Cassazione Penale, Sez. 4, 29 agosto 2023, n. 35897 - Nube tossica di acido solfidrico. Garanti di fatto
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PICCIALLI Patrizia - Presidente -
Dott. CAPPELLO Gabriella - Consigliere -
Dott. PEZZELLA Vincenzo - rel. Consigliere -
Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere -
Dott. SESSA Gennaro - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A., nato a (Omissis);
B.B., nato a (Omissis);
C.C., nato a (Omissis);
D.D., nato a (Omissis);
E.E., nato a (Omissis);
F.F., nato a (Omissis);
avverso la sentenza del 07/03/2022 della CORTE, APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. PEZZELLA VINCENZO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Gen. Dott.ssa MARINELLI FELICETTA che ha concluso per il rigetto dei ricorsi di C.C., D.D., A.A. e F.F. e per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata per B.B. e E.E.;
uditi i difensori;
avvocato DAMIANI LAURA del Foro di Roma, in sostituzione dell'Avv. SALVATORI FRANCESCA del medesimo Foro, difensore della parte civile ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO (INAIL), che, riportandosi alla memoria e alla nota spese già depositate ha chiesto di rigettarsi il ricorso proposto dagli imputati ricorrenti confermando la sentenza impugnata anche nelle statuizioni civili.
avvocato VARVARA ELIANA del Foro di ROVIGO, in difesa della parte civile PROVINCIA DI ROVIGO in persona del Suo Presidente pro tempore che, come da conclusioni e nota spese depositate in udienza ha chiesto il rigetto dei ricorsi presentati dagli imputati confermando integralmente le statuizioni della sentenza della Corte di Appello di Venezia;
avvocato CUSIN ANTONELLA del foro di PADOVA per la parte civile REGIONE VENETO, in persona del Presidente pro tempore che ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettare i ricorsi proposti dagli imputati e per l'effetto confermare integralmente le statuizioni della sentenza della Corte di Appello di Venezia;
avvocato PELA' CLAUDIA del Foro di FERRARA per il ricorrente F.F. che ha insistito per l'accoglimento del ricorso;
avvocato MUNARI PIERFRANCESCO del Foro di ROVIGO, in difesa della ricorrente E.E. il quale, associandosi alle conclusioni del Proc. Gen. e dopo aver esposto le ragioni a sostegno del ricorso, ha concluso chiedendo l'annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata;
avvocato PETTERNELLA MARCO del Foro di ROVIGO, in difesa dei ricorrenti A.A., B.B., C.C. e D.D. che, per quanto riguarda la posizione di B.B., si è associato alle conclusioni del Proc. Gen. chiedendo l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, e per gli altri suoi assistiti, dopo avere evidenziato i punti salienti dei motivi di ricorso, ha insistito sugli stessi chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata;
avvocato GIRALDI MARIO FRANCESCO del Foro di ROMA quale codifensore del ricorrente D.D. che, associandosi alle conclusioni dell'avvocato PETTERNELLA e riportandosi ai motivi di ricorso, ha insistito per l'accoglimento dello stesso;
avvocato PETTERNELLA MARCO del Foro di Rovigo quale sostituto dell'avvocato MIGLIORINI LUIGI del medesimo Foro, difensore dei ricorrenti A.A., B.B. e C.C., che ha insistito per l'accoglimento dei ricorsi.
Fatto
1. Il Tribunale di Rovigo con sentenza del 29/10/2019, all'esito di giudizio ordinario - previa assoluzione degli originari coimputati G.G. e H.H. dai reati loro ascritti, di tutti gli imputati dal reato di cui all'art. 437 c.p. (capo AAA), di E.E., B.B. e F.F. dal reato di cui al capo CC, di F.F. dai capi A, B, D, E - ha condannato A.A., alla pena di anni 7, mesi 8, giorni 15 di reclusione ed Euro 1.000 di multa, oltre a mesi 8 di arresto; D.D., ad anni 6 e mesi 6 di reclusione, oltre mesi 8 di arresto; C.C., ad anni 3, mesi 4, giorni 20 di reclusione ed Euro 750 di multa, oltre mesi 4 e giorni 10 di arresto; B.B., ad anni 3, mesi 9, giorni 20 di reclusione ed Euro 750 multa, oltre giorni 20 di arresto; E.E., ad anni 3, mesi 9, giorni 20 di reclusione ed Euro 750 multa, oltre giorni 20 di arresto; F.F., ad anni 3, mesi 9, giorni 20 di reclusione, oltre giorni 20 di arresto. Gli stessi imputati sono inoltre stati condannati al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili costituite (talune in riferimento al reato di cui al capo AA e altre in relazione ai reati di cui ai capi CC e DD), la cui integrale determinazione è stata rimessa al giudice civile, venendo disposta la liquidazione di svariate provvisionali.
Con sentenza del 7/3/2022, previa dichiarazione di inammissibilità dell'atto di appello proposto dal Procuratore della Repubblica di Rovigo, per tardività, la Corte di Appello di Venezia ha dichiarato la prescrizione in ordine a tutti i reati, ad eccezione dell'omicidio colposo plurimo ed aggravato, contestato a tutti gli imputati sub capo AA, fatto per il quale il giudice del gravame del merito ha confermato il giudizio di affermazione di penale responsabilità e pertanto le pene sono state rideterminate per tutti gli imputati, con riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale per la posizione del solo F.F., confermando altresì le statuizioni civili, sia in punto di riconoscimento dei risarcimenti dei danni che nelle provvisionali indicate dal primo giudice. Sono seguite le condanne alla rifusione delle spese sostenute in quel grado per il patrocinio delle parti civili.
Il reato per il quale, dunque, resta in piedi allo stato la condanna penale, a carico di tutti e sei gli odierni ricorrenti, è quello di cui al capo:
AA) delitto p. e p. dall'art. 113 c.p. e art. 589 c.p., commi 1, 2 e u.c., perchè, in cooperazione colposa tra loro, per negligenza, imprudenza ed imperizia e per avere strutturato l'impianto in modo difforme rispetto al progetto, sotto il profilo dell'attività di stoccaggio e condizionamento dei fanghi, nonchè per avere introdotto rifiuti non previsti dalla normativa sui fertilizzanti di cui al D.Lgs. n. 75 del 2010, omettendo di svolgere qualunque processo ma ponendo in essere una mera attività di scarico di rifiuti conferiti da terzi (condotta attribuita a tutti tranne che G.G.) e per colpa specifica consistita nella commissione dei reati contravvenzionali sopra indicati; in particolare, per:
- C.C. nella violazione delle seguenti norme: art. 17, comma 1 in riferimento al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 223, comma 1 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 36, D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 37 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 225 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 226 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26;
- F.F. nella violazione delle seguenti norme: D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 36 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 37 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 223 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 226;
- D.D. nella violazione delle seguenti norme: D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 36 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 37 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 225 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 226;
- A.A., B.B., E.E. nella violazione delle seguenti norme: D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 23 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26 - art. 17, comma 1 in riferimento al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 223, comma 1 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 36 - art. 37 in relazione al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 227 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 225 - D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 226;
- H.H. (omissis);
- G.G. (omissis) ciascuno nella rispettiva qualità:
- C.C., in qualità di legale rappresentante della ditta AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl ., con sede legale a (Omissis) ed unità produttiva presso la sede della ditta (Omissis) Srl con sede in (Omissis);
- D.D., in qualità di direttore tecnico della ditta (Omissis) Srl e dirigente di fatto ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299 della AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl e dell'unica società di fatto che gestisce entrambi gli impianti;
- F.F., in qualità di dirigente di fatto D.Lgs. n. 81 del 2008, ex art. 299 della ditta (Omissis) Srl . e responsabile della sicurezza del personale della ditta AGRI. BIO. FERT. CORRETTIVI Srl ;
- A.A., B.B., E.E. quali componenti del CdA, legali rappresentanti della ditta (Omissis);
- H.H. (omissis);
- G.G. (omissis);
avendo omesso:
a) di formare adeguatamente i lavoratori sulla modalità di impiego e sui rischi specifici derivanti dall'uso di sostanze chimiche pericolose quali l'acido solforico e l'ammoniaca, impiegate nei cicli produttivi di fanghi di depurazione e dl fertilizzanti;
b) di installare idonee protezioni fisse di rilevazione di gas tossici esalanti dalla vasca "D" di proprietà della (Omissis) e condotta in locazione dalla "AGRI-BIO.FERT. CORRETTIVI", ove i fanghi della prima avrebbero dovuto essere trasformati in fertilizzanti attraverso l'impiego delle citate sostanze tossiche;
c) di munire gli addetti a tali operazioni di presidi antinfortunistici passivi individuali, quali maschere personali antigas, tuie e calzari isolanti;
d) di redigere e attuare una specifica struttura e una altrettanto specifica procedura di intervento per l'adduzione dell'acido solforico nella vasca D, per evitarne la pericolosa immissione diretta, massiccia e repentina;
e) di determinare preliminarmente la presenza, all'interno di detta vasca, degli agenti chimici che avrebbero potuto divenire altamente nocivi per la salute ove posti direttamente in contatto con l'acido solforico;
f) di predisporre specifiche azioni di cooperazione e coordinamento tra le varie ditte per l'informazione reciproca sui rischi interferenziali derivanti dallo scarico diretto in vasca dell'acido solforico, in data 22/9/2014, a seguito delle operazioni di scarico di "acido solforico", dalla cisterna del camion di proprietà della ditta AUTOTRASPORTI G.G. condotta da I.I., alla vasca denominata "Vasca D", contenente fanghi ed altri rifiuti, cagionavano la morte dei lavoratori I.I., dipendente della ditta Autotrasporti G.G., e L.L., M.M. e N.N., quali dipendenti della (Omissis) Srl sotto il profilo amministrativo ma di fatto dipendenti dell'unica azienda operante presso la medesima area ubicata nella Frazione di (Omissis), che si occupa dell'intero ciclo produttivo (dalla ricezione del rifiuto, allo smistamento, alla lavorazione e al successivo spandimento sui terreni agricoli, nonchè alla produzione del "correttivo calcicò denominato gesso di defecazionè), decesso che avveniva repentinamente a seguito della reazione chimica indotta dallo svernamento diretto dell'acido solforico nella predetta vasca "D" - in cui, anzichè realizzare il processo produttivo del gesso di defecazione, veniva effettuata una mera attività di scarico e miscelazione di rifiuti conferiti da terzi e/o tenuti in stoccaggio (fanghi di depurazione, digestati provenienti da trattamenti anaerobici di rifiuti organici, rifiuti contenenti zolfo e calcio provenienti da attività industriali e da sistemi di abbattimento dei fumi, contenenti sostanze acide e grandi concentrazioni di solfuri, i quali, posti a contatto con le sostanze acide, generavano acido solfidrico, nonchè ammoniaca e sostanze organiche volatili) - e al conseguente sviluppo di una nube tossica, caratterizzata da una elevata concentrazione di idrogeno solforato (H2S) - pari a 4:632,30 ppm- che agiva sui tessuti delle vie respiratorie delle vittime, producendo insufficienze respiratoria acuta: altresì cagionavano lesioni personali gravissime ("insufficienza respiratorie acuta, edema polmonare acuto e congiuntivite irritativa da esposizione ad agenti tossici in paziente con dislipidemia) giudicate in prognosi riservata, al lavoratore O.O., dipendente della (Omissis) Srl , che veniva prontamente soccorso e ricoverato presso il reparto di rianimazione dell'Ospedale di (Omissis). In (Omissis);
2. Le condanne in appello sono state così rideterminate:
- A.A. anni sei e mesi quattro di reclusione;
- B.B. E E.E. anni due e mesi cinque di reclusione ciascuna;
- C.C., riconosciute le circostanze attenuanti generiche prevalenti, anni due e mesi tre di reclusione;
- D.D. anni cinque e mesi quattro di reclusione;
- F.F., riconosciute le circostanze attenuanti generiche prevalenti, anni due di reclusione, con concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
3. Le due società di cui ci si occupa, almeno formalmente distinte, si occupano della gestione di più tipologie di rifiuti, da sottoporre a trattamento al fine di ottenere:
- nel caso della (Omissis) un rifiuto da inviare allo spandimento in agricoltura (miscela di fanghi ed altri rifiuti stabilizzati);
- per Agri.bio.fert. Correttivi (che sarà indicata in seguito anche solo come Agr.bio.fert) un correttivo identificato dalla società medesima come correttivo calcico, gesso di defecazione, sempre utilizzato in agricoltura.
La differenza sostanziale tra le attività svolte dalle due società è che (Omissis) svolge una mera miscelazione di rifiuti mentre per Agri.bio.fert. l'attività autorizzata non è quella di mera miscelazione bensì ai rifiuti si aggiunge ossido di calcio ed acido solforico.
I giudici del merito hanno offerto una dettagliata e sostanzialmente incontestata ricostruzione di quanto accaduto la tragica mattina del (Omissis).
All'interno dello stabilimento di proprietà di (Omissis) Srl , nel quale operava anche AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl (società risultata invero solo formalmente distinta dalla prima), a partire dalle 8,24 circa, viene riversato nella cd. vasca D il contenuto di una cisterna di circa 28 tonnellate di acido solforico, condotta nell'impianto dall'autista e trasportatore I.I., dipendente della ditta individuale G.G..
L'acido solforico introdotto innesca una reazione con le sostanze presenti nella vasca, che si protrae per tutto il tempo di scarico dell'automezzo (più o meno un'ora e 15 minuti, fino alle 9.52 effettive circa e, assai probabilmente, anche per qualche altra decina di minuti). Ciò è risultato in particolar modo evidente dalla formazione di una coltre di nebbia sempre più consistente sulla superficie della vasca, chiaro indice del progredire delle reazioni chimiche.
Svariate persone, non munite di maschere di protezione, si intrattengono in prossimità della vasca D in questo lasso di tempo (fase di scarico della cisterna di acido solforico), anche per un discreto periodo (I.I. vi permane praticamente per l'intera durata dello scarico; almeno altre due altre persone si intrattengono a conversare con l'autista a bordo vasca per svariati minuti/decine di minuti), senza tuttavia alcuna conseguenza irreversibile, dunque -si è dedotto - senza essere esposte a concentrazioni letali di acido solfidrico.
Alle 9.05 effettive, mentre era ancora in corso lo sversamento della cisterna di acido solforico, si avvicina una seconda cisterna (condotta da P.P.) contenente il rifiuto "digestato da trattamento anaerobico di rifiuti solidi urbani" proveniente da La Dolomite Ambiente, che in base al documento di accompagnamento era destinato alla società (Omissis) e che viene scaricato anch'esso nella vasca D nel giro di una mezz'ora. All'esito del procedimento di svuotamento l'automezzo si allontana (ore 9.37 effettive).
Al riguardo la Corte territoriale precisa che è stato ritenuto che lo scarico di digestato, operato contestualmente allo scarico dell'acido solforico, abbia scarsamente influito sull'evolversi dei fatti, essenzialmente in considerazione del fatto che, quando si avvicina il camion recapitante il digestato (9:05 effettive, dopo circa 40 minuti dall'inizio dello scarico dell'acido solforico) la nebbia era già ben sviluppata.
A tale conclusione si perviene anche in ragione della modesta quantità di digestato immesso, se rapportato al contenuto dell'intera vasca (una cisterna con 30 tonnellate di rifiuto contenente, a fronte del contenuto della vasca di circa 4.000 tonnellate., con un'incidenza quindi di meno dell'1% in peso).
La concentrazione di solfuri "tipica" di tale digestato, risultata pari a 280 mg/kg a seguito del campionamento operato da ARPAV il 14 gennaio 2015 presso l'impianto gestito dalla Dolomite Ambiente, è stata peraltro valutata ampiamente paragonabile alla concentrazione di solfuri già presenti nella vasca D e non in grado di alterare il contenuto della vasca e il progredire della reazione.
Terminate le operazioni di sversamento, alle ore 9.33 effettive, sopraggiunge il dipendente di (Omissis), Srl Q.Q. (che indossa una maschera ai carboni attivi, che era andato a prendere negli uffici, avendo già percepito un forte ed anomalo odore durante un suo primo avvicinamento alla vasca D), quale, entrato nell'escavatore JCB presente sulla rampa della vasca, ne miscela contenuto (per soli 2 minuti e 12 secondi, circa dalle 9.41 alle 9.43 effettive) con una benna appositamente predisposta per tale scopo.
E' in tale frangente - come ricorda la sentenza impugnata - che la situazione precipita, in quanto l'energica miscelazione della vasca dopo breve tempo (poco più di un minuto) provoca una nube con una concentrazione di acido solfidrico tale da indurre l'autista I.I., rimasto vicino alla vasca per oltre un'ora, ad allontanarsi frettolosamente dal camion. Q.Q., allarmato, a quel punto raggiunge la vicina palazzina ospitante gli uffici amministrativi e avvisa i colleghi che, nei pressi della vasca D, l'aria si era fatta irrespirabile. Ed è in quel momento che i presenti, tra cui M.M. e L.L., vedono dai monitor posizionati negli uffici che I.I. giace a terra immobile.
Il primo lavoratore a manifestare segni di malore è, dunque, I.I. che, mossi pochi passi nel verosimile tentativo di allontanarsi dalla vasca D, cade al suolo (ripreso dalle telecamere di videosorveglianza) senza riuscire a rialzarsi. Sintomatologia ampiamente relazionabile ad un'esposizione ambientale di alcune centinaia di p.p.m. di acido solfidrico.
M.M. e L.L., visionati i monitor, immediatamente decidono di raggiungere I.I. per prestargli soccorso; i due non fanno però in tempo a scendere dal mezzo, con cui si erano recati nei pressi della vasca D, che anch'essi cadono al suolo per le esalazioni di acido solfidrico.
Sono stati, infatti, sufficienti poco più di 2 minuti di miscelazione per provocare una nube con una concentrazione di acido solfidrico tale da estendersi, in concentrazioni letali, ad una distanza di almeno 73 metri dalla vasca (distanza ave sarà poi rinvenuto N.N., cfr. infra) e per un lasso temporale di almeno 10 minuti, frangente in cui i lavoratori hanno tentato di prestare soccorso.
Pochissimi secondi dopo anche il lavoratore O.O., nel tentativo di prestare soccorso ai colleghi, sale su una spazzatrice, perdendone tuttavia il controllo dopo una decina di secondi trascorsi nei pressi della vasca D (si è stimato a circa 10-20 metri da essa, dunque più in prossimità di tutti gli altri, I.I. compreso), impattando contro un muro dell'impianto colto da un malore. Grazie alla prontezza e al sangue freddo dell'odierno imputato C.C., che si recava a soccorrere/prelevare il collega solo dopo aver indossato una maschera, O.O. è sopravvissuto.
Dopo alcune ore, viene trovato dai Carabinieri - sopraggiunti sul posto (unitamente ai mezzi di soccorso, ai Vigili del Fuoco, a personale ARPAV e SPISAL) - il cadavere di un quarto operaio, N.N., a diverse decine di metri dalla vasca D, nascosto alla vista dal mezzo scavatore JCB, dietro il quale stava lavorando quando era stato sorpreso dalla nube tossica. Egli, molto probabilmente, aveva perso i sensi dopo I.I., ma prima dell'arrivo dei soccorritori (9 minuti dopo); ciò lo si evince dal fatto che le immagini delle videoriprese, purtroppo non continuative, mostrano una differente posizione del mezzo sollevatore manovrato dal N.N. al momento della perdita di coscienza di I.I. rispetto al momento dell'arrivo dei primi soccorritori.
Risulta accertato che il decesso dei quattro lavoratori e le lesioni patite da quinto sono da attribuirsi all'esposizione dei lavoratori ad una nube di acido solfidrico, gas tossico contraddistinto dal caratteristico odore di uova marce prodotto dalla reazione chimica tra l'acido solforico versato nella vasca e i solfuri in essa presenti.
Quanto alla promiscuità nella gestione di (Omissis) Srl e AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl , sin dal primo grado, come ricorda la sentenza impugnata, il giudice rodigino precisa che "nell'unico impianto di via (Omissis) operavano due distinte società, (Omissis) Srl e AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl (le cui visure camerali sono in atti) cui formalmente facevano capo, come si anticipava, due diverse attività di gestione rifiuti:
a. la prima esercitata da (Omissis) Srl che era anche proprietaria dello stabilimento (e vi operava sin dagli anni ‘90)" e che effettuava attività di stoccaggio di rifiuti costituiti prevalentemente da fanghi allo stato palabile ed allo stato liquido, nonchè da altre tipologie di rifiuti; riguardo ai fanghi palabili e pompabili, (Omissis) effettuava anche attività di stabilizzazione, nel senso che i fanghi palabili dovevano essere tenuti in stoccaggio per 60 giorni in due vasche (vasca H e vasca C, i fanghi liquidi dovevano essere tenuti in stoccaggio/condizionamento per 30 giorni nella vasca denominata E tali fanghi palabili, successivamente al loro condizionamento, erano destinati in parte allo spargimento su suoli agricoli, in parte venivano ceduti ad AGRI.BIO.FERT.CORRETTIVI, che li utilizzava per la produzione di correttivo gesso di defecazione allo stato solido od allo stato pompabile;
b. la seconda denominata AGRI.BIO.FERT.CORRETTIVI Srl , che (sulla base del contratto di data 22.8.2013, registrato il 5.9.2013) gestiva alcune strutture della (Omissis) Srl ed effettuava attività di stoccaggio rifiuti, poi impiegati nel processo di produzione del correttivo denominato "gesso di defecazione" (per il cui processo essa era titolare delle autorizzazioni provinciali) che avveniva in due linee, dedicate rispettivamente ai fanghi palabili (allo stato solido o semisolido) lavorazione che avveniva nell'area 12 dove è istallata fa componente impiantistica del correttivo solido, e pompabili (allo stato liquido) che avveniva nella vasca "D"....omissis..." Il teste R.R ha riferito di avere accertato che il legale rappresentante di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl era C.C. e che detta società aveva solo tre dipendenti: F.F. (odierno imputato), S.S , T.T..
T.T. e S.S sono stati sentiti come testimoni (e del secondo è stato anche acquisito con il consenso delle parti il verbale di s.i.t.) e si è appurato che il primo era stato assunto come meccanico per provvedere alla manutenzione ad alle riparazioni prevalentemente dell'impianto per la produzione del correttivo palabile e che egli interveniva "a chiamata" quando si rendeva necessaria la sua opera; che il secondo in realtà non lavorava nell'impianto, essendosi egli prestato ad un'assunzione meramente fittizia.
Ne consegue che AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl non aveva alle proprie dipendenze maestranze in grado di effettuare materialmente le lavorazioni che costituivano oggetto dell'attività sociale; l'unico dipendente AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl che realmente lavorava a tempo pieno nel sito di via (Omissis) era l'Ing. F.F., cui era affidata la gestione dei due impianti di produzione del correttivo. rispettivamente palabile e pompabile, che certo non si occupava delle fasi esecutive della lavorazione (carico dei materiali negli impianti e in vasca, miscelazione, aggiunta dei diversi componenti per l'ottenimento del correttivo finale etc.).
Tale circostanza è peraltro stata confermata dai dipendenti di (Omissis) esaminati nel corso dell'istruttoria che hanno spiegato come tutti loro ricevessero disposizioni da F.F. e talvolta da C.C. di effettuare lavorazioni di competenza di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl e come tale prassi fosse avallata dalla proprietà.
4. Avverso tale condanna in appello hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1. - 4.1. A.A., C.C., D.D. E B.B. (Avv. Migliorini Luigi e Avv. Petternella Marco, con un unico atto).
4.1.1. Con un primo motivo, sotto il profilo dell'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità di inutilizzabilità, si lamentano violazione dell'art. 125 c.p.p. nonchè nullità ex art. 178 c.p.p. dei campionamenti eseguiti il 23/09/2014, e delle successive analisi.
I difensori ricorrenti evidenziano di avere posto il tema sin dall'udienza preliminare e di avere poi proposto uno specifico motivo di appello riguardante le ordinanze dibattimentali del 22/02/2017 e del 10/01/2018. Contestano la risposta in termini di irrilevanza che la Corte territoriale ha offerto alle pagine 36 e 37 della motivazione del provvedimento impugnato. Richiamano, quanto alla necessità dell'avviso in caso di analisi a campione le sentenze 30626/2019 - in realtà, si tratta della 36626/2019 - e 10211/2021 di questa Corte di legittimità.
4.1.2. Con un secondo motivo si lamenta inosservanza dell'art. 125 c.p.p., nonchè nullità e/o inutilizzabilità dei campionamenti dei giorni 31.10.2014, 6.11.2014 e 10.11.2014 e delle conseguenti analisi.
In ricorso si evidenzia che anche per tali campionamenti la questione della nullità e/o inutilizzabilità è stata posta sin dall'udienza preliminare ed è stato proposto uno specifico motivo di appello cui si sostiene che la Corte territoriale abbia risposto citando una serie di precedenti giurisprudenziali non pertinenti.
I difensori ricorrenti evidenziano come il consulente del PM U.U. aveva dato avviso alle parti che dal 3 novembre 2014 sì sarebbe effettuato il campionamento salvo poi comunicare alle stesse che, a seguito del dissequestro dell'area, i campionamenti programmati non sarebbero stati più possibili.
Si contesta, pertanto, che ci si trovi di fronte a un'ipotesi riconducibile all'art. 354 c.p.p..
Si censura la motivazione del provvedimento impugnato laddove si legge che prima dei campionamenti da parte dell'ARPAV, come scritto nei verbali, sarebbero stati dati informalmente degli avvisi alle parti, evidenziando come ciò sia smentito dallo stesso consulente U.U..
Si evidenzia, altresì, che come indicato nei motivi di appello, non è irrilevante che i testi sentiti non ricordino tali avvisi e che in ogni caso tali avvisi, ammesso che ci siano stati, avrebbero potuto al più riguardare i campionamenti ma non le analisi, delle quali i carabinieri non potevano certo conoscere la data di svolgimento. Nè risulta alcun avviso della data di analisi agli indagati, ai difensori ed ai consulenti tecnici di parte.
I difensori ricorrenti ricordano anche che la Corte d'appello, a pagina 38 della motivazione, cita anche l'offerta del ct del pm di eseguire le nuove analisi che sarebbe stata rifiutata dall'Ing. V.V. Consulente di parte.
Viene ricordato che, da quanto si desume dagli atti, il ct del pm ha rimesso al pubblico ministero la valutazione della necessità o meno di ripetizione delle analisi in contraddittorio. Possibilità che poi è venuta meno anche a seguito della distruzione delle aliquote, come documentato dall'autorizzazione alla distruzione acquisita dalla Corte d'appello all'udienza del 20/12/2021.
I ricorrenti censurano anche la motivazione Della Corte territoriale laddove ha ritenuto l'irrilevanza della questione, posto che gli unici campionamenti rilevanti ai fini della perizia sarebbero stati quelli dell'undici 11/11/2014 eseguiti dal CT del PM. Ciò non corrisponderebbe al vero perchè a pagina 177 della sua relazione il CT U.U. riporta e utilizza tutti i dati delle analisi eseguite da ARPAV. Lo stesso ha quindi utilizzato per la determinazione dei solfuri e delle proprie conclusioni i campionamenti e le analisi eseguite senza il rispetto delle procedure di cui all'art. 360 c.p.p..
4.1.3. Con un terzo motivo si lamentano inosservanza dell'art. 125 c.p.p., nonchè nullità ed inutilizzabilità della consulenza ex art. 360 c.p.p. nei confronti di D.D..
I difensori ricorrenti evidenziano che il 16/10/2014 il pubblico ministero ebbe ad emettere un avviso ex art. 360 c.p.p. nei confronti dell'Ing. F.F. e di D.D. invitandoli a partecipare alle operazioni peritali, di fatto non ancora iniziate, e nominando loro un difensore d'ufficio. Quello nominato a D.D. ebbe tuttavia ad eccepire tempestivamente l'omessa notifica alla data del 20/10/2014 all'indagato. Ciò nonostante, ci si duole che le operazioni peritali sono proseguite senza altro avviso a D.D. che, se è vero che non risultava indagato all'atto del conferimento dell'incarico, lo era all'inizio delle operazioni peritali tanto che il PM ha ritenuto di emettere l'avviso il 16/10/2014. Il che determina per il ricorrente la nullità delle compiute operazioni peritali e di tutti gli atti conseguenti, tra cui la perizia a firma dell'Ing. Z.Z. e dell'Ing. W.W..
4.1.4. Con il quarto motivo, sotto il profilo della mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell'istruzione dibattimentale, ci si duole del mancato esame del consulente Dott. Y.Y., la cui escussione era stata richiesta sin dalla lista testi tempestivamente depositata il 24/10/2016.
Ciò perchè nel corso delle indagini era stato acquisito svariato materiale l'informatico, tra cui anche i tabulati del traffico telefonico degli indagati. Si censura l'ordinanza del tribunale del 3/4/2019 che non aveva ammesso l'esame del Y.Y. in relazione ai tabulati telefonici ritenendo che l'indicazione delle circostanze non consentisse di ritenere il consulente indicato sui tabulati, e la motivazione con cui a pag. 43 del provvedimento impugnato la Corte territoriale ha rigettato il motivo con conseguente rigetto anche della richiesta di rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale.
Ciò ha fatto la Corte d'appello ritenendo da un lato che il dato tecnico espresso dai tabulati del traffico telefonico, rappresentativo della rilevazione del flusso di contatti telefonici tra gli imputati, costituisse un'evidenza probatoria oggettiva e documentale, cosicchè non sarebbe dato comprendere come un consulente tecnico possa essere assunto a prova contraria, e dall'altro condividendo il contenuto dell'ordinanza reiettiva del tribunale, considerato che la formulazione del capitolato di prova concernente l'esame di detto consulente menzionava, quale circostanza su cui deporre, il materiale informatico, locuzione da intendersi riferita ai contenuti di ppcc, cellulari e giammai ai dati del tracciamento della telefonia mobile acquisiti con decreto dell'autorità giudiziaria.
Si evidenzia in ricorso, dissentendo da tale impostazione, come i tabulati sono stati acquisiti nel corso delle indagini su supporto informatico. E in ogni caso si contesta la considerazione secondo cui i tabulati rappresenterebbero un dato oggettivo e documentale. Se così fosse - si obietta - sarebbe stata sufficiente la loro produzione in giudizio. Al contrario, il pubblico ministero ha indotto sul punto uno specifico teste che nel corso delle indagini aveva compiuto esclusivamente l'attività di elaborazione ed analisi dei tabulati telefonici, tanto da richiedere la predisposizione di un file excel da lui elaborato. E allora non si comprenderebbe il motivo per il quale, a fronte di una elaborazione del dato informatico compiuta da un teste dell'accusa, non debba essere consentito alla Difesa di introdurre un suo consulente per contestare la correttezza dell'elaborazione eseguita dal teste d'accusa.
Si sottolinea che il tema del numero dei contatti tra D.D. e gli altri soggetti facenti parte delle società di cui all'imputazione, peraltro, è stato l'argomento principale su cui si è fondata l'affermazione di responsabilità del primo. Da ciò deriverebbe l'illegittimità della sentenza sul punto.
4.1.5. Con il quinto motivo, sotto il duplice profilo della violazione di legge nonchè della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, e mancanza di motivazione su un punto decisivo, si censura la motivazione del provvedimento impugnato laddove, al punto 3 della motivazione, da pagina 45 in poi, la Corte territoriale affronta i motivi di appello relativi alle contravvenzioni ritenute integrare la colpa specifica del reato di cui all'art. 589 c.p., u.c..
Anche sotto questo profilo si ritiene errata la sentenza impugnata e si operano delle contestazioni in relazione alle singole contravvenzioni.
Più specificamente si deducono:
4.1.5.1. Inosservanza dell'art. 17, comma 1, in relazione, al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 223, addebitato a A.A., B.B. e C.C.. Omessa motivazione.
Viene ricordato che al punto 4.1.1. dei motivi di appello la Difesa aveva evidenziato come il tribunale avesse omesso di considerare importante e rilevante documentazione acquisita nel dibattimento.
In particolare, si era evidenziato come il DVR di Agri.bio.fert correttivi fosse contenuto nei computer aziendali e in ogni caso come il piano di monitoraggio e controllo (PMC) di entrambe le società indicasse le specifiche proprietà chimiche, nonchè la concentrazione, la durata dell'esposizione dei lavoratori e le modalità di introduzione in vasca e rimescolamento con escavatore.
La Corte territoriale avrebbe travisato il contenuto del motivo dedicando ad esso poche righe e richiamando semplicemente la motivazione della sentenza di primo grado.
Si sottolinea come il dottor Y.Y., sentito all'udienza del 3/4/2019, ha evidenziato come nei computer aziendali fosse stata rinvenuta una "Delta Consulting.zip" all'interno della quale si trovava il file "DUVRI AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI", che risulta creata nel 2012 da un computer con nome riferibile alla società Delta Consulting, a cui faceva capo l'ingegner J.J. e che non è stato oggetto di modifiche.
L'analisi forense - prosegue il ricorso - è stata eseguita su computer diversi da quelli analizzati dal perito K.K., e le risultanze della stessa, quindi, non contraddicono quanto rilevato dal dottor Y.Y..
L'Ingegner J.J. ha disconosciuto il documento, ma viene evidenziato come i documenti rinvenuti presentino i medesimi metadati dei documenti riconosciuti e non risultino modifiche successive al sequestro. Di talchè possono essere ritenuti del tutto attendibili. Si lamenta inoltre che la Corte territoriale avrebbe, da un lato, confuso il DVR con i PMC, che non risultano esaminati dai testi di PG ai fini delle loro valutazioni, e dall'altro, come già aveva fatto i giudice di primo grado, non ha preso in alcuna considerazione il contenuto dei PMC la cui esistenza al momento dell'evento è certa per essere stati rinvenuti sia dalla PG che dal perito K.K. che li ha estratti dai personal computer.
Il travisamento risulterebbe ancora più evidente laddove era Corte descrive il PMC composto da 12 fogli (pag. 46 della motivazione) laddove sarebbe facile verificare come si compone complessivamente di 74 pagine e contenga una chiara e precisa descrizione delle attività lavorative del sito.
Il documento in questione evidenzierebbe che è disciplinato tutto il processo di produzione, ivi compreso quello che prevede l'immissione dell'acido solforico. E sono elencati i rischi derivanti da difetti di natura organizzativa. La valutazione del rischio dunque era stata effettuata.
4.1.5.2. Inosservanza del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 36 e 37 (addebitato a A.A., B.B., D.D. e C.C.). Omessa motivazione.
Si evidenzia sul punto che l'argomento viene trattato a pag. 45 della sentenza impugnata come addebitato solo a A.A. e a C.C.. E poi a pagina 75 ad B.B. con richiamo integrale alle motivazioni delle pagine 46 e seguenti.
In realtà, si pone l'accento sul fatto che le contravvenzioni erano state contestate anche a D.D. (capo a) e per le stesse tale ricorrente era stato condannato in primo grado.
Trattandosi di contravvenzioni ritenute tra i profili di colpa specifica l'omissione sul punto per tale ultimo imputato si tradurrebbe allora in un'omessa motivazione.
In ogni caso l'affermazione di sussistenza di tali profili di colpa specifica viene contestata anche per gli altri ricorrenti, richiamando l'ampia documentazione che si assume essere stata prodotta, in particolare gli attestati di formazione nonchè le risultanze della consulenza tecnica di parte.
Anche sul punto la Corte territoriale sarebbe incorsa nel vizio di inosservanza della norma e di omessa motivazione. Ciò in quanto i molteplici corsi somministrati a tutti i lavoratori di (Omissis) e Agr.bio.fert si sostiene che abbiano riguardato, oltre che rischi specifici dell'attività lavorativa, anche la gestione delle emergenze il primo soccorso.
Si lamenta che la Corte veneziana non spieghi per quale ragione la formazione in tema di gestione delle emergenze ed emissioni di acido solfidrico avrebbe dovuto essere diversa da quella delle emergenze derivanti da altre emissioni pericolose.
La prova che formazione ci fosse stata verrebbe confermata proprio dalle riprese di Q.Q. che indossa la maschera e dal fatto che lo stesso Via-nello, come riferito insieme a X.X., cerco di fermare L.L. e M.M. che stavano accorrendo in soccorso dell'autista I.I. privi delle maschere di protezione che pure avevano.
Ci si duole del mancato rilievo che la Corte territoriale ha attribuito agli attestati di formazione che pure erano presenti in atti allegati alla consulenza di parte.
4.1.5.3 Inosservanza del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18 (addebitato a A.A., B.B., D.D. e C.C.). Omessa motivazione.
La Difesa fa presente che sul punto aveva formulato uno specifico motivo di appello evidenziando come tutti i lavoratori presenti il 22/09/2014 presso il sito produttivo fossero formati ed addestrati alla gestione delle emergenze sanitarie e antincendio. Vengono indicati i corsi seguiti da M.M., che peraltro era un volontario della Croce Rossa dal 2007, da X.X., da N.N., Q.Q., O.O. e L.L., tutti designati addetti al pronto soccorso nel 2011.
Anche in questo caso si lamenta che la Corte d'appello non motivi alcunchè sulla differenza che avrebbe comportato la gestione del rischio chimico da emissioni di acido solfidrico rispetto alle emergenze derivanti da altre emissioni pericolose.
