria e da garantire la certezza del diritto, evitando il rischio di arbitri del potere giudiziario ( Corte cost. 15 maggio 1989, n. 247, che ha anche distinto la determinatezza, come modalità di formulazione della norma, dalla tassatività che ne costituisce una proiezione esterna, in forza della quale è preclusa un'applicazione analogica della norma incriminatrice). Per quanto attiene all'art. 603 bis cod. pen. è da escludersi ogni vulnus ai principi di tassatività e determinatezza, poiché la norma fa riferimento agli indici di cui al comma 3 proprio al fine di riempire di contenuto concreto il concetto di sfruttamento e la giurisprudenza ha chiarito che si tratta di meri "sintomi" e cioè di indizi che il giudice valuta al fine di stabilire se ricorra o meno la predetta condizione di sfruttamento, avendo il legislatore inteso agevolare i compiti ricostruttivi del giudice, orientando l'accertamento in quei settori - retribuzione, condizioni di lavoro, condizioni alloggiative etc. che rappresentano gli ambiti privilegiati di emersione della condotta di sfruttamento (Sez. 4, n. 25756 del 12/5/2021). Dunque gli indici costituiscono dei criteri - guida per l'interprete (Sez. 4, n. 45615 dell'11/11/2021) che non precludono l'individuazione di altre condotte che integrino la fattispecie di abuso, posto che essi costituiscono meri indicatori della sussistenza del fatto tipico, che ben può risultare aliunde, purchè si concreti l'assoggettamento a condizioni di lavoro di cui si subisce l'imposizione (Sez. 4, n 7861 dell'11/11/2021, dep. 2022). Dunque un' architettura normativa e concettuale pienamente in linea con il dettato costituzionale.

3. Va quindi dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle ammende.



 

PQM




Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 30/11/2022.
Depositato in Cancelleria il 7.3.2023