Tribunale L'Aquila, Sez. Lav., 13 settembre 2023, n. 136 - Illegittima la sospensione dal lavoro per gli inadempienti all'obbligo di vaccinazione e condanna al risarcimento del danno biologico


 

 

Nota a cura di Panuccio Emilia Adele, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 4/2023, pp. 777-783 "L’inidoneità del vaccino per Sars-coV-2 alla prevenzione del contagio rende illegittima la sospensione dal lavoro per inadempimento all’obbligo vaccinale?" 

 

NRG. 287 del 2022;

TRIBUNALE DI L’AQUILA
Sezione Lavoro e Previdenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Tribunale in composizione monocratica, nella persona di Giulio Cruciani, in funzione di Giudice del Lavoro, nella causa tra:

xxxxxxxxxxxx ricorrente,
rappresentato e difeso dall’avv.to xxxxxxxxxxxx

e

REGIONE ABRUZZO
in persona del legale rappresentante resistente,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato


all'udienza del 13 settembre 2023 ha pronunciato, dandone lettura all’esito della camera di consiglio, la seguente sentenza:


Dichiara illegittima la sospensione dal lavoro del ricorrente a decorrere dal xxxx al xxxx con ogni conseguenza normativa ed economica;
Condanna parte resistente al pagamento a titolo di differenze retributive della somma di € xxxxx, oltre interessi e rivalutazione; Condanna parte resistente al pagamento a titolo di danno biologico della somma di € xxxxx, oltre interessi;
Condanna, altresì, la parte resistente al pagamento in favore del ricorrente delle spese di lite che liquida in € xxxx, oltre spese, iva e cpa.

 

FattoDiritto

 

Una premessa, verrà valutata non la legittimità dell’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2, bensì la legittimità, nel caso concreto, della sospensione dal lavoro per assenza della vaccinazione obbligatoria per l’ultracinquantenne ex art. 4, quinquies, c. 4, dl. 44/21, questo essendo il tema del decidere nel presente giudizio.

Ad una valutazione costituzionalmente orientata (ed anche letterale) non vi è alcuna norma di legge - né potrebbe mai esservi anche per lo sbarramento costituzionale del divieto di discriminazione ex art. 3 Cost.
- che imponga un obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 per prestare lavoro per lavoratori con una determinata fascia di età, ma solamente l’imposizione di un tale obbligo se e nei limiti in cui sia strumento di prevenzione dal contagio.

Invero, si consideri che lo Stato italiano si fonda sul lavoro (art. 1 Cost.) e su questo si fonda non solo la dignità professionale ma anche la dignità personale dell’essere umano che vuole mantenersi con le proprie forze (dignità, limite invalicabile all’obbligatorietà del trattamento sanitario, quale il vaccino, di cui all’art. 32 Cost.).
Il reddito da lavoro costituisce per lo più il reddito di sussistenza, senza di esso si scivola nel degrado e nella dipendenza.

Solo ad una lettura superficiale (e comunque non costituzionalmente orientata) gli artt. 4, 4-bis e 4-ter, poi 4-quater e 4-quinquies dl. 44/21, per tutelare la salute pubblica, imporrebbero (per quanto qui rileva) l’obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 a certe categorie di lavoratori e ai lavoratori dai 50 anni in su.

In realtà così non è perché il dato letterale delle norme oltre che la Costituzione devono orientare il Giudice verso un’interpretazione che ancora l’obbligo vaccinale per certe categorie di lavoratori e i lavoratori ultracinquantenni alla sussistenza del presupposto della capacità preventiva dal contagio del vaccino.

In effetti, la ragione evidente per la quale si impone che il lavoratore sia vaccinato è che questi nel luogo di lavoro non possa essere così fonte di rischio per i colleghi (o per i terzi particolarmente esposti); poiché il lavoratore non vaccinato a differenza di quello vaccinato esporrebbe gli altri con i quali entra in contatto nei luoghi di lavoro al rischio di infezione Sars-CoV-2, il medesimo non deve essere presente nei luoghi di lavoro (mentre lo può il lavoratore vaccinato).

Questo è il fondamento e, quindi, il limite di applicazione di tali norme già espresso chiaramente nelle stesse: secondo l’interpretazione letterale la vaccinazione obbligatoria è quella volta a prevenire l’infezione (si ripete lo dice la norma “prevenzione”, nel corpo e nella rubrica).

