Cassazione Penale, Sez. 4, 30 marzo 2023, n. 13303 - Rischio di caduta da sfondamento. Infortunio mortale



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente -

Dott. CAPPELLO Gabriella - rel. Consigliere -

Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere -

Dott. D’ANDREA Alessandro - Consigliere -

Dott. DAWAN Daniela - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 10/12/2021 della CORTE APPELLO di BRESCIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

svolta la relazione dal Consigliere Dr. CAPPELLO GABRIELLA;

lette le conclusioni del Procuratore generale, in persona del sostituto Dr. COSTANTINI FRANCESCA, la quale ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto


1. La Corte d'appello di Brescia ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Bergamo aveva condannato A.A., nella qualità di datore di lavoro e amministratore unico della B.B. Srl , ditta alla quale erano stati affidati dalla DAILA Srl i lavori di rifacimento della copertura di un capannone industriale, per l'omicidio colposo del lavoratore C.C., occorso il (Omissis), in conseguenza di una caduta da circa otto metri di altezza, durante lo svolgimento dei lavori di rimozione della vecchia e posa della nuova copertura del citato capannone.

In particolare, si è contestato al A.A. di non aver provveduto a installare idonee misure di protezione collettive (rete anticaduta, impalcati); di non avere, pur nell'assenza dei presidi di cui sopra, disposto presidi individuali idonei (assorbitori di energia, connettori, dispositivi di ancoraggio, cordini, guide linea vita flessibili o rigide, imbracature); di avere infine redatto un POS non contestualizzato alla specifica realtà del cantiere.

Nell'occorso, il lavoratore, mentre era impegnato, insieme a un collega, nei lavori sopra descritti, trovandosi in piedi al centro della nuova copertura, era scivolato all'interno della struttura, sfondando la contro soffittatura e riportando un trauma cranico dal quale era derivato il suo decesso.

2. La difesa dell'imputato ha proposto ricorso, formulando un unico motivo, con il quale ha dedotto violazione di legge con riferimento alla applicazione del principio di generale "priorità" delle opere provvisionali di sicurezza collettiva, stabilite dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111. Nella specie, era stato affermato dallo stesso Tribunale che il A.A. aveva fornito ai propri dipendenti tutti i dispositivi di sicurezza individuali necessari e a norma per svolgere il lavoro loro affidato. Tuttavia, la Corte d'appello ha ritenuto di poter ritenere addebitabile l'evento all'imputato per avere costui omesso colpevolmente di installare anche misure di protezione collettiva (impalcato pedonabile all'interno del capannone, sotto la copertura). Rileva la difesa che la problematica della priorità delle misure di sicurezza collettiva rispetto a quelle individuali rappresenterebbe una vexata quaestio, in parte risolta dal parere reso dalla Commissione interpelli del Ministero del Lavoro, avendo quest'organo chiarito che l'art. 111 citato non si porrebbe in termini di contrasto rispetto all'art. 148 stesso T.U. n. 81 del 2008, atteso che quest'ultimo è norma speciale applicabile solo a una certa tipologia di lavori (quelli, cioè, effettuati su lucernari, tetti, coperture e simili), allorquando le citate superfici non siano in grado di garantire una resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali o ne sia dubbia la resistenza. Ciò che nella specie non ricorreva, atteso che gli addetti dovevano operare su porzioni della copertura idonee a sostenerne il peso e ben identificabili "a vista", stante la tipologia delle lastre da sostituire.

Infatti, nessuna violazione dell'art. 148 citato era stata formulata con l'imputazione, occorrendo solo verificare l'esatta portata del precetto di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111, comma 1, lett. a), vale a dire se, come ritenuto dal Tribunale, il legislatore abbia inteso stabilire che le misure collettive debbano essere sempre e comunque predisposte prioritariamente rispetto alle individuali.

La Corte del gravame ha optato per la prima soluzione, rinviando però a norme la cui violazione non è stata oggetto di contestazione (il riferimento è all'art. 122 del T.U.), norma che, peraltro, riguarderebbe i lavori edili e non la tipologia di quelli nei quali era impegnata la vittima. Sotto altro profilo, si contesta che, nella specie, si potesse parlare di "lavoro in quota", trattandosi di lavori che avevano riguardato una copertura protetta ai lati, e che alcun senso avrebbe il rinvio all'art. 115 stesso testo normativo, per il quale nel caso di lavori in quota, se non siano attuate le misure collettive, allora è necessario approntare idonei sistemi di protezione composti da diversi elementi non necessariamente presenti contemporaneamente. Da tale dato testuale, la difesa inferisce che vi sarebbe la possibilità legittima di operare in quota anche in assenza di misure di protezione collettiva, sempre che vi siano idonei presidi individuali.