4.1.5.4 Inosservanza del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 225 e 226 (addebitato a A.A., B.B., D.D. e C.C.). Omessa motivazione.
Si lamenta che il giudice del gravame e del merito, pur a fronte di uno specifico motivo di appello, si sia limitato a richiamare a pag. 48 della motivazione il principio di precauzione invocato dai periti, che hanno mosso critiche alla progettazione della vasca.
La Corte veneziana però non si confronterebbe con il motivo di appello con il quale si era evidenziato che, a seguito dei verbali di ispezione con prescrizioni redatti dal servizio SPISAL il 3/11/2014 e il 20/11/2014 (Omissis) aveva proceduto ad un'indagine ambientale per la valutazione dell'esposizione professionale dei lavoratori nell'ambiente di lavoro, con risultati che avevano evidenziato un'esposizione largamente inferiore a quanto ipotizzato dal semplice raffronto dei dati istantanei riportati nei rapporti di prova del Marzo 2014 relativi all'indagine sulle odorigene.
Era stato anche segnalato che l'impianto era stato oggetto di collaudo da parte di tecnici professionisti esperti ed autorizzato dagli enti preposti previo esame della Commissione Tecnica Provinciale Ambiente (CTPA).
Ci si duole che la Corte territoriale abbia recepito acriticamente la valutazione già operata dal tribunale che, con riferimento alla perizia, aveva censurato la scelta progettuale di realizzare un impianto a cielo aperto.
Si sottolinea che l'assenza di copertura della vasca era cosa nota e del tutto autorizzata, senza che nessuno degli enti preposti, prima dell'infortunio, avesse mai impartito la prescrizione di chiudere la vasca.
Così come risulta per tabulas la dotazione dei DPI per tutti i lavoratori.
4.1.5.5. Inosservanza del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26 (addebitato a A.A., B.B. e C.C.). Omessa motivazione. Contraddittorietà con altri punti della motivazione.
La Corte d'appello - secondo i difensori ricorrenti - di fatto non si confronta con lo specifico motivo dedotto dalla Difesa limitandosi a riferire che, trattandosi di una violazione che a detta dei consulenti e dei periti non ha avuto influenza se non marginale sulla causazione dell'evento, si può passare alla declaratoria di prescrizione senza esaminare il motivo.
Ebbene, si lamenta che la sentenza sul punto appaia in netta contraddizione con quanto affermato in sede di esame dell'appello della parte civile INAIL, laddove a pag. 34 della motivazione la Corte territoriale fa riferimento ad un'insussistenza radicale dell'ipotesi di rischio interferenziale e all'assenza dell'obbligo di redigere il DUVRI. Quindi si sostiene che rispetto a tale violazione, che andava valutata ci sarebbe dovuta essere assoluzione e non prescrizione 4.1.5.6. Inosservanza del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 23 (addebitato a A.A. e B.B.). Omessa motivazione.
Anche su questo punto i difensori ricorrenti lamentano che sullo specifico motivo dedotto nell'atto di appello la Corte territoriale si sarebbe limitata a richiamare quanto dedotto al punto precedente in tema di violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26.
Anche sul punto si sarebbe in presenza di una nullità per omessa motivazione non avendo la Corte territoriale fornito alcuna spiegazione del mancato accoglimento del motivo di gravame.
Nè si comprenderebbe se l'imputazione, che aveva ad oggetto la mancata installazione di sistemi di rilevazione, sia stata ritenuta in nesso di causa con l'infortunio e quindi possa configurare un profilo di colpa specifica. Si evidenzia che dal tenore della motivazione di pagina 50, che richiama le precedenti considerazioni sull'art. 26, sembra di no; mentre nel prosieguo della sentenza, a pagina 59, si desume che l'assenza di essi sia ritenuta rilevante.
4.1.6. Con un sesto motivo si lamentano inosservanza o erronea applicazione degli artt. 43, 589 e 590 c.p., del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 17, 18, 23, 26, 36, 37, 225 e 226 e dell'art. 125 c.p.p. nonchè mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e mancanza di motivazione su un punto decisivo.
4.1.6.1. Sui profili di colpa specifica.
- D.Lgs. n. 81 del 2018, art. 17.
I difensori ricorrenti evidenziano come a pagina 55 della motivazione la Corte territoriale ritorni sulla violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 17 ritenendo da un lato la prevedibilità dell'evento e dall'altro escludendo rilevanza alla nomina del RSPP, citando anche il fatto che l'ingegner J.J. avesse escluso di avere ricevuto formale nomina a tal fine per Agri.bio.fert..
In punto di prevedibilità la Corte cita l'affermazione del perito A.B. sulla conoscibilità della reazione acido solforico- solfuri.
Tuttavia, ancora una volta la Corte territoriale, secondo i difensori ricorrenti, ometterebbe di dare compiuto riscontro ai motivi di appello.
Si torna sul tema del travisamento in ordine ai piani di monitoraggio e alla loro omessa valutazione da parte degli inquirenti prima e dei giudici di merito poi. Si rimarca che il DVR di Agri.bio.fert. consegnato allo SPISAL proveniva di fatto dall'Ing. J.J.. Ci si sofferma, perciò, sulla posizione di quest'ultimo, sul suo ruolo e sul fatto che nessuna censura sia stata mossa dai giudici di merito al suo operato nonostante egli, quale RSPP di (Omissis), aveva redatto il DVR, la valutazione del rischio chimico, la relazione sull'utilizzo dell'ossido di calce con l'acido solforico per la produzione del correttivo e somministrato la formazione ai lavoratori.
Se così è si obietta che egli, professionista specializzato, doveva essere a conoscenza più degli imputati della pericolosità della miscela acido solforico-solfuri. Ma proprio l'assenza di censure all'operato del RSPP autore della valutazione del rischio chimico ritenuta errata dalla Corte d'appello sarebbe in contraddizione con le censure mosse agli imputati.
- D.Lgs. n. 81 del 2018, art. 18.
I difensori dei ricorrenti lamentano che la Corte territoriale dedichi pochissime righe alla violazione di tale norma ritenendo che l'appello non si confronti con le testimonianze, peraltro non indicate, che affermerebbero la mancanza di disponibilità di DPI e di formazione, giungendo persino a ritenere irrilevante la circostanza documentata dalle videoriprese secondo cui Q.Q. indossava la maschera.
Ci si duole che la Corte del merito ignori i numerosi attestati di formazione sull'utilizzo dei DPI. - D.Lgs. n. 81 del 2018, art. 225.
Sullo specifico punto i difensori ricorrenti evidenziano che la Corte d'appello, rigettando lo specifico motivo di gravame nel merito attraverso il richiamo agli esiti della perizia Z.Z.-W.W. circa l'opportunità della progettazione di un impianto chiuso, e ritenendo irrilevanti le autorizzazioni rilasciate dagli organi preposti, afferma, quindi, che "in tutta la documentazione prodotta per il rilascio delle autorizzazioni i vertici di (Omissis)-AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI continuavano a sostenere che dalla vasca d non si producesse alcuna emissione nè di acido solfidrico nè di ammoniaca".
Anche sul punto la Corte territoriale, secondo i ricorrenti, avrebbe errato, travisando le risultanze dibattimentali e omettendo di rilevare che l'idoneità della costruzione a cielo aperto e l'assenza di emissioni era stata certificata non dai vertici aziendali, come lascerebbe supporre lo schermo conciso della motivazione, ma attestata da professionisti esperti quali i collaudatori del 2001, 2008, 2011 e 2012 e i redattori della relazione Lab Control del 2012.
Ci si duole che su tali documenti la Corte d'appello non esprima alcuna valutazione richiamando, invece, la sola relazione di Chimicambiente del Marzo 2014.
Si sottolinea che, però, anche da quest'ultima, come evidenziato dal consulente tecnico di parte, erano emersi risultati per acido solfidrico e ammoniaca inferiori alla soglia di rilevabilità.
Contraddittorio sarebbe anche l'addebito ai ricorrenti della difformità della ricetta. Ciò laddove a pagina 101 della motivazione, trattando della posizione dell'Ing. F.F., la Corte territoriale indica in quest'ultimo il depositario della ricetta del correttivo calcico. E successivamente, a pag. 103, addebita sempre al F.F. la colpa di non aver vigilato sulla corretta esecuzione del processo produttivo.
La Corte veneziana, quindi, da un lato riconosce che i vertici aziendali avevano individuato un tecnico specializzato, appositamente formato, a cui avevano affidato il controllo della produzione del correttivo, ivi compreso della ricetta, dall'altro addebita ai medesimi vertici la colpa del mancato rispetto della ricetta che era compito del tecnico far rispettare, incorrendo in ciò nel vizio di contraddittorietà ed illogicità della motivazione - D.Lgs. n. 81 del 2018, art. 226.
Illogica e contraddittoria, per i difensori ricorrenti, appare anche la motivazione della Corte territoriale sul punto trattato alle pagine 57 e 58.
La Corte di merito si sofferma sulle considerazioni del Prof. A.C. definito dagli stessi giudici impreciso sul numero esatto di dispositivi presenti in azienda, ma ciò nonostante valorizza la sua conclusione di insufficiente dotazione di maschere.
Ancora una volta si torna sul tema, che il difensore ricorda di avere già evidenziato già nei motivi di appello, delle videoriprese che mostrano Q.Q. indossare la maschera e delle numerose prove dichiarative in cui i lavoratori che hanno riferito della presenza di maschere a carboni attivi.
Sulla indubbia efficacia dei DPI di cui erano stati dotati i lavoratori si richiama nuovamente la circostanza che la maschera utilizzata ha salvato la vita a Q.Q. e a C.C. e, di conseguenza, anche a O.O..
L'illogicità della motivazione si manifesterebbe anche in punto di ritenuta assenza di rilevatori, laddove la Corte d'appello cita le richieste della provincia di quel carteggio prodotto dalla teste A.D. all'udienza del 12/09/2018.
La Corte territoriale cita anche la richiesta di (Omissis) di installare i rilevatori, richiesta che viene definita in motivazione "giustamente non autorizzati perchè ritenuti meno efficaci" (pag. 58).
I difensori ricorrenti ricordano di aver evidenziato nei motivi d'appello che i rilevatori ritenuti non efficaci erano stati proprio prescritti dallo SPISAL. E che risulta dalla deposizione del dottor R.R che le prescrizioni erano state ottemperate.
- D.Lgs. n. 81 del 2018, art. 26.
Si evidenzia in proposito che la Corte d'appello non ritiene la violazione in nesso di causa con l'infortunio per cui nulla questio.
- D.Lgs. n. 81 del 2018, art. 23.
Si legge in ricorso che la Corte d'appello sostiene sul punto a pagina 59 che la norma vieta la locazione comprendendola nella dicitura "concessioni in uso" e in ogni caso l'obbligo di dotazione di sistemi di allarme e previsto dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 226 in capo al datore di lavoro e quindi a tutti i componenti del cda di (Omissis)-Agri.bio.fert..
Anche sul punto per i difensori ricorrenti si manifestano svariate criticità nel ragionamento dei giudici del gravame del merito.
Viene premesso che a C.C. e D.D. non sono chiamati a rispondere di tale violazione, che interessa invece A.A. e B.B. quali componenti del CDA di (Omissis)-Agri.bio.fert..
Si evidenzia che a pagina 76 della motivazione la Corte d'appello, trattando della posizione di B.B. scrive: "la gestione delle due società era un unicum inscindibile, una realtà gestionale unitaria che faceva capo alla linea gestionale e decisionale di (Omissis), con impiego diretto delle maestranze di (Omissis), essendo la Agri.bio.fert. priva di adeguata struttura aziendale e di risorse umane".
Secondo la corte d'appello quindi, ma ancor prima secondo il tribunale, vi era di fatto un unico soggetto aziendale. Ma allora - si sottolinea - se questo è il pensiero dei giudici del merito appare illogico e contraddittorie addebitare una responsabilità per una violazione che sarebbe consistita nel concedere in uso un qualcosa a terzi, laddove si sostiene che Agri.bio.fert. non sarebbe terza.
Ci troveremo, per i difensori ricorrenti, di fronte a una situazione assimilabile all'ipotesi di "confusione" disciplinata dall'art. 1253 c.c., che prevede che quando vengono meno le due parti del rapporto obbligatorio per effetto della riunione in un unico soggetto il rapporto si estingue.
4.1.7. Con il settimo motivo si lamentano inosservanza degli artt. 43, 589 e 590 c.p. e del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, nonchè inosservanza dell'art. 125 c.p.p. e mancanza di motivazione su un punto decisivo.
Ricordano i difensori ricorrenti che a pagina 59 e seguenti della motivazione la Corte territoriale affronta i motivi attinenti alle posizioni di garanzia, alla prevedibilità ed alla cooperazione colposa. La posizione di B.B. viene, invece, trattata a pagina 75 della motivazione.
4.13.1. Le posizioni di garanzia.
- B.B..
In relazione a tale ricorrente si lamentano innanzitutto mancanza di motivazione, manifesta illogicità e "contraddittorietà intrinseca con atto probatorio ignorato ed esistente" (così la sentenza di questa Corte n. 23287/2021).
Si richiama in ricorso quanto la Corte territoriale afferma a pagina 76, ove si legge che la ricorrente era presente con continuità negli uffici come impiegata amministrativa, e dunque non solo come membro del CDA, e dunque non solo rivestiva formalmente la qualifica di datore di lavoro, in quanto tale destinataria degli obblighi prevenzionali secondo il D.Lgs. n. 81 del 2008, ma era effettivamente partecipe dell'attività aziendale in quanto esercitava poteri decisionali e di spesa.
Si evidenzia, tuttavia, che nella precedente pagina 75 la Corte, contraddittoriamente, cita la testimonianza sul fatto che la presenza negli uffici della B.B. era "un evento a dir poco eccezionale".
Per i ricorrenti non è, perciò, chiaro se la Corte territoriale faccia propria questa conclusione o la consideri una mera tesi difensiva. Certo è che la decisione sarebbe contraria a tale atto istruttorio, come si era segnalato nell'atto di appello. In tale ottica si lamenta che sarebbe completamente priva di motivazione l'affermazione secondo cui la B.B. "esercitava poteri decisionali e di spesa", in quanto nessun atto del processo supporta tale affermazione.
Si ribadisce, come già segnalato nell'atto di appello, che la B.B. aveva una specifica delega in riferimento al D.Lgs. n. 196 del 2003 in materia di trattamento dei dati personali, per cui le era attribuito un compito del tutto diverso da quello in materia di prevenzione antinfortunistica.
Sempre in relazione alla ricorrente B.B. si lamenta inosservanza ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 2 e 299 e mancanza di motivazione.
Ricordano i difensori ricorrenti essere pacifico in atti che nel sito in questione operavano due società, la (Omissis) e la Agri.bio.fert. Correttivi e che quest'ultima aveva in affitto la parte di impianto comprendente, tra l'altro, la vasca denominata "D" teatro dell'infortunio, come da contratto d'affitto acquisito dallo SPISAL. Si torna, tuttavia, sul tema che sin dalla sentenza di primo grado si è affermato che, nonostante l'esistenza e le due distinte società le stesse sono state gestite in modo unitario ed entrambe, in definitiva, facevano capo ai due titolari, individuati in A.A. e D.D..
A tale affermazione, come già sostenuto in appello, ritengono i ricorrenti che dovesse allora conseguenzialmente seguire la conclusione che quanto ad B.B. non poteva sussistere responsabilità di sorta per l'infortunio mortale conseguente l'utilizzazione della vasca D di pertinenza di Agri.bio.fert..
Per poter eventualmente affermare una sua responsabilità si sarebbe dovuta contestare alla stessa, come ad altri, il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299 ovvero l'esercizio di fatto dei poteri direttivi.
Si contesta la motivazione di pagina 76 della sentenza impugnata dove la Corte territoriale dà conto che invocare l'esonero di responsabilità per la sola circostanza di non aver rivestito alcun ruolo in Agri.bio.fert. è argomento non condivisibile laddove la gestione delle due società era un unicum inscindibile.
Ci si duole, tuttavia, che nemmeno una parola spenda la Corte territoriale per dimostrare il punto decisivo ai fini dell'affermazione dell'eventuale responsabilità della B.B.. E cioè che la stessa abbia posto in essere una qualsiasi azione di interferenza o di partecipazione all'attività di Agri.bio.fert..
Peraltro, si sottolinea come la stessa Corte territoriale riconosca che la gestione della vasca e comunque dell'Agri.bio.fert. avessero come un unico punto di riferimento l'Ing. F.F..
Sotto un terzo ed ultimo aspetto, sempre per quanto riguarda la ricorrente B.B., si deducono inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 43 c.p. e violazione del principio di esigibilità della condotta.
Si ricordano i principi sanciti da questa Corte di legittimità con la sentenza Sez. Un. 38343/2014 e con la recente Sez. 4 n. 22628/2022 laddove si evidenzia che la colpa ha un versante oggettivo incentrato sulla condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare e un versante di natura più squisitamente soggettiva connesso alla possibilità dell'agente di osservare la regola cautelare.
Si sottolinea che B.B. è entrata nel CDA di una società, la (Omissis) che operava dal 1990 senza che si fossero verificati incidenti o infortuni di sorta, che era stata ispezionata da parte di soggetti qualificati, quali tecnici comunali provinciali e dell'ARPAV, dove c'era un dipendente quale l'Ing. F.F. che la stessa Corte d'appello indica come responsabile, coordinatore e punto di riferimento della produzione di entrambe le linee di fertilizzante Agri.bio.fert..
Tra l'altro si sottolinea come i periti nominati al dibattimento hanno affermato - come si ricorda alle pagine 76 e 77 della sentenza impugnata- che è mancata soprattutto l'adozione di complessi e costosi interventi che solo a prezzo dei radicali interventi sulla vasca avrebbero consentito di incidere in modo risolutivo sulle tecniche produttive utilizzate in loco. E si tratta tutti di interventi non rientranti nell'ordinaria amministrazione.
Si sottolinea, infine, che non era possibile esigere da parte della B.B. che si preoccupasse della formazione dei dipendenti che erano alle dipendenze della (Omissis) da molti anni prima dell'entrata della stessa e che i vari controlli delle autorità non le dessero una certa tranquillità sulla regolarità operativa. Nè che si sovrapponesse ai tecnici F.F. e J.J.. - C.C..
In relazione alla posizione di tale ricorrente si deducono, in primis, inosservanza degli artt. 43, 589 e 590 c.p. e del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 2 e 299 nonchè mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
I difensori ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata dedichi poche righe alla posizione di C.C., la cui responsabilità viene fatta discendere sostanzialmente dal fatto di ricoprire formalmente la carica di amministratore unico e quindi di legale rappresentante di Agri.bio.fert..
Si sottolinea in ricorso come la sentenza impugnata, come già quella del giudice di primo grado, abbia sottolineato che le due società costituivano un unicum, ossia un'unica organizzazione aziendale i cui vertici sono stati individuati in A.A. e D.D., individuati anche come destinatari degli obblighi di promozione del DUVRI, con ciò dimostrando di ritenere solo loro il vertice del potere decisionale di spesa. Analogamente, a pag 103, trattando la posizione dell'Ing. F.F., la Corte di merito ancora attribuisce il potere di spesa ai soli A.A. e D.D., mai a C.C..
La Corte territoriale sarebbe, quindi, incorsa in un'erronea applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, non potendolo C.C. essere individuato come datore di lavoro: e Ciò non solo perchè di fatto ritenuto un prestanome, ma perchè privo di poteri decisionali e di spesa al di fuori dei vertici aziendali.
- D.D..
In primis, in relazione a tale ricorrente, si denunciano inosservanza degli artt. 43, 589 e 590 c.p. e del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 2 e 299 e dell'art. 526 c.p.p., nonchè mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Evidenziano i ricorrenti come la Corte territoriale individui la fonte della posizione di garanzia di D.D. in pochi punti, venendo individuato lo stesso come uno dei vertici dell'organizzazione aziendale, oltre che come responsabile tecnico designato delle due società.
Viene anche sottolineato che l'imputazione non individua il D.D. come datore di lavoro, ma come direttore tecnico, e che i profili di colpa a lui addebitati sono quelli di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 36, 37, 18, 225 e 226.
La Corte territoriale poi valorizza una delega allo svolgimento delle pratiche tecniche rilasciata da C.C. a D.D..
Tale documento è stato acquisito nel corso dell'esame del R.R , ed è privo di data, ma vi sono molti elementi per i ricorrenti che consentono di ritenerlo irrilevante.
In primo luogo, perchè privo di accettazione, ciò contrastando con i requisiti della delega di funzioni di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 16 a pena di inefficacia.
Inoltre, esisterebbero elementi per riferire tale documento al periodo antecedente il trasferimento di D.D. in Romania. A cominciare dal fatto che vi è allegato il documento di identità di C.C. rilasciato nel 2003 e scaduto nel 2008. Sarebbe evidente, pertanto, come tale delega possa ritenersi al più risalente al 2008, mentre D.D. risulta trasferito in Romania almeno dal 2013. Nè risulterebbero occasioni di utilizzo da parte di D.D. di tale ritenuta delega.
La Corte territoriale - prosegue il ricorso - motiva la ritenuta posizione di vertice di D.D. sulla base delle dichiarazioni dell'Ing. F.F., di X.X. e di H.H., oltre che sugli esiti dei tabulati telefonici, ribadendo l'inutilità dell'esame del Dottor Y.Y..
Su questo punto viene richiamato quanto dai difensori già evidenziato in precedenza sul fatto che proprio in ragione del rilievo attribuito all'interpretazione de tabulati telefonici si palesava fondamentale escutere il Y.Y., che avrebbe potuto illustrare come le migliaia di telefonate calcolate dal teste A.I. - dato che già nei motivi di appello si era evidenziato essere inverosimile - in realtà si riducessero a 24 tra telefonate ed sms con H.H. e a 26 tra telefonate ed sms con la figlia E.E..
Ci sarebbe poi un ulteriore errore derivante dal fatto che la Corte d'appello ha utilizzato le dichiarazioni dell'Ing. F.F. sull'erroneo presupposto che lo stesso si fosse sottoposto all'esame, ma il coimputato F.F. non ha mai reso l'esame bensì unicamente dichiarazioni spontanee che non possono essere utilizzate per provare la colpevolezza dei coimputati essendosi l'Ing. F.F. sottratto per sua libera scelta al contraddittorio con i difensori degli altri imputati.
Quanto alle dichiarazioni di X.X., figlio di H.H., le stesse sarebbero per i ricorrenti del tutto generiche.
Quelle di H.H., invece, riferiscono di contatti che andrebbero coordinati con una corretta interpretazione dei tabulati, cosa che la corte d'appello - si lamenta - ha negato alla difesa.
Sempre in relazione alla posizione del ricorrente D.D. si lamenta inosservanza del D.L. n. 132 del 2021, art. 1, comma 1 bis.
Evidenziano i difensori ricorrenti che la motivazione della Corte d'appello sul punto della posizione di garanzia del D.D. appare viziata dalla violazione del D.L. n. 132 del 2021, art. 1, comma 1-bis introdotto dalla legge di conversione numero 178/2012.
I difensori fanno presente che la questione era stata sollevata nei motivi nuovi depositati il 5/11/2021 prima della conversione del decreto-legge.
La legge di conversione ha introdotto la disciplina transitoria, utilizzata dalla Corte d'appello a pagina 43 della motivazione per rigettare il motivo, disciplina che prevede la possibilità di utilizzare i tabulati acquisiti per reati puniti col la pena dell'ergastolo o non inferiore nel massimo a tre anni ed unitamente ad altri elementi di prova.
La Corte veneziana ritiene sussistenti entrambi i requisiti.
In realtà si sottolinea che il superamento del limite di pena dei tre anni è utilizzabile solo per il reato di cui al capo AA), rimanendo escluso per gli altri reati.
Il tribunale, nel calcolo della pena, aveva fatto riferimento alla particolarità dell'art. 589 c.p., u.c., che unifica solo quoad poenam plurime violazioni di legge, le quali rimangono, però, distinte ad ogni altro effetto. E la Corte d'appello non pare di diverso avviso sul punto.
A pagina 72 della motivazione impugnata, peraltro, le lesioni subite da O.O. vengono definite gravi, non gravissime come nel capo di imputazione come pareva avesse ritenuto il tribunale. Sicchè il massimo della pena per il reato di lesioni gravi commesse con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni ai sensi dell'art. 590 c.p., comma 3, è di un anno al di sotto del limite di cui alla norma citata.
Se ne deduce, per i difensori ricorrenti, che i tabulati per tale reato non erano utilizzabili.
Secondo i difensori, i tabulati, alla fine, sono stati l'unico elemento che residua rispetto alla dedotta inutilizzabilità delle spontanee dichiarazioni dell'Ing. F.F. e alla neutralità della testimonianza Di X.X..
- A.A..
Quanto a tale imputato i difensori evidenziano di non averne mai posto in discussione il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione.
Per quanto riguarda la sua posizione gli stessi quindi si riportano alle considerazioni generali precedenti ed a quelle che seguono in punto di prevedibilità dell'evento.
4.1.8. L'ottavo motivo è dedicato al tema della prevedibilità dell'evento in relazione al quale si lamentano:
4.1.8.1. Inosservanza degli artt. 43, 589 e 590 c.p. nonchè mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Secondo i ricorrenti la Corte territoriale ha respinto il motivo afferente alla prevedibilità dell'evento, a pagina 61 del provvedimento impugnato, con una motivazione contraddittoria e illogica e travisando le prove raccolte nel dibattimento.
I difensori ricorrenti richiamano quanto già detto in precedenza sulla presenza dei documenti di valutazione del rischio, ribadendo come, se come i giudici di merito hanno ritenuto l'organizzazione aziendale unica, appare illogico richiedere diversi documenti di valutazione dei rischi, che presuppongono diverse organizzazioni.
Si evidenzia che la Corte veneziana ritiene ancora, a pagina 61, che l'attività fosse volta alla sola massimizzazione del profitto, sacrificando la salute e la sicurezza sul lavoro.
I giudici del gravame del merito, così come già quello di primo grado, tuttavia, ometterebbero di considerare, la copiosa documentazione sui costi sostenuti in materia di sicurezza.
I difensori ricorrenti ricordano che, con i motivi di appello, avevano anche prodotto copia delle fatture relative ai costi sostenuti per la sicurezza.
Si contesta anche l'affermazione di pagina 61 della motivazione dove la Corte riferisce di ingenti quantità di rifiuti di composizione ignota, evidenziando come non risulti da quale elemento la Corte d'appello abbia tratto tale valutazione.
Al contrario, il teste A.E., dei Carabinieri Forestali, sentito all'udienza del 7/5/2018, aveva riferito lungamente sull'analisi della documentazione sequestrata tra cui formulari e certificati di analisi dei rifiuti.
La Corte territoriale, secondo i ricorrenti, avrebbe travisato quanto riferito dai consulenti di parte della difesa secondo i quali per i giudici di appello la presenza di solfuri era ampiamente prevedibile. Ciò in quanto la prevedibilità è stata riferita dal consulente di parte a una persona tecnicamente specializzata. Ma nessuno dei pur numerosi tecnici specializzati incaricati dalla proprietà aveva non sollevato il problema. Così come nessuna eccezione era stata mossa da alcuno degli organi di vigilanza così come dai collaudatori.
Nemmeno corrisponderebbe alle risultanze probatorie che, come si legge a pagina 63 della sentenza impugnata, gli imputati avessero la positiva conoscenza delle massicce emissioni che fuoriuscivano dalla vasca D. La Corte d'appello - ci si duole - non espone sul punto i dati da cui trae tale valutazione. Ovvero se la stessa vada riferita allo studio di Chimicambiente del luglio 2014 di cui difensori ricorrenti contestano articolatamente le metodiche di campionamento.
Si torna anche sul tema già illustrato in precedenza di come, a seguito dei verbali di ispezione con prescrizione redatti da servizio SPISAL il 3/11/2014 (Omissis) aveva commissionato un'indagine ambientale per la valutazione dell'esposizione professionale dei lavoratori nell'ambiente di lavoro i cui risultati sono riportati alle pagine 104 e seguenti della relazione dei consulenti di parte.
Su tali rilievi si lamenta che la Corte territoriale abbia omesso ogni valutazione.
Si richiama il dictum della sentenza 9745/2020 di questa Corte e il concetto di agente modello dalla stessa delineato, che non deve essere tale in astratto, ma soggetto capace di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento.
Conclusivamente quanto ai motivi in punto di responsabilità, per i difensori ricorrenti unica vera causa del sinistro è stata un'incompleta valutazione del rischio chimico su cui anche i consulenti della difesa hanno concordato. Tuttavia, non sarebbe possibile addebitare tale valutazione ai ricorrenti in quanto gli impianti erano stati autorizzati ed autorizzato era il processo di produzione del correttivo con gli integratori. E gli stessi periti non si sono espressi sulla legittimità dell'utilizzo dei fanghi e degli integratori autorizzato dalla provincia per la produzione del correttivo.
Resterebbe il fatto che la Provincia, organo competente, aveva autorizzato il processo ed aveva autorizzato gli impianti.
Inoltre, i vertici aziendali avevano affidato a professionisti esperti il collaudo, la valutazione dei rischi, l'individuazione delle misure di prevenzione, la formazione dei lavoratori e la formazione del correttivo. E nessuno aveva evidenziato la possibilità di un simile evento.
Significativo sarebbe inoltre quanto afferma la Corte territoriale a pag. 103 della motivazione: "se anzichè accettare passivamente una prassi produttiva radicalmente difforme da quanto autorizzato, il F.F., ingegnere cui era affidata la gestione degli impianti del correttivo palabile e pompa, avesse correttamente identificato l'entità del rischio chimico che si correva, i vertici aziendali quantomeno non avrebbero più potuto ignorare tale profilo".
Per i difensori ricorrenti tale affermazione si pone in contrasto con la ritenuta prevedibilità dell'evento in capo a tutti i ricorrenti.
4.1.9. Il nono motivo viene indicato come motivo subordinato e con lo stesso si lamentano violazione degli artt. 62 bis, 69 e 133 c.p. nonchè carenza di motivazione (già proposta con motivi d'appello) quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p. per A.A. e D.D. e al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza per B.B..
Quanto ad B.B. peri difensori ricorrenti, se le considerazioni svolte in relazione al suo ruolo nell'azienda non fossero sufficienti ad escluderne la penale responsabilità, le stesse avrebbero dovuto portare almeno a riconoscerle la prevalenza delle pur concesse attenuanti generiche. In particolare, si sottolinea che più volte i ricorrenti hanno sollecitato l'assicurazione a mettere a disposizione il massimale tanto che è stata proposta contro la stessa causa per mala gestio.
I ricorrenti chiedono che, se dovesse essere accolto il presente motivo, alla ricorrente sia concesso anche il beneficio della sospensione condizionale delle. pena.
Quanto a A.A. e a D.D. per i ricorrenti valgono le medesime considerazioni, tenuto conto del fatto che gli stessi si sono fidati del giudizio loro fornito dagli esperti.
4.1.10. Con il decimo motivo si lamenta inosservanza dell'art. 129 c.p. nonchè mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quanto all'omessa pronuncia di prescrizione delle contravvenzioni di cui ai capi F e G per C.C..
Richiamati tutti i motivi dedotti, i difensori, evidenziano come la Corte d'appello a pagina 45 riconosca che tutte le contravvenzioni di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008 sono prescritte, come risulta anche dalle concordi richieste delle parti.
Nel dispositivo, tuttavia, per C.C. manca la dichiarazione di estinzione per prescrizione delle contravvenzioni di cui ai capi F) e G) per le quali era stato condannato in primo grado; nè l'omissione è stata sanata con il decreto di correzione in calce al dispositivo di cui a pagina 111. Pacifico che alla data della sentenza (7/3/2022) anche tali capi fossero prescritti.
4.1.11 Con l'undicesimo motivo, in punto di statuizioni civili, si evidenzia che dalla richiesta di annullamento delle condanne discende anche la richiesta di annullamento delle statuizioni civili conseguenti.
4.1.12. In data 23/6/2023 sono state depositate due memorie contenenti motivi nuovi a firma dell'Avv. Petternella Marco.
Con la prima, nell'interesse dei ricorrenti C.C., D.D. e A.A. ed B.B. si chiede dichiararsi l'intervenuta prescrizione del reato di lesioni colpose subite da O.O., per cui vi è stato aumento per la continuazione di mesi uno per A.A. e D.D. (pagg. 70-71 della sentenza impugnata) e di quindici giorni per C.C. ed B.B. (pagg. 71 e 79), in quanto il reato è stato commesso il (Omissis) e, pur considerando 155 giorni di sospensione della prescrizione (come risulta a pag. 3 della sentenza di primo grado) ad oggi è prescritto.
Con la seconda, nell'interesse della sola B.B., si insiste in particolare su quanto indicato da pag. 77 a pag. 85 del ricorso relativamente alla sua posizione nel Cda di (Omissis) e alla sola delega, priva di poteri di spesa, che le era stata attribuita in relazione alle competenze di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003 in materia di dati personali e di documentazione della privacy.
Si insiste nel ritenere che la sentenza impugnata cada in errore laddove, senza che le sia mai stata contestato come ad altri imputati il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299 si considera che la stessa desse un contributo nella gestione congiunta di (Omissis) e Agr.bio.fert. Si richiama la pronuncia di questa Sez. 4 n. 1096/2020 circa la necessità di un rimprovero personale che deve essere rivolto all'agente in materia di violazione delle norme prevenzionistiche e si ribadisce che nella situazione esame non si vede quale condotta possa essere oggetto di rimprovero personale a B.B..
4.1.13. In data 29/5/2023 sono state depositate note difensive nell'interesse di D.D., a firma dell'Avv. Giraldi Mario Francesco, nel frattempo subentrato al revocato Avv. Migliorini Luigi, quale codifensore di fiducia di tale imputato unitamente all'Avv. Petternella Marco.
Il nuovo difensore insiste, in primis, sulle questioni di natura processuale sollevate con il primo motivo di ricorso evidenziando in particolare che i rilievi tecnici di campionamento non sono stati eseguiti in data 25/9/2014, come erroneamente comunicato per mezzo di rituale notifica agli gli indagati, ma in data diversa e antecedente, ovvero il 23/9/2014. Da qui l'evidente violazione delle norme processuali di cui agli artt. 125 e 178 c.p.p..
Si sottolinea che proprio il rilievo tecnico compiuto i 23/9/2014 ha consentito di affermare, nel successivo accertamento tecnico disposto a ex art. 360 c.p.p., la percentuale di presenza di acido solforico versato nella vasca d considerato fattore scatenante della vicenda in esame, nonchè presupposto delle norme contravvenzionali in materia di sicurezza del lavoro contestate.
In buona sostanza si sostiene che i risultati di tale attività tecnica si pongono alla base dell'intera sentenza di condanna del giudizio di merito. E che rispetto a tale doglianza i giudici di merito, tanto nel primo grado di giudizio quanto nella sentenza di appello, avrebbero adottato una motivazione apparente che si pone in violazione delle norme processuali richiamate.
Sarebbe irrazionale in particolare l'equiparazione tra il dato tecnico e le prove testimoniali e orali relative alle sostanze presenti nella vasca d.
Ancora, si torna sulla nullità e/o inutilizzabilità dei campionamenti eseguiti nei giorni 31.10.2014, 6.11.2014 e 10.11.2014, di cui al secondo motivo di ricorso, eccezione che si ricorda essere stata tempestivamente sollevata dalla difesa sin dall'udienza preliminare.
Si contesta la risposta che ha fornito allo specifico motivo di doglianza la Corte territoriale laddove ha ritenuto che i campionamenti in questione non possano essere definiti accertamenti tecnici a norma dell'art. 360 c.p.p..
Si ricorda che tali campionamenti furono eseguiti successivamente alla delega disposta nell'alveo dell'art. 360 c.p.p. dal PM procedente il che non consente di ricondurli ex art. 354 c.p.p. a rilievi tecnici eseguiti dalla P.G..
E lo confermerebbe la stessa circostanza ricordata dai giudici del gravame del merito laddove afferma che il Dott. U.U. avrebbe comunque avvisato i consulenti delle parti (anche se ciò sarebbe avvenuto solo a posteriori).
Infine, si ribadiscono le doglianze di cui al terzo motivo di ricorso quanto all'inutilizzabilità per omesso avviso nei confronti di D.D. della consulenza ex art. 360 c.p.p..
Si sottolinea che i profili di erronea applicazione di norme processuali evocati in ricorso sono di fondamentale importanza in un processo come quello che ci occupa fondamentalmente nato e costruito intorno a dei dati tecnici.
- 4.2. F.F. (Avv. Pelà Claudia).
Con un primo motivo, relativo ai capi AA (e C in quanto collegato al capo AA, sebbene prescritto), DD (per le statuizioni civili, sebbene prescritto) il ricorrente lamenta violazione dell'art. 589 c.p., degli artt. 40 e 41 c.p. in punto di causalità, degli artt. 42 e 43 c.p. in punto di colpa, dell'art. 27 Cost. in tema di responsabilità personale, dell'art. 113 c.p. in punto di cooperazione colposa, dell'art. 192 c.p.p. in tema di valutazione della prova nonchè delle norme di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008 di seguito indicate.
