La cultura del lavoro e i modelli di benessere organizzativo
-lavorare è una punizione o una promozione; l’ozio è nemico dell’anima ?; la formazione della classe dirigente; i modelli di benessere organizzativo; le sfide del futuro-
 

Di Balduino SIMONE
 

Qualsiasi discorso intorno al lavoro dall’efficienza alla produttività, dalla tutela della salute, alla sicurezza, non può che iniziare dall’approccio culturale, con il quale esso è percepito e vissuto, espresso in maniera immediata dalla domanda:

lavorare è una punizione o una promozione ?

A seconda della risposta, si imboccheranno itinerari diversi, lungo i quali si incontreranno tutti gli ostacoli e le criticità, che oggi il mondo del lavoro presenta e che riguardano non solo la sicurezza e la tutela della salute.

Entrambe le risposte possibili-punizione o promozione- hanno argomenti che possono sorreggerle giustificarle. La prima, che considera il lavoro una punizione ha riferimenti biblici.

La Genesi, ci ricorda che dopo la creazione, Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden non avevano bisogno di lavorare e disponevano di tutto ciò che necessitavano. Dio, però, mise al centro del giardino due alberi meravigliosi: quello della conoscenza del bene e del male e quello della vita e ne parlò all'uomo, suscitando la sua curiosità.

L'uomo, stimolato dalla curiosità o dalla voglia di conoscere i suoi limiti, ne assaggiò i frutti, disobbedendo; prese coscienza di sé e fu scacciato dal paradiso terrestre. Dovette perciò procurarsi e fu costretto a ricorrere all’ingegno e alla fatica fisica. Senza dubbio, se ci si ferma a questa narrazione, ed alla sua interpretazione letterale, il lavoro è una punizione e questa visione, in qualcuno è ancora presente.

Non c'è dubbio che alcuni lavori sono faticosi, altri sono logoranti, altri espongono a rischi e a delusioni. Ma non tutti i lavori hanno queste caratteristiche. Il lavoro può essere anche momento di realizzazione e di gratificazione, di espressione di capacità, di ingegno e di dedizione, di esaltazione delle le qualità migliori dell'uomo; le sole che gli permettono di “avvicinarsi a Dio”, come quando crea capolavori immortali.

E, certe opere, come gli affreschi di Michelangelo alla Cappella Sistina, ad esempio, non possono che generare in chi li ammira l’orgoglio di appartenere alla stessa genìa di chi fatto un'opera quell’opera con mani di Dio.

I dubbi sul lavoro- punizione o promozione-sono tuttora presenti tra noi e sono alla base di problemi di estrema attualità, come la produttività e, soprattutto la tutela della salute e della dignità morale, valori tutelati anche da norme cogenti, come l’art. 2087 del Codice Civile.

Ai fini della tutela della salute, sentire il lavoro come una punizione fa male, crea condizioni di disagio e di malattia. Non a caso, il D.lgs n. 81 del 2008, norma primaria in tema di salute e sicurezza sul lavoro, ha elevato lo stress da lavoro correlato allo stesso livello di rischio fisico, chimico e biologico. E la relativa valutazione, da inserire nel Documento di valutazione del rischio (Dvr), è compito non delegabile del Datore di lavoro, mentre il medico competente è chiamato a dare il suo contributo, insieme alle altre figure preposte, utilizzando tutta una serie di parametri, che indagano i diversi aspetti del problema, spesse volte annidati non nella oggettiva gravosità del lavoro, quanto nelle relazioni che si instaurano tra lavoratori e, soprattutto, con i vari livelli delle gerarchie aziendali. La stessa sicurezza è fortemente condizionata dall’approccio culturale e, non a caso, la gran parte degli infortuni sul lavoro sono causati dalla non conoscenza dei fattori di rischio, dalla poca o nulla formazione, dal non utilizzo dei dispositivi di protezione, dalla superficialità e dalla disattenzione, tutti fattori riconducibili al poco amore per il lavoro

Infine la stessa produttività, cioè il risultato in termini di economicità e di affermazione dell’azienda nella società competitiva, condizione primaria che nell’economia globale ne determina e condiziona la vita, contrariamente a certe teorie basate solo sui numeri, è dovuta principalmente all’amore per il lavoro, che le risorse umane sentono, alimentato da rapporti sereni e dalla dedizione di tutti, anche degli addetti ai lavori più umili.