Pertanto, in assenza di un obbligo di adozione delle misure collettive, il cui carattere necessitato conseguirebbe solo alla ipotesi in cui quelle individuali risultino inadeguate, la sentenza risulterebbe manifestamente illogica nella parte in cui, da un lato, si è ammessa l'esistenza di dispositivi di sicurezza. individuali idonei a evitare il sinistro; dall'altro, si è pretesa la previsione e predisposizione di protezioni collettive, reputandole necessarie.

3. Il Procuratore generale, in persona del sostituto Dr. Francesca COSTANTINI, ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

 

Diritto


1. Il ricorso va rigettato.

2. La Corte territoriale ha richiamato la sentenza appellata e la ricostruzione dei fatti ivi contenuta, operata alla stregua delle prove dichiarative e documentali acquisite. Il Tribunale aveva ritenuto sussistente, tra quelle contestate, la violazione della regola cautelare che impone al datore di lavoro di adottare, per i lavori da svolgersi in quota, le misure di salvaguardia di tipo collettivo, nella specie mancanti, essendo state predisposte solo misure di tipo individuale, pur riconosciute idonee a scongiurare l'evento ove correttamente utilizzate. Era stato escluso anche l'obbligo di fornire dei dispositivi retrattili, essendo emerso che, nella specie, corrispondeva ai criteri di perizia e prudenza l'aver abbinato l'uso della linea vita provvisoria a un cordino di sicurezza a lunghezza fissa. Ma era anche emerso che il predisposto POS non era contestualizzato alla realtà lavorativa specifica del cantiere, sia con riferimento alla descrizione dei dispositivi forniti (nel documento indicandosi un sistema - c.d. stop max - non fornito ai lavoratori), che alla specificazione delle modalità di utilizzo della linea vita durante l'avanzamento della lavorazione; ma soprattutto era stata accertata la violazione della regola cautelare, positivizzata dal legislatore, dell'adozione dei dispositivi di sicurezza collettivi (reti anticaduta o realizzazione di un controsoffitto calpestabile), della quale erano presenti tutti i presupposti. Il datore di lavoro era ben edotto del fatto che il lavoratore avrebbe operato su copertura non calpestabile e, in ogni caso, non era stato previsto alcun presidio atto a scongiurare il rischio di caduta da sfondamento; l'imputato non aveva mai prospettato di aver predisposto tali cautele; e, sul piano della esigibilità dell'adozione del presidio collettivo, era rimasto mero asserto difensivo che la ditta committente non intendesse spostare alcunchè dal capannone, ricorrendo di contro elementi a conferma che il problema non si era neppure posto (tre anni prima, in occasione di analogo intervento in un capannone vicino, si era proceduto con le stesse modalità; nessuno aveva confermato che l'imputato avesse verificato con la committenza la possibilità di realizzare una controsoffittatura all'interno del capannone e, quindi, la necessità del suo sgombero; non era emersa alcuna richiesta nel senso di procedere allo sgombero della struttura onde poter realizzare il presidio di sicurezza collettivo).

Quanto, poi, alla verifica della circostanza che la violazione della regola cautelare contestata concretizzasse proprio il rischio che la stessa era intesa a scongiurare, il Tribunale ha escluso che le prime manchevolezze del POS avessero inciso sulla realizzazione dell'evento: i lavoratori non avevano usato la linea vita predisposta perchè la stessa rendeva più complicato il lavoro in tandem, nella piena consapevolezza, da parte degli stessi, delle modalità di utilizzo del presidio fornito. Cosicchè, la scorretta formulazione del piano operativo sul punto non avrebbe avuto rilievo causale sulla produzione dell'evento.

A risultato diametralmente opposto, invece, doveva giungersi con riferimento alla mancata predisposizione delle misure di sicurezza collettive, la cui esistenza avrebbe evitato il decesso della vittima, anche a fronte del suo accertato comportamento imprudente (mancato utilizzo dei presidi individuali forniti). Era pacifico, infatti, che la vittima stesse lavorando senza aver agganciato il cordino ad alcunchè, tanto che lo stesso era stato rinvenuto agganciato alla stessa imbracatura dalla quale partiva. Tale condotta era di per sè idonea a vanificare qualsiasi cautela da parte del datore di lavoro sotto il profilo individuale; ma essa non poteva considerarsi imprevedibile o abnorme, nei termini precisati dalla giurisprudenza di legittimità, rispetto alle misure di tipo collettivo, non a caso prescritte dal legislatore con "priorità", siccome uniche atte a prevenire anche il comportamento imprudente o negligente dello stesso lavoratore, prescindendo cioè dalla sua collaborazione. Nella specie, lo sfondamento della copertura rappresentava proprio il rischio che l'edificazione di una contro soffittatura era intesa a scongiurare ed avrebbe efficacemente impedito l'evento, in difetto di ragioni che rendessero non percorribile la realizzazione di tale presidio (inserito nel piano operativo ed implementato nel cantiere dopo l'accaduto).