Il difensore ricorrente indica gli specifici capi, punti e contenuti della sentenza che ritiene decisivi per la posizione del proprio assistito, ovvero:
1. pag. 98, dove la sentenza impugnata, nel trattare la posizione del F.F., lo qualifica, con riferimento al contratto di assunzione del 1.9.2011, come "ingegnere ambientale, assunto quale impiegato da AGRIBIO.FERT, CORRETTIVI Srl con mansioni relative al controllo ed alla conduzione di impianti per la produzione di fertilizzanti, rapporto lavorativo cessato con i fatti di cui processo, occorsi in data 22.9.1204: la sentenza da atto che il contratto di assunzione non individua un ruolo dirigenziale e prosegue ripercorrendo in maniera sintetica le doglianze difensive (senza ripercorrere i contenuti effettivi delle fonti di prova citate nell'atto di appello proposto) in tema di qualifica soggettiva dell'imputato;
2. pag. 100 dove nel rigettare le doglianze sollevate paragona a posizione di F.F. a quella di E.E. sebbene quest'ultima abbia (come emerge già dall'imputazione) ben altro ruolo ovvero quello di socia e di componente dei cda (oltre che figlia di uno dei principali imputati);
3. pag. 101, dove la Corte attribuisce a F.F. non meglio specificati poteri di gestione non indicando le fonti dell'assunto ovvero indicandoli in maniera generica (nominativi dei testi e non narrativa del loro esame dibattimentale) e, vieppiù, in alcun modo analizzando le fonti di prova evidenziate nell'impugnazione attraverso stralcio autentico delle deposizioni;
4. pag. 101 ove la Corte, nell'assumere che l'imputato avesse non meglio precisati "poteri decisionali, di ordine e di organizzazione", ammette, tuttavia, che F.F. ricevesse precise indicazioni da D.D. (altro imputato, proprietario dell'azienda e amministratore di fatto della stessa) e dal laboratorio A.F. per gli aspetti tecnici (che materialmente fornisce un programma per le elaborazione tecniche);
5. pag. 102, dove la Corte territoriale sostiene il ruolo dirigenziale in capo all'imputato assumendo (per il ricorrente in maniera illogica) che lo stesso "non (avesse) alcun superiore gerarchico e che rispondeva direttamente all'amministratore, proprio come è tipico dei dirigenti": da un lato, l'assunto non risulta dirimente per la qualifica di dirigente e, dall'altro, senza, tuttavia, specificare che la società AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI aveva un unico dipendente ovvero F.F. (concetto chiarito a pag. 10), che ci fosse una gestione comune di (Omissis) e AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI (pagg.10 e 76) e che nella parte motiva precedente (pag. 13) avesse individuato altro amministratore di fatto di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI, peraltro anche proprietario dell'azienda, D.D.;
6. In particolare, pag. 13 dove la Corte territoriale, nel ripercorrere le posizioni di garanzia individua in D.D. "il direttore tecnico di entrambe le società, in stretta collaborazione con F.F., con cui si consultava pressochè quotidianamente pur risiedendo in Romania (circostanza rilevatasi irrilevante, avendo l'istruttoria testimonianze e captazione telefoniche - chiarito che in nessun momento della vita aziendale il ruolo preminente di D.D. venne meno nè le funzioni di responsabile degli aspetti tecnici e produttivi dei processi e delle lavorazioni aziendali venne rilevato da alcun altro soggetto apicale. Anche durante il periodo "rumeno" l'ingerenza di D.D. nelle decisioni e finanche nei dettagli relativi alla produzione era pervasiva, si occupava del processo produttivo del correttivo anche pompabile, dettando istruzioni stringenti per i dipendenti; D.D. e A.A. erano stati i terminali finali delle lamentele e criticità evidenziate tanto dagli abitanti di (Omissis) quanto degli stessi dipendenti rispetto ai fastidi cagionati dagli odori e dalle emissioni prodotte dalle lavorazioni dello stabilimento, sicchè dovrebbe concludersi che entrambi erano i referenti dello stabilimento agli occhi della comunità locale".
Dunque si sostiene che la sentenza ben definisca chi dirigeva l'azienda;
7. inoltre, a pag. 60 della sentenza si scrive: "quanto a D.D., che formalmente risultava direttore tecnico di (Omissis) ma anche di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI e viene indicato come dirigente di fatto di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI, egli era pacificamente, con A.A., uno dei due vertici aziendali. in tal senso depongono le testimonianze di dipendenti, fornitori e abitanti di (Omissis), zona circostante l'impianto di via (Omissis), che si rapportavano a D.D. come uno dei due titolari dell'azienda. D.D. era anche titolare di deleghe in bianco, rilasciategli da C.C., che gli conferivano estesi poteri gestori e lo accreditavano quale rappresentante della società presso terzi. Venne rinvenuto negli uffici, invero, un facsimile di delega, già corredata di firma e timbro dell'Amministratore Unico di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI, C.C., in favore di D.D. affinchè costui lo rappresentasse in tutte le pratiche tecniche, logistiche ed amministrative necessarie per il sostegno dell'azienda. Le decisioni gestionali relative alla produzione di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI vengono assunte proprio da D.D. che, anche dopo il suo trasferimento in Romania mantiene fitti contati con l'Ing. F.F.. (...) Innegabile, dunque, che D.D., oltre a rivestire formalmente la qualifica di direttore tecnico sia in (Omissis) sia in AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI, avesse di fatto poteri gerarchici, decisionali e funzionali quantomeno corrispondenti a quelli di un dirigente di fatto, ma addirittura equiparabili a quelli dell'effettivo datore di lavoro".
Il passaggio motivazionale individua per il ricorrente un chiaro ruolo direttivo di D.D. cui F.F. risulterebbe sottoposto e mero esecutore, inoltre si ribadisce che AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI non aveva altri dipendenti operativi oltre F.F..
8. Ritornando alla parte motiva specificamente inerente la posizione di F.F., a pag. 102 la Corte prosegue richiamando e condividendo uno stralcio della parte motiva di primo grado (pag. 121) ove si assume, in contrasto con la normativa e la più autorevole giurisprudenza sul punto) che non sia necessario che "il titolare della posizione di garanzia sia direttamente dotato di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito (non rientrava infatti nelle competenze che F.F. poteva gestire in autonomia operare gli adeguamenti costruttivi dell'impianto o dotarlo dei presidi in materia di sicurezza ambientale e del lavoro che si sono più volte indicati, trattandosi di interventi che dovevano essere adottati dai vertici aziendali) essendo tuttavia sufficiente che egli disponga di mezzi idonei a sollecitare il datore di lavoro gli interventi necessari a impedire l'evento".
Ciò - si rileva in ricorso - sebbene in altra parte motiva della sentenza individui una piena consapevolezza in capo ai vertici aziendali della situazione problematica in cui versava l'azienda;
9. In particolare, a pag. 24 si assume che:
- "già dalla primavera del 2014 i vertici aziendali avevano a disposizione i risultati dell'indagine "studio della diffusione atmosferica delle emissioni odorigene svolta dalla OSMOTECH, che davano contezza della presenza di emissioni di acido solfidricò con valori elevatissimi: il provvedimento decisorio, in sostanza, afferma che i vertici aziendali erano pacificamente al corrente delle problematiche emissive";
- "dalle dichiarazioni degli operai esaminati come testimoni (e per vero dalle conversazioni intercettate) è emerso che molti di essi avevano lamentato importanti fastidi fisici (bruciore agli occhi, alla gola, alla pelle del viso, ecc,) quando esposti alle emissioni rilasciate dai fanghi contenuti nelle vasche dello stabilimento e trasportati nei campi per lo spandimento sui suoli agricoli, rappresentando tale problematica ai vertici aziendali";
- "l'intera costruzione dell'impianto e gestione dello stabilimento è risultata caratterizzata da sistematica inosservanza di ogni più elementare regola cautelare e norma di prevenzione degli infortuni e da obiettivi di massimizzazione del profitto;" - "ritiene il giudicante che non solo l'eventualità della reazione tra le sostanze era prevedibile, ma era anche positivamente nota ai vertici aziendali l'esistenza di una problematica emissiva espressamente riferita al rilascio dell'acido solfidrico;" In definitiva, per il ricorrente la sentenza ben specifica quale consapevolezza del rischio vi fosse in capo ai vertici aziendali, che evidentemente proseguivano l'attività nonostante le segnalazioni dei dipendenti (anche di F.F.).
10. Nella stessa direzione anche a pag. 62 la Corte chiarisce che "non solo era prevedibile, ma anche positivamente nota ai vertici aziendali l'esistenza di una problematica emissiva espressamente riferita al rilascio di acido solforico E...) ebbene i tre imputati (D.D., A.A. e C.C.) avevano la positiva conoscenza delle massicce emissioni di acido solfidrico, che fuoriuscivano dalla vasca D e avrebbero non solo potuto ma anche dovuto prevedere il rischio chimico della nube tossica sprigionatasi, anzichè preoccuparsi solo del problema odorigeno, cercando di minimizzare le emissioni con gli abitanti di (Omissis) che da tempo segnalavano esalazioni maleodoranti alle autorità amministrative".
11. Tornando alla parte motiva relativa alla specifica posizione di F.F., a pag. 102 la Corte territoriale conferma la ravvisabilità del reato di cui al capo C, oggi prescritto, per avere omesso di individuare i soggetti addetti alla gestione del primo soccorso, delle misure antincendio e delle emergenze e di vigilanza dei lavoratori in ordine all'utilizzo dei DPI sebbene Agri.bio.fert fosse una società senza altri dipendenti (pag. 11) cui in sentenza si riconosce una gestione unitaria con la società (Omissis) (pagg. 10 e 76 di 111 della sentenza); ove il rischio non era stato valutato dal datore di lavoro nel DVR (pagg. 21 e 45); ove non era stata fatta adeguata formazione da parte del datore di lavoro (pagg. 22 e 46 della sentenza); ove non erano stati messi a disposizione DPI adeguati dal datore di lavoro (pagg. 22 e 48); ove vi fossero inadeguatezze impiantistiche imputabili al datore di lavoro (pagg. 22 e 48).
In definitiva, per il ricorrente la sentenza offre un assunto illogico e violativo di tutte le normative vigenti in materia di sicurezza sul lavoro poichè assume che il dipendente F.F. - senza alcuna valutazione del rischio da parte del datore di lavoro, adeguata formazione, DPI adeguati, impianto produttivo con adeguate cautele e nonostante il datore di lavoro avesse piena consapevolezza di tutto ciò - avrebbe potuto e dovuto porre in essere condotte cautelative di dettaglio di questi principali obblighi e che avrebbe materialmente potuto evitare l'evento in assenza di adempimento del datore di lavoro dei più basilari obblighi;
12. a pag. 102 la sentenza prosegue giustificando detta incongruenza assumendo che "se, invero, non spettava a F.F. prevedere l'uso dei DPI e disporne l'acquisto, egli avrebbe dovuto vigilare su detto utilizzo", "ancorchè non gli spettasse provvedere affinchè i rischi specifici fossero eliminati o ridotti mediante l'adozione di altri processi di lavoro, su di lui tuttavia incombeva un generale obbligo di vigilanza e controllo sul fatto che gli addetti alla vasca D fossero nelle condizioni di lavorare in sicurezza, prevedendo il rischio di esalazioni tossiche;" 13. Con l'assunto sopra riportato, secondo il ricorrente, non si chiarisce in che modo la condotta dell'agente modello concretamente potesse essere attuata laddove manca ogni più basilare presupposto della sua condotta (vigilare su utilizzo di DPI ove DPI non vi erano, vigilanza sull'applicazione di misure di sicurezza che non erano state disposte dal datore di lavoro, segnalare criticità circa il rischio chimico quando non era stato valutato dal datore di lavoro sebbene conosciuto, etc..
Si tratterebbe di una motivazione ictu oculi illogica e contraddittoria e priva di qualsivoglia concretezza: la condotta alternativa dovuta e omessa deve essere possibile), peraltro la sentenza - in linea con la sentenza di primo grado - ammette gravi inadempienze da parte degli enti pubblici di controllo (pag. 51 e 52): in sostanza sul lavoratore F.F. graverebbe l'obbligo di sanare le inadempienze di datore di lavoro e di Enti deputati al controllo attraverso non meglio specificate condotte la cui concreta fattibilità non viene nemmeno menzionata e valutata in sentenza;
14. a pag. 103 della sentenza di appello si ammette che F.F. non fosse titolare del potere decisionale e di spesa tuttavia si afferma: "ma era comunque dotato di poteri idonei a sollecitare gli interventi necessari, considerato che era proprio lui a "dirigere" gli operai nella vasca D, con potere autonomo di gestione".
Ci si duole, insomma, che, pur ammettendo una completa assenza di potere decisionale e di spesa si riconosce in capo al F.F. un potere direttivo che, al contrario, di per sè presuppone un potere decisionale. Peraltro, non si provvede a riportare le fonti di prova che attesterebbero che lui "dirigeva gli operai nella vasca D;" 15. A pag. 103 il giudice veneziano assume che "sarebbe spettato a F.F. mettere in guardia i vertici aziendali della portata del pericolo incombente per la salute dei lavoratori e dell'ambiente circostante e non già avvallare detta prassi" dimenticando per il ricorrente quanto precedentemente dichiarato a pag. 24 circa la specifica posizione dei vertici aziendali cui si riconosce piena consapevolezza delle criticità di produzione.
La sentenza, in tal senso, svilirebbe il dato certo relativo alla opposizione di F.F. a A.A. circa l'ordinativo dell'acido che ha determinato l'infortunio (il furente litigio -si domanda il difensore ricorrente - non fu chiara indicazione di mancato avvallo dell'operato aziendale?);
16. tra pag. 103 e 104 la sentenza ribadisce, in contrasto con quanto precedentemente assunto (pag. 24), che vi sarebbe stata una mancata conoscenza del rischio chimico in capo ai vertici aziendali e che spettava al dipendente evidenziarlo anzichè al datore di lavoro nel Documento di valutazione del rischio, obbligatorio per legge. E perciò le due parti motive della sentenza, per il ricorrente, risultano palesemente in contrasto.
17. a pag. 104 la Corte territoriale cita la sentenza sul caso di Viareggio in maniera non conforme alla doglianze difensive ove la stessa era stata citata in sede di discussione di appello in tema di colpa generica (e non certo specifica) per confutare le argomentazioni del Procuratore Generale che comunque aveva esso stesso ammesso che non era possibile ravvisare in capo a F.F. la posizione di garanzia dirigenziale ma semmai quella di preposto, che tuttavia non risulta oggetto di contestazione nel presente processo (inoltre, il preposto H.H. risulta assolto in primo grado ove sono state riscontrate violazioni di obblighi a lui sovraordinati e non pertinenti con il suo ruolo);
18. a pag. 109 la Corte territoriale ritiene irrilevante nei confronti della valutazione della posizione di F.F. che esista parallelo procedimento penale - inerente le morti di cui al presente processo e di cui è stata acquisita richiesta di rinvio a giudizio in sede di appello - per omicidio colposo e corruzione a carico di funzionario della Provincia di Rovigo in concorso con i due principali imputati della presente vicenda, proprietari e referenti delle aziende che gestivano il sito produttivo di (Omissis) ove è occorso l'infortunio: in definitiva, secondo l'organo giudicante su F.F. graverebbe una posizione di garanzia aziendale tale da riconoscergli non solo un obbligo di supplire alle carenze del datore di lavoro e degli enti pubblici di controllo ma, altresì, di ovviare a carenze impiantistiche, organizzative e autorizzative frutto di presunti rapporti illeciti tra i due soggetti sovraordinati alla sua posizione lavorativa.
La sentenza, conseguentemente, sarebbe caratterizzata dalla completa inosservanza della più consolidata e autorevole giurisprudenza di questa Corte, in quanto non specifica quale sarebbe la condotta omessa che l'imputato avrebbe dovuto e potuto materialmente tenere per evitare l'evento.
Il ricorso nell'interesse di F.F. propone, a seguire, in specifici paragrafi, l'analisi delle singole violazioni di legge lamentate.
Si comincia a pag. 9 con quella di cui all'art. 113 c.p. in materia di cooperazione colposa anche in relazione all'art. 27 Cost. e alla tematica del cosiddetto principio di affidamento.
Il ricorrente richiama i dicta delle pronunce delle Sezioni unite n. 32899/2021 sul disastro ferroviario di Viareggio e n. 38343/2014 sul caso ThyssenKrupp in ordine alla necessità che venga individuato un soggetto competente e una sfera di competenza quale premessa logica o giuridica della verifica della colposità della condotta.
Si deduce l'assenza di motivazione o comunque la contraddittorietà di una pronuncia che sembra affermare che la diligenza che andava imputata a F.F. andasse oltre quella che può essere attribuita al dipendente, cui compete di seguire le istruzioni date dal datore di lavoro attraverso il sistema della sicurezza aziendale che quest'ultimo è tenuto a realizzare.
Si evidenzia che al F.F. si contesta di avere omesso di segnalare criticità che fossero insorte nel sistema produttivo ma come ciò sia non esigibile in un sito produttivo manchevole di ogni minima cautela in materia di sicurezza del lavoro, dove mancava addirittura il DVR. Si sottolinea che anche laddove si ipotizzasse a suo carico il dovere di supplire alle carenze del datore di lavoro ciò non era possibile in quanto egli non era dotato di potere decisorio, di spesa e di determinazione dell'attività aziendale.
Si deduce poi la violazione degli artt. 42 e 43 c.p. in punto di colpa e delle norme del testo unico della sicurezza del lavoro del 2008 richiamate in imputazione.
In premessa si evidenzia che la Corte veneziana si riferisce più volte al contenuto della sentenza delle Sezioni Unite 38343/2014 nel noto caso Thyssenkrupp, ma che tale sentenza riguardava una realtà aziendale molto diversa da quella che ci occupa, perchè si trattava di una realtà aziendale ben grande e più complessa.
Si sottolinea che (Omissis) ed anche Agri.bio.fert. sono aziende familiari, e che nel caso che ci occupa la Corte territoriale ha riconosciuto in sentenze il ruolo centrale dei due effettivi titolari dell'azienda, ovvero A.A. e D.D. e delle loro figlie, collocate nei cda aziendali, ed ha dato atto di una loro continuativa e costante presenza della direzione aziendale.
Per contro, F.F. era un mero dipendente, cui - si sostiene in ricorso - non può essere attribuita una posizione di garanzia non presente in diritto, per cui egli avrebbe dovuto superare le omissioni gravissime riscontrate dai periti in capo agli enti competenti al rilascio delle autorizzazioni e al datore di lavoro.
Si tratterebbe, infatti, di omissioni talmente macroscopiche e sovraordinate alla posizione di F.F. che, anche laddove gli si ritenesse ascrivibile il ruolo di dirigente di fatto, non erano colmabili in quanto lo stesso F.F. non ha ricevuto dal datore di lavoro una formazione adeguata ad effettuare le più opportune valutazioni del rischio.
Si richiama sul punto copiosa giurisprudenza di questa Corte in materia di responsabilità del datore di lavoro.
Prima ancora di valutare in che modo F.F. doveva curare la sicurezza degli altri lavoratori presenti sul sito - prosegue il ricorso - il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se anch'egli, congiuntamente agli altri dipendenti, fosse stato destinatario da parte dell'imprenditore di cautele idonee a garantire la sua salute e sicurezza nel luogo in cui stava svolgendo l'attività lavorativa proprio al momento del grave infortunio che non lo ha coinvolto per una mera casualità.
Rimarrebbe inspiegabile, poi, per il difensore ricorrente, come il suo assistito avrebbe potuto concretamente organizzare una squadra di soccorso in assenza non solo di personale formato ma anche di dipendenti.
Agri.bio.fert - viene ricordato - aveva un unico dipendente operativo in azienda proprio nella persona di F.F..
Si richiama la sentenza 22606/2017 di questa Corte in tema di infortunio che si sia verificato per una scelta gestionale di fondo dell'impianto.
Si ricordano i ruoli e le responsabilità del datore di lavoro nel sistema prima delineato dall'art. 2087 c.c. e successivamente dal testo unico sulla sicurezza del 2008. E si ribadisce che non è possibile addebitare al dipendente ciò che risulta completamente manchevole in capo al datore di lavoro o addirittura agli enti pubblici di controllo.
Si evidenzia che l'art. 15 il testo unico sulla sicurezza opera un elenco preciso e completo delle misure generali di tutela che devono essere apprestate dal datore di lavoro anche nei confronti di dirigenti e preposti. E si evidenzia che tali misure non sono state indagate in sentenza in maniera preliminare alla valutazione della posizione di F.F..
Si pone l'accento sul fatto che il medesimo testo unico sulla sicurezza preveda la figura del RSPP come consulente fondamentale in azienda, chiamato a valutare e segnalare al datore di lavoro le situazioni di pericolo e a suggerirne l'eliminazione con adeguati strumenti suggere la doverosa misura prevenzionale, tanto da rispondere nè, congiuntamente al datore di lavoro, in caso di indicazione sbagliata per negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza di leggi (in tal senso, viene richiamata, ex multis Sez. 4 n. 32185/2010). E la sentenza da atto che anche tale figura mancava in Agri.bio.fert..
Più volte viene ribadito in ricorso che la normativa prevede compiti inderogabili, in quanto ontologicamente collegati alla precipua funzione dell'imprenditore (come le scelte generali strutturali in tema di sicurezza e dislocazione delle risorse) che non possono in alcun modo essere traslati sul sottoposto, trattandosi di obblighi che per propria natura risultano afferenti alla fase primaria di impostazione e predisposizione del sistema stesso di prevenzione aziendale che, in quanto tali, presuppongono un ampio e generale potere di disposizione economica che, come dà atto la sentenza di appello, non è stato riscontrato in capo a F.F. (sul punto viene richiamata Sez., 6 n. 14192/2006).
Il ricorrente evidenzia poi, in merito alla completa assenza di un DVR per Agri.bio.fert. che poco rileva che in sentenza si cerchi di ricondurre al F.F. la richiesta da parte delle competenti autorità intervenute poco dopo i decessi (circostanza che peraltro si sostiene essere errata come emergerebbe dalle deposizioni richiamate in appello e non valutate negli effettivi contenuti nel provvedimento impugnato) in quanto ciò comunque non rileverebbe per definirlo dirigente. In ogni caso si evidenzia che può essere ritenuta sussistente una mancata segnalazione e una mancata predisposizione di istruzioni di dettaglio in capo al dirigente solo ed esclusivamente nel caso in cui un DVR ci sia e le procedure prevenzionali siano state attuate dal datore di lavoro in azienda.
Il ricorrente analizza in proposito anche la giurisprudenza di questa Corte che attiene alla figura del preposto, evidenziando che anche la stessa non pare attagliarsi al ruolo in concreto svolto da F.F..
Ci si duole, ancora, che la sentenza impugnata non operi un buon governo anche del dictum della sentenza delle Sezioni Unite 30328/2002 Franzese in quanto la posizione di garanzia in caso di reato omissivo improprio deve essere ricostruita con preciso riferimento a specifici obblighi giuridici gravanti sui soggetti coinvolti. Invece la sentenza impugnata non chiarirebbe come F.F. dovesse e potesse evitare l'evento. E nemmeno spiegherebbe, se non con formule di stile, in che cosa si concretizzi la violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18 contestata al capo C. In particolar modo il provvedimento impugnato non darebbe conto di come e in che modo l'adempimento avrebbe potuto essere realizzato dai F.F. (fattibilità concreta) considerato che le argomentazioni precedenti hanno compiutamente chiarito la completa assenza di tutto ciò che normativamente ne costituisce il presupposto: E, d'altro canto, non illustrerebbe concretamente in che modo l'agente avrebbe potuto evitare l'evento.
La sentenza impugnata poi nel riconoscere a F.F. un ruolo dirigenziale violerebbe la normativa in tema di salute e sicurezza sul lavoro di cui si deve tener conto nell'applicazione dell'art. 589 c.p. contestato in imputazione.
In sostanza, pur dando atto che il contratto di assunzione non lo qualifica come dirigente e che lo stesso non abbia alcun potere decisorio, di spesa e di determinazione dell'attività aziendale, la Corte territoriale continua ad attribuirgli una qualifica dirigenziale, nemmeno tenendo conto delle argomentazioni svolte sul punto dal Procuratore Generale in appello, che pure aveva riconosciuto come lo stesso non fosse un dirigente perchè era stato assunto in Agri.bio.fert. quale impiegato amministrativo con competenze tecniche nel settore della chimica industriale e che il suo contratto non prevede una retribuzione da dirigente: e che nemmeno può essere ritenuto dirigente di fatto, in difetto di concreti poteri decisionali, di ordine ed organizzazione, e di poteri di impegno e di spesa.
Il ricorso si sofferma sul concetto e il ruolo di dirigente alla luce dell'art. 2095 c.c. e del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 2 e 299.
Si evidenzia che il dirigente esiste in realtà aziendali di importanti dimensioni, quando occorre dirigere un ramo dell'azienda o un singolo sito produttivo - ad esempio il direttore di stabilimento - ma nel caso che ci riguarda è la stessa sentenza a chiarire che le due società avevano una gestione unica, che Agr.bio.fert.
non aveva dipendenti propri tranne F.F. e che i vertici aziendali erano ricoperti per lo più dalle due famiglie A.G. e A.H., giornalmente presenti in azienda attraverso dei loro rappresentanti e destinatarie delle lamentele di lavoratori e cittadini di (Omissis).
Non sarebbe possibile, in altri termini, come il ricorrente lamenta abbia fatto la Corte territoriale, continuare ad equiparare una realtà come quella del sito (Omissis) - Agri.bio.fert. alla ThyssenKrupp. Appare poi insostenibile per il ricorrente che in una società con un solo dipendente fossero presenti ben tre dirigenti, C.C., D.D. e F.F..
La sentenza impugnata non opererebbe un buon governo anche della giurisprudenza giuslavoristica di questa Corte di legittimità, che viene illustrata in ricorso, circa il ruolo e i poteri del dirigente.
Si richiama sul punto anche la pronuncia, in sede penale, di questa Sez. 4 n. 22334/2011.
In sostanza il dirigente, per essere tale, deve essere fornito di un'autonomia decisionale e organizzativa dei fattori di produzione, con discrezionalità nelle scelte economiche e potere di impartire ordini e direttive propri (e non quale portavoce di altri) e con la possibilità di influenzare la vita dell'azienda e del reparto.
Tutto ciò risulterebbe completamente assente nella figura di F.F..
Si sottolinea come a più recente normativa - recependo una consolidata giurisprudenza - ha disposto che, nella valutazione del ruolo effettivamente ricoperto dall'imputato debba applicarsi il principio di effettività (D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299) e che quindi non rilevi la mera attribuzione della qualifica ma debba emergere con chiarezza un concreto ed effettivo svolgimento delle attribuzioni e delle competenze tipiche della categoria dirigenziale.
Si ricorda come la giurisprudenza di questa Corte - e si cita in particolar modo Sez. 4 n. 12251/2014 - ha chiarito che un ruolo in materia di salute e sicurezza del preposto debba rinvenirsi esclusivamente laddove gli venga conferito il potere di sovraintendere alle attività di un determinato gruppo di lavoratori. Il che accade normalmente in strutture complesse diverse tra cui in esame.
Si sottolinea che il principio di effettività (si richiama anche Sez. 4 n. 40934/2002) nasce nel diritto alla sicurezza del lavoro su impulso giurisprudenziale per rispondere ad un'esigenza di rispetto del principio di personalità della responsabilità penale in realtà aziendali di grandi dimensioni ove non sempre il datore di lavoro si trova a ricoprire questo ruolo per diversi siti produttivi.
Si evidenzia che la sentenza impugnata non individua in motivazione alcun elemento probatorio che evidenzi che all'imputato F.F. venissero fornite mere indicazioni di obiettivi da parte del datore di lavoro con autonomia di organizzazione dei fattori di produzione (Sez. 4 n. 13915/2008).
Con un secondo motivo, attinente al capo AA ed anche ai capi C in quanto collegato e DD, ancorchè prescritto, per le statuizioni civili, ci si duole di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sia da un lato in punto argomentativo in diritto sia dall'altro in tema di valutazione delle prove acquisite.
Come spiega il ricorrente si tratta delle medesime doglianze di cui al precedente motivo viste dal punto di vista del vizio motivazionale che sussisterebbe laddove la Corte d'appello, nel delineare la figura di F.F., non terrebbe conto delle argomentazioni offerte in relazione alle altre posizioni soggettive affrontate in sentenza.
Con un terzo motivo si lamenta - in relazione al capo DD (sebbene prescritto, per le statuizioni civili) - inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 674 c.p..
Il difensore ricorrente richiama il dictum di Sez. 3 n. 27562/2015 evidenziando che la fattispecie di cui all'art. 674 c.p. sino ad oggi è stata dalla giurisprudenza applicata anche all'illegittimità emissione di gas, vapori e fumi atti ad offendere, imbrattare o molestare le persone, connessa all'esercizio di attività economiche e legata al ciclo produttivo.
Tuttavia, laddove a risponderne sia chiamata una società e non una persona fisica tale imputazione andrà elevata nei confronti del legale rappresentante della società, del titolare degli impianti o delle autorizzazioni cui l'emissione si riferisce. E F.F. non rientra in alcuna di tali qualifiche soggettive, mentre la sentenza individua con chiarezza il nominativo di D.D. quale responsabile dell'impianto e delle autorizzazioni.
Con un quarto motivo si lamenta, in relazione ai capi AA, C, DD e a punto relativo al riconoscimento della responsabilità, l'inosservanza degli artt. 415 bis e 416 c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. e si deducono nullità ex art. 178 c.p.p., lett. c, artt. 180 e 181 c.p.p. per violazione del diritto di difesa e si impugnano le ordinanze del 2/10/2019 e collegate.
Si evidenzia che tutte le autorizzazioni relative al sito produttivo che ci occupa, susseguitesi nel corso degli anni, sono state sequestrate e acquisite al fascicolo nell'immediatezza dei fatti contestati in imputazione, ma non sono state inserite nel fascicolo di indagine messo a disposizione delle difese, come attesta la sentenza a pagina 105.
Tali autorizzazioni - prosegue il ricorso - non erano presenti nel fascicolo di indagini al momento del deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p. e in sede di esercizio dell'azione penale ex art. 416 c.p.p..
Il difensore ricorda che nel corso dell'escussione di tutti i testi sentiti ha chiesto conto di tali autorizzazioni, rilevando la questione di nullità del decreto che dispone il giudizio in relazione alla loro assenza in atti, ma la questione è stata respinta dall'organo giudicante con l'ordinanza che si era provveduto ad impugnare in appello.
Il ricorrente evidenzia che nel corso del processo ha più volte provveduto a chiedere spiegazioni circa l'acquisizione di dette autorizzazioni ma mai la pubblica accusa è intervenuta con un deposito completo.
Si lamenta che la documentazione sia stata acquisita al fascicolo del dibattimento solo poco prima della requisitoria finale del pubblico ministero, cioè all'udienza del 2/10/2019. Ma anche in quel frangente, dopo che il giudice aveva disposto con ordinanza l'acquisizione di quella documentazione" il difensore aveva eccepita la relativa nullità.
Peraltro, non solo l'iter autorizzativo del sito veniva in primo grado acquisito solo alla fine del processo, ma addirittura veniva esclusa dalla produzione la consulenza del dottor U.U. sul medesimo tema, che era stata svolta nel parallelo procedimento che vede imputato per corruzione un dirigente della provincia.
Il ricorrente sostiene che il mancato tempestivo deposito delle autorizzazioni ha determinato una violazione del diritto di difesa, del diritto alla prova e dalla sua formazione nel contraddittorio delle parti, costituzionalmente garantiti. E contesta l'affermazione della Corte territoriale secondo cui la Difesa sarebbe stata comunque messa nelle condizioni di controbattere, affermando che, invece, per tutto il processo, egli ha cercato di ricostruire l'iter autorizzativo del sito, ma i testimoni non hanno fornito dichiarazioni utili in merito.
Tali autorizzazioni - è la tesi che si sostiene in ricorso - confermano una gestione del sito produttivo e della vasca D da parte di (Omissis) già dal 2001, con una progettualità autorizzatoria ben chiara già in quegli anni, mentre F.F. risulta essere dipendente dell'azienda per un brevissimo arco temporale (ovvero dal settembre 2011 al settembre 2014) e conseguentemente ben lontano dall'ipotesi di dirigere un'attività radicata nel sito aziendale da più di 10 anni.
Ritiene il ricorrente che l'ordinanza debba essere dichiarata nulla e che la questione debba essere accolta in quanto una diversa lettura degli artt. 415 bis il 416 c.p.p. comporterebbe una lettura costituzionalmente incompatibile con gli artt. 3 e 24 Cost.. E sarebbe logico che la sanzione adeguata non possa rinvenirsi che nell'art. 178 c.p.p., lett. c) e non nella inutilizzabilità degli atti, priva di alcun significato rispetto alla mancata trasmissione di atti favorevoli o comunque utili alla difesa. La riflessione sul punto prende le mosse dalla sentenza della Corte costituzionale n. 145 del 1991 i cui contenuti vengono illustrati in ricorso.
Il ricorrente sottolinea che molte pronunce di legittimità hanno optato per l'inutilizzabilità (in particolare Sez. 3 n. 24979/2017 e Sez. n. 7597/2014), me che si trattava di casi in cui la sanzione riguardava atti sfavorevoli all'imputato.
Viene segnalato che sussiste, invece, un opposto orientamento espresso da Sez. 2 n. 20125/2018 che inquadra il vizio, laddove il mancato deposito di atti di indagine risulta incidente sulle garanzie difensive dell'imputato, nella categoria della nullità generale a regime intermedio.
Con un quinto motivo, sempre relativo ai capi AA, C e DD il ricorrente lamenta errata applicazione degli artt. 51 e 54 c.p. o comunque contraddittoria motivazione laddove i giudici del gravame del merito non hanno ravvisato in capo a F.F. la scriminante di cui agli artt. 51 e 54 c.p..
Si ricorda che la motivazione della sentenza impugnata, a pagina 106, ha rigettato il motivo di appello sul punto assumendo che l'incapacità del lavoratore dissenziente con il datore di lavoro a trovare un'altra occupazione non risulta rilevante in tema di esercizio di un diritto (in particolare quello al lavoro costituzionalmente garantito) e dello stato di necessità.
Il ricorrente ritiene che una motivazione siffatta non può che apparire violativi della ratio delle due norme di cui sopra, tese a tutelare un'esigenza primaria di vita qual è la sopravvivenza.
Si sottolinea che la sentenza riconosce i contenuti delle prove assunte circa il fatto che F.F. si trovasse in azienda da un paio d'anni e che da tempo stesse cercando una diversa occupazione, non condividendo la gestione aziendale portata avanti dai vertici societari, ma che, non trovando diversa occupazione, si trovasse a scegliere tra restare in Agri.bio.fert per mantenere la famiglia di quattro persone ovvero di licenziarsi e così di non riuscire a mantenere la famiglia.
Si sottolinea che peraltro la tematica sollevata dalla difesa in appello è stata accolta in punto di commisurazione della pena, il che sembra confermare quanto non fosse foriera di un fondamento giuridico irragionevole.
Con il sesto motivo, sempre riguardante i capi AA, C e DD si lamenta inosservanza delle norme processuali e conseguente nullità della sentenza svolta ex art. 360 c.p.p. dal Dott. U.U. per mancanza di necessari avvisi.
Il ricorrente ricorda che il 17/11/2016 la difesa degli altri imputati ebbe a depositare memoria relativa alla violazione del diritto di difesa in merito agli accertamenti tecnici irripetibili svolti in fase di indagine per mancata notifica agli imputati dello svolgimento dell'atto, cui tutte le difese si sono associate.
In particolare, gli imputati D.D. e F.F. risultavano essere stati iscritti nel registro degli indagati in epoca successiva rispetto agli altri coindagati, oltre che al conferimento di incarico di accertamenti irripetibili al dottor U.U.. Ci si duole che lo stesso non abbia esteso gli avvisi ai due imputati.
In relazione a F.F., in particolare, si osserva che l'imputato aveva già provveduto a nominare difensore di fiducia, tuttavia, la notifica è stata espletata nei confronti del difensore d'ufficio.
Si sottolinea che la questione è stata tempestivamente eccepita e che è stato documentato che vi è in atti un verbale di identificazione elezione di domicilio e nomina un difensore di fiducia di F.F. del 16/10/2014 alle 11:00 e che la notifica di accertamento tecnico irripetibile a F.F. e D.D. e ai rispettivi difensori d'ufficio - non a quello di fiducia per il F.F. - è partita quello stesso 16/10/2014 alle 11:56.
In definitiva la notifica sarebbe stata effettuata al difensore d'ufficio quando era già stato nominato quello di fiducia.
Si contesta sul punto l'affermazione del giudice sul fatto che si trattasse di campionamenti ripetibili.
Il difensore ricorrente sostiene che tutta l'attività su cui si fonda l'accertamento tecnico irripetibile del dottor U.U., presupposto della valutazione operata con la perizia Z.Z.-W.W., svolta in dibattimento, debba essere dichiarata nulla o comunque inutilizzabile nei confronti del suo assistito.
Con un settimo motivo, sempre riguardante i capi AA, C e DD il ricorrente lamenta violazione dell'art. 192 c.p.p. e manifesta illogicità della motivazione in punto di valutazione delle prove.