Troppo spesso il mondo del lavoro dimentica queste riflessioni su come esso è proposto da chi ha la responsabilità di organizzarlo e di gestirlo e su come è percepito dal lavoratore .Queste dimenticanze sono tipiche dei contesti ove è riservata molta attenzione ai numeri e poca alle persone sino a favorire la crescita costante di coloro che ritengono il lavoro una punizione e, per questo, utilizzano ogni espediente disponibile per sottrarsi ad esso, oppure per fare il meno possibile.

Il tema dell’approccio culturale al lavoro e di come esso viene percepito è veramente stimolante e vale la pena di scorrere rapidamente le diverse culture del lavoro, che sono maturate nel tempo.

l’ozio è nemico dell’anima?

In estrema sintesi possiamo dire che tutte le visioni del lavoro, succedutesi nel tempo nel tempo, sono riconducibili a due culture che potremmo definire come: cultura signorile e cultura borghese.

La cultura signorile iniziò a manifestarsi nell’antica Grecia, ove la libertà era correlata all'affrancamento dal lavoro manuale, riservato agli schiavi ed ai servi. Platone ed Aristotele sostenevano il primato della contemplazione, la sola in grado di sviluppare le virtù, le riflessioni, l'attività politica. Esiodo, unico scrittore greco ad esaltare il lavoro, lo considera però una pena inflitta agli uomini.

Anche nella Roma antica non era nobile lavorare. Secondo questa cultura l’ozio era il solo lavoro dell’uomo libero. Conseguentemente, l'otium aveva un'accezione positiva, mentre il negotium, tipico dell'attività commerciale, aveva un'accezione negativa, ed era delegata agli schiavi e ai liberti. La parola Negozio, infatti, ha un’accezione negativa e deriva da NEG (particella negativa) e OTIUM (Ozio).

Si sosteneva che il Vero, il Giusto e il Bello non fossero compatibili con l'Utile. Una vita nobile doveva tenersi lontana dall'economia. Meglio la prodigalità, anche a debito. La ricchezza veniva solo dalla terra e dalla guerra. Questa visione dell'idea signorile permise di sviluppare la filosofia e grandi filosofi come Aristotele, arrivarono a sostenere che tutti i cittadini potessero partecipare alla polis, ma non chi praticava il commercio.

Anche il medioevo condannava il commercio, la cupiditas. Dante colloca all'inferno “la gente nova e sùbiti guadagni”- Le gerarchie sociali seguivano una scala dove al primo posto c’era l’oratores, seguito dal bellatores e poi dal laboratores, che comprendeva tutti coloro che svolgevano attività lavorative Per la cultura signorile il commercio era un gioco a somma zero. Se uno guadagnava, significava che un altro stava a perdendo o per essere derubato.

Secondo quella cultura la ricchezza doveva essere ereditata o conquistata con onore e spesa con onore. In tempi più vicini queste considerazioni del lavoro hanno contribuito alla nascita di altre culture ancora presenti. Marx riteneva che il commercio fosse un fattore di disgregazione della società, così come sosteneva Platone e l'economia libera poteva e doveva finire al più presto, per poter affrancare l’uomo.. Rousseau sosteneva che senza lusso non ci sarebbe povertà. Con queste visioni l'uomo si sarebbe salvato dall'economia e, quindi dal lavoro, per via rivoluzionaria, salvifica o utopica. Infine, l’auspicata sconfitta dell’economia e del lavoro avrebbe eliminato qualsiasi valore del tempo.