La Corte del merito ha rigettato l'appello, con il quale si erano introdotti i temi dell'abnormità interruttiva del comportamento del lavoratore e della priorità o meno delle misure di sicurezza collettive rispetto a quelle di tipo individuale, operando in premessa una precisazione: nè i giudici di primo grado, nè la difesa dell'appellante avevano tenuto conto del fatto che la normativa, già vigente all'epoca dei fatti (recepita nel Testo Unico di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008), è improntata al principio per il quale, in caso di lavori in quota, l'adozione di misure collettive di contenimento è obbligatoria e non surrogabile mediante l'impiego di presidi individuali, quali cinture di sicurezza, previsti solo in via sussidiaria o complementare. A tal fine, ha richiamato, oltre al citato art. 111, comma 1, lett. a), anche il successivo art. 115, stesso T.U., precisando che tali disposizioni, pur significative, non sono tuttavia esaustive nel loro portato precettivo, dovendo rinviarsi anche all'art. 122, per il quale, nei lavori in quota, devono essere adottate le misure di sicurezza collettive. Da tale ricognizione, il giudice ha tratto la conclusione che non sussistono margini di facoltatività nell'adozione delle misure di sicurezza collettive, la norma da ultimo richiamata ponendo un obbligo inderogabile, ricavabile anche dal dato testuale ("devono essere adottate"). Pertanto, quando è possibile, tali opere devono essere predisposte e, nel caso di specie, nulla aveva dimostrato che ne fosse impossibile l'allestimento: anche il prospettato rifiuto da parte del committente non era stato confermato e, comunque, anche ove lo fosse stato, non avrebbe legittimato soluzioni liberatorie, non essendo neppure emerso che il mancato sgombero del capannone avrebbe impedito la realizzazione del presidio di sicurezza, realizzazione che avrebbe dovuto esser perseguita anche mediante il superamento di eventuali ostacoli.

Quanto, infine, all'asserita abnormità del comportamento della vittima, la Corte ha precisato che la stessa non coincideva con la sua imprudenza, la massimizzazione delle misure di sicurezza da parte datoriale essendo correlata all'obiettivo di proteggere il lavoratore anche e proprio dalle sue imprudenze.

3. Il motivo è infondato.

L'unico punto devoluto alla cognizione di questo giudice di legittimità inerisce alla correttezza della interpretazione dei giudici d'appello sulla relazione esistente tra gli obblighi di adottare le misure di sicurezza collettive e i presidi di tipo individuale.

Sul punto, non è ultroneo ricordare, quanto alla cornice normativa di riferimento (peraltro correttamente richiamata nella sentenza censurata) che, secondo il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 111, comma 1, lett. a, "Il datore di lavoro, nei casi in cui i lavori temporanei in quota non possono essere eseguiti in condizioni di sicurezza e in condizioni ergonomiche adeguate a partire da un luogo adatto allo scopo, sceglie le attrezzature di lavoro più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure, in conformità ai seguenti criteri: a) priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;"); il successivo art. 115, poi, stabilisce che "Nei lavori in quota qualora non siano state attuate misure di protezione collettiva come previsto all'art. 111, comma 1, lett.a), è necessario che i lavoratori utilizzino idonei sistemi di protezione (idonei per l'uso specifico) composti da diversi elementi, non necessariamente presenti contemporaneamente,..."); infine, l'art. 122 prevede che, nei lavori in quota, "...devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose conformemente ai punti 2, 3.1, 3.2 e 3.3 dell'allegato XVIII".

Ciò posto, deve preliminarmente sgombrarsi il campo da ogni sospetto, invero solo suggerito e neppure compiutamente illustrato in ricorso, di violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 521 c.p.p., avuto riguardo a(rinvio all'art. 122 da ultimo citato da parte dei giudici d'appello: infatti, perchè possa dirsi integrata una violazione di esso, non è sufficiente qualsiasi modificazione dell'accusa originaria, ma è necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato. Ne consegue che detta violazione non sussiste quando, nel capo di imputazione, siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta a(giudice individuare nei suoi esatti contorni (sez. 5 n. 7984 del 24/9/2012, dep. 2013, Jovanovic, Rv. 254648).

Tali principi sono coerenti con quelli costituzionali racchiusi nella norma di cui al novellato art. 111 Cost., ma anche con l'art. 6 della Convenzione E.D.U., siccome interpretato, in base alla sua competenza esclusiva, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a partire dalla nota pronuncia Drassich c. Italia (CEDU 2 sez. 11 dicembre 2007); ma anche, più di recente, con la pronuncia del 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia (n. 2), con la quale la Corte di Strasburgo ha escluso la violazione dell'art. 6 cit. nel caso in cui l'interessato abbia avuto una possibilità di preparare adeguatamente la propria difesa e di discutere in contraddittorio sull'accusa alla fine formulata nei suoi confronti.