Per il ricorrente non ci troveremo di fronte ad una doppia conforme sia perchè si tratta di una sentenza che parzialmente riforma la pronuncia di primo grado (in cui i temi difensivi sono stati comunque parzialmente accolti in tema di motiva zione, anche discostandosi dal convincimento del primo giudice, come ad esempio in tema di impresa familiare) e poi, comunque, perchè viene rimodulata la pena.
Ci si duole che l'organo giudicante sia incorso ne vizio di travisamento probatori laddove assume in sentenza poteri direttivi e decisionali in capo a F.F. che sarebbero completamente confutati dalle prove assunte e mai analizzate nei loro specifici contenuti nelle motivazioni dei due precedenti gradi di giudizio.
Si lamenta che c'erano in atti videoriprese, intercettazioni telefoniche e documenti tecnici, oltre che i risultati della perizia tecnica, di segno opposto rispetto alla prova documentale assunta circa il ruolo dell'odierno ricorrente.
Richiamata la giurisprudenza di questa Corte di legittimità in materia di travisamento della prova il ricorrente lamenta che nel caso concreto il travisamento denunciato sarebbe di tre tipi in quanto: 1. La prova che F.F. fosse un dirigente non esiste; 2. Le testimonianze sono solo elencate in sentenza, senza alcun richiamo ai loro contenuti non dicono quello che l'organo giudicante gli attribuisce; 3. Esistono altre prove che, se correttamente valutate, avrebbero portato senza dubbio ad una sentenza di assoluzione perchè evidenziano pacificamente che F.F. era assolutamente in contrasto con i vertici aziendali e con le loro decisioni e comunque era quale dipendente sottoposto a scelte dirigenziali e gestionali di A.A. e D.D..
Ci si duole che la sentenza impugnata offra a sostegno della condanna un frettoloso e generico rimando ad alcune deposizioni - il richiamo è a pagina 101 - senza in alcun modo ripercorrere gli effettivi contenuti di tali testimonianze, peraltro mai citati in maniera diretta neppure dal giudice di primo grado.
In ricorso si illustrano nel dettaglio le deposizioni del Maresciallo A.I. (pag. 57), di Q.Q. (pagg. 58 e 59), di S.S (pag. 60), di O.O. (pagg. 60-61), di J.J. (pagg. 61-62), di A.L. (pagg. 62-63), di A.M. (pag. 63), dei testi A.N., A.O., A.P., A.Q. e A.R. (pagg. 64-65), di X.X. (pagg. 65-66), di A.S. (pagg. 67-68); di P.P. e A.T. (pag. 68), di A.U. (pag. 68), di A.O. (pag. 69) e dei tecnici M.llo A.E., A.V., A.Z. e del consulente del PM U.U. (pag. 69).
La valutazione complessiva di tali testimonianze, che secondo il ricorrente è mancata, avrebbe consentito di appurare che mai nessuno attribuisce a F.F. un ruolo neanche di fatto di dirigente in quanto tutti ne descrivono una posizione equiparabile a quella di un dipendente che eseguiva in azienda disposizioni di altri ed era privo di autonomia decisionale, organizzativa e di spesa. E anche laddove qualche deposizione imputa a F.F. delle istruzioni relative alla vasca D, si tratterebbe comunque di un'attività che tutti i dipendenti connotano come conosciuta da tempo nel sito aziendale ("so io cosa fare") e non certo riconducibili ad un'autonoma iniziativa di F.F..
Le prove tutte, peraltro, prosegue il ricorrente, collegano certamente F.F. al funzionamento dell'impianto palabile di Agri.bio.fert. dislocato in luogo completamente opposto rispetto alla vasca D. In ogni caso ci si duole che i giudici di merito avrebbero dovuto compiere in sentenza un'attenta valutazione delle prove assunte e delle eventuali contraddizioni emerse nelle deposizioni, peraltro il più delle volte relative a s.i.t. che non sono state confermate in dibattimento per ragioni evincibili da un'attenta valutazione delle conversazioni intercettate di cui non si tiene conto in sentenza.
Si evidenzia che il giudice di prime cure dà conto in sentenza di non ritenere che (Omissis)-Agri.bio.fert. fosse un'azienda a gestione familiare, mentre tale convincimento non viene sostenuto dalla Corte d'appello, che correttamente recepisce il fatto che tutte le prove assunte propendono in questa direzione.
In ricorso si evidenzia essere possibile che taluni testimoni abbiano ricondotto a F.F. anzichè ad altro imputato talune istruzioni ricevute al solo fine di non aggravare la posizione processuale di un amico oppure abbiano ricondotto ad istruzioni ricevute attività che compivano ormai di default anche al fine di escludere la propria responsabilità per i gravi fatti di cui all'imputazione.
Il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non offra alcun riferimento anche alle intercettazioni ambientali svolte, acquisite al processo e trascritte con perizia, sebbene costituiscano una prova particolarmente importante perchè assunta direttamente nei locali del sito produttivo dopo i fatti.
Si sostiene che le stesse evidenziano in maniera chiara i ruoli e i rapporti all'interno dell'azienda oltre che la completa non connivenza di F.F. con gli interessi aziendali Viene ricordato il ricorso che l'attività di captazione ha riguardato 4-5 utenze telefoniche e due ambientali, che come si evince dalle loro date le stesse sono avvenute nella piena consapevolezza dell'esistenza di un'indagine in corso e addirittura talune intervengono proprio in corrispondenza con le date in cui viene celebrata l'udienza preliminare. Dalle stesse, peraltro, si evince la piena consapevolezza dell'esistenza di intercettazioni in corso.
Il ricorrente analizza molte di queste intercettazioni, in cui, tra l'altro, gli imputati parlano del processo in corso.
La tesi proposta è che dalle intercettazioni emerge il tentativo della proprietà delle due aziende di farle figurare come separate sebbene si sappia con certezza che non è mai stato così. Emergerebbe anche che tutti temono le possibili dichiarazioni di F.F. perchè sta dicendo la verità su quello che accadeva da decenni.
Inoltre, sempre nelle conversazioni trascritte - prosegue il ricorso - si evince che c'è un'impellente esigenza di svuotare tutto, proprio nel dicembre 2015 e, quindi una chiara consapevolezza che ciò che è all'interno delle vasche non è adeguato. Altra circostanza che emerge dalle conversazioni è che i lavoratori non avevano possibilità di sindacare le scelte di D.D. perchè lo stesso minacciava loro licenziamenti.
La tesi che si sostiene è che il compendio delle intercettazioni mostrava vieppiù come il vero interesse economico dell'azienda fosse di A.A. e D.D..
In sostanza le intercettazioni rivelerebbero una situazione di intenti a cui tutti aderiscono e a cui il solo F.F. non si è adeguato e si contrappone.
L'odierno ricorrente risulterebbe quindi mal visto ed ostacolato dai coimputati in quanto si teme ciò che potrà dire nel processo. Perciò proprio tali conversazioni costituirebbero un'ulteriore prova dell'estraneità e non connivenza dell'imputato con la gestione aziendale.
Peraltro, si sottolinea che è la stessa sentenza impugnata a chiarire che una siffatta gestione del sito era finalizzata ad una massimizzazione dei profitti. E perciò sarebbe chiaro che ciò inerisce i soli proprietari e datori di lavoro, in quanto nella consistente documentazione bancaria acquisita è emersa una completa estraneità di F.F. alla gestione economica dell'azienda. Ed invero, non ci sono disposizioni bancarie a suo nome, non ci sono deleghe in banca, egli non ha potere di spesa, non ha conti a lui intestati collegati alla gestione aziendale.
Pertanto, anche in relazione alle conversazioni captate in azienda e trascritte con perizia in dibattimento il difensore ricorrente ritiene che giudice del merito ne abbia completamente travisato il contenuto mentre le stesse confermano una forte conflittualità del proprio assistito con i vertici aziendali e con i dipendenti.
Il ricorso si sofferma anche sulle autorizzazioni - rilasciate dagli anni 90 in poi - per le quali con altro motivo era stato richiesto il riconoscimento di una nullità processuale in quanto acquisite tardivamente solo all'udienza del 2/10/2019.
Si sottolinea come in ogni caso le stesse evidenzino come in quel sito teatro dell'evento vi fosse una progettualità autorizzativa ben chiara risalente a molto prima del 2011 quando F.F. venne assunto in relazione alla necessità di comandare in maniera informatica il nuovo impianto palabile.
In ricorso sì illustra il tipo di attività che viene svolto dalle due società (Omissis) e Agri.bio.fert. e si ricorda come per la prima risulta un'autorizzazione relativa ad attività di stoccaggio e condizionamento di fanghi palabili e pompabili già dal 1997 e come da subito comparvero problemi e opinioni contrastanti in sede regionale circa l'inserimento di sistemi di abbattimento delle emissioni nel sito aziendale.
Il ricorso, attraverso quanto rilevato dal consulente U.U., ripercorre l'iter con cui nel 1998, nel 1999, nel 2000, nel 2001 vennero reiterate le autorizzazioni.
Nel 2001 viene menzionata l'esatta ampiezza della vasca ove è avvenuto l'incidente che solo successivamente verrà denominata vasca D. Seguono autorizzazioni nel 2003, nel 2004, nel 2005 e nel 2007. Ed è in tale ultimo anno che la Giunta provinciale di Rovigo adotta due delibere, una che riguarda ancora una volta (Omissis), in relazione all'impianto di stoccaggio e condizionamento di fanghi civili ed agroalimentari palabili e pompabili, con approvazione di una riorganizzazione funzionale dell'impianto di stoccaggio e condizionamento fanghi civili e agroalimentari palabili e pompabili; e la numero 233 che riguarda per la prima volta Agri.bio.fert Correttivi, che viene connotata come ubicata in una sede difforme rispetto al sito produttivo (Omissis) e che conferisce l'autorizzazione all'esercizio provvisorio per un anno di un impianto di correttivo calcico denominato gesso di defecazione. L'autorizzazione fa riferimento ad una vasca delle dimensioni nella vasca D. Il ricorrente ricorda come il consulente abbia evidenziato come sia paradossale sia la conclusione cui è pervenuta la CTPA nel verbale dell'11/7/2007, propedeutico all'emanazione dei due provvedimenti sopra menzionati, ove sono descritte le richieste avanzate da (Omissis), tra le quali quella di essere autorizzata alla produzione di correttivo calcico con fanghi provenienti dal proprio impianto di stoccaggio e condizionamento, e in detta sede si consiglia espressamente alla ditta di scindere i due processi in due linee di produzione distinte attraverso due intestatari.
In sostanza - si legge in ricorso - inizialmente è (Omissis) a chiedere l'autorizzazione alla produzione del correttivo calcico e il suggerimento di dividere le due produzioni proviene proprio da chi stava svolgendo l'istruttoria della richiesta.
In seguito alla divisione di tali attività la Giunta Provinciale di Rovigo procede poi, nel 2008, a pronunciarsi favorevolmente sulla domanda di compatibilità ambientale ma - come evidenzia - il ricorrente non si tiene conto nella valutazione dell'uso promiscuo della vasca D. Nel 2011 sarà poi autorizzata la linea palabile di Agri.bio.fert Correttivi ovvero di una nuova linea di produzione nel medesimo sito produttivo senza alcuna sottoposizione della stessa alla procedura di VIA. Evidenzia il ricorrente che ci troviamo ancora in epoca precedente l'assunzione di F.F., che avverrà nel settembre 2011.
La tesi sostenuta in ricorso è che, quindi, anche in relazione alle dubbie procedure autorizzative intervenute sino al 2011 non ci può essere alcun coinvolgimento di F.F..
Vengono poi analizzate le procedure degli anni successivi sostenendosi che in ogni caso si si è trattato di un prosieguo di quella che era stata l'attività autorizzative cominciate in precedenza.
In definitiva, le autorizzazioni acquisite al presente processo evidenziano per il ricorrente che l'attività della vasca D viene autorizzata inizialmente nel 2001 in relazione alla (Omissis), cui viene solo formalmente scorporata con la costituzione della società Agri.bio.fert. Correttivi nel 2007 proprio su proposta dell'organo di controllo che avrebbe dovuto valutare l'effettiva capacità produttiva del sito di (Omissis).
L'imputato F.F. interviene solo in un periodo di molto successivo (seconda parte del 2011) rispetto a quello in cui le autorizzazioni sono state ottenute e all'attivazione degli impianti con un compito meramente compilativo di documentazione tecnica che per specifiche valutazioni rimanda a consulenze redatte da altri, in epoche precedenti. Perfino le analisi e le valutazioni tecniche allegate alle istanze missive inviate da (Omissis) e Agri.bio.fert. ai competenti enti sono state compiute da studi tecnici esterni all'azienda e non certo da personale dipendente.
Le poche volte in cui l'ingegner F.F. viene interpellato -concludono i ricorrenti - fornisce informazioni veritiere che risultano non in linea con le finalità evidenti della proprietà del sito di eludere la procedura di via per impianti produttivi con capacità superiore alle 100 tonnellate al giorno.
s 4.3. E.E. (Avv. Munari Pierfrancesco).
Con un primo motivo la ricorrente, in relazione al punto sub. n. 1 della sentenza impugnata (pag. n. 80 - questioni preliminari) deduce la nullità delle ordinanze del 22.2.2017 e del 10.1.2018 a seguito del mutamento della persona del giudice, sub specie di inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità.
Si tratterebbe di un vizio, come ricordato nell'atto di appello, più volte dedotto nel corso del dibattimento di primo grado. Si lamentava più volte, la nullità ai sensi dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), art. 180 c.p.p., ergo la conseguente inutilizzabilità, dei campionamenti effettuati da ARPAV nei giorni 23.9.2014, 31.10.2014, 6.11.2014, 10.11.2014.
La sentenza impugnata - ci si duole - ripropone pedissequamente le argomentazioni del provvedimento del giudice di primo grado, asserendo sostanzialmente come l'attività di campionamento, qualificabile come mero "rilievo", differisca, invero, da quella di analisi, unica a dover essere effettuata con le garanzie di cui all'art. 360 c.p.p.. E a sostegno di tale orientamento la Corte d'appello cita Sez. 2, n. 34149/2009 (Chiesa e altro) la quale, tuttavia, non sembra del tutto attagliarsi al caso che ci occupa in quanto in quel caso gli "accertamenti di P.G." riguardavano, invero, il numero di telaio di un ciclomotore.
Differentemente, nel caso in esame, si tratta della procedura di "campionatura", la quale, sempre secondo costante orientamento di legittimità (si richiamano Sez. 3. n. 16386/2010 oltre che la più recente Sez. 3, n. 16044/2019, Ric. Rossi) avrà natura meramente amministrativa solo laddove svolta dagli organi di polizia e di controllo nell'ambito della loro normale attività di vigilanza ed ispezione.
Al contrario, per la ricorrente tali garanzie occorrerebbero nel momento in cui dallo svolgimento di tali attività potrebbero emergere indizi di reato il legislatore, conformemente alle indicazioni fornite peraltro in tempi ancora più remoti dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 248/1983 e n. 15/1986 (secondo cui il diritto di difesa sarebbe violato qualora la nozione di "procedimento" nel quale l'art. 24 Cost., comma 2 garantisce la difesa come diritto inviolabile, venisse inteso in senso restrittivo, escludendo le attività "preordinate ad una pronuncia penale che si traducono in processi verbali di cui è consentita la lettura in dibattimento" poste in essere al di fuori del normale intervento del magistrato").
Si ricorda in ricorso che, con l'art. 223 disp. att. c.p.p. il legislatore ha previsto alcune garanzie difensive nei riguardi dei soggetti interessati proprio per l'eventualità che a seguito delle analisi emergano nei loro confronti indizi di reato. Le previsioni e le garanzie di cui all'art. 223 cit. riguardano, dunque, i prelievi e le analisi inerenti all'attività meramente amministrativa, ossia appunto alla normale attività di vigilanza ed ispezione. Da tale ipotesi bisogna distinguere nettamente le analisi e i prelievi inerenti non ad una attività amministrativa bensì ad una attività di polizia giudiziaria nell'ambito di un'indagine preliminare, per i quali devono invece trovare applicazione le norme di cui all'art. 220 disp. att. c.p.p., in base al quale "quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice". E così, ancora, nella medesima scia, "occorre distinguere tra il prelevamento inerente ad attività amministrativa, disciplinato dall'art. 223 disp. att. c.p.p. e quello relativo ad attività di polizia giudiziaria, anche se precedente all'acquisizione della notizia criminis, per il quale è applicabile l'art. 220 disp. att. c.p.p. poichè operano, in tale seconda ipotesi, in via genetica, le norme di garanzia della difesa previste dal codice di rito, determinandosi una nullità di ordine generale di cui all'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), nel caso di loro osservanza" (Sez. 3, n. 16044/2019, Ric. Rossi).
In buona sostanza, il CT del PM nominato ex art. 360 c.p.p., Dott. U.U., avrebbe dovuto semplicemente riprogrammare i campionamenti, non essendo utilizzabili quelli espletati da ARPAV senza il rispetto delle garanzie difensive di cui sopra. Di questo -prosegue il ricorso - il Dott. U.U. è sembrato, peraltro, perfettamente consapevole allorquando, all'udienza del 2 luglio 2018, nel corso del processo di primo grado, ha affermato: "Allora, nell'ambito dell'incarico, conferito dalla Dott.ssa A.W., del 360, praticamente erano stati programmati questi campionamenti, quindi era stato fatto un protocollo analitico ed era stato dato avviso ai C.T.P. e, dove non nominati, alle Difese delle rispettive persone presenti nel procedimento (...). E' accaduto che precedentemente a questa attività programmata, l'ARPAV è intervenuta con dei campionamenti, su disposizione della Procura, e praticamente sono stati fatti in via (mia, rectius) assenza. (...) lo non ho dato l'avviso perchè neanche lo sapevo (...). Solo i campioni fatti da ARPAV (Omissis), su disposizione della Procura, sono avvenuti in mia assenza, non lo sapevo. (...) E l'ho potuto solo comunicare a posteriori ai consulenti, dicendogli che erano saltate quelle attività che avevamo programmato (...)".
Il distinguo fatto, dunque, dal giudice di prime cure e ripreso dalla Corte territoriale tra "rilievi" e "accertamenti" sarebbe privo di pregio giuridico.
La sanzione processuale conseguente alla violazione di dette norme -si richiede - dovrà dunque essere quella della nullità di cui all'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), peraltro tempestivamente eccepita e coltivata nel corso del dibattimento e fatta oggetto di specifica doglianza in sede di appello, con ulteriore conseguente inutilizzabilità dei risultati posti a base sia dell'accertamento tecnico di cui all'art. 360 c.p.p. sia della perizia degli Ingegneri Z.Z. e W.W. disposta dal tribunale ai sensi dell'art. 506 c.p.p..
Con un secondo motivo la ricorrente lamenta, in relazione al punto sub n. 3 (n. 1 - 1.1.) della sentenza impugnata (insussistenza del reato di cui all'art. 113 c.p., art. 589 c.p., commi 1 e 2 e u.c. - capo AA) l'inosservanza o comunque erronea applicazione della legge penale; manifesta erroneità, illogicità e carenza di motivazione in relazione alle risultanze dell'attività istruttoria.
Quanto ai profili di colpa generica, il difensore ricorda di avere duramente contestato il pronunciamento di primo grado in relazione al capo sub. AA dell'imputazione ascritta alla E.E. adducendo l'impossibilità di rinvenire nella condotta della stessa, in primis, profili di colpa generica.
Ci si duole che la Corte d'Appello di Venezia abbia ritenuto infondato il motivo di doglianza adottando un'interpretazione assolutamente di parte delle risultanze istruttorie, ovvero valorizzando esclusivamente gli elementi probatori introdotti dalla pubblica accusa e con essa dai periti nominati dal tribunale, omettendo perciò di valorizzare e dunque, eventualmente, di disconoscere gli apporti probatori difensivi motivando compiutamente sul punto. Più specificamente, per quanto attiene alla condotta consistente nell'"avere introdotto rifiuti non previsti dalla normativa sui fertilizzanti di cui al D.Lgs. n. 75 del 2010" occorre ricordare come, da un lato, si tratterebbe di un profilo di colpa residuale rispetto all'imputazione, che faceva riferimento all'introduzione di rifiuti non previsti dalla citata normativa sui predetti ritenuta, correttamente, non tassativa. D'altro lato non si può ritenere corretta l'affermazione della Corte territoriale secondo cui "(...) vi è stata un' integrale inosservanza della "ricetta", realizzando una mera attività di scarico (e miscelazione) di rifiuti conferiti da terzi", totalmente in spregio alle risultanze della consulenza A.Y.-A.J.-A.B. (pagg. 43-45) come pure della documentazione prodotta dalla difesa sul punto.
Non si fa alcun cenno, infatti, ai certificati di collaudo della vasca D negli anni 2001, 2008, 2011, e 2012. Di maggior rilievo, sicuramente, gli ultimi due sul cui contenuto, peraltro, lo stesso tribunale non si soffermava, pur essendo documenti della difesa specificamente indicativi della insussistenza del contestato profilo di colpa generica.
Richiamando invero le pagg. da 43 a 45 della consulenza tecnica di cui sopra per la ricorrente si può subito evidenziare come l'impianto fosse stato regolarmente collaudato senza che gli Enti preposti (Provincia di Rovigo in primis) abbiano mai sollevato riserve al riguardo. In particolare, nel collaudo datato 3.11.2011 a firma dell'Ing. A.K. sono elencati i codici CER dei rifiuti autorizzati, ivi compresi quelli integrativi, necessari per la produzione di gesso di defecazione pompabile/palabile.
La ricorrente contesta, pertanto, che si possa affermare apoditticamente, come farebbe la Corte territoriale, che venivano versati in vasca rifiuti non autorizzati e ciò anche in spregio alle tempistiche previste per le pur autorizzate aggiunte. Lamenta, pertanto, la sussistenza di un grave vizio di motivazione conseguente a falsa interpretazione del materiale probatorio in atti, dal quale si evincerebbe una realtà tutt'altro che rispondente a quella delineata dal giudice del gravame del merito.
In particolare, sarebbe assai importante notare che il rischio ambientale è stato classificato come basso e, come si legge al punto "C - Funzionalità dei sistemi di allarme e sicurezza": "l'impianto nel suo complesso non necessita e non possiede, in quanto non necessari, allarmi sonori e visivi che informino il personale presente o la popolazione circostante di pericoli immediati per la salute". E ancora al punto "E" del citato certificato di collaudo si precisa che "i rifiuti liquidi pompabili sono posti nella vasca D e soggetti a miscelazione per evitare la decantazione e per consentire la omogeneizzazione del fango. Secondo il risultato delle analisi sui fanghi, in vasca viene effettuata direttamente la correzione. I prodotti reagenti e correttivi per l'additivazione dei fanghi sono miscelati direttamente nella vasca con dosaggio indicato dalle esigenze analitiche del prodotto da conferire, non vi sono quindi quantità stoccate nei depositi temporanei".
Per concludere, inoltre, gli stessi periti Z.Z. e W.W. hanno osservato come "l'operato dell'autorità competente, per quanto non esente da critiche debba essere valutato con riferimento allo specifico contesto temporale nel quale il ricorso all'autorizzazione "End of waste caso per caso" era prassi diffusa; il D.M. 5 febbraio 1998, per quanto frequentemente applicato (a tutela dell'ente) anche nelle autorizzazioni in procedura ordinaria, era considerato cogente solo per gli impianti autorizzati in forma semplificata (...). In altri termini, per censurare definitivamente l'operato dell'autorità competente, occorrerebbe entrare nel merito delle valutazioni condotte dalla stessa nella fase istruttoria e valutare se le prescrizioni impartite (o non impartite) nell'atto autorizzativo fossero o meno idonee a garantire adeguatamente e compiutamente i principi e i criteri definiti dalla normativa ambientale in materia di recupero di rifiuti e per la salvaguardia dell'ambiente (...)".
L'imposizione della modalità dell'impianto chiuso con sistemi di aspirazione e abbattimento delle emissioni potrebbe pertanto valere come valutazione pro futuro e non certo come condotta obbligatoriamente richiedibile all'imprenditore all'epoca dei fatti, come afferma ancora, errando secondo la ricorrente, la Corte territoriale, richiamando de plano, sul punto, la decisione del primo giudice.
Per tali motivi, la ricorrente ritiene che tale profilo di colpa non sia in rapporto di causalità con l'infortunio di cui al capo AA) dell'imputazione.
Per la ricorrente anche per quanto attiene, poi, alla condotta consistente "nell'aver omesso di svolgere qualunque processo, avendo posto in essere un'attività di scarico (e miscelazione) di rifiuti conferiti da terzi" può rinvenirsi un difetto di motivazione con riferimento, da un lato, alla assunzione come prova madre della perizia disposta dal Tribunale e, dall'altro, alla mancata motivazione in ordine al totale disinteresse in ordine ad elementi probatori a confutazione prodotti dalle difese sul punto.
Il giudice del gravame del merito affermerebbe del tutto apoditticamente che "... vi è stata una integrale inosservanza della "ricetta" posto che"... era radicale la difformità tra la concreta gestione del processo produttivo che aveva luogo nella vasca D e quello autorizzato sulla base della "ricetta" presentata da AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI agli enti competenti, approdo inequivocabile della perizia redatta dagli ingegneri W.W. e Z.Z.".
Si sostiene, tuttavia, che tale perizia non sia così chiara sul punto, in quanto i periti suindicati hanno ritenuto che "sia pressochè impossibile valutare con certezza assoluta il quantitativo di solfuri presente nella vasca D prima dell'incidente e quanti di questi solfuri abbiano poi reagito con l'acido solforico; non è possibile stabilire a posteriori quali e quante sostanze, diverse dai solfuri, abbiano contemporaneamente reagito con l'acido solforico riversato in vasca; non è possibile valutare numericamente la cinetica dell'evento e, in particolare, l'effetto istantaneo, in termini di rilascio dell'acido solfidrico, dovuto all'attività di miscelamento della vasca con l'escavatore".
La Difesa ricorrente si domanda, allora, da dove tragga la Corte territoriale tutta questa certezza. Viene sottolineato, peraltro, che il perito W.W. così dichiarava nel corso dell'udienza del giorno 23.9.2019: "... prendiamo come ordine di grandezza il fatto che per i materiali che tipicamente andavano in quella vasca, pompabili, ci volevano 22 tonnellate di acido solforico alla concentrazione del 98%. In quella vasca in realtà sono andate a finire 28 tonnellate di acido solforico al 63% nominale. Quindi il quantitativo, rifacendo due calcoli, probabilmente era un pò eccessivo rispetto a quello che è la ricetta, però è abbastanza paragonabile rispetto a questo calcolo".
Si tratterebbe per la ricorrente di una falsa interpretazione del materiale probatorio che si riflette in un evidente quanto insanabile vizio di motivazione.
A maggior riprova dell'infondatezza del convincimento della Corte territoriale si cita, infine, la deposizione del teste O.O., minimamente vacillata, il quale confermava di aver aggiunto, nella settimana dei fatti, su incarico di F.F., 20-30 bennate di calce e anche dello zolfo, aggiungendo che quando l'Ing. F.F. disponeva dette aggiunte faceva le prove andando in pesa e faceva poi i debiti calcoli, ergo nulla veniva lasciato al caso.
Venendo poi alla posizione strettamente personale dell'odierna ricorrente, si sostiene che la stessa non fosse assolutamente a conoscenza della decisione di versare proprio quel giorno nella vasca D l'autobotte di acido solforico, trattandosi di questione non sottoposta alla valutazione del CdA di "(Omissis) Srl ", ma, purtroppo, decisa in totale autonomia dal vertice aziendale A.A..
Anche quanto ai profili di colpa specifica, ritiene il ricorrente che la Corte d'Appello, nella sentenza impugnata, abbia acriticamente riprodotto le osservazione del primo giudice senza curarsi non solo di motivare il discostamento dalle risultanze istruttorie di senso contrario ma, conseguentemente, altresì di motivare, sotto il profilo strettamente giuridico, non solo la causalità tra tutte le condotte contestate e il fatto di cui all'art. 589 c.p. ma anche, e soprattutto, di evidenziare i profili di colpa specifica con riferimento ai medesimi fatti in capo alla odierna ricorrente.
In particolare, per quanto attiene alla specifica violazione di cui all'art. 17, comma 1 in relazione al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 223, comma 1, (capo C), la Corte si limita a ricordare la "mancata predisposizione di alcun DVR di Aciriobiofert, laddove il DVR di (Omissis) non conteneva nessuna valutazione relativa a rischio chimico correlato all'impiego di acido solforico" (così pag. 89 della sentenza impugnata).
Anche in tal caso ci si duole che vi sarebbe un totale disinteressamento, che si tradurrebbe in un vizio di omessa motivazione, in ordine alle prove a discarico prodotte, in particolare con riguardo al piano di monitoraggio e controllo (c.d. PMC) di (Omissis) Srl e di Agri.bio.fert. Correttivi.
Si ricorda che sul punto si sono ampiamente diffusi gli elaborati consulenziali di parte cui ha fatto richiamo, nel corso del suo esame, il Dott. A.Y., sottolineando l'importanza del PMC "perchè è descrittivo anche in dettaglio di tutte quelle fasi, di quelle lavorazioni, che magari nel documento di valutazione dei rischi non sono così precise".
Ed invero si sottolinea come nel citato documento vi sia specifico riferimento alla corsia di servizio per la miscelazione dei fanghi e alle modalità di inserimento dell'acido solforico nel processo di produzione del gesso di defecazione.
Ulteriore documento completamente ignorato sia dal primo giudice che dalla Corte d'Appello, assolutamente decisivo, tuttavia, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie, sarebbe quello denominato Allegato 7^ P-SVAS del PMC di "AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl ", riguardante la gestione del rischio di sversamenti di acido solforico.
Significativamente, tra i DPI non è indicata la maschera protettiva delle vie respiratorie proprio perchè i rischi residui nell'utilizzo dell'acido solforico, previsti anche nella scheda di sicurezza vigente all'epoca dei fatti, riguardavano corrosione e inquinamento ambientale. Non parrebbe, dunque, possibile liquidare la questione asserendo apoditticamente che i periti W.W.-Z.Z. hanno ragione allorquando affermano che non vi sia stata un'adeguata valutazione del rischio chimico perchè ciò, in considerazione di quanto sin qui esposto, non corrisponde comunque a verità, con conseguente inadeguata se non carente motivazione sul punto.
Anche in merito alla contestata mancata impartizione di addestramento ai lavoratori dell'impianto si ritengono per la ricorrente avanzabili identiche doglianze. Ciò perchè il consulente tecnico Dott. A.Y. ha spiegato che tutti i lavoratori avevano effettuato dei corsi di formazione sul primo soccorso, sui rischi aziendali, sui luoghi di lavoro. Ed invero, come emergerebbe dalle deposizioni sul punto e dalla copiosa documentazione acquisita agli atti, L.L., M.M., N.N., O.O., C.C., X.X., Q.Q. e F.F., non solo erano tutti presenti in azienda al momento dell'emergenza, ma erano tutti stati formati ed addestrati.
Infine, proprio in merito alla posizione di garanzia della odierna ricorrente, per il suo difensore la motivazione adottata dalla Corte territoriale presenterebbe, tra le maggiori lacune, oltre che le più tangibili violazioni di legge, non solo con riferimento alla superficiale quanto spesso erronea lettura del dato istruttorio ma -cosa ancor più grave - dello stesso dato normativa, con riferimento specifico ai principi generali del nostro ordinamento penale.
Sostiene infatti la Corte veneziana che i motivi d'appello sul punto sono destituiti di fondamento, con ciò riportandosi, alla stessa stregua del primo giudice ad una delle sentenze caposaldo in merito di responsabilità per infortuni sul lavoro all'interno delle società di capitali, ovvero la sentenza Ottavi (Sez. 4 n. 8118/2017). Tuttavia, ancora una volta si ritiene che la Corte territoriale, appoggiandosi senza grandi sforzi alle considerazioni del primo giudice, ometta di valutare nel dettaglio e con dovizia gli elementi istruttori di segno contrario pur evidenziati in atto di appello e così nei motivi aggiunti, giungendo per forza di cose ad una motivazione viziata soprattutto con riferimento a precisi atti e documenti istruttori, quali i verbali del consiglio di amministrazione della società (Omissis) tra il 27.12.2012 (data di nomina di E.E. a consigliere di amministrazione) al 22.09.2014 (data dell'infortunio), acquisiti dal curatore della società oramai fallita (Omissis).
La ricorrente si duole che l'argomentare della Corte del merito, purtroppo, alla pari di quello del primo giudice che viene semplicemente richiamato senza alcuno sforzo innovativo in punto motivazionale, attribuisce alla E.E. la qualifica di "datore di lavoro" ma omettendo la cosa più importante, ovvero quella di sviscerare quale fosse la sua effettiva posizione lavorativa ali interno della società, non essendo pacificamente sufficiente addurre la sua qualifica di consigliere di amministrazione a fonte di responsabilità, salvo ricadere nell'ipotesi illegittima di responsabilità oggettiva o addirittura per fatto altrui.
Ciò laddove E.E., come emerge dalla visura storica della società agli atti, non è mai stata proprietaria di quote sociali e viene nominata consigliere di amministrazione solo il 27.12.2012 in sostituzione del padre D.D., ovvero solo un anno e nove mesi prima del tragico evento di cui è processo.
A ciò si aggiunga - prosegue il ricorso - che la stessa, molto giovane, era alla sua prima esperienza lavorativa. Le sue mansioni specifiche riguardavano "l'attività inerente l'esercizio di macchine agricole per conto terzi, la conduzione di terreni agricoli sia propri che di terzi, la coltivazione nonchè la sperimentazione con concimi organici" (cfr. delibera del CdA di "(Omissis) Srl " del 27.12.2014 agli atti.
Se ne desume che, proprio in omaggio aria sentenza succitata, alcun potere era stato conferito all'odierna ricorrente in punto spesa in materia di sicurezza e prevenzione, conseguentemente delegata ad altri soggetti societari.
Si sostiene che, diversamente da quanto opina la Corte territoriale, se E.E. era titolare di deleghe dirette e dettagliate, sicuramente non aveva una delega, nemmeno in forma tacita, ad occuparsi della sicurezza sul lavoro la quale invece, a questo punto proprio tacitamente, era stata conferita al proprietario della società, A.A.. E a riprova di ciò va considerato - si legge in ricorso - che le riunioni del CdA succedutesi nel breve periodo di tempo in oggetto non hanno mai messo all'ordine del giorno problematiche afferenti la sicurezza sul lavoro o la prevenzione degli infortuni in generale. In buona sostanza la tesi proposta in ricorso è che l'odierna ricorrente sia stata completamente tenuta all'oscuro di qualsiasi decisione inerente alla sicurezza, materia rispetto alla quale non aveva nè deleghe formali o tacite. Si sostiene che la teoria in ordine alla posizione di garanzia di cui la Corte territoriale si fa portatrice sembra fondarsi su schemi mentali di puro principio, non certo su quello che è il reale funzionamento delle realtà aziendali, dove è assolutamente impossibile che tutti si occupino di tutto, essendoci delle specifiche deleghe e distribuzioni di ruoli.
Si ricorda in ricorso come questa Corte di legittimità ha avuto modo di precisare sul punto che sussistono dei "limiti all'esercizio dei poteri impeditivi da parte dei componenti del consiglio di amministrazione sprovvisti di deleghe sulla sicurezza e sul lavoro individuandoli nel vincolo della collegialità, nell'assenza di poteri ispettivi, di indagine o di acquisizione dati, se non attraverso la richiesta di informazioni agli organi preposti con delega (art. 2381 c.c., comma 5), nella inutilità dell'impugnazione del deliberato consiliare in presenza di atti di indirizzo societario che si articolavano al di fuori della sede propria e della mancanza di momenti deliberativi in cui sarebbe stato possibile esprimere l'eventuale dissenso alla politica aziendale sulla sicurezza"; in ogni caso, considerando la problematica della causalità nella colpa, "con assoluta probabilità il dissenso e la critica, pure veicolati dai componenti del consiglio di amministrazione nei canali istituzionali (...), non sarebbero valsi a muovere le scelte nella direzione auspicabile, laddove i vertici decisionali della società avevano palesati:) compattezza e impermeabilità in relazione alle scelte di fondo di politica aziendale, proprio in ragione del solco tracciato nell'esercizio dei poteri di gestione e di spesa (...)" (il richiamo è a Sez. 4 n. 13384/2018, P.G. c/ DP.C. e B. G.).
Ed allora, il difensore ricorrente si domanda quale richiamo potrebbe essere mosso a E.E. con riguardo al rispetto della regola cautelare se non aveva non solo la concreta possibilità di rispettarla ma nemmeno di conoscerla.
Si ricorda in ricorso come sia pacificamente emerso, nel corso dell'istruttoria che era A.A.; Presidente del CdA, il vertice assoluto dell'azienda oltre che il proprietario della maggioranza del capitale sociale di "(Omissis) Srl ".
Ciò emergerebbe anche dalle testimonianze degli abitanti di (Omissis).