La cultura borghese era ed è l'esatto contrario. Essa considerava e considera tuttora il lavoro una forma di realizzazione dell'uomo. Attribuisce valore al tempo-il tempo è denaro-, dà grande rilievo alla proprietà, all'autonomia, all'ingegno ed alla libertà dell'uomo di intraprendere nuovi lavori, anche rischiando di non farcela. Questa cultura ha cambiato il mondo, ha sconfitto la fame, allungato le aspettative di vita e portato ad una nuova etica della società, ove valori come la solidarietà si sono affermati a vantaggio dei più deboli.

Certo essa non ha portato ad un nuovo eden, ma ha eliminato la fame, ha portato all'affermarsi di grandi valori, come quello della solidarietà, della sicurezza, del rispetto e della tutela dei più deboli.

Punto cardine di questa cultura e la solenne affermazione della Regola di San Benedetto, secondo la quale “L’ozio è nemico dell’anima; e quindi i fratelli devono in alcune determinate ore occuparsi nel lavoro manuale, e in altre ore, anch’esse ben fissate, nello studio delle cose divine”.

Questa nuova cultura, che possiamo definire borghese, cambia radicalmente l’approccio al lavoro. L’ozio diventa fattore negativo e il lavoro, inteso come fattore di conquista dei beni necessari a soddisfare bisogni primari e non solo ,si sviluppa rapidamente, creando le premesse per la crescita costante dell’economia e, con essa, di molti altri valori.

Nella Regola troviamo espressi, in forma semplice e chiara, non solo i valori positivi del lavoro, come momento di realizzazione dell’uomo, ma anche principi attualissimi che complesse e tortuose teorie economiche e sociali vorrebbero esprimere: dalla necessità di coinvolgere, alla tutela dei più deboli, al creare ambienti di lavoro ove si viva bene , i soli in grado di non indurre in tristezze, né in mormorazioni, che portano al degrado, culturale, umano e professionale.

In certi ambienti di lavoro ove sono diffuse le tristezze e le mormorazioni, solo la riscoperta dei valori espressi nella Regola possono far riprendere il cammino di fiducia e di speranza, che molti hanno smarrito. Fortunatamente, queste tristezze e mormorazioni non sono generalizzate e molti imprenditori illuminati hanno riscoperto, progettando e realizzando modelli di organizzazione del lavoro che soddisfano pienamente le attese di quanti lo praticano, recuperando a queste visioni positive anche coloro che erano orientati a ritenere il lavoro uno spiacevole intervallo della vita quotidiana.

Chi ama il proprio lavoro, lo considera occasione di gratificazione e di realizzazione ed è questa cultura che ha animato intere schiere di lavoratori, orgogliosi di collaborare con grandi imprenditori; insieme hanno creato grandi aziende e opere meravigliose, che per dimensioni, utilità e bellezza sfidano il tempo.

La creazione di ambienti lavorativi intesi a soddisfare questi valori primari è una condizione fondamentale perché il lavoro sia amato e non gravoso. Chi ama il proprio lavoro ha la fortuna di non lavorare mai e questo è l'augurio più bello che possa farsi a chi entra nel mondo del lavoro. Possa avere l'intelligenza di amare il proprio lavoro e di esercitarlo in allegria, senza tristezze, né mormorazioni, quelle affaticano e piegano il fisico lo spirito.

"Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno nella vita"

Questa frase, attribuita Confucio, sintetizza in maniera solenne l’importanza di amare il proprio lavoro ed esprime non solo la ricerca di un lavoro da amare, ma anche l’intelligenza di amare il lavoro che si ha, per non renderlo più gravoso e disporre dell’energia della volontà per cercarne uno migliore.

I pericoli che si nascondono nel non avere un lavoro e nel non cercarlo sono chiari a tutti ed estremante attuali. Le moderne definizioni di né-né (in inglese NEET-Neither in Employment or in Education or Training), sono concordi nella gravità del fenomeno sociale, ma meno lucide e chiare della Regola di San Benedetto, che porterà alla nascita delle arti e dei mestieri, ove l’ingegno dell’uomo si arricchirà di creatività, di voglia di scoprire e di costante spinta a migliorarsi.

