Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 luglio 2023, n. 18656 - Si al risarcimento in favore del lavoratore dell’azienda ferroviaria per il mancato lavaggio di indumenti da lavoro indossati sopra i propri abiti durante il turno


 

 


Presidente Leone - Relatore Amendola

 

Considerato che

1. la Corte d'Appello di Bari, con la sentenza impugnata, ha confermato la decisione di primo grado che, in accoglimento del ricorso proposto da M.F. , dipendente delle Ferrovie Appulo Lucane s.r.l. con mansioni di operatore qualificato della manutenzione, aveva dichiarato il diritto del ricorrente al risarcimento dei danni per il mancato lavaggio dei seguenti indumenti: gilet e giubbotto frangente ad alta visibilità, giubbotto impermeabile contro le intemperie, pantalone invernale da lavoro e guanti di protezione, tutti da considerare dispositivi di protezione individuale;

2. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con due motivi; ha resistito con controricorso l'intimato; all'esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di sessanta giorni.

Ritenuto che

1. il ricorso non può trovare accoglimento per le ragioni già esposte in analoga vicenda, rispetto a ricorso per cassazione della medesima società contenente censure sovrapponibili (cfr. Cass. n. 29720 del 2022);

2. invero, il primo motivo denuncia: "violazione e falsa applicazione dell'art. 74 del d. lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 (art. 360 c.p.c., n. 3)"; si sostiene che, ai sensi della disposizione richiamata, "in assenza di un rischio concreto e dimostrato per la salute e la sicurezza, gli indumenti in discussione non costituivano DPI in senso tecnico, ma meri indumenti di custodia, forniti al fine di preservare gli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'attività lavorativa, con conseguente esclusione dell'obbligo di relativo lavaggio a carico del datore di lavoro";

la censura è infondata in quanto la sentenza impugnata è conforme a numerosi precedenti di questa Corte con i quali parte ricorrente neanche si confronta (v. Cass. n. 16749 del 2019; n. 17132 del 2019; n. 17354 del 2019; Cass. n. 5748 del 2020; Cass. n. 17100 del 2021);

la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro;

nella medesima ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza e che, pertanto, rientra tra le misure necessarie "per la sicurezza e la salute dei lavoratori" che il datore di lavoro è tenuto ad adottare ai sensi dell'art. 4, comma 5, del D.Lgs. n. 626 del 1994 e degli artt. 15 e ss. del D.Lgs. n. 81 del 2008 e s.m.i.;

inoltre, è stato rilevato che l'accertamento che l'indumento sia in concreto una barriera di protezione rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore è questione di merito (Cass. n. 32865 del 2021), con la conseguenza che parte ricorrente, con il motivo in esame, richiede un sindacato che esorbita dai poteri del giudice di legittimità;

3. il secondo motivo denuncia: "violazione dell'art. 2697 c.c. per omessa prova dei fatti costitutivi del diritto", lamentando che "il dipendente, pur avendone l'onere, non aveva fornito alcuna prova dell'esercizio di mansioni lavorativa in ambiente lavorativo potenzialmente pericoloso per la salute";

la censura è chiaramente inammissibile, atteso che la norma è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non laddove oggetto di censura - come nella specie - sia la valutazione che il giudice del merito abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018; Cass. n. 18092 del 2020), opponendo una diversa valutazione;

4. conclusivamente il ricorso va respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione ai procuratori del controricorrente che hanno dichiarato di averne fatto anticipo;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 3.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese forfettario al 15%, con distrazione.