Era il A.A. - si sostiene - il centro decisionale esclusivo e incontrastato della predetta società cui era riservato, in sostanza, il potere di indirizzo e le scelte gestionali a cui faceva capo il potere di spesa, sia con riguardo al perseguimento delle strategie aziendali, sia con riguardo agli investimenti in tema di sicurezza sul lavoro. Viene indicata, ad esempio di ciò, la decisione, presa esclusivamente dal A.A., di ordinare la cisterna di acido solforico, pur col parere contrario dell'ingegnere ambientale F.F., vero e proprio dirigente di "AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI Srl ", oppure la decisione di locare la vasca D a quest'ultima società. Proprio il ruolo di F.F. relativo al "controllo e alla conduzione di impianti per la produzione di fertilizzanti" si riflette sulla posizione di responsabilità di E.E., la quale se non aveva deleghe al controllo nella società ove la stessa era membro del Cda tanto meno poteva averle nella società di F.F..
Quest'ultimo, infatti, "aveva poteri effettivi ed autonomi di gestione del processo non solo relativo al correttivo palabile, ma anche a quello pompabile atteso che si decideva cosa dovesse venire sversato nella vasca D con quali tempistiche, in quali quantità (era F.F. il depositario della famosa "ricetta", colui che aveva calcolato quante "bennate" di ciascun ingrediente si dovessero aggiungere e impartiva ordini agli operai in proposito); processo di produzione del correttivo che costituiva il "core business" di AGRI.BIO.FERT. CORRETTIVI; a lui faceva capo l'organizzazione del lavoro con riferimento al processo di produzione del correttivo pompabile, dava disposizioni agli operai decidendo in concreto chi, quando e come doveva proceder agli step in cui consisteva la lavorazione (...)".
Si sostiene che questo passaggio sia di fondamentale importanza nell'ottica di stabilire la posizione di garanzia (organi di garanzia A.A. e F.F.), come emerge proprio dalla sentenza di primo grado (il richiamo è a pag. 120) ma di esso non solo la Corte d'Appello sembra volutamente non tener conto ma, nell'ignorarlo, giunge a viziare irrimediabilmente, senza possibilità di sanatoria alcuna, la motivazione.
Continua, infatti, il primo giudice: "in conseguenza, sarebbe spettato a F.F. mettere in guardia vertici aziendali della portata del pericolo in agguato con modalità proporzionate all'entità del pericolo per la salute dei lavoratori e dell'ambiente circostante e non già assecondare per anni una prassi produttiva incontrollata, potenzialmente foriera di infortuni quale quello che si è irrimediabilmente verificato; (...) se anzichè accettare passivamente una prassi produttiva radicalmente difforme da quanto autorizzato e "casuale", F.F., ingegnere a cui era affidata la responsabilità e la gestione degli impianti del correttivo palabile e pompabile, avesse correttamente indentificato l'entità del rischio chimico che si correva, i vertici aziendali quanto meno non avrebbero più potuto ignorare tale cruciale profilo" (pag. 121 della sentenza di primo grado).
Dalla lettura di questo importantissimo passaggio si evincono per la ricorrente due circostanze molto importanti, da leggere sicuramente a favore della totale mancanza di colpa, in ogni sua sfaccettatura, della E.E. nella causazione colposa dell'evento: la prima è che a detta del primo giudice la prassi andava avanti da anni ovvero allorquando dell'odierna ricorrente nell'azienda nemmeno si conosceva il nome - sulla sua entrata nel CdA a distanza di un anno e poco più prima del fatto si è già detto -; la seconda è che, come già ribadito più volte, era la proprietà di "(Omissis) Srl ", ovvero la persona fisica del A.A., a risultare accentratrice di ogni scelta che riguardava la vita sociale, ivi compresi gli investimenti per l'acquisto di beni e servizi a tutela della sicurezza dei lavoratori.
Lamenta il ricorrente che, nonostante ogni aspetto organizzativo della suddetta società sia stato sviscerato, con le conseguenze ampiamente sintetizzate, la Corte territoriale insiste nell'ignorare volutamente tutto ciò rifacendosi sic et simpliciter, ancora una volta, non tanto ai principi generali del diritto ma, tout court, alla linea giurisprudenziale segnata dalle SS.UU. Espehnahn-Thyssenkrupp, ovvero SS.UU. n. 38343 del 24.04.2014 nella quale, in tema di organizzazione aziendale di vaste dimensioni, si precisa che "il limite all'esonero degli altri componenti del CdA è delineato dall'obbligo di vigilanza, cui l'organo deliberativo non può comunque sottrarsi. Gli altri componenti rispondono invero anch'essi del fatto illecito allorchè abbiano dolosamente omesso di vigilare o, una vota venuti a conoscenza di atti illeciti o dell'inidoneità del delegato non siano intervenuti".
Per il difensore ricorrente non è chiaro come, alla luce degli elementi istruttori portati all'attenzione del primo e del secondo giudice, si possa ritenere detta sentenza applicabile al caso di specie, e soprattutto dove possa rinvenirsi il dolo in capo alla E.E. o la conoscenza in capo a quest'ultima di atti illeciti, laddove è stato dimostrato che la stessa nulla conosceva delle scelte di A.A. e tanto meno di quelle del F.F..
Il difensore ricorrente si domanda come la sua assistita avrebbe, dunque, potuto dubitare della capacità dei due di svolgere il proprio incarico - inidoneità del delegato - o, addirittura, pensare che gli stessi commettessero degli atti illeciti, priva peraltro di conoscenze nella materia.
Si osserva che la stessa sentenza delle SSUU citata, letta più approfonditamente, arriva comunque a superare il dato meramente formale della posizione di garanzia cui fa ancora riferimento la sentenza impugnata, arrivando ad affermare che "...in realtà complesse (...), nell'ambito dello stesso organismo può ricontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Tale complessità suggerisce che individuazione della responsabilità penale passa non di rado attraverso un'accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall'altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per l'imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai sommi principi che governano l'ordinamento penale; per evitare l'indiscriminata, quasi automatica distribuzione dell'illecito a diversi soggetti" (così pag. 102 delle SSUU 38343/2014).
Occorre personalizzare l'imputazione e per fare ciò occorre analizzare nel dettaglio quali fossero i ruoli esercitati da ciascun soggetto nell'azienda, al fine evidente di rispettare i principi inviolabili del nostro diritto penale in tema di responsabilità, la quale non può essere oggettiva, nè per fatto altrui, nè tanto meno svincolata da causalità con l'evento. Analisi, questa, che - secondo la tesi proposta in ricorso - la Corte veneziana avrebbe completamente ignorato, limitandosi a seguire la linea più facile della "posizione di garanzia" indiscriminata, viziando in tal modo irreparabilmente la motivazione.
Analoghe doglianze vengono proposte in relazione alla posizione assunta dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata in punto di "prevedibilità dell'evento, esigibilità della condotta, cooperazione colposa", laddove la posizione dei giudici del gravame del merito ruota sempre intorno allo stesso concetto, quello della "posizione di garanzia", non essendo dato rinvenire diversa ed autonoma motivazione sul punto oggetto di doglianza.
Secondo la Corte del merito la E.E. sarebbe "colposamente venuta meno ai suoi doveri di imprenditrice, omettendo di interessarsi a monte dell'esistenza di un DVR, di una adeguata formazione ed informazione dei lavoratori, del rispetto delle procedure di produzione del gesso di defecazione" poichè "in materia di reati colposi, particolarmente nel campo degli infortuni sul lavoro, vige il principio per cui, ove vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia(...)" (il richiamo è a pag. 95 della sentenza impugnata). Aggiunge, inoltre, la Corte d'Appello che "... è obbligo del datore di lavoro, quale titolare della posizione di garanzia, prevenire il concretizzarsi dei rischi riguardanti la verificazione anche di un evento "raro" la cui realizzazione non sia però ignota all'esperienza ed alla conoscenza della scienza tecnica..." (pag. 96).
Tutto ciò perchè E.E. per la Corte d'Appello, era "datore di lavoro", ergo titolare della posizione di garanzia. Le ulteriori contestazioni vengono a cascata. Non si sente più il bisogno di motivare se non rifacendosi alla qualifica di "datore di lavoro" ergo "titolare di posizione di garanzia".
Orbene, ammesso e non concesso che l'evento fosse prevedibile - circostanza questa che si è cercato di confutare durante il processo di primo grado, citando altresì l'assoluta inerzia degli Enti competenti a fronte dello studio sulle emissioni odorigene effettuato da "Chimicambiente" e comunicato proprio da (Omissis) Srl a Provincia e ARPAV il 3.4.2014, sicuramente detta prevedibilità non poteva pretendersi dalla E.E., e ciò sempre in riferimento alla sua posizione assolutamente marginale nell'azienda.
Vi è forse da chiedersi, al contrario, per il difensore ricorrente come mai detti Enti non siano stati chiamati a rispondere laddove la circostanza viene addirittura stigmatizzata dal primo giudice.
Per quanto attiene, invece, alla contestata cooperazione colposa, ricorda la ricorrente che è proprio il primo giudice, alle pagg. da 129 a 131, ad evidenziare "il ruolo preminente dei due imputati che, di fatto, costituivano il vertice aziendale: A.A. e D.D. (...). A costoro, e in particolare a D.D., avevano sempre fatto capo le decisioni strategiche relative alla produzione: D.D. era il direttore tecnico di entrambe le società (Omissis) e Agri.Bio.Fert. Correttivi, in stretta collaborazione con F.F., con cui si consultava pressochè quotidianamente anche nell'ultimo periodo, nel quale risiedeva in Romania, si occupava del processo produttivo del correttivo anche pompabile, dettando istruzioni stringenti per i dipendenti, D.D. e A.A. erano stati i terminali finali delle lamentele e criticità evidenziate tanto dagli abitanti di (Omissis) quanto dagli stessi dipendenti rispetto ai fastidi cagionati dagli odori e delle emissioni prodotte dalle lavorazioni dello stabilimento, sicchè deve concludersi che entrambi erano anche i referenti dello stabilimento agli occhi della comunità locale(...) Altrettanto pregante risulta il contributo di A.A., che oltre ad essere il Presidente del CdA di (Omissis), "titolare" con D.D. dell'azienda agli occhi dei dipendenti e della comunità locale, è anche colui che ha dato materialmente l'ordine di acquistare l'acido solforico il venerdì precedente l'incidente, per versarlo nella vasca D al fine di risolvere il problema delle emissioni odorigene di cui da tempo si lamentavano i residenti, superando addirittura la contrarietà manifestata nel frangente da F.F.".
La presupposta cooperazione mediante contributo omissivo asseritamente data dal fatto che la E.E. avrebbe assecondato le decisioni strategiche del padre, fatta propria dalla Corte territoriale, sarebbe per il difensore ricorrente unicamente frutto di un intimo convincimento del primo giudice, fatto proprio dalla Corte territoriale, che si manifesterebbe allo stato privo del necessario supporto probatorio, con conseguente manifesta illogicità se non totale carenza di motivazione sul punto.
Con un terzo motivo la ricorrente lamenta insufficienza e contraddittorietà della motivazione in punto di dosimetria della pena, pur di fronte ad una riduzione della pena base da parte del giudice di appello.
Apparirebbe in ogni caso contraddittorio, a fronte di quel riconosciuto "ruolo di minor pregnanza" ricoperto dalla E.E. nella compagine aziendale, il mancato riconoscimento di prevalenza, delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante dell'art. 589 c.p., comma 2.
Con un quarto motivo, in merito alle statuizioni civili, la ricorrente ritiene che la decisione impugnata, riconfermando quella del primo giudice, cada nel medesimo difetto motivazionale con riferimento specifico all'omessa motivazione in ordine ai criteri utilizzati per la quantificazione nei confronti di O.O. e conseguente indicazione dei limiti entro i quali il danno si è stato ritenuto provato all'esito del giudizio di primo grado.
Con riferimento alla Regione Veneto e al Comune di Adria agli esiti dell'istruttoria dibattimentale non si sarebbe pervenuti ad un minimo principio di prova in ordine alla quantificazione dei costi indicati in costituzione e nelle conclusioni scritte (ovviamente alla voce del danno patrimoniale), tanto da dover rimettere la parte al giudice civile.
Il riconoscimento della provvisionale si appaleserebbe, dunque, oltre che contraddittorio altresì in aperta violazione del disposto di cui all'art. 539 c.p.p., comma 2.
Quanto a Legambiente Volontariato (Omissis), Italia Nostra, WWF Italia e Residenti di (Omissis) il riconoscimento della provvisionale in base alla formula "si ritiene congrua" violerebbe pacificamente il disposto di cui all'art. 539 c.p.p., comma 2, non essendo per nulla enucleati i criteri di riferimento per detto calcolo.
Si lamenta che la Corte territoriale, nell'assecondare le quantificazioni del giudice di primo grado, nulla aggiunge sul punto se non che dette associazioni/enti sono legittimate a costituirsi parte civile - cosa che nessuno di fatto aveva formalmente contestato, anche nei rispettivi atti di appello - omettendo integralmente di motivare, adottando argomentazioni inconferenti e fuorvianti rispetto alla problematica oggetto di doglianza.
Tutti i ricorrenti chiedono, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
5. In data 28/6/2023 è stata presentata una memoria a firma dell'Avv. Salvatori Francesca per l'ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO (INAIL) con cui si chiede il rigetto dei ricorsi presentati dagli imputati.
Si evidenzia, in primo luogo che si tratta in gran parte di una riproposizione acritica dei motivi proposti nei precedenti gradi di giudizio, di fronte, peraltro, ad una doppia conforme affermazione di responsabilità, con forti profili di inammissibilità.
I giudici del gravame del merito - si legge nella memoria in esame - hanno già esaurientemente risposto alle eccezioni e questioni procedurali riproposte con i ricorsi.
Si pone l'accento sul fatto che la Corte territoriale ha esaminato l'attività di prelievo dei campioni, aventi ad oggetto materiati liquidi e solidi presenti nei silos e nelle vasche dell'impianto (Omissis)-Agri.bio.fert, e ha ritenuto che sia stata correttamente qualificata ai sensi dell'art. 354 c.p.p., per cui era legittimamente delegabile alla P.G. (cfr. note ARPAV (Omissis) del 7.11.2014 e dell'11.11.2014) ed è avvenuta secondo indicazioni fornite dallo stesso consulente Dott. U.U., che ha sempre condiviso dette attività materiali nel contraddittorio tra le parti (il richiamo è ai verbali di prelievo, elaborato CT) e che, a fronte delle obiezioni sollevate dal CT di parte ing. A.J. circa i campionamenti in esame, chiese di farsi rinviare le aliquote prelevate da ARPAV per effettuare nuovamente le analisi in contraddittorio, senza che l'offerta venisse accolta nè da questi, nè dagli altri consulenti di parte, con la conseguenza che gli imputati non possono lamentare oggi la violazione di un diritto al contraddittorio che hanno rinunciato ad esercitare nella sede consona, costituita dalle operazioni ex art. 360 c.p.p..
Si evidenzia che il fatto che i prelievi siano stati eseguiti nel corso della consulenza tecnica non li rende oggetto di valutazione discrezionale, rimanendo pur sempre nell'ambito dell'attività di accertamento ai sensi dell'art. 354 c.p.p., senza necessità delle garanzie di cui all'art. 360 c.p.p. laddove il contraddittorio risulti garantito in relazione all'attività di analisi, questa sì, qualificabile come attività di studio e di valutazione (viene richiamata la relazione del C.T. del PM, Dott. U.U. ove si legge: "Le attività di verifica sono avvenute tutte in contraddittorio con i periti nominati e, laddove non nominati, dando avviso alle difese, redigendo verbali condivisi per ogni operazione tecnica posta in essere, escluso l'esame dei documenti, messi a disposizione delle Parti assenti per tenerle informate delle attività svolte e dei risultati ottenuti").
Il difensore dell'INAIL sottolinea che la Corte territoriale ha comunque compiuto un arresto definitivo sul punto, poichè, verificato che le caratterizzazioni analitiche eseguite dal CT del P.M. che sono alla base delle sue conclusioni e che sono poi state utilizzate e riprese anche dai periti nominati dal Tribunale, hanno riguardato unicamente i campioni prelevati l'11.11.2014, ha definitivamente accertato che i prelievi effettuati nei giorni 31 ottobre, 6 e 10 novembre 2014 hanno avuto valore praticamente nullo, riguardando rifiuti estranei alla vasca D. Anche laddove i ricorrenti, in maniera congiunta, si dolgono del mancato avviso dell'accertamento irripetibile demandato al Dott. U.U. nei confronti di D.D. si riscontra secondo la Difesa dell'INAIL una sostanziale infondatezza che trova risposta concorde nelle pronunce di merito. Infatti dal momento che il conferimento dell'incarico al Dott. U.U. è avvenuto prima che venisse iscritto nel registro degli indagati il nome di D.D. (direttore tecnico delle due società e considerato uno dei vertici aziendali), il cui ruolo è emerso in un momento successivo rispetto alle figure dei coimputati, investiti della rappresentanza legale degli enti coinvolti, è stato correttamente ritenuto che nessun avviso gli fosse dovuto. Ciò perchè non è previsto, il diritto all'avviso in favore di chi, non indagato al momento del conferimento dell'incarico per l'espletamento di un accertamento tecnico non ripetibile, lo divenga successivamente, poichè la situazione della persona non ancora indagata non è paragonabile a quella del soggetto il cui nome è già iscritto nel relativo registro, e, comunque, l'esigenza di acquisire nel minor tempo possibile elementi indispensabili per lo sviluppo delle indagini ben può giustificare la mancata previsione dell'obbligo di avvisare persone solo successivamente indagate. E' stato peraltro posto in rilievo in sentenza che D.D. venne poi avvisato e che a tutte le operazioni ex art. 360 c.p.p. partecipò l'ing. A.J., consulente tecnico di diversi indagati, tra cui egli stesso.
In ordine al quarto motivo di ricorso con cui si lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva richiesta dalle parti a discarico, il difensore dell'INAIL evidenzia che, quanto all'audizione del c.t. di parte Y.Y., la Corte territoriale ha condiviso le osservazioni formulate dal P.G. a verbale di udienza e in memoria, ove si è opposto alla richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, formulata dai difensori, in quanto, da un lato "il dato tecnico espresso dai tabulati del traffico telefonico, rappresentativo della rilevazione del flusso di contatti telefonici tra gli imputati, costituisce una evidenza probatoria oggettiva e documentale, cosicchè non è dato comprendere come un consulente tecnico possa essere assunto a prova contraria".
Peraltro, si sottolinea nella memoria in esame che non può dubitarsi dell'attenzione prestata alla questione dai secondi giudici, i quali, richiamando il contenuto dell'ordinanza reiettiva del tribunale, hanno legittimamente ritenuto che la formulazione del capitolato di prova concernente l'esame di detto consulente menzionava, quale circostanza su cui deporre il "materiale informatico", locuzione da intendersi riferita ai contenuti di pc, cellulari e giammai ai dati del tracciamento della telefonia mobile acquisiti con decreti dell'autorità giudiziaria.
Le contestazioni di cui sopra, secondo sono esemplificative della modalità critica adottata dai ricorrenti nei confronti della sentenza impugnata, perchè segnalano il tentativo di demolire ogni singolo tassello con cui, scrupolosamente, la Corte veneziana ha costruito l'impianto decisorio e ciò al fine di pervenire ad una soluzione più favorevole agli imputati, rilevando un'inesistente serie di nullità volte a delegittimare l'istruzione dibattimentale, lamentando il suo mancato rinnovo in appello, a fronte di un istituto che, per giurisprudenza di legittimità consolidata, ha natura eccezionale.
Quanto al quinto motivo di ricorso per l'INAIL la censura replica fedelmente quelle già dedotte nei precedenti gradi di giudizio, senza peraltro nessuno sforzo di sintesi e di specificità, riportando pedissequamente argomenti a valenza principalmente fattuale, che nessun riscontro possono trovare nell'attuale sede.
Il giudice di seconde cure, infatti, anche su tali argomenti si è diffusamente profuso, con motivazione ampia e analitica esente da critiche, rispettosa delle norme che si assumono violate, in cui, aderendo a quanto stabilito in primo grado, dopo aver riscontrato la predisposizione di IDVR solo per la (Omissis) e non per Agri.bio.fert, ha in ogni caso preso atto anche della mancata previsione nel medesimo del rischio chimico.
Nella memoria si ricorda che il datore di lavoro e gli altri soggetti investiti della posizione di garanzia rispondono oltre che della violazione/omissione di misure di prevenzione e protezione, anche dell'aspetto costruttivo dell'impianto nonchè dell'impostazione del processo produttivo attraverso il quale si otteneva la produzione del cosiddetto gesso di defecazione all'interno dello stesso e ciò a prescindere dal profilo delle formali autorizzazioni concesse dalla Provincia alla gestione della vasca D), il cui rilascio giammai solleva il datore di lavoro dagli obblighi di protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori e ciò perchè le posizioni di garanzia dei diversi imputati, strettamente connesse tra loro, imponevano di attivarsi positivamente per organizzare l'attività lavorativa in modo sicuro, provvedendo ad eliminare il rischio dell'esposizione ai gas tossici sprigionati dalla nube che si formò a seguito della miscelazione dei componenti chimici all'interno della vasca D).
Proprio in virtù di tale posizione di garanzia per la Difesa dell'INAIL entrambi i giudici di merito hanno correttamente ascritto la responsabilità del sinistro mortale ai ricorrenti con l'individuazione dell'addebito colposo e della rilevanza causale di detto addebito rispetto alla verificazione dell'evento mortale, di tal che la sentenza gravata non offre spazi per poter recepire i diversi assunti difensivi.
La sentenza impugnata - si sottolinea nella memoria in esame - correttamente ravvisa la colpa dei ricorrenti e il conseguente nesso eziologico con l'evento dannoso nel non aver adottato le doverose misure tecniche ed organizzative per eliminare il rischio chimico, nel non aver predisposto il DVR o in modo adeguato, nell'omissione dell'appropriata formazione atta a prevenire le situazioni di rischio di emissioni pericolose, nel mancato rispetto dei principi di precauzione sulla costruzione dell'impianto.
Quanto al sesto motivo mesi evidenzia che i ricorrenti, da un lato, rimproverano al Collegio di non aver preso in sufficiente considerazione ai fini di un eventuale concorso di colpa la nomina del RSPP, ing. J.J., al quale spettava il compito di controllare il rispetto della "ricetta", ritenendo che la causa unica dell'incidente fosse da ricondurre alla reazione tra solfuri (la cui presenza prescinderebbe dalla ricetta) e acido solforico, sostanza la cui ricerca non era richiesta nè da una norma nè dai provvedimenti autorizzativi provinciali. Dall'altro, di avere ritenuto che i dispositivi di protezione fossero assenti, come pure gli attestati di formazione impartita ai lavoratori Q.Q. e H.H. che cercarono di fermare i lavoratori L.L. e M.M., di aver travisato, ancora un'ennesima volta, le risultanze dibattimentali omettendo di rilevare che l'idoneità della costruzione a cielo aperto e l'assenza di emissioni era stata certificata non dai vertici aziendali, ma attestata da professionisti esperti (i collaudatori Ing. A.X., Ing. A.K., i redattori della relazione Lab Control del 2012, Dott. B.A. e Dott. B.C.).
Secondo il difensore dell'INAIL, tuttavia, la doglianza, neppure in questo caso coglie nel segno, atteso che la Corte di appello, nel confermare la sentenza del Tribunale, ha sviluppato un percorso argomentativo privo di qualsivoglia illogicità, fondata sulle oggettive emergenze istruttorie, come tale, dunque, non censurabile.
Inappuntabile sarebbe il rilievo, in merito alla posizione del J.J., che: "La presenza di un RSPP (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) in (Omissis) non esonera dalla responsabilità, sotto il profilo soggettivo della colpa, i vertici di (Omissis) e Agri.bio.fert.. Anzitutto l'ing. J.J., responsabile della sicurezza per (Omissis) dal 2002, ha categoricamente escluso di essere stato designato con analogo incarico nella parallela struttura Agri.bio.fert e di avere, quindi, in tale veste potuto redigere alcun documento afferente la valutazione del rischio d'impresa. in secondo luogo, nei casi in cui, come quello di specie, il documento di valutazione del rischio non preveda specificamente un rischio, è obbligo del datore di lavoro, in concreto, adottare le idonee misure di sicurezza relative al rischio non contemplato, così sopperendo all'omessa previsione anticipata (cfr. sez. 4, n. 407512021 Paulicelli)".
Sulla importanza fondamentale del DVR viene richiamato l'insegnamento proveniente da Sez. U n. 38343/2014.
Merita condivisione per l'INAIL l'affermazione che si fa nella sentenza impugnata secondo cui: "Eventuali carenze, lacune, omissioni da parte Enti autorizzatori (a tal proposito si vedano i rilievi mossi dalla perizia Z.Z.-W.W. riguardo al mancato rispetto del principio di precauzione nel rilascio delle autorizzazioni da parte della Provincia di Rovigo) possono porsi in termini di concause, cause concorrenti equivalenti, non efficienti ad elidere in profili di colpa dell'agente...l'autorizzazione dell'Ente locale all'esercizio dell'insediamento industriale deputato alla produzione del cd correttivo non esonerava l'imprenditore, destinatario di tale autorizzazione e titolare di posizione di garanzia, dall'osservanza degli obblighi di prevenzione stabiliti dalla legge e dal dovere di attivarsi per ridurre e prevenire il rischio ditali eventi dannosi, nè l'autorizzazione della Provincia rappresenta fattore di elusione del decorso eziologico in caso di infortunio sul lavoro verificatosi a valle della procedura di autorizzazione, in conseguenza di specifiche gravi e plurime violazioni di disposizioni della normativa antinfortunistica oltre che delle prescrizioni dei provvedimenti di autorizzazione".
Peraltro gli argomenti fatti valere con la censura dedotta - prosegue l'INAIL - non considerano come sia stato processualmente accertato che il ciclo produttivo realizzato nello stabilimento per cui è processo fosse in concreto completamente difforme rispetto a quanto già autorizzato dalla Provincia, come dimostrato, inequivocabilmente, dalla consulenza tecnica disposta su incarico del P.M. e della perizia di ufficio, con riguardo alla perdurante mancata osservanza delle prescrizioni concernenti la fase esecutiva di produzione del gesso di defecazione, che aveva fatto sì che il ciclo produttivo del fertilizzante per l'agricoltura si era di fatto mutato in una indistinta attività di miscelazione di rifiuti.
Alla luce di ciò, l'aver introdotto rifiuti non previsti dalla normativa sui fertilizzanti di cui al D.Lgs. n. 75 del 2010 si sottolinea essere stato riconosciuto come un profilo di colpa generica addebitabile a A.A., D.D. e C.C. nel senso che, come chiarito dai periti Ing. W.W. e Z.Z., preso atto della non tassatività della previsione normativa e dello spazio interpretativo che ne residuava, è, sì, vero che non sussisteva un assoluto divieto di utilizzare fanghi da depurazione nella produzione del correttivo, ma il profilo di colpa in esame doveva essere riformulato nella meno radicale condotta di costruzione di un impianto che, proprio perchè utilizzava fanghi da depurazione, avrebbe dovuto essere realizzato con cautele di fatto non adottate. L'esistenza di tali cautele costruttive (impianto chiuso e non aperto, con sistemi di aspirazione e abbattimento emissioni) avrebbe consentito di contenere il rilascio in atmosfera di gas nocivi, eliminando i rischi sanitari per gli operatori e per la popolazione circostante.
La radicale difformità tra la concreta gestione del processo produttivo che aveva luogo nella vasca "D" e quello autorizzato sulla base della "ricetta" presentata da Agri.bio.fert agli Enti competenti costituisce - si legge ancora nella memoria in esame - l'altro profilo di colpa generica; inoltre non veniva effettuata alcuna analisi della massa di prodotto presente in vasca, prima dell'aggiunta di acido solforico, operazione indispensabile per determinare il quantitativo corretto del predetto acido da aggiungere; tale tema è stato espressamente devoluto all'attenzione dei periti Ing. W.W. e Z.Z. che, condividendo sul punto la c.t. del Dott. U.U. e le consulenze svolte su incarico delle parti civili, hanno concluso ritenendo che "le modalità di gestione della vasca D non fossero conformi al processo produttivo autorizzato, non rispecchiandone le finalità e la ricetta, e che l'attività condotta costituiva di fatto una mera miscelazione di rifiuti, finalizzata allo smaltimento illecito dei rifiuti tramite lo spandimento in agricoltura".
Quanto al settimo motivo, che il difensore individua quale ultimo per quanto di interesse dell'INAIL, con il quale gli imputati passano poi alla disamina del ruolo di ciascuno in base alla posizione di garanzia ricoperta con riferimento al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, viene sottolineato che la responsabilità dei ricorrenti è stata correttamente fatta discendere dal principio in forza del quale "in tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nelle società di capitali il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda, e quindi con i vertici dell'azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione, o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni" (Sez. 3, n. 12370/2005 Rv. 231076), con la conseguenza che "gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega validamente conferita della posizione di garanzia" (Sez. 4 n. 49402/2013 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la condanna per omicidio colposo dell'amministratore delegato di società da cui dipendeva il lavoratore deceduto per infortunio sul lavoro).
Rispetto al ruolo di B.B. che, a dire dei ricorrenti, non potrebbe essere considerata come datore di lavoro sotto il profilo della normativa antinfortunistica e della sicurezza del lavoro, in quanto, pur essendo membro del c.d.a. della (Omissis), non poteva essere ritenuta effettivamente esercente i poteri connessi alla titolarità di tale carica attesa la sua discontinua presenza negli uffici aziendali, viene ricordato come la Corte territoriale replichi in sentenza in modo chiaro e inequivocabile: "B.B. era presente con continuità negli uffici, come impiegata amministrativa, e dunque non solo quale membro del C.d.A. rivestiva formalmente la qualifica di datore di lavoro, destinataria degli obblighi di prevenzione infortuni secondo il D.Lgs. n. 81 del 2008, ma era effettivamente partecipe dell'attività aziendale, aveva anche lei la responsabilità dell'organizzazione dell'azienda in quanto esercitava poteri decisionali e di spesa" confermando il suo assunto con il richiamo a precedenti giurisprudenziali (Sez. 4 n. 8118/2017, Rv. 269133).
Peraltro, viene ricordato come sia stato accertato, senza che fosse revocato in dubbio dai ricorrenti stessi, che la gestione delle due società era un unicum inscindibile, una realtà gestionale unitaria che faceva capo alla linea gestionale e decisionale di (Omissis), con impiego diretto delle maestranze di (Omissis), essendo la Agri.bio.fert. priva di adeguata struttura aziendale e di risorse umane.
Analoga sorte - si legge nella memoria in esame - hanno le rimostranze fatte valere nei confronti della posizione di C.C., anch'esso amministratore unico e legale rappresentante di Agri.bio.fert. Correttivi Srl , qualifica formale di per sè sufficiente a ravvisare la posizione di garanzia, il quale non risulta esente da responsabilità, in quanto, contrariamente a quanto parte avversa ancora vorrebbe far credere, non un semplice prestanome privo di poteri decisionali e di spesa, ma soggetto ampiamente coinvolto nella gestione della società, che lavorava quotidianamente nell'impianto e si rapportava con altri dipendenti Agri.bio.fert e (Omissis), nonchè con soggetti esterni e per il quale valgono le stesse argomentazioni spese per gli altri vertici aziendali trattati.
Per D.D. direttore tecnico della ditta (Omissis) e dirigente di fatto ai sensi dell'art. 299 in riferimento al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma lett. d) di entrambe le società, ricorda il difensore dell'INAIL come le testimonianze dei dipendenti, dei fornitori, nonchè degli abitanti limitrofi hanno dimostrato che fosse uno dei titolari dell'azienda e che questi fosse stato validamente incaricato da C.C. allo svolgimento delle pratiche tecniche attraverso deleghe in bianco che gli conferivano estesi poteri gestori nonchè di rappresentanza in "tutte le pratiche tecniche, logistiche e amministrative necessarie per il sostegno dell'azienda" e ciò anche dopo il suo trasferimento in Romania.
Ne consegue - si fa rilevare - la possibile coesistenza, all'interno della medesima compagine societaria, di più figure aventi tutte la qualifica di datore di lavoro prevenzionale, su cui incombe l'onere di valutare i rischi per la sicurezza, di individuare le necessarie misure di prevenzione e di controllare l'esatto adempimento degli obblighi di sicurezza, con la conseguente, necessaria conferma delle statuizioni civili nei loro reciproci confronti.
Per quanto sopra esposto viene chiesto nell'interesse dell'INAIL di rigettare il ricorso per cassazione proposto, confermare la sentenza di appello e accogliere le conclusioni che vengono depositate contestualmente alla memoria, con la condanna degli imputati, alla rifusione delle spese, competenze ed onorari di giudizio, sostenute, come da separata nota che pure viene depositata.
6. In data 5/7/2023, con due separati atti, sono state presentate due memorie dall'identico contenuto, l'una a firma degli Avv. Marcello Carmelo, difensore e procuratore speciale delle parti civili B.D., B.E., B.F., B.G. e B.H. e l'altra a firma dell'Avv. Guasti Cristina, difensore e procuratore speciale delle parti civili ITALIA NOSTRA ONLUS, e di B.I., B.L., B.M., B.N. e B.O. e dell'Avv. Ceruti Matteo, difensore e procuratore speciale, delle parti civili LEGAMBIENTE VOLONTARIATO VENETO ONLUS, WWF ITALIA ONLUS e di B.P., B.Q., B.R., B.S., B.T. e B.U..
Con le memorie in questione, in particolare, sul quarto motivo di ricorso di E.E. (ricorso a firma Avv. Munari Pierfrancesco) si evidenzia che la difesa dell'imputata deduce difetto motivazionale con riferimento specifico ai "residenti di (Omissis)".
Si sostiene che il motivo, oltre che essere assolutamente generico nella sua formulazione, non merita accoglimento anche per altre ragioni. Ciò in quanto il ricorrente lamenta il difetto di motivazione e l'uso da parte della Corte territoriale di argomentazioni inconferenti e fuorvianti. Inoltre, il riconoscimento della provvisionale in base alla formula "si ritiene congrua" violerebbe pacificamente il disposto di cui all'art. 539 c.p.p., comma 2, non essendo per nulla enucleati i criteri di riferimento per detto calcolo.
Viene, però, posto in rilievo che, al di là del richiamo generico al presunto difetto di motivazione e all'art. 539 c.p.p., comma 2, l'esplicitazione del motivo di ricorso non contiene alcuna indicazione specifica del vizio giuridico lamentato. Sotto questo profilo, pertanto, il motivo di ricorso appare ictu oculi inammissibile in quanto privo della necessaria specificità.
Emerge, infatti, con chiarezza, che il ricorrente, con l'esplicitazione del quarto motivo di ricorso, non si confronta adeguatamente con il testo del provvedimento impugnato, limitandosi a dedurre un vizio di legittimità che prescinde completamente dalle motivazioni della sentenza d'appello senza formulare una critica puntuale del percorso argomentativo con il quale la Corte d'Appello è pervenuta alla quantificazione della provvisionale.
In ogni caso, si sottolinea che nella valutazione del predetto motivo, non può prescindersi dalla considerazione secondo cui, alla luce del principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità "non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata" (così, in motivazione, Sez. 1 n. 860/2020; Sez. 6 n. 49554/2018; Sez. 3, n. 18663/2015).
Sul terzo motivo di ricorso di F.F. (ricorso a firma dell'Avv. Pelà Claudia) si evidenzia che, con tale censura, riferita esplicitamente al reato di cui all'art. 674 c.p. (ovvero al capo DD dell'imputazione, prescritto) in relazione al quale sono costituite le parti civili, il ricorrente sostiene che "laddove a risponderne sia una società, e non una persona fisica, detta imputazione andrà elevata nei confronti del legale rappresentante della società, del titolare dell'impianto o delle autorizzazioni cui l'emissione si riferisce" (così a pag. 35 del ricorso). Pertanto, non ricoprendo il F.F. alcuna di queste cariche, si sostiene che nulla poteva essergli imputato a titolo di emissioni odorigene moleste.
Secondo la prospettazione del ricorrente, dunque, entrambi i giudici di merito sarebbero caduti in errore quando hanno applicato l'art. 674 c.p. anche a F.F..
Orbene, si sostiene nelle depositate note che, al di là del fatto che tale motivo di ricorso appare anzitutto inammissibile, involgendo questioni di merito quali quelle sulle qualifiche e sui ruoli degli imputati all'interno dell'impianto (Omissis)-Agri.bio.fert., oltre a presupporre una valutazione fattuale circa il contributo dato da ciascuno di essi alla realizzazione dell'evento con una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sia sufficiente rilevare quanto segue.
Viene ricordato che la classificazione dogmatica reato comune-reato proprio riposa su di una valutazione effettuata "a monte" dal legislatore quando, nell'ambito delle scelte di politica criminale che gli competono, decide se la rilevanza penale di un fatto dipende o meno dal possesso di determinate qualifiche soggettive (giuridiche, naturalistiche etc.) in capo al suo autore.
Tradizionalmente, l'utilizzo del pronome indefinito "chiunque" nel precetto della norma incriminatrice sottende la chiara volontà del legislatore di punire qualsiasi individuo che ponga in essere la fattispecie tipica. Diversamente, quando intende attribuire rilievo al possesso di talune qualifiche soggettive, il legislatore lo esplicita chiaramente o, comunque, inserisce degli elementi testuali nella disposizione di legge che rendono chiara la volontà di circoscrivere il novero dei possibili autori del reato soltanto a determinate categorie di soggetti.