La formazione della classe dirigente

Oggi quella cultura del lavoro, proposta dalla Regola di Benedetto è molto affievolita ed in via di estinzione. E’ stata soppiantata da una non cultura, ove l’assistenzialismo è spacciato per solidarietà e cavalcata da una parte non trascurabile della classe dirigente, che all’impegno di educare, di provvedere, di esortare, ha preferito il meno impegnativo buonismo. La realtà in cui versa l’intero Occidente richiederebbe invece una classe dirigente in grado di “prendere in considerazione la diversità dei bisogni e delle debolezze, aver cura non solo delle cose, ma soprattutto delle persone, evitando ogni tristezza o mormorazione, rimanendo umili e servendo con carità, trasformano costantemente il discorso pratico in esortazione morale”(*), proprio come quella espressa dalla Regola, scritta in un tempo presentava che ha molte analogie con quello attuale.

Purtroppo, questa esigenza non è condivisa dai grandi organismi che hanno il potere di creare modelli di organizzazione e di leadership e di presentarli come risolutivi, anche perché i fattori di analisi, nonostante le tanto decantate attenzioni alle risorse umane, restano la produttività e la redditività delle aziende, parametri vitali per la loro sopravvivenza in un’economia sempre più ferocemente competitiva, senza confini e senza scrupoli. Il tema della produttività è stato poi condiviso anche dal settore pubblico, affascinato dai grandi “progressi” del settore privato, paradossalmente sempre più attratto dalle droghe dell’aiuto pubblico, per giungere a soluzioni simili. Questo allineare perfettamente modelli di analisi e di ricerca delle soluzioni, per due mondi diversi e molto distanti, ha finito però col sacrificare alcune particolarità degne di nota, che li connotavano.

Inoltre, i modelli proposti, che fanno riferimento ai soli numeri, sempre più incomprensibili, si sono dimostrati poco affidabili e, già verso la fine del primo decennio del nuovo secolo, di fronte ad una crisi mondiale, generata da manager, senza scrupoli, costantemente impegnati a migliorare i numeri delle loro aziende, tutti auspicavano un ritorno all’etica e ai valori che la esprimono, come unica via d’uscita dal tunnel.

La riscoperta dell’etica, però, era ed è dovuta alla diffusa convinzione del potere taumaturgico delle parole, più che alla consapevolezza degli atteggiamenti e dei comportamenti che essa richiede. E’ evidente, infatti, che solo una nuova dimensione etica dei capi può orientare le strutture loro affidate a percorrere strade diverse, ove la cura della persona e non i numeri diventano fattori su cui investire, nella certezza che arriveranno anche i risultati e saranno duraturi, non effimeri e fumosi, come certi slogan geniali, che per anni hanno offuscato le menti di tanti, solo perché nessuno ne ha mai capito il significato.

La dimensione etica del capo, pur nelle diverse espressioni che ne definiscono la funzione, acquista rilevanza fondamentale, anche per ricercarne i percorsi formativi più idonei. Per questo tema, può essere interessante studiare approfonditamente la storia dei personaggi che hanno avuto la capacità di coinvolgere nei loro progetti un numero infinito di persone ed ottenerne la fiducia, sino al sacrificio della vita; personaggi che hanno affascinato più per i valori che hanno saputo, a torto o a ragione, comunicare, che per ogni altra qualità, che pure potevano sfoggiare.

L’etica si esprime nei valori verso cui orientare le azioni ed il capo che riesce a farsene interprete, a comunicarli e a presentarsi come guida per il loro raggiungimento o per la loro tutela, riesce a coinvolgere, a motivare e a far sentire partecipi anche i più umili. I valori etici condivisi sono i soli che riescono ad emozionare e questo sentimento proietta l’uomo verso traguardi che, normalmente, appaiono impossibili

Orientando il tutto verso le sole produttività e redditività è difficile emozionare e coinvolgere e di fronte al fallimento ecco riapparire prepotentemente i grandi valori, quelli che scaldano il cuore e, con essi la riscoperta della dimensione etica, necessaria ad interpretarli, esprimerli e custodirli.