Nel caso in esame, difetta per l'appunto una lesione del diritto di difesa alla cui salvaguardia il principio di correlazione è direttamente funzionale, non apprezzandosi un rapporto di eterogeneità del fatto ritenuto rispetto a quello contestato (sez. 6, n. 10140 del 18/2/2015, Bossi, Rv. 262802): il richiamo alla norma infatti è stato operato all'interno della ricostruzione del quadro normativo di riferimento che disciplina il rapporto tra le diverse misure di salvaguardia e al fine di rinvenire il sostegno normativo al principio di priorità delle misure collettive rispetto a quelle individuali.

Peraltro, tali principi sono stati ulteriormente calibrati in tema di reati colposi, affermandosi che non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (sez. 4, n. 35943 del 7/3/2014, Denaro, Rv. 260161; n. 7940 del 25/11/2020, dep. 2021, Chiappalone, Rv. 280950; n. 53455 del 15/11/2018, Galdini, RV. 274500).

4. Quanto, poi, al tema specifico devoluto, la ricostruzione dell'addebito riconosciuto in capo al soggetto chiamato a gestire lo specifico rischio è del tutto corretta in diritto (non essendo state formulate doglianze che aggrediscano la coerenza del ragionamento probatorio con i dati fattuali esposti anche mediante il rinvio alla conforme sentenza appellata e neppure la sua logicità o ne suggeriscano la contraddittorietà, vizi peraltro non riscontrabili).

E' principio generale, da lungo tempo reiterato, quello per il quale, in tema di infortuni sul lavoro, l'uso del presidio individuale è imposto, quale misura di carattere generale e imperativo, in tutti i casi in cui il lavoratore sia esposto al rischio di caduta dall'alto, con la sola esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di protezione e di parapetti idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta (sez. 4, n. 10213 del 13/1/2005, Vecchiato, Rv. 231249). Tale obbligo, dunque, sempre che sia possibile, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, previsto solo sussidiariamente o in via complementare (sez. 4, n. 25134 del 19/4/2013, Urso, Rv. 256525, richiamata anche dalla Corte territoriale, in cui il giudice di legittimità, in applicazione del principio, proprio in un caso analogo a quello in esame, ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha confermato la responsabilità dell'imputato, nella sua qualità di datore di lavoro, in ordine al reato di omicidio colposo, nei confronti di un lavoratore edile per non avere predisposto - con riguardo a lavorazioni consistenti nella rimozione di lastre di eternit poste a copertura di un tetto ad un'altezza di circa otto metri da terra - idonee opere provvisionali o precauzionali di cui non era stata comprovata alcuna impossibilità in ordine alla concreta realizzabilità ma un mero difetto di convenienza al riguardo; sez. 3, n. 23140 del 26/3/2019, Visconti, Rv. 276755).

Quanto, poi, alla valutazione sulla realizzabilità del presidio omesso, essa di traduce in un giudizio di merito, congruamente giustificato dai giudici territoriali, sul quale non residuano margini di apprezzamento da parte del giudice di legittimità.

La ricostruzione in diritto, peraltro, è del tutto coerente con l'orientamento andatosi consolidando nella giurisprudenza di legittimità, in ordine all'efficacia interruttiva del comportamento del lavoratore e sugli obblighi di collaborazione gravanti sul medesimo.

Infatti, è certamente vero che - in materia di prevenzione antinfortunistica - si è passati da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facciano un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), a un modello "collaborativo", in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 20), il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/2/2016, Santini, Rv. 266073). In altri termini, si è passati, a seguito dell'introduzione del D.Lgs. n. 626 del 1994 e, poi, del T.U. 81/2008, dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.

Tuttavia, e ciò va fermamente ribadito in questa sede, è sempre valido il principio secondo il quale non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.). All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo ove sia tale da attivarne uno eccentrico o esorbitante dalla sfera governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (sez. 4 n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603; n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, Musso, Rv. 275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (sez. 4 n. 7188 del 10/1/2018, Bozzi, Rv. 272222).

La risposta approntata dalla Corte d'appello alle doglianze formulate con il gravame di merito in ordine all'efficacia interruttiva dell'azione del lavoratore rispetto al nesso causale tra la condotta addebitata e l'evento è del tutto allineata con i principi testè richiamati: nella specie, il lavoratore ha agito nel contesto delle lavorazioni espressamente assegnategli, delle quali il datore di lavoro era pertanto edotto e aveva disatteso, per imprudenza e negligenza, le istruzioni sul corretto utilizzo del presidio individuale, ciò che rappresentava evenienza del tutto prevedibile da parte datoriale, in assenza, tuttavia, di un presidio collettivo, inteso a prevenire proprio tale imprudenza.

5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2023