In definitiva, è la legge - e non il contesto in cui questa deve essere applicata - che connota il reato come comune oppure come reato proprio.
Per tali ragioni, si sostiene che non appaia meritevole di accoglimento l'argomentazione difensiva secondo cui "è chiaro che il carattere di reato comune rileva in relazione alla sua generale applicazione ma, laddove ci si riferisca ad una emissione aziendale, ovvero proveniente da un'attività produttiva, dovrà esserne chiamato a risponderne il titolare di detta attività, e non certo i suoi dipendenti" (cfr. ibidem).
Ora, poichè l'art. 674 c.p. punisce "chiunque" provoca emissioni di gas e nel precetto non si rinvengono elementi testuali che richiedono il possesso di determinate qualifiche soggettive in capo al soggetto agente, per i difensori delle pp.cc. sopraindicate si deve concludere che la fattispecie in questione rappresenta una classica ipotesi di reato comune.
Tale interpretazione, si legge nelle note in esame, peraltro coincide con quella offerta dalla più autorevole dottrina e dalla giurisprudenza costante. Perciò, i giudici di merito non sono incorsi in alcuna inosservanza od erronea applicazione dell'art. 674 c.p. riguardo alla posizione di F.F..
Anche in relazione a questo motivo di ricorso, dunque, si chiede declaratoria di inammissibilità o, comunque, di rigetto agli effetti civili per infondatezza del motivo.
Alla luce di tali argomentazioni si chiede che i proposti ricorsi vengano dichiarati inammissibile, ovvero rigettati agli effetti civili, con rifusione delle ulteriori spese legali del presente grado nella misura che verrà ritenuta di giustizia.
7. In data 6/7/2023 sono state depositate conclusioni scritte dall'Avv. Passadore Sandra del Foro di Rovigo quale difensore e procuratore speciale della costituita parte civile O.O., che ha chiesto rigettarsi i proposti ricorsi, con la conseguente conferma della sentenza impugnata e delle relative statuizioni civili, con rifusione delle spese di lite secondo i parametri di legge.
Le parti hanno concluso in pubblica udienza come riportato in epigrafe.
Motivi della decisione
1. In premessa, va rilevato che appare fondata la doglianza proposta nell'interesse di C.C. quanto al fatto che nel dispositivo della sentenza impugnata manchi in relazione a tale imputato la dichiarazione di estinzione per prescrizione delle contravvenzioni di cui ai capi F) e G) per le quali era stato condannato in primo grado; nè l'omissione è stata sanata con il decreto di correzione in calce al dispositivo di cui a pagina 111.
E' pacifico che alla data della sentenza (7/3/2022) anche i reati contestati in tali capi fossero prescritti, essendo stata, peraltro, la prescrizione in relazione agli stessi dichiarata per i coimputati A.A., B.B. e E.E..
Si tratta, con tutta evidenza, di un mero errore materiale, che può essere direttamente emendato dalla Corte di legittimità, in quanto, peraltro, ai fini della rideterminazione della pena, la Corte territoriale - come si legge a pag. 93 della sentenza impugnata - ha considerato la sola pena per il reato di cui al capo AA. 2. In ragione della non manifesta infondatezza dei motivi va poi preso atto, quanto all'imputazione di lesioni personali colpose gravissime in danno di O.O. che il termine massimo di prescrizione di tale reato è spirato il 25/9/2022.
Ciò pur dovendosi tenere conto (cfr. pag. 3 della sentenza di primo grado) di 155 giorni di sospensione della prescrizione.
Diversamente che per il reato di omicidio colposo con violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza del lavoro, per il reato di lesioni colpose non è previsto dall'art. 157 c.p., comma 6 il raddoppio dei termini di prescrizione.
In proposito va qui ribadito che, in tema di omicidio co poso, la fattispecie disciplinata dall'art. 589 c.p., u.c. (morte di più persone, ovvero morte di una o più persone e lesioni di una o più persone) non costituisce un'autonoma figura di reato complesso, nè dà luogo alla previsione di circostanza aggravante rispetto al reato previsto dall'art. 589 c.p., comma 1, ma prevede un'ipotesi di concorso formale di reati, unificati solo quoad poenam, con la conseguenza che ogni fattispecie di reato conserva la propria autonomia e distinzione (cfr. ex multis Sez. 4, n. 20340 del 7/3/2017, Monnet, Rv. 270167; conf. Sez. 4, n. 35805 del 15/6/2011, Sinuelli, Rv. 251106). In ragione di ciò il termine di prescrizione del reato va computato con riferimento a ciascun evento di morte o di lesioni, dal momento in cui ciascuno di essi si è verificato (Sez. 4, n. 36024 del 3/6/2015, Del Papa, Rv. 264408).
La sentenza impugnata va perciò annullata senza rinvio sul punto limitatamente ai soli imputati A.A., D.D., C.C. e F.F. in quanto per le imputate E.E. e B.B., come si dirà in seguito, la sentenza viene annullata in toto in punto di motivazione sull'affermazione di responsabilità e dell'intervenuta prescrizione delle lesioni colpose prenderà atto il giudice del rinvio qualora dovesse pervenire per le stesse ad un'affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo AA).
Per i quattro imputati sopra indicati, in assenza nella sentenza impugnata dell'indicazione della parte di pena da imputare alle lesioni in danno di O.O., sarà il giudice del rinvio, da individuarsi in altra Sezione della Corte di Appello di Venezia, a rideterminare il trattamento sanzionatorio in ragione dell'intervenuta prescrizione del reato di lesioni colpose.
3. Sempre in premessa, va rilevato, quanto alla denunzia di violazione dell'art. 192 c.p.p. di cui al primo e al settimo motivo di ricorso nell'interesse di F.F. che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, cui il Collegio aderisce, poichè la mancata osservanza di una norma processuale intanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nudità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell'art. 192 c.p.p., la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata" (così questa Sez. 4, n. 51525 del 4/10/2018, M., Rv. 274191; in conformità v., già in precedenza, Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567; Sez. 6, n. 7336 del 8/1/2004, Meta ed altro, Rv. 229159-01; Sez. 1, n. 9392 del 21/05/1993, Germanotta, Rv. 195306; più recentemente, v. Sez. 6, n. 4119 de 3C/05/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni Spa Rv. 278196).
Inoltre, con riferimento al primo motivo del ricorso di F.F., va osservato che la denuncia di violazione di norme costituzionali o di norme CEDU non integra un caso di ricorso per cassazione a norma dell'art. 606 lett. b) c.p.p., ma legittima la proposizione della questione di legittimità costituzionale (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261551). Il che non è avvenuto nel caso in esame.
Il principio che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con l quale si deduce la violazione di norme della Costituzione o della CEDU, poichè la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall'art. 606 c.p.p. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale è stato anche ribadito di recente (Sez. 2, n. 12623 del 13/12/2019 dep. 2020, Leone, Rv. 279059 che ha sottolineato, quanto alla censura riguardante la presunta violazione della CEDU, che le sue norme, per come interpretate dalla Corte EDU, rivestono il rango di fonti interposte integratrici del precetto di cui all'art. 117 Cost., comma 1 sempre che siano conformi alla Costituzione e compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti).
4. I ricorsi proposti da A.A., D.D., C.C. e F.F., fatta salva la presa d'atto dell'intervenuta prescrizione del reato di lesioni colpose di cui si è detto al p. 2. vanno invece rigettati nel resto, in quanto i motivi sopra illustrati appaiono infondati.
Le censure dei ricorrenti, invero, si sostanziano, per lo più, nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito.
Per contro, l'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.
Va evidenziato che vi è una circostanza di fatto non in contestazione, sulla quale gli odierni ricorrenti non hanno mosso rilievi in fatto al giudice del gravame del merito, che è quella relativa alla ricostruzione dell'incidente mortale - di cui si è dato atto in premessa- ed alla individuazione della causa dello stesso nell'emissione massiccia di una nube di acido solfidrico, prodotta dalla reazione chimica tra le 28 tonnellate di acido solforico versate nella "vasca D" ed i solfuri in essa presenti.
Sul punto, invero, come ricorda la sentenza impugnata, sostanzialmente condivise sono state nel corso del processo di primo grado le valutazioni dei consulenti tecnici, nominati dal P.M. e dalle parti civili, che hanno trovato ulteriore conferma negli accertamenti peritali svolti dall'ing. Z.Z. e ing. W.W., incaricati dal Tribunale.
In merito alla ricostruzione dell'evento mortale e del nesso causale le doglianze formulate dagli imputati, riguardano essenzialmente vizi attinenti alla procedura di campionamento ed allo svolgimento delle analisi, avendo dedotto, come si dirà di qui a poco, nullità processuali che si sarebbero riverberate sulla nullità degli esiti delle consulenze tecniche svolte su incarico dei P.M. e sulla perizia svolta per conto del Tribunale.
Quanto, invece, alla difformità tra la concreta gestione del processo produttivo che aveva luogo nella vasca D e quello autorizzato sulla base della "ricetta" presentata da Agri.bio.fert agli Enti competenti circostanza che il primo giudice indica come incontestata anche dagli imputativi sono state, come si dirà, diverse contestazioni.
In realtà, sostanzialmente incontestato è anche, come si legge a pag. 76 del provvedimento impugnato che "la gestione delle due società era un unicum inscindibile, una realtà gestionale unitaria che faceva capo alla linea gestionale e decisionale di (Omissis), con impiego diretto delle maestranze di (Omissis), essendo la Agri.bio.fert. priva di adeguata struttura aziendale e di risorse umane".
5. Orbene, passando ad esaminare nello specifico i motivi proposti, va rilevato che le doglianze di natura procedurale, riproposte in realtà anche quelle senza un reale confronto critico con la sentenza impugnata, si palesano infondate.
Ed invero, la Corte territoriale, con motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto - e che, pertanto, si sottrae alle proposte censure di legittimità - ha motivatamente confutato le doglianze proposta nell'interesse di A.A., C.C. e D.D. relative alle ordinanze con cui il giudice di primo grado, il 22/2/2017 e il 10/1/2018, aveva rigettato le contestazioni: a. sulla nullità dei campionamenti eseguiti il 23/9/2014 e delle conseguenti analisi; b. sulla nullità e/o inutilizzabilità dei campionamenti dei giorni 31/1/2014, 6/11/2014 e 10/11/2014 e delle conseguenti analisi, vizio che comprometterebbe la validità e la utilizzabilità della consulenza ex art. 360 c.p.p. affidata dai PM ai Dott. U.U., ed altresì della perizia degli ingg. Z.Z. e W.W.; c. sulla nullità e/o inutilizzabilità della consulenza ex art. 360 c.p.p. nei confronti di D.D. laddove in data 16/10/2014 il Pubblico Ministero avvisava D.D. e F.F. delle operazioni peritali invitandoli a partecipare, ma il difensore d'ufficio del D.D., avv. Tessarin Cecilia, eccepiva tempestivamente l'omessa notifica all'indagato; ciononostante, le operazioni peritali sarebbero proseguite ugualmente, ma con un vizio che comprometterebbe la validità e la utilizzabilità della consulenza ex art. 360 c.p.p. e la perizia degli Ingg. Z.Z. e W.W., nonchè la loro utilizzabilità nei confronti dell'imputato D.D..
Rilevano i giudici del gravame del merito, quanto ai campionamenti eseguiti il 23/9/2014 ed alle conseguenti analisi, essere condivisibile l'osservazione del primo giudice circa l'irrilevanza della questione di nullità proposta. Ciò in quanto sull'esatta determinazione quali-quantitativa e sulla composizione della sostanza (28 tonnellate di acido solforico al 63%) costituente il carico di carro-botte condotta la mattina del 22.9.2014 all'interno del complesso aziendale (Omissis)-Agri.bio.fert che effettuò lo scarico in vasca D - prescindendo dalla ritualità, contestata dalla difesa, della campionatura effettuata il 23/9/2014 - sono risultate dirimenti le dichiarazioni del produttore, dei testimoni ed i dati della documentazione di corredo all'ordinativo della merce ed al trasporto del carico, tutte prove testimoniali e documentali convergenti su di un dato tecnico, rispetto al quale è del tutto irrilevante l'analisi condotta nelle primissime indagini svolte.
Di fatto, pertanto, la Corte territoriale dà conto di aver realizzato su punto una sorta di test di resistenza, pervenendo alla conclusione che il dato desumibile da quel campionamento contestato è ampiamente provato aliunde.
Sull'altra questione, della inutilizzabilità delle operazioni di prelievo/campionamento, successive al 23/9/2014, per mancato avviso ai difensori, osserva anzi tutto la Corte territoriale che la censura dedotta non introduceva in quella sede e di fatto non lo fa neanche in questa - elementi critici specifici rispetto a quanto è emerso dall'istruttoria dibattimentale, ossia al fatto che le parti ed i rispettivi difensori fossero stati avvertiti, sia pure informalmente, tramite i Carabinieri di Adria, delle singole scansioni in cui sono state ripartite le operazioni tecniche, come indicato nei verbali dell'ARPAV, non contraddetti dalla deposizione del capitano B.V., che a distanza di anni ha semplicemente detto di non avere un ricordo preciso.
Viene ricordato in sentenza che in data 9/10/2014 il PM conferì ai sensi dell'art. 360 c.p.p. al consulente tecnico Dott. U.U. l'incarico di analizzare la documentazione raccolta e gli atti di indagine, nonchè di effettuare verifiche sul campo per ricostruire la dinamica dell'infortunio e le condizioni che avevano dato origine alla nube tossica responsabile della morte dei quattro operai di (Omissis) e del ferimento del quinto, oltrechè di valutare la gestione dei rifiuti operata nell'impianto in esame e la conformità o meno dei processi alle autorizzazioni rilasciate; chiese, infine, al consulente di verificare la presenza di idonei sistemi di salvaguardia ambientale e la predisposizione di adeguate misure di autocontrollo delle matrici ambientali.
Nell'ambito di tale incarico - si legge ancora in sentenza - venivano effettuati numerosi prelievi/campionamenti ed analisi di materiali contenuti nelle vasche e nei silos dell'impianto. I campionamenti -scrive il consulente nel suo elaborato sulla base del protocollo stabilito, sono stati effettuati da tecnici dell'ARPAV distretto di (Omissis), previo avviso alle parti.
I giudici del gravarne del merito, con motivazione che si palesa immune da censure in punto di diritto, ritengono corretta l'affermazione del Tribunale, secondo cui i prelievi in questione sono da qualificarsi come rilievi tecnici, da inquadrare a sensi dell'art. 354 c.p.p., e non accertamenti tecnici ai sensi degli artt. 359 e 360 c.p.p., i quali implicano necessità di un'attività di carattere valutativo su base tecnico-scientifica, ed impongono -solamente questi e diversa mente dai rilievi tecnici - il rispetto del contraddittorio e delle correlate garanzie di difesa.
Conferente in proposito appare il richiamo, già operato anche dal giudice di primo grado, alla giurisprudenza di legittimità che distingue, tipicamente nella sovrapponibile situazione di accertamenti tecnici irripetibili in materia di DNA, l'attività di prelievo, qualificandola come mero rilievo tecnico che "può avvenire anche in assenza del difensore, ciò in ragione della specifica e limitata finalità dell'atto di prelievo, che non implica speciali competenze tecniche comportanti l'esigenza osservare precise garanzie difensive", da quelle di estrapolazione/analisi del profilo genetico - irripetibile solo laddove per il quantitativo scarso del campione, quest'ultimo sia destinato ad essere esaurito dall'attività di analisi - e infine quella di comparazione e valutazione dei risultati - mai irripetibile; mentre il rilievo tecnico consiste nell'attività di raccolta di elementi attinenti al reato per il quale si procede, l'accertamento tecnico, ripetibile o irripetibile, si estende al loro studio e alla loro valutazione critica, secondo canoni tecnici, scientifici ed ermeneutici e solo questa seconda, più delicata e complessa ed opinabile attività, richiede il rispetto delle precise garanzie difensive dettate in tema di accertamento tecnico (il richiamo è a Sez. 3, n. 25426 del 1/7/2015, dep. 2016, D'A., Rv. 267097; conf. Sez. 5, n. 12800 del 7/2/2017, Lagioia, Rv. 269719).
Come ricorda la Corte territoriale, in altra condivisibile pronuncia di legittimità (Sez. 1, n. 2443 del 13/11/2007, dep. 2008, Pannone, Rv. 239101) si è affermato che, in tema di indagini preliminari, la nozione di accertamento tecnico concerne non l'attività di raccolta o di prelievo dei dati pertinenti al reato (nel caso di specie, il prelievo di un campione biologico), priva di alcun carattere di invasività" bensì soltanto il loro studio e la loro valutazione critica.
Così è stato ritenuto che il prelievo di un campione di olio minerale denaturato rientri nella previsione dell'art. 354 c.p.p., risolvendosi in un'attività materiale che non postula il rispetto delle formalità prescritte dall'art. 360 c.p.p., sia perchè non richiede alcuna discrezionalità per il suo compimento, sia perchè attiene ad un oggetto la cui intrinseca consistenza è suscettibile di verifica in ogni momento (così la richiamata Sez. 3, n. 15826 del 26/11/2014, dep. 2015, Guerrieri, Rv. 263059-4). E, ancora, è stato ritenuto che l'attività di misurazione di molluschi, mediante un calibro metallico a scorsoio, rientri nella previsione dell'art. 354 c.p.p. risolvendosi in un'attività materiale di lettura, raccolta e conservazione dei dati che non postula il rispetto delle formalità prescritte dagli artt. 359 e 360 c.p.p., non richiedendo alcuna discrezionalità o preparazione tecnica per la loro valutazione (Sez. 3, n. 38087 del 2/7/2009, Cinti, Rv. 244928. Fattispecie di abusiva detenzione per la vendita di un consistente quantitativo di novellame di vongole lupini, oggetto di misurazione da parte della P.G.).
La Corte territoriale, conferentemente, richiama, infine, la recente Sez. 5, n. 15623 del 9/2/2021, Giangrande, Rv. 280907, che, in materiale di prelievo ed esaltazione delle impronte digitali, ribadisce che le attività di individuazione e levamento delle impronte dattiloscopico-papillari assumono carattere di operazioni urgenti non ripetibili, ricomprese nella disciplina di cui all'art. 354 c.p.p., affermando che l'attività operativa di prelievo di campioni, pur connotandosi talvolta per l'adozione di tecniche elaborate, rimane pur sempre nell'ambito della fase di prelievo e messa in sicurezza del reperto, attività che non è coperta dalle garanzie procedimentali previste dagli artt. 359 e 360 c.p.p., da riferirsi all'analisi ed all'accertamento del reperto.
La Difesa richiama i dicta di Sez. 3, n. 36626 del 10/07/2019, Piccirillo, Rv. 277665 relativo ad una fattispecie, in materia di scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura e di Sez. 3, n. 10211 del 20/11/2020, Zonca, n. m., in una pronuncia relativa ad analisi effettuate su un campione di prodotto ittico prelevato in uno stabilimento che, diversamente da quanto si opina in ricorso, non smentiscono l'assunto della sentenza impugnata.
Ciò in quanto, nei casi analizzati dalla Corte di legittimità nel 2019 e nel 2020; si trattava di analisi sui campioni e non del campionamento.
Peraltro, la sentenza impugnata ricorda correttamente che avviso all'interessato del giorno, dell'ora e del luogo di effettuazione delle analisi di campioni può essere dato anche oralmente, non essendo prescritto per tale adempimento l'utilizzo di alcuna forma specifica, nè deve intercorrere alcun termine minimo tra il prelievo del campione e le successive analisi, solo essendo necessario un lasso di tempo sufficiente a consentire all'interessato la possibilità di ottenere l'eventuale assistenza di un consulente tecnico (così la già richiamata Sez. 3, n. 36626 del 10/07/2019, Piccirillo, Rv. 277665).
Facendo corretta applicazione dei principi di diritto sopra richiamati, a Corte veneziana dà atto che, nel caso in esame, l'attività di prelievo dei campioni, aventi ad oggetto materiali liquidi e solidi presenti nei silos e nelle vasche dell'impianto (Omissis)-Agri.bio.fert, correttamente qualificata ai sensi dell'art. 354 c.p.p., era legittimamente delegabile alla P.G. (il richiamo è alle note dell'ARPAV (Omissis) del 7/11/2014 e dell'11.11.2014), ed è avvenuta secondo indicazioni fornite dallo stesso consulente Dott. U.U., che ha sempre condiviso dette attività materiali nel contraddittorio tra le parti.
I giudici del gravame del merito danno anche atto che il consulente U.U. ha dichiarato di avere proposto, a fronte delle obiezioni sollevate dal CT di parte ing. A.J. circa i campionamenti in esame, di farsi reinviare le aliquote prelevate da ARPAV per effettuare nuovamente le analisi in contraddittorio, ma che l'offerta non è stata raccolta dal CT ing. A.J., nè dagli altri consulenti di parte.
Logico, pertanto, appare il rilievo che la Difesa non può lamentare oggi la violazione di un diritto al contraddittorio che ha rinunciato ad esercitare nella sede propria, costituita dalle operazioni ex art. 360 c.p.p..
E corretta appare anche la considerazione che si legge in sentenza seconde cui il fatto che i prelievi siano stati eseguito nel corso della consulenza tecnica, non è ragione che li renda oggetto di valutazione discrezionale, rimanendo pur sempre attività di accertamento ai sensi dell'art, 354 c.p.p., senza necessità delle garanzie di cui all'art. 360 c.p.p. laddove il contraddittorio risulti garantito in relazione all'attività di analisi, questa sì qualificabile come attività di studio e di valutazione. E sul punto - si legge nella sentenza impugnata - si esprime nettamente il c.t. del PM, Dott. U.U., nella propria relazione, a pag. 175, laddove afferma che "le attività di verifica sono avvenute tutte in contraddittorio coni periti nominati e, laddove non nominati, dando avviso alle difese, redigendo verbali condivisi per ogni operazione tecnica posta in essere, escluso l'esame dei documenti, messi a disposizione delle parti assenti per tenerle informate delle attività svolte e dei risultati ottenuti".
Rilievo risolutivo ha in ogni caso per i giudici del gravame del merito la considerazione che le caratterizzazioni analitiche eseguite dal c.t. del P.M., che sono alla base delle sue conclusioni e che sono poi state utilizzate e riprese anche dai periti nominati dal tribunale, hanno riguardato solo e soltanto i campioni prelevati nel corso delle attività del giorno 11/11/2014 e di cui al relativo verbale, "operazioni eseguite in contraddittorio ed alla presenza dei componenti del collegio cc.tt." (così attesta la relazione del Dott. U.U.)" laddove i prelievi effettuati nei giorni 31 ottobre, 6 e 10 novembre 2014 hanno avuto valore praticamente nullo, riguardando rifiuti estranei alla vasca D. In punto di diritto, sempre in relazione agli avvisi da dare alle difese, corretto appare l'affermazione che si legge nella sentenza impugnata secondo cui l'esecuzione di rilievi tecnici, fra cui il prelievo di campioni, può essere delegata dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 370 c.p.p., alla polizia giudiziaria.
Ciò in quanto l'art. 114 disp. att. c.p.p., secondo cui nel procedere al compimento degli atti indicati dall'art. 356 c.p.p., la polizia giudiziaria avverte la parte che può farsi assistere dal difensore di fiducia, trova applicazione, esclusivamente per gli atti di polizia giudiziaria compiuti di iniziativa ai sensi dell'art. 356 c.p.p., in considerazione della vocazione probatoria di questi ultimi e della conseguente necessità di controllo della regolarità dell'operato della p.g., ma non nella attività di p.g. delegata.
Tale affermazione si colloca nel solco del richiamato dictum di Sez. U. n. 15453 del 29/1/2016, Giudici, sulla scorta del fatto che la polizia giudiziaria, diversamente dal pubblico ministero, è sottoposta al potere esecutivo; di qui la previsione di cui all'art. 114 disp. att. c.p.p., che invece non si applica all'esecuzione dei rilievi tecnici delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 370 c.p.p. (cfr. anche Sez. 3, dell'11/2/2021 n. 10400). La Sez. 1, ancora, nella sentenza n. 12025 del 20/01/2021, afferma che l'obbligo di dare avviso all'indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, previsto dagli artt. 356 e 364 c.p.p. e art. 114 disp. att. c.p.p. per il sequestro probatorio, non trova applicazione nella diversa ipotesi di sequestro preventivo, poichè mentre il primo è atto di indagine per il quale, al momento della sua esecuzione, è necessario l'eventuale presidio della garanzia difensiva, il secondo ha natura di misura cautelare ed è atto disposto dal giudice quale soggetto processuale neutrale.
La Corte territoriale ha anche motivatamente confutato, ritenendolo correttamente del tutto improprio ed eccentrico rispetto al tema in esame, il richiamo difensivo agli artt. 220 e 223 norme coord. c.p.p., dove si prevede che "qualora nel corso di attività ispettive previste da leggi o decreti si debbano eseguire analisi di campioni, è dato, anche oralmente, avviso all'interessato del giorno, dell'ora e del luogo in cui le analisi verranno effettuate". Ciò sul corretto rilievo che si tratta di regolamento delle modalità di analisi di campioni da effettuarsi nel corso di attività amministrative, a presidio dell'esito delle analisi, laddove invece nella fattispecie concreta i prelievi e le conseguenti caratterizzazioni vennero effettuate nella sede propria del procedimento penale, in esecuzione dell'incarico conferito dal pubblico ministero al proprio consulente.
Che l'attività di analisi dei campioni, svolta dal c.t. del P.M., abbia avuto carattere di irripetibilità - si legge in sentenza - risulta dalla veste formale del decreto di conferimento dell'incarico, emesso ai sensi dell'art. 360 c.p.p..
Tuttavia, alla luce degli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità (il richiamo è a Sez. 1, n. 18246/2015) la natura irripetibile di un accertamento tecnico conferito ad un consulente dipenderà non tanto dalle forme e diciture del provvedimento dell'autorità giudiziaria che lo conferisce, quanto piuttosto dalla sopravvivenza di parte adeguata dei campioni che non siano stati interamente consumati nell'analisi, il cui residuo possa essere destinato a caratterizzazione ripetuta.
Ebbene, altro dato che appare dirimente - come si ricorda nella sentenza impugnata - è che nel procedimento penale in esame, dalla consultazione dei verbali in atti emerge che in sede di campionamento, i materiali prelevati vennero suddivisi in campioni ed al contempo anche in plurime aliquote di contro campioni, per quantitativi stimabili in decine di litri di sostanza organica liquida, quindi eccedenti le esigenze di una singola analisi, contro campioni che vennero inviati a vari organismi tecnici per la loro conservazione. Dunque, in qualunque momento, riesaminabili dalle parti.
6. I giudici del gravame del merito hanno già argomentatamente confutato anche l'eccezione di inutilizzabilità nei confronti dell'imputato D.D. dell'accertamento irripetibile demandato ex art. 360 c.p.p. al Dott. U.U., per non avere ricevuto il predetto imputato i rituali avvisi.
Ciò sul rilievo, già operato dal primo giudice, che il conferimento dell'incarico al Dott. U.U. è avvenuto prima che venisse iscritto nel registro degli indagati il nome di D.D., il cui ruolo è emerso in un momento successivo rispetto alle figure dei coimputati, che ricoprivano ruoli formali di rappresentanza legale degli enti coinvolti. Con la conseguenza che nessun avviso gli era dovuto, come chiarito dalla Corte di legittimità laddove ha affermato che non è previsto, invero "il diritto all'avviso in favore di chi, non indagato al momento del conferimento dell'incarico per l'espletamento di un accertamento tecnico non ripetibile, lo divenga successivamente, poichè la situazione della persona non ancora indagata non è paragonabile a quella del soggetto il cui nome è già iscritto nel relativo registro, e comunque l'esigenza di acquisire nel minor tempo possibile elementi indispensabili per lo sviluppo delle indagini ben può giustificare la mancata previsione dell'obbligo di avvisare persone solo successivamente indagate e tale disciplina è stata ritenuta esente da profili di incostituzionalità" (così la richiamata Sez. 4, n. 15553 del 05/12/2007, dep. 2008, Rv. 239731).
Come ricordano i giudici del gravame del merito D.D., inoltre, non solo venne poi avvisato, ma a tutte le operazioni ex art. 360 c.p.p. partecipò l'ing. A.J., consulente tecnico di diversi indagati, tra cui anche di D.D..
7. La Corte territoriale si è anche confrontata criticamente con il tema, reintrodotto tout court in questo giudizio di legittimità, con cui si censurava l'ordinanza del tribunale del 3/4/2019 che non aveva ammesso l'esame del consulente tecnico di parte Dott. Y.Y. sull'analisi dei tabulati telefonici.
Come ricordato in premessa, lamenta la Difesa che, pur avendo inserito i tabulati nella lista delle prove documentali ex art. 468 c.p.p., il tribunale abbia escluso l'audizione del Dott. Y.Y., cagionando così una lesione al diritto di difesa degli imputati; e perciò aveva chiesto la parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello - richiesta che gli è stata rigettata - per l'audizione del predetto c.t.
La richiesta era stata ribadita nei motivi nuovi, in via subordinata rispetto alla richiesta principale di dichiarazione di inutilizzabilità dei tabulati telefonici, acquisiti dal P.M. ai sensi della normativa previgente, modificata tuttavia dal recente D.L. n. 132 del 2021, secondo cui l'acquisizione dei tabulati è disposta non più dal pubblico ministero ma bensì dal giudice per determinati reati. E si tratta di norma di applicazione retroattiva -secondo le Difese - stante la contrarietà della normativa previgente ai principi comunitari (cfr. sentenza Corte Giustizia UE, Grande Sezione, 2.3.2021 n. 746).
La Corte veneziana, con motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, ha ritenuto infondate entrambe le doglianze.
In sentenza si affronta il tema della modifica della disciplina relativa all'acquisizione dei tabulati telefonici e telematici, introdotta dal D.L. 30 settembre 2021, n. 132, convertito nella L. 23 novembre 2021, n. 178 con significativi emendamenti e in particolare, con l'introduzione di una disciplina transitoria e retroattiva specifica per i tabulati di traffico telefonico acquisiti in data anteriore all'entrata in vigore dello stesso D.L. n. 132 del 2021, vale a dire il 30 settembre 2021.
Il nuovo art. 1, comma 1 bis, inserito in sede di conversione, prevede che tali dati "possono essere utilizzati a carico dell'imputato solo unitamente ad altri elementi di prova" ed esclusivamente per l'accertamento dei reati puniti con la pena dell'ergastolo, o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni ovvero reati di minaccia ed altri specificamente indicati.
Alla luce di tale disciplina transitoria, pertanto, la Corte veneziana ha motivatamente ritenuto di disattendere la pretesa indicata nei motivi nuovi e ribadita anche in sede di discussione, di applicazione retroattiva della nuova normativa processuale che regola le modalità di acquisizione dei tabulati del traffico telefonico, alla luce delle ricadute nell'ordinamento interno di quanto ispirato dalla giurisprudenza convenzionale affermatasi presso le Corti Europee. E lo ha fatto operando un buon governo della richiamata Sez. 3, n. 11991 del 31/1/2022, Novellino, Rv. 283029 che ha affermato che "la disciplina transitoria introdotta dalla L. 23 novembre 2021, n. 178, art. 1, comma 1-bis, di conversione del D.L. 30 settembre 2021, n. 132, che ha consentito l'utilizzazione dei dati relativi al traffico telefonico, al traffico telematico e alle chiamate senza risposta acquisiti nei procedimenti penali in data antecedente all'entrata in vigore del citato è compatibile con l'art. 15, par. 1, della Direttiva 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni, modificata dalla Direttiva 2009/136/CE, in quanto, in un'ottica di ragionevole ed equilibrato contemperamento di interessi diversi, persegue la finalità di non disperdere dati già acquisiti, subordinandone l'utilizzazione alla significativa illiceità penale di predeterminate ipotesi per cui è consentita l'acquisizione a regime e alla sussistenza di "altri elementi di prova quale requisito di compensazione della mancanza di un provvedimento giudiziale di autorizzazione all'acquisizione stessa".
Peraltro, già Sez. 5, n. 1054 del 6/10/2021, dep. 2022, Valea, Rv. 282532 aveva condivisibilmente affermato che, in tema di acquisizione dei dati esterni del traffico telefonico e telematico, la disciplina introdotta dal D.L. 30 settembre 2021, n. 132, art. 1, conv. in L. 23 novembre 2021, n. 178 - che ne limita la possibilità di acquisizione, ai fini di indagine penale, ai reati più gravi, o comunque commessi col mezzo del telefono, attraverso il filtro del provvedimento motivato del giudice - non è applicabile ai dati già acquisiti nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, trattandosi di disciplina di natura processuale.
Coerentemente con tali principi, la Corte veneziana ha, dunque, affermato la piena utilizzabilità dei tabulati telefonici già acquisiti sia sulla base della tipologia di reati per cui si sta procedendo, ossia il delitto di omicidio colposo aggravato, e della sua cornice edittale, sia perchè detti dati di traffico telefonico, che sono stati utilizzati dal primo giudice a fondamento della prova dei frequenti contatti telefonici tra D.D., residente in Romania, e gli altri imputati, costituiscono non "la" prova unica del reato di cui all'art. 589 c.p., comma 2, ma all'evidenza uno tra i plurimi elementi probatori atti a dimostrare il coinvolgimento del D.D. nella gestione societaria.
E sul punto questa Corte di legittimità, peraltro, di recente ha precisato che, in tema di acquisizione dei dati esterni del traffico telefonico e telematico, il D.L. 30 settembre 2021, n. 132, art. 1, comma 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 novembre 2021, n. 178, disponendo, in deroga al principio del tempus regit actum, che i tabulati acquisiti prima dell'entrata in vigore del predetto decreto legge possono essere utilizzati a carico dell'imputato "solo unita mente ad altri elementi di prova", non ha sancito l'inutilizzabilità patologica dei tabulati non riscontrati, deducibile in ogni tempo e rilevabile d'ufficio anche dal giudice di legittimità, ma ha introdotto una regola legale di valutazione della prova, la cui violazione deve essere tempestivamente dedotta da chi vi ha interesse (Sez. 5, n. 38213 del 15/9/2022, Halili, Rv. 283875).
Motivato è anche il rigetto della richiesta di rinnovazione dibattimentale attraverso l'escussione del c.t. di parte Y.Y., sul corretto rilievo che il dato tecnico espresso dai tabulati del traffico telefonico, rappresentativo della rilevazione del flusso di contatti telefonici tra gli imputati, costituisce una evidenza probatoria oggettiva e documentale, cosicchè non è dato comprendere come un consulente tecnico possa essere assunto a prova contraria.
Logico appare anche il rilievo, adesivo a quanto già deciso dal giudice di primo grado, che la formulazione del capitolato di prova concernente l'esame di detto consulente menzionava, quale circostanza su cui deporre, il materiale informatico, e che tale locuzione debba intendersi riferita ai contenuti di pc, cellulari e giammai ai dati del tracciamento della telefonia mobile acquisiti con decreti dell'autorità giudiziaria.
Non va trascurato, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni evidenziato la natura eccezionale dell'istituto della rinnovazione dibattimentale di cui all'art. 603 c.p.p. ritenendo, conseguentemente, che ad esso possa farsi ricorso, su richiesta di parte o d'ufficio, solamente quando il giudice lo ritenga indispensabile ai fini del decidere, non potendolo fare allo stato degli atti (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556; Sez. 2, n. 41808 del 27/09/2013, Mongiardo, Rv. 25696801; Sez. 2, n. 3458 del 1/12/2005, dep. 2006, Di Gloria, Rv. 23339101) precisando, altresì, che, considerata tale natura, una motivazione specifica è richiesta solo nel caso in cui il giudice disponga la rinnovazione, poichè in tal caso deve rendere conto del corretto uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, mentre in caso di rigetto è ammessa anche una motivazione implicita, ricavabile dalla stessa struttura argomentativa posta a sostegno della pronuncia di merito, nella quale sia evidenziata la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 2014, Coppola, Rv. 25989301; Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Trecca, Rv. 25774101; Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 24787201; Sez. 4, n. 47095 del 2/12/2009, Rv. 245996; Sez. 2, n. 41808 del 27/9/2013, Mongiardo, Rv. 256968).
Come più volte chiarito da questa Corte di legittimità, la mancata rinnovazione in appello dell'istruttoria dibattimentale può essere censurata soltanto - il che nel caso che ci occupa non è avvenuto - qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556; Sez. 6, n. 1256 del 28/11/2013, dep. 2014, Rv. 258236).
8. Venendo alle posizioni soggettive degli odierni ricorrenti e alle rispettive posizioni di garanzia, le stesse vengono descritte, come ricorda la sentenza impugnata a pag. 38, già dal giudice di primo grado alle pagg. 116 e ss. della propria sentenza.