Per molto tempo, dimenticarsi dell’etica, è stato uno sport praticato da tutti, compresi i cosiddetti consumatori, termine, sicuramente poco nobile, che considera le persone degne di tutela in quanto dedite a consumare beni o a utilizzare servizi. Il problema delle carenze etiche, è molto più complesso e non riguarda solo pochi capi. Per essere affrontato, richiede cambiamenti culturali nel modo di vivere e, soprattutto, di pensare da parte di molti. E non è di facile soluzione, perché mentre tutti sono d’accordo riguardo alle cause che hanno prodotto la situazione di crisi, pochi propongono cambiamenti culturali per il futuro; anzi, molti sperano in un ritorno al passato, fatto di crescita continua dei consumi, come motore di sviluppo infinito.

Questa diversa valutazione delle cause dei mali del presente e di come superarli, è una scoria del passato e la paura di un nuovo corso, che porterebbe a cancellare inevitabilmente molti di quei privilegi accumulati da tutti, anche dai consumatori.

Anche i percorsi formativi di coloro che, nelle vesti di dirigenti, comandanti o responsabili di strutture con denominazioni, sono destinati a recitare un ruolo di protagonisti nel futuro del mondo del lavoro, pubblico e privato, non sono semplici e richiedono scelte radicali ed inversione di rotta, rispetto ad una realtà consolidata di slogan incomprensibili.

La fonte certa di questi percorsi è la Regola di S. Benedetto, unica per grandezza di contenuti, che orienta ogni scelta organizzativa a privilegiare la crescita umana, culturale e professionale, come condizione ineludibile di produttività e di redditività del lavoro


Il benessere organizzativo

Educare le persone ad amare il lavoro come momento di benessere personale e fattore di produttività, sia in termini quantitativi che qualitativi, è un’esigenza condivisa da un numero crescente di esperti, incaricati di migliorare l’efficienza del lavoro. Questo principio, che animava tutte le comunità benedettine, è divenuto di estrema attualità per due ordini di ragioni, strettamente correlate:
- le tecnologie sempre più invasive, che in molti campi si avviano a sostituire l’uomo a ridurne la partecipazione al lavoro a ruoli secondari o residuali;
- la crescente attenzione al sostentamento di chi non ha lavoro, che senza adeguate limitazioni può ridurre di molto l’interesse a cercarlo.

Per quanto concerne le tecnologie sempre più invasive è evidente che in tutti i processi lavorativi il ruolo dell’uomo è destinato a ridursi drasticamente, sino alla completa spersonalizzazione e, con essa il venir meno della soddisfazione insita nel prodotto, non più frutto della creatività dell’uomo, ma della macchina. Questa condizione negativa è destinata a crescere con il diffondersi impetuoso dell’intelligenza artificiale (AI), alimentata da una visione religiosa sulle potenzialità della tecnologia, sottratta sempre più al controllo dell’uomo.

L’attenzione, doverosa, a chi è senza lavoro, molto spesso frutto non di solidarietà ma fattore di consenso politico, senza adeguata determinazione dei limiti di accesso ai sussidi previsti per chi si trova senza lavoro, può generare situazioni per le quali il non lavoro è preferibile al lavorare, alimentando così una cultura dell’ozio, con il rischio di portare anche al degrado culturale ed umano.

Per tutte queste ragioni, il lavoro, privato della gratificazione del risultato e dell’importanza dello stesso come sostentamento di una vita dignitosa, può riacquistare un ruolo fondamentale nella vita di tante persone ,come momento di benessere psicosociale.

Questi nuovi orizzonti del lavoro per essere compresi, ricercati e raggiunti con successo richiedono una classe dirigente preparata alla spiritualità del lavoro, quella che non si esprime con i numeri, ma creando ambienti che “contribuiscano al miglioramento della qualità di vita dei lavoratori e delle prestazioni”, obiettivo indicato dal Ministro della funzione pubblica all’inizio degli anni 2000, come itinerario per migliorare il livello di efficienza della Pubblica Amministrazione. Questa Direttiva aveva riscosso entusiasmi ad ogni livello, purtroppo spentisi rapidamente, al pari delle tante altre soluzioni, proposte dalle periodiche riforme della Pubblica Amministrazione, che da mezzo secolo sono trionfalmente annunciate come risolutive(**). Riforme accomunate tutte dall’essere scritte da tecnici che “parlano con grande competenza di cose che non conoscono” categoria di cui il Paese non è carente e che gode di grande affidabilità, proprio per la riconosciuta capacità di non risolvere.