Di più, è un’interpretazione costituzionalmente imposta perché è il fondamento che solo potrebbe (ma come detto non si valuterà la più ampia questione della costituzionalità dell’obbligo vaccinale anti Sars- CoV-2) giustificare una discriminazione così rilevante.

Tale fondamento non è presente nel caso in esame: i vaccinati, rebus sic stantibus, ossia con i farmaci oggi a disposizione della popolazione italiana, come i non vaccinati, si infettano ed infettano gli altri.

Non vi è alcuna evidenza scientifica che abbia dimostrato che il vaccinato, con i prodotti attualmente in commercio, non si contagi e non contagi a sua volta.

Di più, la realtà dei fatti ha dimostrato il contrario.

La comune esperienza di tutti (personale, familiare, della cerchia di conoscenti) conferma il dato evidente che, allo stato, chi non si è vaccinato può infettarsi e infettare come può infettarsi e infettare chi ha ricevuto una dose, due dosi etc..

Evidenza scientifica e comune esperienza fanno assurgere tale dato nel contesto attuale - contagiosità dei vaccinati come dei non vaccinati - a fatto notorio ai sensi dell’art. 115, c.p.c. (il che esclude in radice la necessità o l’opportunità di svolgere una ctu in sede processuale).

Allora è evidente che venuto meno il presupposto per il quale alcuni lavoratori possono entrare nei luoghi di lavoro ed altri no, la sospensione del ricorrente, giustificata dal fatto che non si sia vaccinato, è del tutto priva di fondamento.

Per completezza si osserva che un eventuale atto amministrativo che imponesse una siffatta discriminazione, che per quanto detto non è prevista dalla norma primaria, sarebbe contra legem e andrebbe disapplicato.

Si ribadisce l’art. 4-quater, dl. 44/21 estende l'obbligo vaccinale agli ultracinquantenni “per la prevenzione dell'infezione” non per limitare in tutto o in parte le conseguenze dell’infezione.

Quindi non si entra nel merito dell’efficacia o meno dei vaccini per la salute pubblica o della legittimità o meno dell’obbligo vaccinale ma si evidenzia come l’interdizione all’accesso al luogo di lavoro (di cui all’art. 4 quinquies, dl. 44/21) per il lavoratore è volto ad evitare il contagio (non le sue conseguenze) ai suoi colleghi; ora se il lavoratore vaccinato come quello non vaccinato si infetta ed infetta non può godere di un trattamento diverso da quello non vaccinato, almeno sotto il profilo (che qui solo interessa) dell’accesso al lavoro.

Quanto alle sentenze della Corte Costituzionale che hanno analizzato alcune questioni di costituzionalità relative alla normativa emergenziale per contrastare il diffondersi dell’infezione da Sars-CoV-2, va premesso, innanzitutto, che le sentenze di inammissibilità e infondatezza, quali sono le mentovate pronunce della Consulta, non hanno alcun effetto vincolante, a livello interpretativo, per i giudici di merito.

L’unico effetto processuale di un provvedimento di rigetto dell’eccezione di illegittimità costituzionale è in effetti, quello che “l’eccezione può essere riproposta all’inizio di ogni grado ulteriore del processo” e quindi non nuovamente dallo stesso giudice rimettente nel corso del medesimo grado di giudizio (art 24, l. 11 marzo 1953, n. 87).

Peraltro, come noto, la funzione nomofilattica - tesa ad assicurare l’esatta osservanza della legge, l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale - spetta solo ed esclusivamente alla Corte di Cassazione e non già anche alla Corte Costituzionale (art. 65, comma 1, R.D. 30 gennaio 1941 n. 12).

Può peraltro osservarsi che nella sentenza n. 15/2023, la Corte Costituzionale ritiene non irragionevole le norme di introduzione dell’obbligo vaccinale e del “green pass ” in base all’argomentazione che “contrariamente all’assunto del giudice rimettente, gli stessi dati esposti nei rapporti dell’ISS menzionati nell’ordinanza di rimessione, lungi dall’evidenziare la inutilità dei vaccini, dimostrano come, soprattutto nella fase iniziale della campagna di vaccinazione, l’efficacia del vaccino – intesa quale riduzione percentuale del rischio rispetto ai non vaccinati – sia stata altamente significativa tanto nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2, quanto nell’evitare casi di malattia severa; e come tale efficacia sia aumentata in rapporto al completamento del ciclo vaccinale” e che “la scelta si è rivelata, altresì, ragionevolmente correlata al fine perseguito di ridurre la circolazione del virus attraverso la somministrazione dei vaccini” ritenendo dimostrato che “in una situazione caratterizzata da una rapidissima circolazione del virus, i vaccini fossero idonei a determinare una significativa riduzione di quella circolazione”, di talché l’imposizione dell’obbligo vaccinale “si connota quale misura sufficientemente validata sul piano scientifico”. In particolare, la Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 14/2023 e 15/2023, con pari argomentazioni sul punto, rileva: “Sull’efficacia della vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 si sofferma l’ISS, esponendo che «[l]a vaccinazione anti- COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2. Numerose evidenze scientifiche internazionali hanno dimostrato l’elevata efficacia dei vaccini anti-COVlD-19 disponibili ad oggi, sia nella popolazione generale sia in specifici sottogruppi di categorie a rischio, inclusi gli operatori sanitari» (pagine 2 e 3 della nota dell’ISS). Al di là della fisiologica eterogeneità delle risposte immunitarie dei singoli individui e della maggiore capacità della variante Omicron di eludere l’immunità rispetto alle varianti precedenti, viene attestato che «la protezione rimane elevata specialmente nei confronti della malattia severa o peggior esito» (pagina 3 della nota dell’ISS). L’ISS chiarisce, inoltre, che «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al l00%, ma del resto nessun vaccino ha una tale efficacia, l’elevata circolazione del virus SARS-CoV-2 rende comunque rilevante la quota di casi prevenibile» (pagina 5 della nota dell’ISS)”. Ed ancora : “Alla luce dei dati sin qui ripercorsi, deve ritenersi che le autorità scientifiche attestino concordemente la sicurezza dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 oggetto di CMA e la loro efficacia nella riduzione della circolazione del virus ”
...“appare evidente, dunque, in coerenza con il dato medico-scientifico che attesta la piena efficacia del vaccino e l’idoneità dell’obbligo vaccinale rispetto allo scopo di ridurre la circolazione del virus, la non irragionevolezza del ricorso ad esso” (sentenza n. 14/2023).

Orbene, questo Giudice intende discostarsi da tale interpretazione, rilevando che i vaccini per Sars Cov 19 in commercio non sono strumenti atti in alcun modo a prevenire il contagio. Qui non si discute, peraltro, come è evidente, della idoneità o meno dei vaccini a prevenire le forme acute della malattia, che è tutt’altra questione, non di interesse per il presente giudizio - bensì della capacità, o meglio della incapacità, di tali vaccini quale strumento di prevenzione del contagio.
Ci si intende quindi in particolar modo discostare da quanto sostenuto dalla Consulta, che richiama, prestandovi quindi fede, una affermazione dell’ISS, secondo cui «[l]a vaccinazione anti-COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2” ed «anche se l’efficacia vaccinale non è pari al l00%”.

Ed in effetti, l’idoneità dei vaccini attualmente in commercio a non venire contagiati e a non contagiare, e quindi quale strumento di prevenzione del contagio, non solo è chiaramente smentita dalla realtà dei fatti conosciuta da tutti (realtà toccata con mano, senza necessità di particolari conoscenze mediche: ad un soggetto viene somministrato il vaccino e poco dopo gli viene diagnosticata l’infezione da SARS-CoV- 2) ma dalle stesse case produttrici dei vaccini.

E’ noto che il portavoce del responsabile della Pfizer (principale vaccino utilizzato in Italia) abbia dichiarato davanti al Parlamento Europeo che nessuno studio era stato condotto sulla capacità del vaccino di impedire il contagio non essendo quello il fine del prodotto in vendita quanto piuttosto quello di contrastare gli effetti dannosi dell’infezione.

Riprova ne è che le indicazioni terapeutiche presenti nel foglio illustrativo dei vaccini in commercio - quale il Comirnaty sviluppato dalla Pfizer - non riportano quale effetto del vaccino quello di prevenire l’infezione da Sars-CoV-2, bensì quello di limitare gli effetti dannosi della malattia Covid-19: “Comirnaty è un vaccino utilizzato per la prevenzione di COVID-19, malattia causata da SARS-CoV-2”, specificando peraltro che “Comirnaty potrebbe non proteggere completamente tutti coloro che lo ricevono, e la durata della protezione non è nota” (foglietto illustrativo reperibile sul sito web istituzionale dell’AIFA).

Dalla notorietà del fatto discende, peraltro, come già detto, anche la non necessità o opportunità di ordinare alcun tipo di accertamento peritale sul punto.

Piuttosto, l’audizione di esperti di chiara fama andrebbe di converso disposta in tutti quei casi in cui l’evidenza del fatto notorio venisse messa in discussione, non bastando certamente, al riguardo, apodittici richiami alle prese di posizione delle “autorità istituzionali nazionali ed europee, preposte al settore” - come invece si fa nelle già citate sentenze della Corte Costituzionale (vedasi art. 17 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, approvate con delibera della Corte in sede non giurisdizionale del 22 luglio 2021 e successive modificazioni).

Nel caso che ci occupa, in affetti, questo giudice ritiene assolutamente non provata l’efficacia vaccinale quale strumento di prevenzione del contagio, risultando quale fatto notorio - fatto che sulla base della comune esperienza può considerarsi indubitabile ed incontestabile in quanto incontrovertibilmente emergente dal naturale accadimento dei fatti (id quod plerumque accidit) - che i soggetti vaccinati possano

contrarre e trasmettere contagio e che di conseguenza, dal punto di vista epidemiologico, vaccinati e non vaccinati, vanno necessariamente trattati come soggetti tra loro sostanzialmente equivalenti.

Esiste un indirizzo giurisprudenziale di merito che ha qualificato come fatto notorio la inidoneità del vaccini in commercio a strumenti di prevenzione del contagio, trattandosi di un fatto che appartiene al normale patrimonio di conoscenze della comunità sociale, in un dato tempo e in un dato luogo, e che può essere, perciò, conosciuto, nella sua distinta identità storica, dal giudice senza la necessità di uno specifico accertamento, escludendo la necessità di ulteriori verifiche in punto di prova.
A mero titolo di esempio si riporta il seguente passaggio: “i contagi avvengano comunque e non si sono mai interrotti, nonostante la campagna vaccinale pluriennale; ciò è tanto diffuso e conosciuto nella percezione comune di questo momento storico da essere fatto notorio, perché tutti sanno che i vaccini non impediscono il contagio; dunque vaccinati e non vaccinati sono vettori virali indistintamente; trovandosi in situazioni identiche non è pensabile un trattamento discriminatorio dei non vaccinati” (Tribunale Ordinario di Firenze, Seconda Sezione Civile, ordinanza del 31 ottobre 2022 divenuta definitiva non essendo stata reclamata).

In conclusione, deve essere dichiarata illegittima la sospensione dal lavoro operata dalla parte resistente nel periodo xxxxxxxx con ogni conseguenza normativa ed economica.

Alla parte ricorrente deve essere pagata la retribuzione dalla sospensione all’effettivo ripristino della stessa (ossia per il periodo xxxxxx), quantificata dal lavoratore in € xxxx (v. docc. XXXXX fascicolo parte ricorrente), e non contestata con un calcolo diverso dalla datrice di lavoro.

Parte ricorrente chiede anche il pagamento di un danno biologico temporaneo per il periodo XXXXXX.

Ora, la documentazione medica in atti, peraltro a far data dal XXXX (v. docc.xxxxx fascicolo parte ricorrente) prova tale danno legato alla sospensione dal lavoro.

Invero, tale sospensione, senza alcun fondamento per quanto detto, per il suo grave connotato sia in termini di eliminazione della fonte di sostentamento sia in termini discriminatori rispetto ai colleghi che hanno continuato a lavorare, giustifica il forte stress psicologico.

Alla luce dell’art. 5, l. 57/01, tale danno può essere quantificato in € XXXXX.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico della parte resistente secondo la regola generale della soccombenza.

Tali i motivi della decisione riportata in epigrafe.

L’Aquila, 13 settembre 2023. Il Giudice del Lavoro