Già il tribunale rodigino, premesso che l'elemento di coesione tra le varie condotte addebitate ai singoli imputati, che fa sorgere la fattispecie di cui all'art. 113 c.p., va valutato sotto il profilo psicologico e consiste nella consapevolezza di cooperare con altri, ha ritenuto - con un giudizio condiviso dal giudice di appello - che nel caso di specie, le esigenze organizzative e produttive dello stabilimento in esame rendevano evidente a tutti gli odierni ricorrenti che la frazione di condotta tenuta dai singoli si inseriva in contesto complesso, caratterizzato dagli apporti degli altri imputati, alla luce del sole e in un contesto di collaborazione e condivisione delle informazioni tipico di un'unica organizzazione aziendale.
La sentenza impugnata, come si dirà, si colloca correttamente nel solco della consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la previsione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299, elevando a garante colui che di fatto assume ed esercita i poteri del datore di lavoro, amplia il novero dei soggetti investiti della posizione di garanzia, senza l:uttavia escludere, in assenza di delega dei poteri relativi agli obblighi prevenzionistici in favore di un soggetto specifico, la responsabilità del datore di lavoro, che di tali poteri è investito ex lege e che, nelle società di capitali, si identifica nella totalità dei componenti del consiglio di amministrazione (cfr. Sez. 4, n. 2157 del 23/11/2021, dep. 2022, Baccalini, Rv. 282568, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la decisione che, in assenza di delega di poteri, aveva riconosciuto la qualifica di datore di lavoro al presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, nonostante si occupasse della prevenzione un altro componente del consiglio di amministrazione).
9. L'analisi del contributo cooperativo prestato da ciascun imputato, secondo la concorde valutazione dei giudici di merito, evidenzia il ruolo preminente dei due imputati A.A. e D.D. che, di fatto, costituivano il vertice aziendale:
- A.A. si occupava essenzialmente degli aspetti commerciali ed amministrativi (era il Presidente dei CdA di (Omissis) Srl ), ed è stato anche colui che ha dato materialmente l'ordine di acquistare l'acido solforico il venerdì precedente l'incidente, per sversarlo nella vasca D al fine di risolvere il problema delle emissioni odorigene di cui da tempo si Lamentavano i residenti, superando addirittura la contrarietà manifestata nel frangente da F.F.;
- D.D. era il direttore tecnico di entrambe le società, ed operava, come ricordano i giudici di merito, in stretta collaborazione con F.F., con cui si consultava pressochè quotidianamente anche nell'ultimo periodo, pur risiedendo in Romania (circostanza rivelatasi irrilevante, avendo l'istruttoria - testimonianze e captazioni telefoniche - chiarito che in nessun momento della vita aziendale il ruolo preminente di D.D. venne meno nè le funzioni di responsabile degli aspetti tecnici e produttivi dei processi e delle lavorazioni aziendali venne rilevato da alcun altro soggetto apicale; anche durante il periodo "rumeno" l'ingerenza di D.D. nelle decisioni e financo nei dettagli relativi alla produzione era pervasiva), si occupava del processo produttivo del correttivo anche pompabile, dettando istruzioni stringenti per i dipendenti;
- D.D. e A.A. non a caso, in funzione del loro ruolo, sono stati i terminali finali delle lamentele e criticità evidenziate tanto dagli abitanti di (Omissis) quanto dagli stessi dipendenti rispetto ai fastidi cagionati dagli odori e dalle emissioni prodotte dalle lavorazioni dello stabilimento, sicche per i giudici di merito deve concludersi che entrambi erano anche i referenti dello stabilimento agli occhi della comunità locale.
Quanto ad attestare la funzione direttiva di A.A., al di là della carica rivestita, basta porre mente al fatto che è a lui ascrivibile la scelta di versare l'acido solforico nella vasca D nelle proporzioni che si riveleranno letali per tacitare le rimostranze degli abitanti di (Omissis) circa il cattivo odore che si sprigionava nell'aria durante i processi di miscelazione dei rifiuti.
Non a caso la linea difensiva dello stesso non è stata volta a contestare il suo ruolo, ma, come si dirà di qui a poco, soprattutto la prevedibilità dell'evento.
Quanto a D.D., ricordano i giudici del gravame del merito che lo stesso formalmente risultava direttore tecnico di (Omissis) (ma anche di Agri.bio.fert.) e viene indicato come dirigente di fatto di Agri.bio.fert., egli era pacificamente, con A.A., uno dei due vertici aziendali. In tal senso depongono le testimonianze di dipendenti, fornitori nonchè degli abitanti di (Omissis), zona circostante l'impianto di via (Omissis), che si rapportavano a D.D. come a uno dei due "titolari" dell'azienda.
Il D.D. era anche titolare di deleghe in bianco, rilasciatagli da C.C., che gli conferivano estesi poteri gestori e lo accreditavano quale rappresentante della società presso terzi. In proposito, si ricorda in sentenza che venne rinvenuto negli uffici un fac-simile di delega, già corredata di firma e timbro dell'amministratore unico di Agri.bio.fert., C.C., in favore di D.D. affinchè costui lo rappresentasse in "tutte le pratiche tecniche, logistiche ed amministrative necessarie per il sostegno dell'azienda".
I giudici di merito ricordano concordemente che dagli esami di F.F., H.H. e X.X., ma anche dai tabulati telefonici, si evince che le decisioni gestionali relative alla produzione in Agri.bio.fert. vengono assunte proprio dal D.D. che, anche dopo il suo trasferimento in Romania, mantiene fitti contatti con l'ingegner F.F..
Il che, come si dirà in seguito, non esclude che la posizione di garanzia di F.F., presente in loco, si affianchi a quella del D.D..
Sul punto i giudici del gravame del merito ribadiscono che la mancata audizione del c.t. Y.Y. è stata del tutto irrilevante sotto un profilo probatorio, in quanto i quotidiani contatti di D.D. con F.F. ed il suo costante interessamento nella gestione aziendale sono comprovate proprio dalle deposizioni testimoniali, oltre che da quanto dice il coimputato F.F., mentre gli esiti dei tabulati telefonici mai avrebbero potuto essere smentiti dal un consulente tecnico della difesa, qual era Y.Y., che era stato incarico di svolgere una perizia su quesiti del tutto diversi.
Innegabile, dunque, che D.D., oltre a rivestire formalmente la qualifica di direttore tecnico sia in (Omissis) sia in Agri.bio.fert., avesse di fatto poteri gerarchici, decisionali e funzionali quantomeno corrispondenti a quelli di un dirigente di fatto, ma addirittura equiparabili a quelli dell'effettivo datore di lavoro.
Come si anticipava poc'anzi, entrambi i vertici aziendali contestano prevedibilità dell'evento nella vasta proporzione in cui si è verificato, non mettendo in discussione che la presenza di matrici ricche di solfuri nella vasca D consentiva di prevedere che l'aggiunta di acido solforico avrebbe comportato la formazione di acido solfidrico, insistendo sul fatto che non era nemmeno ipotizzabile il tragico evento, poichè non era preventivabili le modalità e le quantità di acido solfidrico che poteva sprigionarsi.
Ebbene, sul punto, con motivazione priva di aporie logiche la Corte territoriale evidenzia che l'assunto difensivo non corrisponde a quanto emerso dall'istruttoria dibattimentale, che ha chiarito come, lungi dall'essersi verificata un'estemporanea sottovalutazione delle conseguenze di una singola reazione chimica, l'intera costruzione dell'impianto e gestione dello stabilimento è risultata caratterizzata da sistematica inosservanza di ogni più elementare regola cautelare e norma di prevenzione degli infortuni (una tra tutte Agri.bio.fert. non aveva DVR, mentre il DVR di (Omissis) non considerava il rischio chimico connesso all'impiego di acido solforico nel processo produttivo), da plurime violazioni delle autorizzazioni pure concesse e da obiettivi di massimizzazione del profitto, a fronte dei quali sono stati sacrificati i beni della tutela dell'ambiente e della salute e sicurezza dei lavoratori.
In sentenza si evidenzia che le imponenti quantità di reagenti coinvolti, oltre 4000 tonnellate di rifiuti di composizione ignota nella vasca, cui sono state aggiunte nel giro di un'ora e mezza ben 28 tonnellate di acido solforico, rendono evidente che non solo era prevedibile lo sviluppo di emissioni di acido solfidrico, ma era anche prevedibile, ove la gestione del processo fosse stata improntata a doverosi criteri di precauzione, che tale emissione potesse avere proporzioni massicce perchè correlate necessariamente alla massa dei reagenti.
Gli stessi consulenti tecnici delle difese (A.J.-A.B.-A.Y.), ricordava già il giudice di primo grado e lo ribadiscono quelli di appello - hanno ammesso che la presenza di solfuri in vasca D era ampiamente prevedibile, viste le matrici organiche che vi venivano riversate in condizione di anaerobiosi, sicchè era altrettanto prevedibile che, con l'aggiunta di un massiccio quantitativo di acido solforico, si formasse come risultato della reazione un quantitativo di acido solfidrico, con modalità anche violente ed incontrollate. Ma soprattutto i predetti consulenti hanno escluso che siano intervenuti nel frangente in esame fattori eccezionali o eccentrici rispetto all'ordinario decorso causale cui si debba ricollegare l'entità della nube tossica concretamente verificatasi (su ricorda che il ct A.B. definisce come "fisiologica" l'eventualità che dalla vasca D si sprigionasse una tonnellata e mezzo di acido solfidrico, che è il quantitativo rilasciato in atmosfera in occasione dell'infortunio secondo i calcoli dei predetti ct). Quindi era prevedibile non solo una generica significativa emissione di acido solfidrico, ma addirittura un'amissione dell'entità che si è verificata (così a pag. 126 della sentenza di primo grado).
La Corte territoriale, motivando quanto al profilo di colpa afferente alla violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 17, ha con forza rigettato la censura sulla mancata prevedibilità del rischio chimico, se non da agente particolarmente qualificato, quale non sarebbe stato nessuno dei tre imputati, secondo la tesi difensiva ricordando che finanche il c.t. delle difese A.B. ha confermato che la pericolosità della reazione acido solforico+solfuri è nota anche ad un "chimico appena diplomato", proprio per la micidialità dell'acido solfidrico che ne può derivare.
I giudici del gravame del merito ribadiscono in più passaggi che è risultata dimostrata l'assenza nel DVR di (Omissis) di ogni valutazione relativa al rischio chimico correlato all'impiego di acido solforico e alle eventuali reazioni avverse che avrebbero potuto prodursi in seguito all'aggiunta di detto reagente al contenuto della vasca D, oltre alla radicale mancata predisposizione di alcun DVR da parte di Agri.bio.fert.. E correttamente ritengono che l'omessa redazione del documento di valutazione dei rischi, relativamente, in particolare, alle lavorazioni necessarie ad ottenere il prodotto denominato "gesso da defecazione" in forma pompabile presso la vasca D, abbia avuto una valenza causale cruciale: il datore di lavoro ha del tutto ignorato un rischio tipico della lavorazione prevista e autorizzata, potenzialmente grave e letale oltrechè del tutto prevedibile.
Ciò nel solco della giurisprudenza di legittimità secondo cui nei casi in cui, come quello in esame, il documento di valutazione del rischio non preveda specificamente un rischio, è obbligo del datore di lavoro, in concreto, adottare le idonee misure di sicurezza relative al rischio non contemplato, così sopperendo all'omessa previsione anticipata (conferente il richiamo, in tal senso, al dictum di Sez. 4, n. 4075/2021, Paulicelli).
Coerente, perciò, è stata la conclusione che la presenza di un RSPP (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) in (Omissis) non esonerasse dalla responsabilità, sotto il profilo soggettivo della colpa, i vertici di (Omissis) e Agri.biof.ert., tenuto peraltro conto che l'Ing. J.J., responsabile della sicurezza per (Omissis) dal 2002, ha categoricamente escluso di essere stato designato con analogo incarico nella parallela struttura Agi.bio.fert e di avere, quindi, in tale veste potuto redigere alcun documento afferente alla valutazione del rischio d'impresa.
I giudici del gravame del merito evidenziano anche che sin dalla primavera del 2014 i vertici aziendali avevano a disposizione i risultati dell'indagine svolta dal laboratorio Chimicambiente, compendiata nel documento del luglio 2014 dal titolo "Studio della diffusione atmosferica delle emissioni odorigene", basato sulle misure eseguite dalla società Osmotech, che davano contezza della presenza di emissioni di acido solfidrico, tra l'altro proprio dalla vasca D, in misura superiore alla soglia di taratura dello strumento.
Nè pare influente - come invece obiettano gli odierni ricorrenti - che potessero esservi altri studi che pervenivano a diverse conclusioni.
Quelle valutazioni di Chimicambiente erano conosciute dai vertici aziendali ed erano state anche prese sul serio, se è vero, come si ricorda in sentenza, che nel mese di agosto i risultati dell'indagine vennero inviati da (Omissis) alla Provincia e all'ARPAV. Coerente, pertanto, appare la conclusione cui pervengono entrambi i giudici di merito nel senso di ritenere non solo che l'eventualità di una massiccia diffusione di acido solfidrico nell'aria fosse prevedibile, ma che era anche positivamente nota ai vertici aziendali l'esistenza di una problematica emissiva espressamente riferita al rilascio di tale sostanza, tra l'altro, anche dalla vasca D. Peraltro, ricordano i giudici di merito che emerge dalle dichiarazioni degli operai, esaminati come testimoni, che vari di loro avevano accusato importanti fastidi fisici (bruciore agli occhi, alla gola, alla pelle del viso, etc..) quando esposti alle emissioni rilasciate dai fanghi contenuti nelle vasche dello stabilimento e trasportati nei campi per lo spandimento sui suoli agricoli, rappresentando tale problematica ai vertici aziendali, che avevano sempre minimizzato il problema.
Corretto appare anche il rilievo operato da entrambi i giudici di merito, a fronte della dedotta inconsapevolezza della potenzialità lesiva di tali emissioni, che non può ammettersi che i vertici aziendali di uno stabilimento, che produce fertilizzanti da fanghi, ignorino regole chimiche del tutto elementari. Ciò in quanto si tratta dei soggetti sui quali ricade l'iniziativa imprenditoriale e che hanno richiesto autorizzazioni ad hoc dagli enti competenti; dunque, un'eventuale totale ignoranza in materia sarebbe essa stessa gravemente colpevole ed inescusabile.
I vertici aziendali, e coloro che con loro operavano nella gestione dell'impresa (si dirà di qui a poco di C.C. e F.F.) avevano la positiva conoscenza delle massicce emissioni di acido solfidrico, che fuoriuscivano dalla vasca D, ed avrebbero non solo potuto, ma anche dovuto prevedere il "rischio chimico" della nube tossica sprigionatasi, anzichè preoccuparsi solo del problema odorigeno, cercando di minimizzare le emissioni con gli abitanti di (Omissis), che da tempo segnalavano esalazioni maleodoranti alle autorità amministrative.
La sentenza impugnata, pertanto, opera un buon governo della granitica giurisprudenza di legittimità che ha reiteratamente affermato che, in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 28, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (così Sez. U. n. 38343 del 24/4/2014 Espenhahn, Rv. 261109, relativa alla vicenda della Thyssenkrupp in cui la Corte ha confermato il giudizio di colpevolezza dell'amministratore delegato, dei dirigenti aziendali e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione per la morte di alcuni dipendenti provocata dalla mancata adozione di efficaci misure antincendio sottovalutate nel documento di valutazione dei rischi; conf. Sez. 4, n. 20129 del 10/3/2016, Serafica, Pv. 267253; Sez. 4, n. 27295 del 2/12/2016, dep. 2017, Furlan, Rv. 270355).
10. I ricorrenti tornano in questa sede su diversi temi già ampiamente affrontati nei precedenti gradi di giudizio e su cui i giudici di merito hanno logicamente e correttamente motivato, sia per quanto riguarda la sussistenza delle contestate violazioni del D.Lgs. n. 81 del 2008, pur prescritte, ma contestate quali profili di colpa specifica.
Il primo è che il DVR di Agri.bio.fert. nei computer aziendali vi fosse.
La Difesa - si ricorda nella sentenza impugnata - ritiene, e lo ha ribadito in questa sede, che, contrariamente a quanto asserito dal primo giudice in ordine all'omessa predisposizione del DVR di Agri.bio.fert., in realtà un documento del genere esistesse sotto il nome di PMC (Piano di Monitoraggio e Controllo) relativo alla duplice realtà aziendale, acquisito dallo SPISAL nella persona del Dott. R.R in data 25/09/2014. Tale documentazione avrebbe contemplato anche una specifica procedura, con valutazione dei relativi rischi, connessi allo sversamento di acido solforico. Quindi la documentazione non sarebbe stata omessa, ma predisposta, ancorchè con denominazione difforme.
Ebbene, con motivazione priva di aporie logiche i giudici del gravame del merito (indipendentemente che il documento constasse o meno di dodici pagine, laddove peraltro è la stessa Difesa che pure parla di dodici allegati e quindi è ben possibile che la Corte del merito si riferisse a quelli) hanno dato conto di condividere l'affermazione del giudice di primo grado secondo cui "non si ritengono dimostrativi dell'esistenza di un DVR - non consegnato dai vertici della società allo SPISAL che lo ha ripetutamente richiesto nei giorni successivi all'infortunio, cfr. esame R.R pagg. 103 e 104 del verbale stenotipico udienza 4.4.2018 - documenti e files, valorizzati dalla difesa degli imputati, privi di firme e timbri, non riconosciuti dagli interessati, ma soprattutto emersi a distanza di mesi dall'infortunio o addirittura trovati nei p.c. dello stabilimento (Omissis) dopo anni, durante i quali l'impianto e tutta la dotazione informatica è stata restituita agli imputati per la ripresa temporanea dell'attività quantomeno fino alla fine dell'estate 2016" (così pag. 98 della sentenza di primo grado).
Rileva la Corte del merito che la semplice lettura del DVR di (Omissis) - rende evidente la radicale mancata considerazione di un rischio chimico - conseguente alle lavorazioni che venivano effettuate nell'impianto, in particolare a quello correlato all'impiego di acido solforico e alle eventuali reazioni avverse che avrebbero potuto prodursi in seguito all'aggiunta di detto reagente al contenuto della vasca D. Il secondo tema proposto dalle Difese è che, se è vero che nel DVR di (Omissis) non fosse previsto lo speciale rischio da emissione di acido cloridrico che ha portato alla tragedia realizzatasi il 2/9/2014, è vero che erano previsti rischi analoghi, per cui non si vede che differenza ci sarebbe stata nel predisporre le relative misure di sicurezza. Peraltro, gli imputati, osservano i difensori, non avrebbero omesso di impartire ai dipendenti una specifica formazione e addestramento, sia generale sia relativo alla gestione dei prodotti chimici trattati da (Omissis) e Agri.bio.fert. se è vero, come si ricorda in sentenza, che a suffragio di quanto affermato, sono state allegate numerose tabelle dalle quali emergerebbe la frequenza del personale a corsi di formazione, per lo più tenuti dall'Ing. J.J., documentati a partire dal 2007, in materia di primo soccorso e addestramento al funzionamento di macchine ed impianti (elevatori, autocarri, macchine da movimento terra), tra i quali figurano anche corsi di formazione specifica sui rischi aziendali a partire dal 2008.
Ma - come ha ricordato la Corte territoriale - tali rilievi difensivi sono già stati esaminati e confutati dal tribunale, sulla base delle deposizioni testimoniali tanto dei dipendenti di (Omissis) quanto proprio del teste J.J., che si era occupato della formazione del personale per la predetta società. E tutti hanno confermato che era stata regolarmente somministrata la formazione obbligatoria, ma che non vi era stata alcuna attività formativa nè trasmissione di informazioni specifiche in materia di rischio chimico, eventualità radicalmente ignorata dal datore di lavoro. Gli operai che quotidianamente si occupavano delle attività materiali necessarie alle lavorazioni del correttivo palabile effettuate nella vasca D, dunque, non avevano mai ricevuto informazioni circa i processi e le reazioni chimiche che avvenivano in quell'ambiente e non erano stati addestrati (tramite prove tecniche successive a corsi di formazione) a riconoscere i rischi e reagire tempestivamente a situazioni pericolose.
Quanto, poi, all'affermazione che il personale di entrambe le società sarebbe stato formato e addestrato alla gestione delle emergenze sia sanitarie che antincendio, in sentenza si dà atto che è emerso dall'istruttoria dibattimentale che i lavoratori dell'impianto avevano ricevuto specifico addestramento per le emergenze solo con riferimento a nozioni di primo soccorso e all'eventualità di incendio, ma non erano invece stati formati circa l'eventualità di un "rischio chimico", nè circa il pericolo che dalla vasca "D" si sprigionassero esalazioni tossiche. Non avevano ricevuto, conseguentemente, alcun addestramento in caso di emergenze simili a quella verificatasi, e non erano stati individuati tra i dipendenti soggetti adeguatamente formati e in grado di gestire questo tipo di emergenze, nè erano state adottate misure per consentire l'accesso alle aree adiacenti la vasca, a rischio di emissioni pericolose, solo a dipendenti adeguatamente formati e in possesso di adeguati sistemi di protezione delle vie respiratorie.
Il terzo argomento difensivo è che i dispositivi di protezione individuale (i c.d. D.P.I.) - e nello specifico le mascherine - c'erano e lo proverebbe la circostanza, che dalle immagini estrapolate dal circuito di videosorveglianza, emerge che il lavoratore Q.Q., nel corso delle operazioni di miscelazione, portava una maschera a carboni attivi, segno che la formazione impartita era stata effettivamente assimilata dal dipendente. Inoltre, si osserva come le maschere impiegate durante l'incidente da Q.Q. e da C.C. (quanto a quest'ultimo, per salvare la vita a O.O.) non solo fossero presenti - come pacificamente rilevato - ma si siano rivelate idonee a fronteggiare la nube tossica.
Ma la Corte territoriale, sul punto, ricorda proprio le dichiarazioni rese da Q.Q. in merito all'uso della maschera, che egli prudentemente indossò la mattina dell'infortunio, ma che ha ammesso di non aver quasi mai utilizzato in precedenza per operare sull'escavatore mentre operava la miscelazione dei rifiuti e dell'acido nella la vasca "D". E il prof. A.C., pur impreciso sul numero esatto di dispositivi di protezione individuali presenti in azienda, non solo afferma essere stati in numero insufficiente rispetto al numero dei lavoratori, ma soprattutto stigmatizza il fatto non vi fossero nell'impianto autorespiratori isolanti, unico dispositivo che avrebbe consentito un soccorso in sicurezza in caso di infortunio dovuto ad esalazioni tossiche.
I rilievi difensivi - osserva la Corte territoriale - non colgono nel segno e non si confrontano con gli elementi di prova indicati in sentenza, in particolare l'audizione dei dipendenti, colleghi di lavoro delle vittime: ove fossero stati adeguatamente predisposti e formati i soggetti addetti al primo soccorso e alle emergenze, per fronteggiare il rischio di esalazione tossiche, le modalità di soccorso di I.I. sarebbero avvenute in sicurezza, mediante soccorritori muniti di idonei dispositivi di protezione per le vie aeree appositamente forniti dal datore del lavoro, nonchè addestrati con corsi pratici all'utilizzo dei DPI, mentre invece la mancanza di questa formazione è costata la vita a M.M. e a L.L..
Il fatto che Q.Q. indossasse una maschera protettiva, evento del tutto estemporaneo, nulla toglie - è la logica conclusione della Corte veneziana - al dato di fatto di un'omessa formazione alla gestione del rischio di esalazioni tossiche.
Il quarto tema è che, in ogni caso, si trattava di procedure che erano state autorizzate e, secondo la Difesa, non sarebbero stati rilevati valori anomali nell'aria, tali da giustificare l'approntamento di sistemi di controllo delle emissioni.
Si è molto insistito sulla circostanza che la Provincia di Rovigo e l'ARPAV non avessero mai chiesto di chiudere la vasca D, ma solo di svolgere precauzionalmente indagini per rilevare la possibile presenza di emissioni preoccupanti nell'aria (questo accadeva nel 2007). E sul fatto che a ciò aveva ottemperato (Omissis) nel marzo 2014, commissionando uno studio all'azienda Chimicambiente, ma con la finalità di stimare solo le emissioni odorigene, e non di valutare i rischi chimici, quindi con finalità soltanto ambientali. Inoltre, gli imputati si sono difesi ricordando come la delibera dell'amministrazione provinciale non facesse riferimento a valori limite per l'acido solforico, sicchè non c'erano prescrizioni amministrative alle quali avrebbero dovuto sottostare, anche perchè all'epoca (nel 2008) non esistevano nemmeno riferimenti normativi, nè nazionali nè regionali, atti a fissare soglie certe di emissioni di acido solforico nell'aria.
Le Difese hanno insistito per tutto il processo sul fatto che l'uso della vasca, in assenza delle componenti antinfortunistiche accertata dal primo giudice, fosse fatto autorizzato dall'ente preposto (le cui delibere, costituendo atti amministrativi caratterizzati dall'esercizio di discrezionalità tecnica avessero alle spalle un'istruttoria curata da soggetti particolarmente esperti). Detto altrimenti: non era stata vietata la miscelazione all'aperto e un contenitore di emissioni (copertura) non era mai stato prescritto.
Ma anche su tali punti vi è stato il corretto rilievo da parte della Corte territoriale - con cui i ricorrenti non si confrontano - che, quanto all'aspetto costruttivo dell'impianto o comunque all'impostazione di fondo del processo produttivo (circuito chiuso anzichè vasca a cielo aperto, elettro miscelatori sommersi, utilizzo di tubature sul fondo vasca per inserire i materiali in vasca etc..) le conclusioni cui sono pervenuti i periti, ing. Z.Z. e ing. W.W., cui aderiscono entrambi i giudici di merito, sono state nel senso che la doverosa osservanza di un principio di precauzione avrebbe dovuto indirizzare il datore di lavoro verso sistemi costruttivi dell'impianto che eliminassero o quantomeno riducessero il rischio di emissioni pericolose per i lavoratori, e ciò a prescindere dal profilo delle autorizzazioni della Provincia, il cui rilascio non solleva certo il datore di lavoro dall'osservanza degli obblighi di protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori.
Sarebbe dunque stato necessario progettare un reattore chiuso, con accesso protetto e controllato all'eventuale ambiente confinato, processi lavorativi e attrezzature adeguate a limitare il rischio di aerodispersione di sostanze nocive (elettromiscelatori sommersi anzichè escavatore con benna, che esponeva quantomeno l'operatore ad esalazioni potenzialmente pericolose; utilizzo di tubature sommerse anzichè dello scarico per gravità diretto in vasca), sistemi di misurazione e monitoraggio della presenza di emissioni nocive (rilevatori fissi o individuali, misurazioni periodiche delle emissioni etc.), nonchè DPI adeguati a fronteggiare eventuali emergenze ed anche procedure di soccorso idonee per il rischio di esalazioni tossiche.
Il tema che l'assenza di copertura fosse cosa nota e del tutto autorizzata dalla Provincia, senza che alcuno degli enti preposti, prima dell'infortunio, avesse mai impartito prescrizioni di chiudere la vasca viene lungamente affrontato, evidenziando i giudici di appello come all'ente autorizzatore non fossero stati forniti gli elementi fattuali reali rispetto alle lavorazioni che si effettuavano.
Sul punto, si ricorda che i periti Z.Z.-W.W. hanno evidenziato che "il processo produttivo e l'impianto relativo alla vasca D gestito dalla Agriobiofert non fossero conformi alla normativa ambientale, in quanto l'istruttoria condotta è risultata ampiamente deficitaria in materia di emissioni diffuse. In altri termini, l'impianto Agriobiofert generava senz'altro un'emissione diffusa assolutamente non trascurabile associata alla vasca D, che doveva essere sottoposta ad autorizzazione ed oggetto di convogliamento/trattamento" (il richiamo della Corte del merito è a pagg. 173 e ss. dell'elaborato peritale).
Ma il punto di snodo fondamentale sul tema - come si osserva nella sentenza impugnata- è che in tutta la documentazione prodotta per il rilascio delle autorizzazioni i vertici di (Omissis)-Agribiofert continuavano a sostenere che dalla vasca D non si producesse alcuna emissione nè di acido solfidrico nè di ammoniaca, così ottenendo l'autorizzazione alla gestione della vasca del processo produttivo in assenza di alcun provvedimento di regolamentazione delle emissioni in atmosfera. E ciò malgrado l'accertata presenza di tali sostanze, in quantitativi tutt'altro che irrisori, comprovata anche alle analisi eseguite la laboratorio di Chimicambiente Osmotech nel marzo 2014.
Con motivazione priva di aporie logiche si evidenzia in sentenza che eventuali carenze, lacune e/o omissioni da parte degli enti 3utorizzatori (e a tal proposito si richiamano i sopraindicati rilievi mossi dalla perizia Z.Z.-W.W. riguardo al mancato rispetto del principio di precauzione nel rilascio delle autorizzazioni da parte della Provincia di Rovigo) possono al più porsi in termini di concause, o di cause concorrenti equivalenti, ma non valgono ad elidere i profili di colpa dei garanti.
Gli argomenti difensivi - sottolinea la Corte veneziana - tralasciano, peraltro, di considerare che l'autorizzazione dell'ente locale all'esercizio dell'insediamento industriale deputato alla produzione del cosiddetto correttivo non esonerava l'imprenditore, destinatario di tale autorizzazione e titolare di posizione di garanzia, dall'osservanza degli obblighi di prevenzione stabiliti dalla legge e dal dovere di attivarsi per ridurre e prevenire il rischio di tali eventi dannosi, nè l'autorizzazione della Provincia rappresenta fattore di elusione del decorso eziologico in caso di infortunio sul lavoro verificatosi a valle della procedura di autorizzazione, in conseguenza di specifiche gravi e plurime violazioni di disposizioni della normativa antinfortunistica, oltre che delle prescrizioni dei provvedimenti di autorizzazione.
Ma soprattutto l'argomento della difesa degli odierni ricorrenti -sottolinea il giudice di appello - non considera come sia stato processualmente accertato che il ciclo produttivo realizzato nel complesso di (Omissis) fosse in concreto del tutto difforme rispetto a quanto già autorizzato dalla Provincia.
Come ricorda la sentenza impugnata è emerso che c'era una radicale difformità tra la concreta gestione del processo produttivo che aveva luogo nella vasca "D" e quello autorizzato sulla base della "ricetta" presentata da Agri.bio.fert. agli Enti competenti: venivano versati in vasca direttamente carichi che entravano nello stabilimento come destinati a (Omissis); gli scarichi in vasca e i prelievi dei carri botte destinati allo spargimento nei campi erano continui e non attendevano alcun tempo di preparazione del correttivo; l'aggiunta di calce (sostituita peraltro da integratori quali il gesso di desolforazione debitamente autorizzato anche se privo delle proprietà chimiche necessarie per ottenere l'idrolisi delle proteine, reazione caratterizzante l'intero processo produttivo) e di acido solforico non seguivano le tempistiche rigorosamente previste dal processo produttivo, indispensabili per la produzione delle reazioni chimiche caratterizzanti il processo; non veniva effettuata alcuna analisi, in particolare volta alla determinazione della percentuale di sostanza secca della massa presente in vasca, prima dell'aggiunta di acido solforico, operazione indispensabile per determinare il quantitativo corretto del predetto acido da aggiungere.
La Corte territoriale ricorda che si tratta, peraltro, di tema espressamente devoluto all'attenzione dei periti Ingg. W.W. e Z.Z. (oggetto del quesito n. 2) che, condividendo sul punto la c.t. del Dott. U.U. e le consulenze svolte su incarico delle parti civili, hanno concluso ritenendo che "le modalità di gestione della vasca D non fossero conformi al processo produttivo autorizzato, non rispecchiandone le finalità e la ricetta, e che l'attività condotta costituiva di fatto una mera miscelazione di rifiuti, finalizzata allo smaltimento illecito dei rifiuti tramite lo spandimento in agricoltura" (sul punto vengono richiamate pag. 165 della perizia Z.Z. W.W. e la deposizione dei periti al dibattimento).
In ultimo, con riguardo alla dotazione di sistemi di allarme o di rilevazione delle emissioni nocive, si ricorda in sentenza che i periti Z.Z.-W.W. hanno scritto nel loro elaborato, e confermato al dibattimento, che con missiva del 29.3.2012 la Provincia di Rovigo aveva richiesto a (Omissis) la valutazione delle emissioni della vasca D, senza che la società si fosse attivata in alcun modo, addirittura rifiutandosi espressamente di eseguire i monitoraggi richiestile dall'agenzia di controllo, che i vertici (Omissis) ritenevano eccessivamente onerosi e costosi, proponendone di nuovi e diversi, giustamente non autorizzati perchè ritenuti meno efficaci. (Omissis), da parte sua, si limitò a sollecitare l'installazione di una semplice centralini meteo, richiesta che venne bocciata dall'Ente, perchè ritenuta non adeguata a garantire un efficiente controllo delle emissioni in atmosfera.
Si osserva in sentenza che la presenza dei rilevatori agli addetti alla vasca D, ovvero di sistemi di allarme finalizzati a segnalare tempestivamente incidenti o emergenze (come espressamente previsto dall'art. 226, comma 4), sarebbe stata salvifica e risolutiva; il dotare tuti i lavoratori di rilevatori prevenzionali, che avrebbero sicuramente rilevato la presenza di vapori di acido solfidrico già nella fase di formazione della coltre di nebbia, avrebbe consentito l'allontanamento degli operatori in luogo sicuro ben prima che la concentrazione di acido solfidrico raggiungesse livelli letali.
Contrariamente a quanto dedotto dalle Difese in sede di gravame del merito, riguardo ad un preteso contegno contrario, mantenuto a tal proposito dall'Amministrazione provinciale, rilevano i giudici di appello che è risultato che proprio (Omissis) avesse per ben sei anni resistito alle richieste avanzate dagli agenti di controllo di effettuare campagne semestrali di monitoraggio della qualità dell'aria e delle emissioni diffuse in ambiente (in proposito viene richiamata la delibera di Giunta Provinciale n. 85 del 2008), sollecitando la modifica delle loro concrete modalità esecutive e chiedendo di essere esentata dall'obbligo di realizzare le centratine mobili ai confini dello stabilimento, come richiesto dalla P.A. (così il carteggio tra (Omissis) e Provincia di Rovigo, prodotto dal teste B.Z. all'udienza del 12.9.20 18).
Viene correttamente ricordato in sentenza che l'art. 23 vieta la fabbricazione, vendita, noleggio, concessione in uso (e si ricomprende anche la locazione) di impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza sul lavoro; e che tra le disposizioni legislative va ricompreso l'art. 226, che prescrive disposizioni per il datore di lavoro proprio per prevenire incidenti o emergenze derivanti dalla presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro. All'art. 226, comma 4 prevede, poi, che il datore di lavoro adotta le misure necessarie per approntare sistemi d'allarme e altri sistemi di comunicazione necessari per segnalare tempestivamente l'incidente o l'emergenza.
Come hanno concordemente ricordato i giudici di merito, sulla scorta dell'esperita istruttoria, è emerso che la vasca D, invece, non era dotata di un adeguato sistema di rilevazione delle emissioni tossiche, tali da garantire l'attivazione di un sistema d'allarme atto a segnalare tempestivamente l'emergenza e consentire ai lavoratori di sottrarsi all'esposizione alle sostanze tossiche e portarsi in posizione sicura. Obbligo che, indipendentemente da colui che ha sottoscritto il contratto di locazione, incombeva sul "datore di lavoro".
La sentenza si colloca dunque nel solco del dictum di legittimità -che va qui ribadito - secondo cui la redazione del documento di valutazione dei rischi e l'adozione di misure di prevenzione non escludono la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell'analisi dei rischi o nell'identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione (così Sez. 4, n. 43350 del 5/10/2021, Mara, Rv. 282241).
Costituisce ius receptum che, ai fini dell'individuazione delle posizioni di garanzia, qualora nell'impresa vi siano più amministratori con diversi poteri, anche di fatto, l'accertamento della qualità di datore di lavoro, agli effetti del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, va effettuato tenendo conto che tale qualità non deve essere intesa in senso esclusivamente civilistico, limitata cioè a chi è titolare del rapporto di lavoro, ma si estende a chi ha la responsabilità dell'impresa, con la conseguente possibilità della coesistenza, all'interno della medesima impresa, di più figure aventi tutte la qualifica di datore di lavoro cui incombe l'onere di valutare i rischi per la sicurezza, di individuare le necessarie misure di prevenzione e di controllare l'esatto adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del coobbligato. (così Sez. 4, n. 4981 del 5/12/2003, dep. 2004, Ligresti, Rv. 229671 che, sulla base di questi principi, ha annullato la sentenza d'appello che aveva escluso la responsabilità di uno dei due amministratori che, di fatto, non si era mai occupato della sicurezza all'interno della clinica e che in conseguenza di questa ripartizione di compiti aveva fatto affidamento sulla corretta esecuzione di quelli inerenti la sicurezza da parte dell'altro amministratore).
11. Accanto alle scelte decisionali di vertice, nel giudizio di merito, coerentemente con l'editto accusatorio, sono stati ravvisati ulteriori contributi cooperativi, per lo più omissivi, da parte dei soggetti che, formalmente o in fatto, ricoprivano cariche apicali nelle due società e hanno consentito e tollerato la strategia aziendale così come adottata dai primi due imputati sopra esaminati, venendo meno agli obblighi di garanzia connessi alle rispettive qualifiche.
Ciò è stato ritenuto, in primis, per la posizione di C.C., legale rappresentante di Agri.bio.fert. Correttivi Srl ", che - com'è stato posto in risalto dai giudici di merito - effettivamente lavorava nello stabilimento e dunque aveva piena contezza delle modalità di gestione del processo produttivo nonchè delle caratteristiche costruttive dell'impianto del correttivo pompabile e non può, pertanto, essere parificato ad un mero prestanome.
L'affermazione di responsabilità dello C.C. risulterebbe comunque, in ogni caso, coerente con il consolidato insegnamento della Corte di legittimità secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità dell'amministratore della società, in ragione della posizione di garanzia assegnatagli dall'ordinamento, non viene meno per il fatto che il ruolo rivestito sia meramente apparente (Sez. 4, n. 49732 del 11/11/2014, Canigiani, Rv. 261181).
Come rileva condivisibilmente la sentenza 49732/2014, ove si ritenesse esonerato da responsabilità colui che formalmente assume uno dei ruoli di garante, in ragione della sua apparenza, si consentirebbe, attraverso l'interposizione fittizia, di vanificare la cogenza della tutela penale per omissione di cautele doverose correlate alla salvaguardia di soggetti ritenuti dall'ordinamento deboli e bisognevoli di protezione.
L'esigenza imprescindibile connessa alle norme di salvaguardia nei confronti di terzi, nella specie finalizzate a prevenire gli infortuni sul lavoro, impone, infatti, salva restando la possibilità di cumulo con le responsabilità di altri soggetti, l'attribuzione a colui che si interpone, in prima persona, dei doveri di garanzia che derivano dal ruolo rivestito.
Va considerato, d'altra parte, che sulle garanzie connesse alle attribuzioni di ruolo fanno affidamento i garantiti, i quali devono essere esonerati dall'onere di accertare compiutamente il fondamento del potere di colui che formalmente si presenta come titolare di una posizione di garanzia nei loro confronti.
La funzione di garanzia, pertanto, non può che derivare direttamente dall'assunzione formale del ruolo, senza possibilità per colui che si presenta come garante di invocare la mera apparenza quale ragione di esonero da colpa (Sez. 4 n. 35120 del 6/6/2013. Ascalone, n. m..
Colui il quale s'interpone, svolgendo a tutti gli effetti il ruolo d'imprenditore, assume, perciò stesso, in prima persona i doveri di garanzia che derivano dal ruolo, sul quale fanno affidamento i garantiti, i quali non hanno alcun strumento per poter accertare compiutamente il fondamento del ruolo rivestito.
Non si tratta, in altri termini, di un obbligo di vigilanza sulla condotta dell'imprenditore dissimulato, ma di un dovere immediato e diretto di rispetto della normativa antinfortunistica e delle norme generiche cautelari, finalizzate a prevenire gli infortuni sul lavoro, che discende direttamente dall'assunzione formale del ruolo sul quale i terzi debbono fare affidamento.
La responsabilità del titolare apparente della posizione di garanzia si evidenzia ancor più in situazioni in cui, come nella specie, la condizione di pericolo cui il lavoratore si trovi esposto sia connessa a carenze dell'impianto di produzione gravi e molteplici, come tali immediatamente percepibili da chiunque senza particolari indagini.
Va ribadito, in ogni caso, che C.C. - come ricorda la Corte del merito - al di là del suo ruolo formale era ampiamente coinvolto nella gestione della società, lavorando quotidianamente nell'impianto, rapportandosi con gli altri dipendenti Agri.bio.fert. e (Omissis) ed anche con soggetti esterni nella sua veste di amministratore di diritto.
Viene ricordato, ad esempio, che lo stesso, come risulta dal verbale del 7/3/2012 fu presente per Agri.bio.fert. alla conferenza di servizi per il rilascio alla società dell'autorizzazione alle emissioni.
12. Nei confronti di F.F., ingegnere responsabile della gestione dei processi produttivi in capo ad Agri.bio.fert. Correttivi Srl e delle lavorazioni che avvenivano nei due impianti del correttivo palabile e pompabile, il contributo colposamente cooperativo rispetto all'accaduto è stato ritenuto dai giudici di merito quello di avere fatto mancare il proprio qualificato contributo critico e di essersi prestato ad attuare modalità di gestione dell'impianto - in particolare pompabile totalmente difformi dalle autorizzazioni e prive di qualsivoglia presidio o cautela a tutela dell'ambiente e della salute dei lavoratori, così integrando un frammento del complessivo processo decisionale che ha reso possibile il gravissimo infortunio.
F.F. è, di fatto, l'unico dipendente di Agri.bio.fert.
La linea difensiva è stata quella di definirsi un mero dipendente con mansioni amministrative (come emerge dal contratto di lavoro) e di essersi trovato costantemente a confliggere con i vertici aziendali contestando le scelte imprenditoriali maggiormente scriteriate. Scelte sulle quali, inoltre, l'imputato non avrebbe avuto alcun potere di influire.
Si è detto in premessa dell'inammissibilità delle dedotte violazioni dell'art. 192 c.p.p.. Va aggiunto che nemmeno pare sussistere il reiterato vizio motivazionale in punto di valutazione della prova, laddove appare, invece, che, in più occasioni, il ricorrente solleciti al giudice di legittimità una non consentita rivalutazione di circostanze di fatto.
Ciò soprattutto laddove ci si sofferma sui contenuti di varie testimonianze (quelle di A.I., Q.Q., O.O., J.J., A.L., A.M., A.N., A.O., A.P., A.Q. e A.R.) dalle quali si sostiene non emerga alcuna istruzione impartita dallo stesso F.F., specialmente per quanto riguarda i lavori presso la vasca D. Dalle stesse, si evincerebbe, al contrario, come lo stesso imputato prendesse ordini dalla dirigenza aziendale e come, infine, ai dipendenti di Agri.bio.fert. fosse chiesto talvolta di "aiutare" F.F., ma tale direttiva non derivava dall'ingegnere, quale sua decisione autonoma, ma come ordine impartito dai vertici aziendali (prevalentemente D.D.). Di talchè, non sarebbe riconducibile a F.F. l'esercizio di poteri dirigenziali, ancorchè in via fattuale.
Si contesta, in buona sostanza, un travisamento della prova.
Non va trascurato, tuttavia, che, questa Corte, con orientamento che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636 secondo cui, sebbene in tema di giudizio di cassazione, in forza della novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, La Gumina ed altro, Rv. 269217).
Nel caso di specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa lettura delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.
E' vero, come lamenta il ricorrente, che il F.F., ingegnere ambientale, assunto come impiegato da Agri.bio.fert. Srl con mansioni relative al "controllo e alla conduzione di impianti per la produzione di fertilizzanti" ha una posizione diversa da quella degli altri imputati e per certi aspetti peculiare. E che nemmeno gli è contestato di essere un amministratore di fatto della società.
La Difesa del F.F. ha contestato radicalmente, nel corso del processo, di aver assunto quel ruolo dirigenziale di fatto, nell'ambito dell'organizzazione aziendale, che gli attribuisce il primo giudice. Si sostiene anche in questa sede che egli non rivestisse alcuna posizione di garanzia.
Il F.F. non contesta che la vasca D fosse produttiva di emissioni nocive e condivide l'assunto per cui quelle emissioni avrebbero dovuto essere autorizzate dagli enti competenti, posto che altri impianti dediti alla produzione di gesso di defecazione, ubicati nel resto del territorio nazionale, prevedono impianti dotati di reattori chiusi ed altri accorgimenti tecnico-progettuali atti a minimizzare i rischi connessi alle lavorazioni in questione. Tuttavia, ritiene che tale assunto sia incompatibile con la responsabilità riconosciutagli in quanto egli non avrebbe potuto da solo supplire alle omissioni degli enti preposti e, in ogni caso, non ne avrebbe avuto in ogni caso l'obbligo giuridico. Semmai, sarebbero stati i vertici aziendali (Omissis)-Agri.bio.fert. a dover garantire anche la sua incolumità, in quanto dipendente, nell'ambito della sua attività lavorativa svolta presso lo stabilimento di via (Omissis).
Rileva inoltre il difensore che non vi era nemmeno una delega formale al F.F., da parte della dirigenza aziendale, funzionale all'espletamento di attività a carattere dirigenziale. In definitiva, F.F. non avrebbe avuto alcuna capacità di influenzare la vita aziendale e pertanto non può essere chiamato a rispondere dei ascrittigli dalla sentenza di primo grado.
Ebbene, la Corte territoriale, nel confutare i motivi di gravame nel merito proposti, fa corretta applicazione del principio -che va qui ribadito- secondo cui in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da una investitura formale ma altresì dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garanti, che, mediante comportamenti concludenti, palesino una presa in carico del bene protetto. Come viene correttamente ricordato in sentenza, indirizzo consolidato nella giurisprudenza di legittimità afferma che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, indipendentemente dalla sua funzione nell'organigramma dell'azienda (cfr. da ultimo, le richiamate Sez. 4, n. 31863 del 10/4/2019, Agazzi, Rv. 276586 e Sez. 4, n. 50037 del 10/10/2017, Buzzegoli, Rv. 271327 relativa all'assunzione di fatto degli obblighi di garanzia del datore di lavoro o del preposto da parte del dipendente che dirigeva personalmente gli operai in cantiere, dando indicazioni al lavoratore infortunato circa le modalità di esecuzione dei lavori, in difformità da quanto previsto nel piano operativo di sicurezza).
Con motivazione logica e congrua, in applicazione di tali principi, la Corte territoriale aderisce all'assunto del primo giudice, che attribuisce al F.F. un ruolo di dirigente di fatto, e quindi di destinatario delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, sulla base delle seguenti considerazioni: a. egli aveva poteri effettivi ed autonomi di gestione del processo non solo relativo al correttivo palabile, ma anche a quello pompabile, atteso che decideva cosa dovesse venire sversato nella vasca "D", con quali tempistiche, in quali quantità (si ricorda in sentenza che era il F.F. il "depositano" della ricetta, colui che aveva calcolato quante "bennate" di ciascun ingrediente si doveva aggiungere e impartiva ordini agli operai in proposito); b. a lui faceva capo l'organizzazione del lavoro con riferimento al processo di produzione del correttivo pompabile, dava disposizioni agli operai decidendo in concreto chi, quando e come doveva procedere agli specifici step in cui consisteva la lavorazione (sul punto vengono richiamate le concordi deposizioni dei dipendenti (Omissis), i quali hanno spiegato che gli operai addetti alle lavorazioni in vasca D materialmente eseguivano le sue istruzioni, A.L., A.M., A.S., Q.Q. e O.O.).
E' stato, pertanto, motivatamente ritenuto che, benchè l'imputato non fosse assunto come dirigente e non avesse la corrispondente retribuzione da dirigente, non gli facevano difetto concreti poteri decisionali, di ordine e di organizzazione; per la propria attività in Agri.bio.fert..
F.F. si avvaleva, come si ricorda in sentenza, anche di personale (Omissis), cui egli dava disposizioni per la preparazione della "ricetta".
La Corte territoriale si è anche confrontata con il tema oggi riproposto per cui le decisioni spesso non venivano adottate da F.F. in autonomia, ma su indicazione di D.D., direttore tecnico dell'impianto (come dimostrato dalle frequenti telefonate evidenziate dagli esiti dei tabulati telefonici), ma ha ritenuto correttamente che ciò nulla tolga al suo ruolo dirigenziale, atteso che è proprio del dirigente attuare le direttive provenienti dal vertice aziendale.
Viene ricordato, invero, che, all'epoca in cui la ricetta prevedeva addizione di acido solforico e calce, interveniva il tecnico di laboratorio A.F. per le analisi dei campioni, misurazioni e dosaggi; successivamente, quando furono impiegate le ceneri A2A, il tecnico di laboratorio esterno A.F., che prima interveniva personalmente, fornì a F.F. un programma necessario ad eseguire le elaborazioni tecniche. Ed ancora, viene dato il giusto peso al fatto che il F.F., insieme al D.D., viene indicato come il referente della Agri.bio.fert dal personale del laboratorio esterno Lab control. Ed è lui, come già ricordato, a partecipare alla conferenza di servizi per conto della Agri.bio.fert..
Per l'individuazione della posizione di garanzia, come ha reiteratamente spiegato la giurisprudenza di legittimità, non è necessario che si collochi il soggetto in una specifica casella dell'organigramma, quella del dirigente o del preposto che sia, ma basta che, come nel caso in esame, le risultanze processuali indichino un determinato soggetto titolare di poteri decisionali influenti sulla produzione e sull'organizzazione del lavoro. E la sentenza impugnata evidenzia come tali risultanze individuino nel F.F. il responsabile, coordinatore, e punto di riferimento della produzione di entrambe le due linee di fertilizzanti Agri.bio.fert, il palabile solido ed il pompabile liquido della vasca D, della cui "ricetta" egli era il depositano.
Delineato tale contesto, correttamente è stato ritenuto irrilevante il fatto che non vi fosse una delega formale al F.F., da parte del datore di lavoro, funzionale all'espletamento di attività di carattere dirigenziale, quale, ad esempio, responsabile della produzione, perchè nella realtà (Omissis)-Agri.bio.fert, struttura di piccola-media dimensione, F.F. di fatto era colui il quale dava istruzioni agli operai sulla procedura di produzione del gesso di defecazione.
Nell'organigramma aziendale egli non aveva nessun superiore gerarchico, ma rispondeva direttamente all'amministratore, proprio com'è tipico dei dirigenti.
A ciò si aggiunge la logica considerazione operata dai giudici del gravame del merito che F.F., proprio per le mansioni attribuitegli dal contratto di assunzione (fonte negoziate della sua posizione di garanzia) e non solo per il suo titolo di studio, doveva avere le competenze necessarie per rendersi conto che la gestione del processo produttivo del correttivo pompabile avveniva in totale difformità dalle autorizzazioni, e che comportava rischi concreti di emissione di sostanze altamente tossiche (una per tutte l'acido solfidrico), pericolose tanto per l'ambiente che per la salute dei lavoratori, in un contesto del tutto privo della benchè minima precauzione.
Egli correttamente è stato ritenuto il soggetto deputato a governare quel tipo di rischio, derivante dal processo produttivo, che si è concretamente realizzato, affiancandosi come garante a chi esercitava di fatto o formalmente il ruolo di datore di lavoro.
Per la Corte territoriale, con un ragionamento che appare corretto in punto di diritto, tanto premesso in ordine alla qualifica soggettiva D.Lgs. n. 81 del 2008, ex art. 12, sussistente in via di fatto e su base negoziale/contrattuale, non è poi necessario come afferma il tribunale a pag. 121 della propria sentenza "che il titolare della posizione di garanzia sia direttamente dotato di poteri atti a impedire la lesione del bene garantito (non rientrava infatti nelle competenze che F.F. poteva gestire in autonomia operare gli adeguamenti costruttivi dell'impianto o dotarlo dei presidi in materia di sicurezza ambientale e del lavoro che si sono più volte indicati, trattandosi di interventi che dovevano essere adottati dai vertici aziendali), essendo tuttavia sufficiente che egli disponga di mezzi idonei a sollecitare il datore di lavoro gli interventi necessari a impedire l'evento (Sez. 4, n. 47794 del 5/10/2018; Sacchetto, Rv. 274357)" (nel medesimo senso vedasi anche la recente Sez. 4, n. 9463 del 9/2/2023, Guida, Rv. 284157).
Sulla base di queste premesse è stata pertanto motivatamente ritenuto sussistente il profilo di colpa connesso al reato contravvenzionale di cui al capo C dell'imputazione, prescritto, ove si contestava al F.F. la violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18, per avere omesso di individuare i soggetti addetti alla gestione del primo soccorso, delle misure antincendio, e delle emergenze, da intendersi con questo anche la possibile emissione in atmosfera di sostanze pericolose derivanti dal processo di produzione della vasca D, di attuare una attività di vigilanza sui lavoratori in ordine all'uso dei sistemi di protezione delle vie respiratorie durante le fasi di produzione del gesso di defecazione.
Ciò sul logico rilievo che, seppure non spettasse a F.F. prevedere l'uso dei DPI e disporne l'acquisto, egli avrebbe dovuto comunque vigilare su detto utilizzo. E, ancorchè non gli spettasse "provvedere affinchè i rischi specifici fossero eliminati o ridotti mediante l'adozione di altri processi di lavoro (ad esempio a circuito chiuso)" (contestazione del capo D, da cui, come si ricorda in sentenza, F.F. è stato assolto in quanto ritenuto non datore di lavoro, non amministratore con potere di spesa), su di lui tuttavia incombeva un generale obbligo di vigilanza e controllo sul fatto che gli addetti alla vasca D, che direttamente da lui prendevano disposizioni, fossero nelle condizioni di lavorare in sicurezza, prevedendo il rischio di esalazioni tossiche.
La violazione della regola cautelare appena descritta è il profilo di colpa specifica che entrambi i giudici di merito, concordemente, ritengano vada ascritto al F.F., che ha omesso di adottare misure appropriate affinchè solo i lavoratori in possesso di adeguate istruzioni e specifico addestramento potessero accedere alle zone che li potevano esporre ad un rischio grave e specifico, con particolare riferimento alle situazioni di pericolo potenzialmente derivanti dalle fasi di miscelazione dei prodotti all'interno della vasca D, vigilando su questo.
Certamente - ribadiscono in più passaggi i giudici del gravame del merito rispondendo ad una questione che acriticamente viene riproposta anche in questa sede - il F.F. non era titolare del potere decisionale e di spesa necessario per la formazione dei lavoratori deceduti, diversamente dai A.H. e dai A.G., ma era comunque dotato dei poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero aveva mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari, considerato che era proprio lui a "dirigere" gli operai addetti alla vasca D, con potere autonomo di gestione.
E ancora più evidente è stato ritenuto il profilo di colpa generica in capo al F.F., che aveva, proprio rispetto al processo produttivo del pompabile della vasca D, il compito di garantire l'esecuzione della "ricetta" autorizzata, ed invece, per negligenza ed imprudenza, ha omesso di svolgere una doverosa attività di vigilanza sull'esecuzione corretta del processo produttivo, contribuendo a porre in essere una mera attività di scarico e miscelazione di rifiuti conferiti da terzi, assecondando una prassi produttiva incontrollata potenzialmente foriera di infortuni, quale purtroppo quello che si è verificato.
Sarebbe spettato a F.F. - ricordano i giudici di appello con motivazione che appare priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto - mettere in guardia i vertici aziendali della portata del pericolo incombente per la salute dei lavoratori e dell'ambiente circostante e non già avvallare detta prassi.
La Corte territoriale si è anche confrontata con il tema, pure quello riproposto, del disaccordo del F.F. con A.A. sull'ordine delle 28 tonnellate di acido solforico, prendendone atto, ma ritenendo motivatamente che ciò non elida l'elemento soggettivo della colpa, in quanto è tutto il contegno precedente, relativo alla "sciagurata gestione del processo produttivo che avveniva nella vasca D" (così testualmente in sentenza) a costituire comunque concausa rilevante dell'infortunio.
Peraltro, viene evidenziato che se da un lato vi è stato da parte di F.F. un iniziale disaccordo manifestato al momento dell'ordine dell'acido, pacificamente operato da A.A., allo stesso, tuttavia, è seguita da parte del medesimo F.F. la scelta di allinearsi alla prassi consueta, senza evidenziare ai dipendenti (Omissis) alcuna situazione di pericolo o procedura di particolare cautela da seguire.
Il comportamento omissivo di F.F. - consistito nell'aver diretto e gestito un processo produttivo venendo meno al dovere di rispettare e far rispettare le corrette prescrizioni tecnico del ciclo produttivo del "gesso di defecazione", e in spregio totale delle norme antinfortunistiche, e in inattuate iniziative di segnalazione del rischio chimico - secondo la valutazione dei giudici del gravame del merito si è inserito appieno nel complesso processo causale che ha condotto alla determinazione degli eventi lesivi e mortali, in un contesto di cooperazione del governo del rischio.
Circa l'idoneità causale delle condotte omissive del F.F., corretto appare il richiamo al principio esposto nella pronuncia Thyssenkrupp (Sez. U. n. 38343/2014), secondo cui il paradigma di riferimento consiste nell'alto grado di credibilità razionale.
In altri termini, se, anzichè accettare passivamente una prassi produttiva radicalmente difforme da quanto autorizzato, il F.F., ingegnere cui era affidata la gestione degli impianti del correttivo palabile e pompabile, avesse correttamente identificato l'entità del rischio chimico che si correva, i vertici aziendali quantomeno non avrebbero più potuto ignorare tale profilo.
La conseguenza è che l'imputato, con le condotte omissive stigmatizzate nel capo di imputazione, ha concorso a cagionare gli eventi criminosi verificatisi.
Il grado di prevedibilità dell'evento - sottolinea ancora la sentenza impugnata con un assunto che si sottrae alle censure di legittimità proposte - è particolarmente elevato per F.F., viste le sue conoscenze tecniche, e ciò secondo l'insegnamento ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, che afferma come, in tema di colpa, la valutazione in ordine alla prevedibilità dell'evento va compiuta "ex ante" riportandosi al momento in cui la condotta, commissiva ad omissiva, è stata posta in essere, avendo riguardo anche alla potenziale idoneità della stessa a dar vita ad una situazione di danno, e riferendosi alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali (così Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018).
Quanto alla tardiva acquisizione della prova documentale delle autorizzazioni ambientali, che per la Difesa del F.F. avrebbe cagionato una lesione al diritto di difesa dell'imputato, alla mancata valorizzazione dei contenuti delle intercettazioni telefoniche (da cui apparirebbe come la volontà del F.F. sia sempre stata quella di fornire la verità in ordine alla mala gestione dell'impianto (Omissis)-Agri.bio.fert, trovandosi sostanzialmente da solo a contrastare la linea pattuita dagli altri imputati) e della sussistenza del procedimento per corruzione a carico del funzionario della Provincia di Rovigo, di A.A. e del D.D., si tratta di argomenti tutti con cui la Corte territoriale si è confrontata ritenendoli, seppur suggestivi e meritevoli di apprezzamento in punto di trattamento sanzionatorio, non idonei ad elidere l'accertata cooperazione colposa in capo a F.F. nella causazione dell'evento lesivo.
Correttamente è stato ritenuto che si tratti di prove documentali su cui la Difesa è stata messa nelle condizioni di controbattere nel corso del processo.
La vicenda corruttiva in corso di separato giudizio è stata, poi, ritenuta impattare marginalmente rispetto alla posizione del F.F., estraneo alla stessa, non potendo all'evidenza annullare il nesso eziologico tra le condotte omissive ascritte all'imputato e le quattro morti sul lavoro, avvenute proprio nel corso di quella lavorazione che il F.F. era chiamato a dirigere.
La Corte veneziana ha dato anche conto motivatamente del perchè non possano trovare applicazione nel caso che ci occupa le cause di giustificazione di cui agli artt. 51 o 54 c.p. sul corretto rilievo che F.F. era un ingegnere giovane e qualificato, e, pertanto, pur dando per provata la sua difficoltà a cambiare lavoro, questo tuttavia non solo non integra il pericolo attuale di un danno grave alla persona, presupposto richiesto dall'art. 54 c.p., ma soprattutto non scrimina una condotta negligente ed omissiva nell'adottare le misure di prevenzione in materia antinfortunistica.
Quanto alla dedotta nullità della consulenza tecnica di parte (quella del Dott. U.U., ct. del P.M.) che sarebbe stata svolta senza i rituali avvisi sia per i campionamenti sia per le analisi di laboratorio effettuate in data 25/09/2014 la Corte territoriale, come si è già visto in precedenza, ha dato atto che l'analisi dei campioni era attività ultronea, poichè l'esatto quantitativo e contenuto dell'autobotte condotta dal I.I. è stata accertata dalla scheda tecnica ed è, pertanto, un dato incontrovertibile.
Sulla questione - pure riproposta in questa sede - dell'errata applicazione dell'art. 674 c.p. (capo DD), ascritto anche al F.F. pur in assenza di un presupposto fondamentale, vale a dire la qualità di legale rappresentante dell'azienda - che, secondo la giurisprudenza di legittimità citata (il richiamo è a sez. 3 n. 27562/2015) nell'ambito delle attività economiche legate al ciclo produttivo, è l'unico il soggetto che può essere chiamato a rispondere del reato in questione figura decisamente non corrispondente alla posizione di F.F. nell'ambito di Agri.bio.fert. (il cui legale rappresentante è solo D.D.) la Corte territoriale, con una motivazione corretta in punto di diritto, ha ritenuto inaccoglibile la doglianza difensiva, considerato il fatto che, come ampiamente motivato dal primo giudice, siamo in presenza di un reato comune, per il quale è, inoltre, sopraggiunta l'estinzione per decorso del termine di prescrizione.
13. Evidenziato che anche per le stesse si palesano infondate, per le questioni esaminate in precedenza, le questioni proposte di natura processuale sull'assoggettabilità degli operati campionamenti alla procedura di cui all'art. 360 c.p.p. va invece preso atto che fondati ed assorbenti rispetto alle ulteriori doglianze proposte in questa sede dalle stesse appaiono i motivi di ricorso afferenti alla motivazione del provvedimento impugnato in punto di responsabilità e di posizione di garanzia riguardanti B.B. e E.E., entrambi consigliere di amministrazione di (Omissis), rispettivamente figlie di A.A. e di D.D., del cui ruolo apicale rispetto alla gestione della società si è ampiamente detto in precedenza.
La trattazione di tali posizioni può essere unitaria in quanto anche lo snodo fondamentale attraverso cui si è incentrata la difesa di tali ricorrenti, è stato analogo. Ovvero si è sostenuta la loro estraneità al processo decisionale della società, il loro ruolo marginale in relazione alle scelte gestionali, e, in primis, a quelle che hanno portato ai fatti di cui all'imputazione.
I giudici di merito hanno ritenuto entrambe non estranee alle scelte gestionali non solo in ragione del loro ruolo di consigliere di amministrazione, ma anche sul rilievo che la B.B. fosse presente con continuità negli uffici come impiegata amministrativa anche in epoca precedente all'infortunio e che la E.E. frequentava, sia pure non sistematicamente, lo stabilimento già nel periodo precedente all'infortunio ed era evidentemente addentro alle vicende aziendali, tanto da aver preso in mano le redini dell'attività all'indomani dell'infortunio.
Il contributo omissivo attribuito alle predette è stato individuato nell'avere assecondato le decisioni strategiche dei rispettivi padri, facendo mancare il proprio doveroso contributo critico rispetto alla dissennata complessiva gestione aziendale, incorrendo - nel loro ruolo di componenti del Consiglio di Amministrazione di (Omissis) Srl - in una radicale omissione di controllo nel far rispettare le più elementari precauzioni in materia ambientale e di sicurezza del lavoro.
Orbene, la motivazione in punto di responsabilità di tali imputate non pare congrua e pare essere fortemente condizionata dal fatto che si tratti delle figlie dei vertici aziendali.
In realtà risponde al vero che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha affermato che nelle società di capitali, gli Obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia (così Sez. 4, n. 8118 del 01/02/2017, Rv. 269133 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna del Presidente del Consiglio di amministrazione di una società per l'infortunio occorso ad un dipendente a causa della mancata manutenzione dei macchinari cui lo stesso era assegnato; conf. Sez. 4, n. 6280 del 11/12/2007, dep. 2008, Mantelli, Rv. 238958; Sez. 4, n. 49402 del 13/11/2013, Bruni, Rv. 257673).
Tuttavia, l'approdo ermeneutico attuale, che il Collegio condivide, ha visto le Sezioni Unite nel caso Thyssenkrupp (Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn Rv. 261108) da un lato ribadire che datore di lavoro può essere anche l'intero Consiglio di Amministrazione o il Comitato Esecutivo che di questo ne è emanazione, il cosiddetto board. Ciò in ossequio alla necessità di non fare confusione tra i piani del diritto societario e quelli del diritto penale del lavoro nell'ambito di organizzazioni complesse, d'impronta societaria, in cui la veste datoriale non può essere attribuita solo sulla base di un criterio formale, magari indiscriminatamente estensivo, ma richiede di considerare l'organizzazione dell'istituzione, ma anche precisare che occorre, tuttavia, all'interno del board, individuare le figure che gestiscono i poteri che danno corpo a tale figura.
Successivamente, inoltre, questa Corte di legittimità ha ribadito e ulteriormente puntualizzato il principio - che va qui ribadito - secondo cui, in materia di sicurezza del lavoro, nelle organizzazione societarie complesse possono assumere posizioni di garanzia anche i componenti del comitato esecutivo (c.d. "board"), ma solo ove sia ravvisabile la loro reale partecipazione ai processi decisori, cioè la loro ingerenza nelle scelte decisionali e nell'ambito operativo della società, con particolare riferimento alle condizioni di igiene e sicurezza del lavoro (così Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, Pesenti, Rv. 271719 cha ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva assolto i componenti del comitato esecutivo di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, sia perchè il comitato non si era mai riunito, sia perchè attribuzioni e poteri erano stati "di fatto, in modo sostanziale" delegati all'amministratore delegato e a determinati soggetti non componenti del comitato esecutivo nè membri del consiglio d'amministrazione).
Ebbene, in tale ottica appare, ad esempio, fondata la doglianza difensiva secondo cui sarebbe completamente priva di motivazione l'affermazione secondo cui la B.B. "esercitava poteri decisionali e di spesa", non specificando la Corte territoriale quale atto del processo supporti tale affermazione.
Nè i giudici del gravame del merito paiono confrontarsi adeguatamente con un serie di rilievi concreti posti al loro esame dalle difese delle ricorrenti.
Come la circostanza che la B.B. aveva una specifica delega in riferimento al D.Lgs. n. 196 del 2003 in materia di trattamento dei dati personali, per cui le era attribuito un compito del tutto diverso da quello in materia di prevenzione antinfortunistica.
Oppure, quanto a E.E., il rilievo che i giudici di merito attribuiscono a E.E. la qualifica di datore di lavoro, ma omettono di specificare quale fosse la sua effettiva posizione lavorativa all'interno della società, non essendo pacificamente sufficiente addurre esclusivamente la sua qualifica di consigliera di amministrazione. Ciò laddove E.E., come emerge dalla visura storica della società agli atti, non è mai stata proprietaria di quote sociali e viene nominata consigliere di amministrazione solo il 27.12.2012 in sostituzione del padre D.D., ovvero solo un anno e nove mesi prima del tragico evento di cui è processo.
Ancora, per la E.E., occorreva confrontarsi criticamente con il rilievo difensivo che la stessa, molto giovane, era alla sua prima esperienza lavorativa e le sue mansioni specifiche riguardavano "l'attività inerente l'esercizio di macchine agricole per conto terzi, la conduzione di terreni agricoli sia propri che di terzi, la coltivazione nonchè la sperimentazione con concimi organici" (così la delibera del CdA di (Omissis) del 27.12.2014 agli atti).
O con il fatto che le riunioni del CdA non hanno mai messo all'ordine del giorno problematiche afferenti la sicurezza sul lavoro o la prevenzione degli infortuni in generale.
Per entrambe le imputate, in altri termini, non risulta spiegato dai giudici di merito, in mancanza di momenti deliberativi del Cda in tema di sicurezza, come abbiano potuto incidere sulle scelte aziendali in materia e, in concreto, quali comportamenti avrebbero dovuto tenere.
14. Inammissibili sono le proposte questioni in materia di provvisionale atteso che secondo il costante orientamento di questa Corte di legittimità la determinazione della provvisionale, in sede penale, ha carattere meramente delibativo e può farsi in base a giudizio presuntivo, derivandone che detta valutazione è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito che non è tenuto a dare una motivazione specifica sul punto e conseguendone che il relativo provvedimento non è impugnabile per cassazione in quanto, per sua natura pronuncia provvisoria ed insuscettibile di passare in giudicato, destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento del danno (così Sez. U. n. 2246 del 19/12/1990 dep. 1991, Capelli, Rv. 186722; conf. Sez. 5, n. 40410 del 18/3/2004, Farina ed altri, Rv. 230105; Sez. 5, n. 5001 del 17/1/2007, Mearini ed altro, Rv. 236068; Sez. 4, n. 34791 del 23/6/2010, Mazzamurno, Rv. 248348; Sez. 5, n. 32899 del 25/5/2011, Mapelli e altri, Rv. 250934; Sez. 2, n. 49016 del 6/11/2014, Patricola ed altri, Rv. 261054; Sez. 3, n. 18663 del 27/1/2015, D.G., Rv. 263486; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C. e G., Rv. 261536).
Non ci si può dolere, dunque, nè del difetto di motivazione e nemmeno potrebbe di un'eventuale abnormità, poichè i ricorrenti dispongono di ogni possibilità di difesa nella sede civile di liquidazione definitiva del danno.
15. Al rigetto dei ricorsi nel resto consegue la condanna dei ricorrenti A.A., D.D., C.C. e F.F. vanno anche condannati alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla sola parte civile INAIL, così come liquidate in dispositivo, trattandosi di parte civile ammessa in relazione al reato di omicidio colposo plurimo" che è comparsa in udienza e, anche attraverso un'articolata memoria difensiva, ha efficacemente contrastato le difese avverse, portando un utile contributo al contraddittorio.
Non si ritiene che analoga condanna vada operata a favore delle parti civili ammesse in relazione ai reati contravvenzionali ci cui ai capi CC e DD. Ciò ancorchè il Collegio ritenga, pur a conoscenza di un diverso orientamento (espresso da Sez. 5, n. 19177 del 31/1/2022, Musso, Rv. 283118; Sez. 6, n. 28615 del 28/4/2022, Landi, Rv. 283608; Sez. 6, n. 9430 del 20/2/2019, S. Rv. 275882; Sez. 2, n. 36512 del 16/7/2019, Serio, Rv. 277011; Sez. 5, n. 29481 del 7/5/2018, Titton, Rv. 273332; Sez. 2, n. 52800 del 25/11/2016, Rosati, Rv. 268768) che nel giudizio di legittimità, in caso di ricorso dell'imputato rigettato o dichiarato, per qualsiasi causa, inammissibile, la parte civile ha diritto di ottenere la liquidazione delle spese processuali senza che sia necessaria la sua partecipazione all'udienza, purchè abbia effettivamente esplicato, anche solo attraverso memorie scritte, un'attività diretta a contrastare l'avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria, fornendo un utile contributo alla decisione, atteso che la sua mancata partecipazione non può essere qualificata come revoca tacita e che la previsione di cui all'art. 541 c.p.p. è svincolata da qualsiasi riferimento alla discussione in pubblica udienza (così Sez. 4, n. 36535 del 15/9/2021 A. Rv. 281923; Sez. 5, Ord. n. 36805 del 22/06/2015 Bonvissuto, Rv. 264906).
I ricorsi degli imputati sopra indicati, infatti, sono stati incentrati sull'assenza di responsabilità per il reato sub AA e non hanno contestato, se non genericamente e in relazione al profilo di colpa afferente a quello, l'affermazione di responsabilità ai fini civilistici in relazione ai reati contravvenzionale di cui ai capi CC. (D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 110, 269 e 269 contestato a D.D., A.A. e C.C.) e DD (art. 674 c.p. contestato a tutti e sei gli odierni ricorrenti) dichiarato prescritto in appello, reato per il quale erano state ammesse le costituzioni di parte civile della Regione Veneto e della Provincia di Rovigo, che sono comparse in udienza, e delle altre parti civili indicate in premessa che hanno fatto pervenire conclusioni scritte.
In ogni caso, fatta eccezione per l'INAIL, le altre parti civili, ivi compreso O.O., che era stato ammesso in relazione al reato di cui al capo AA e che ha fatto pervenire attraverso l'Avv. Passadore Sandra, mere conclusioni scritte, non hanno fornito, ad avviso del Collegio, un utile contributo alla decisione.
Si ritiene pertanto di non dover operare alcuna liquidazione per quelle, conformemente ai dictum di Sez. U., n. 877 del 14/7/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886 (vedasi in motivazione pagg. 22 e ss. e vedasi anche Sez. U., n. 34559 del 26/6/2002, De Benedictis, Rv. 222264).
Per B.B. e E.E., invece, la regolamentazione delle spese tra le parti in questo giudizio di legittimità viene demandata al giudice del rinvio, all'esito di quel giudizio.
P.Q.M.
Dispone correggersi l'errore materiale nel dispositivo della sentenza impugnata relativamente all'imputato C.C. nel senso che laddove, in relazione alla dichiarazione di improcedibilità per prescrizione si legge "C.C. in ordine ai reati di cui ai capi A, B, C, D, E, CC e DD" si legga e si abbia per scritto "C.C. in ordine ai reati di cui al capi A, B, C, D, E, F, G, CC e DD".
Annulla la sentenza impugnata in relazione alle imputate E.E. e B.B. e rinvia per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Venezia, cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti in questo giudizio di legittimità.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all'imputazione di lesioni personali colpose gravissime in danno di O.O. relativamente agli imputati A.A., D.D., C.C. e F.F. per essersi tale reato estinto per intervenuta prescrizione e rinvia per la rideterminazione della pena alla Corte di Appello di Venezia, altra Sezione.
Rigetta nel resto i ricorsi proposti da A.A., D.D., C.C. e F.F., e condanna gli stessi alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla parte civile INAIL che liquida in complessivi Euro 3000 oltre accessori come per legge. Nulla sulle spese alle altre parti civili.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2023