Nessuna riforma proposta ha mai osato parlare di responsabilità, ma solo di premi di produzione, sistematicamente distribuiti a pioggia, senza distinzione alcuna, sollevando così i dirigenti dal dover scegliere ed assumersi le responsabilità delle scelte, che non sarebbero accettate dagli esclusi, solitamente ben organizzati per tutelare non diritti, ma i privilegi.

Eppure, premiare e punire, sono insite nella funzione gerarchica, il cui esercizio richiede la consapevolezza degli effetti che le misure premiali e i provvedimenti punitivi producono nelle comunità, in particolare sulla percezione della dimensione di chi le adotta. Il non esercitarle non solleva il capo dal giudizio della comunità, anzi lo accredita come personaggio inadeguato al ruolo. Questo sfuggire agli obblighi di adottare provvedimenti punitivi riduce o annulla la dimensione etica dei capi che pensano di essere apprezzati da tutti i collaboratori, con atteggiamenti ridicoli di giovialità e di rinuncia ad esercitare qualunque azione di controllo sulle attività dei singoli. Il clima ove ognuno fa quello che vuole non educa le persone ad amare il lavoro, non ne migliora la qualità della vita, né l’efficienza funzionale delle strutture.

Per creare e consolidare ambienti e relazioni che contribuiscono al miglioramento della qualità della vita, sono necessari “capi” in grado di esercitare appieno tutte le funzioni insite nel ruolo, a cominciare dall’obbligo morale di investire sulla crescita delle persone, anche richiamando e riprendendo chi sbaglia, affinché acquistino il senso etico del dovere, come saggiamente prescrive all’Abate il capitolo 2°.26 della Regola di San Benedetto «Ne chiuda gli occhi sui vizi dei trasgressori, ma appena cominciano a sorgere, le strappi alle radici con tutte le forze che può».

Creare ambienti di lavoro che migliorino la qualità della vita non è semplice. Per realizzarli è indispensabile l’autorevolezza dei capi, molto più difficile da raggiungere ed impegnativa da praticare, rispetto alle visioni proposte dalle tante teorie sulla leadership, come il coaching, attualmente di moda nella galleria delle trovate di ingegno del mondo dello spettacolo trasferite in certe Università che le hanno nobilitate, certificate e i proposte alle realtà del mondo del lavoro ,con effetti spesso tragicomici, prontamente dimenticati, perché coperti da altre novità, ancora più spettacolari. Ma, nonostante gli insuccessi strepitosi continua senza sosta la produzione di modelli di leadership da avanspettacolo, in un mondo che non distingue più la realtà dalla finzione e, per questo, di grande attrazione per capi simpatici, gioviali e alla mano.

Nella realtà, non esiste un capo in grado di creare ambienti di lavoro che migliorino la qualità della vita con atteggiamenti e comportamenti da bar dello sport, ma questo poco importa; l’importante è stupire con continue trovate d’ingegno, come la contaminazione delle idee, altro slogan di moda. Educare le persone ad amare il lavoro è cosa ardua ed impegnativa e richiede comportamenti esemplari dei capi, non omissioni, né complicità. E, solo amando il lavoro, il tempo ad esso dedicato è breve, passa serenamente e procura una sensazione di benessere, quella che aiuta a vivere bene anche il resto della giornata, perché "se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono". - Primo Levi, “La chiave a stella”

Le sfide del futuro

Come educare le persone ad amare il proprio lavoro è la sfida più avvincente che il futuro presenterà con sempre maggiore attenzione a tutti coloro che avranno responsabilità organizzative o di gestione di grandi o piccole strutture. Sinora la “malattia” è stata affrontata proponendo, come medicina, l’incentivo economico e gli avanzamenti di carriera. I risultati non sono stati brillanti, specie nel pubblico impiego, ove l’obiettivo di accontentare tutti, ha finito col produrre incentivi a pioggia, di valore insignificante e promozioni a tutti, nessuno escluso. Il ricorso a promozioni generalizzate, nel pubblico impiego, è la materiale realizzazione del principio di Peter: “In ogni gerarchia ogni dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza”.

Le giuste aspirazioni alla promozione e alle gratificazioni economiche, vanno assecondate e tutelate, orientandole verso modelli ove le professionalità acquisite siano fattori portanti anche negli incarichi che si vanno ad assicurare. Tutto questo presuppone, però, modelli organizzativi articolati in maniera tale che la crescita delle persone trovi momenti realizzativi al servizio del bene comune e non resti mera gratificazione personale, senza utilità per la struttura.

Anche il settore privato, più attento alla produttività, ha puntato sulla premialità riferita a parametri concordati, ma difficili da applicare, se non riconoscendoli a tutti. Gli esiti ottenuti stimolano riflessioni approfondite sulla bontà dei mezzi impiegati e sulla necessità di ricercare altri itinerari , che possano aiutare a raggiungere gli obiettivi voluti e imposti da una realtà caratterizzata da sempre maggiori esigenze e competitività. Questi strumenti nuovi non possono che orientarsi a soddisfare, accanto alle giuste aspettative economiche, specie per le fasce più deboli, quel bisogno profondo dell’animo a partecipare al lavoro e non a subirlo come imposto; a ricercare in esso momenti di felicità, che portino a personalizzarlo per gioirne delle affermazioni e a sentirsi responsabili degli insuccessi. Solo così, si potrà pensare di dare inizio ad una fase nuova e migliore di quella che, tristemente, si avvia a tramontare, sotto l’incalzare di crisi, che si susseguono ad intervalli sempre più corti e spesse volte dagli sviluppi indecifrabili.

Il tempo di manager dell’industria che promettono crescita costante delle aziende e di esperti della Pubblica Amministrazione che garantivano livelli di efficienza funzionale miracolistici, è finito e la realtà di ogni settore evidenziano l’assoluta urgenza di riscoprire saggezze antiche e la centralità dell’uomo, destinatario principe di ogni progetto umano, che si ispiri alla grandezza dei valori eterni ed insostituibili, come l’amore per se stessi e per gli altri, il lavoro come momento creativo e non alienante. Chi ama sé stesso non può odiare il proprio lavoro, anche se non gli piace. Il capo, degno di questo nome, non può restare indifferente di fronte a manifestazioni di disagio diffuse tra gran parte del suo personale, ma deve ricercare ogni accorgimento per far sì che le persone lavorino con piacere. Il disprezzo per il lavoro, porta ad appesantirne gli effetti e alla ricerca costante di fuggire dallo stesso, con un atteggiamento peggiore dell’ozio, solennemente riconosciuto come “nemico dell’anima”.

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(*) A. de Voguè, "La Régle de Saint Benoit” (sources chrétiennes) riportato in «Radici Cristiane d’Europa», Edizioni San Paolo, 2004.
(**) Dalla premessa alla Direttiva del Ministro della Funzione pubblica del 2004 “Il Dipartimento della Funzione Pubblica intende sostenere la capacità delle amministrazioni pubbliche di attivarsi, oltre che per raggiungere obbiettivi di efficacia e di produttività, anche per realizzare e mantenere il benessere fisico e psicologico delle persone, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e delle prestazioni. Il Dipartimento ritiene, infatti, che, per lo sviluppo e l’efficienza delle amministrazioni, le condizioni emotive dell’ambiente in cui si lavora, la sussistenza di un clima organizzativo che stimoli la creatività e l’apprendimento, l’ergonomia - oltre che la sicurezza - degli ambienti di lavoro, costituiscano elementi di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo e dell’efficienza delle Amministrazioni pubbliche" -Direttiva del Ministro della funzione pubblica del 24 marzo 2004-Misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni.