Tribunale Bergamo, Sez. Lav., 03 maggio 2023, n. 385 - Whistleblowing fra straining e mobbing


 

Nota a cura di Insardà Camilla, in Il merito, 11/2023, pp. 11-15  ""Soffiate" aziendali e conseguenze ritorsive: whistleblowing fra straining e mobbing?"

 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di BERGAMO

Sezione Lavoro

Il Tribunale, nella persona del Giudice del lavoro Elena Greco

ha pronunciato la seguente

SENTENZA



nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1896/2018 promossa da:

M.G. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. Roberto Trussardi, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.,

RICORRENTE

contro

A.S.S.T.P.G. XXIII (C.F. (...)), in persona del direttore generale pro tempore, con il patrocinio dell'avv. Gabriella Battaglioli e dell'avv. Annalisa Avolio, elettivamente domiciliato presso lo Studio Legale Avolio e Associati in Milano, viale Gian Galeazzo n. 16

CONVENUTO
 

Fatto


Con il ricorso introduttivo del giudizio il ricorrente ha adito il Tribunale di Bergamo in funzione di giudice del lavoro chiedendo di "accertare e dichiarare che, per tutti i fatti meglio descritti nell'espositiva che precede, il ricorrente è stato illegittimamente fatto oggetto di una condotta integrante la fattispecie di straining e/o mobbing da parte della A.P.G. XXIII nonché di whistelblowing (inteso come mancata protezione nei termini sopra precisati) e per l'effetto condannare la A. medesima al risarcimento di tutti i danni subiti dal ricorrente in conseguenza dell'illegittimo comportamento datoriale, sia di natura patrimoniale che di natura extrapatrimoniale, ivi compresi i danni dal medesimo subiti in conseguenza dell'illegittima dequalificazione, demansionamento e perdita di professionalità (danno professionale, all'immagine, alla carriera, alla dignità personale etc.) nonchè il danno alla salute, il danno biologico permanente e temporaneo e il danno da perdita di chances per la mancata crescita professionale (anche con riferimento alla mobilità tra enti) da liquidarsi come indicato e/o come risulterà dovuto in corso di causa o il Giudice riterrà di giustizia anche ex art.1226 c.c.."

A sostegno della propria domanda il ricorrente ha esposto di essere assunto presso l'A.P.G. XXIII e di avervi rivestito la qualifica di infermiere coordinatore sin dal 1992 (dapprima presso gli Ospedali Riuniti, poi presso la convenuta), in particolare svolgendo tale attività dal settembre 2004 al 3.12.2017 presso l'unità operativa complessa (cosiddetta u.o.c.) di pediatria, di aver sempre eseguito con professionalità la propria prestazione lavorativa ottenendo valutazioni di rendimento di buon livello e non riportando mai sanzioni disciplinari, di essere divenuto nonostante ciò vittima di condotte mobbizzanti o "stressogene" per aver assunto in talune occasioni il ruolo di whistleblower e di aver subito tali condotte tanto da aver richiesto il trasferimento ad altro reparto per salvaguardare la propria salute psicofisica.

Ha precisato che l'origine delle persecuzioni poste in essere in suo danno aveva trovato scaturigine in comportamenti tenuti da colleghi e superiori nell'ambito di un progetto di natura infermieristica di assistenza a domicilio denominato "quasi a casa" ed in relazione al quale era stato accusato di non adoperarsi per consentirne la buona riuscita a causa dell'erroneo impiego di una risorsa infermieristica; era proseguita con la richiesta della referente di dipartimento P.G. di modificare la valutazione formulata in ordine al rendimento di due infermiere e con l'inutilità della segnalazione da lui effettuata per denunciare siffatte pressioni; si era aggravata in seguito a numerose segnalazioni da lui effettuate anche ai direttori dell'u.o.c. e della direzione sanitaria per rendere note situazioni in cui per disorganizzazione o mancanza di efficienza del reparto i pazienti non avevano potuto effettuare le cure programmate nei giorni prestabiliti o erano stati dimessi senza la previa valutazione dei reparti competenti, tanto che la sua persona in reparto era stata individuata come un "problema", che il direttore sanitario S.C. lo aveva più volte e insistentemente invitato a trasferirsi ad altro incarico, che dal 17.10.2021 al 29.10.2017 era stato collocato dapprima in ferie, poi in recupero ore eccedenti (fino al 31.10.2017) senza aver mai presentato alcuna richiesta in tal senso.

Ha dedotto che la situazione di forte ansia e stress sofferti a causa del trattamento ricevuto aveva comportato l'insorgere di uno stato di morbilità dal 18.10.2017 al 3.12.2017 e che aveva dovuto assumere psicofarmaci per farvi fronte.

Ha riferito di aver richiesto in data 16.10.2017 il trasferimento ad altro reparto al precipuo fine di tutelarsi dagli atti persecutori posti in essere in suo danno e di aver contestualmente invocato la normativa sul whistleblowing, senza però richiedere un demansionamento e senza acconsentire ad un trasferimento comportante la retrocessione di posizione, laddove l'azienda convenuta procedette a modificare la sua posizione di coordinatore infermieristico e dal 4.12.2017, a decurtargli la retribuzione privandolo del titolo e del compenso per l'incarico di coordinatore. A tal proposito ha allegato che dal 4.12.2017 era rientrato in servizio e, in seguito al trasferimento, si era trovato a svolgere presso il centro di formazione universitaria mansioni di mera segreteria in un ambiente isolato, privo di finestre e illuminato solo con luce artificiale, senza possibilità di relazioni professionali, senza una postazione fissa poiché per un giorno a settimana doveva anche lasciare la propria scrivania ad una impiegata dell'università Bicocca; che dal febbraio 2018, in seguito alle rimostranze compiute, era stato trasferito in un locale sempre privo di finestre e ancor più angusto del precedente; che non gli erano state rese note tramite la casella e-mail aziendale i concorsi interni, tanto da averne avuto conoscenza solo attraverso alcuni colleghi.

Ritualmente costituitasi in giudizio l'A.S.S.T.P.G. XXIII ha contestato le domande attoree e ne ha chiesto il rigetto. In particolare, con riferimento agli aspetti organizzativi del reparto e gestionali del rapporto di lavoro controverso, la convenuta ha dedotto di aver puntualmente dato seguito alle segnalazioni circostanziate effettuate dal ricorrente onde comprendere le ragioni dei disguidi denunciati, da un lato coinvolgendo nelle attività istruttorie sul punto anche il ricorrente stesso, dall'altro sollecitando quest'ultimo a discutere di eventuali problematiche organizzative e relazionali con i diretti interessati; ha puntualizzato che la richiesta di destinare parte attorea a diverso reparto o servizio fu formulata dalla stessa sin da l 2014 e in tempi più recenti nel corso di un colloquio svoltosi con l'assistenza di due rappresentanti sindacali e a seguito del quale vennero assunte in via concordata anche le decisioni sulla organizzazione del reparti di pediatria e sulla fruizione del congedo (dapprima qualificato come ordinario e poi trasformato - su richiesta del lavoratore medesimo - in recupero ore); ha precisato che sul ricorrente non venne esercitata alcuna pressione per indurlo a modificare il giudizio espresso sul rendimento di due infermiere del reparto pediatria, ma che viceversa si aprì una procedura di confronto alla presenza di un soggetto terzo al precipuo fine di consentire alle lavoratrici interessate e al loro coordinatore di comprendere le rispettive posizioni e che il ricorrente acconsentì liberamente ad incrementare alcuni dei punteggi attribuiti a tali due infermiere; ha descritto le mansioni attribuite al ricorrente in seguito al trasferimento al nuovo incarico, evidenziando che esso ha gli ha consentito di avere una quotidiana interazione con docenti, studenti, con gli uffici formativi e direzionali e di ricevere l'incarico - dopo un percorso formativo durato circa quattro mesi - di svolgere attività tutoriale in quattro sedi e di definire gli obiettivi didattici; ha riferito che già dal dicembre 2017 il responsabile dell'unità organizzativa della formazione universitaria invitò il ricorrente a partecipare alla selezione per le posizioni organizzative.

Istruita la causa con l'ammissione della prova testimoniale e disposta da ultimo la trattazione scritta della controversia ai sensi dell'art. 221, comma 4, L. n. 77 del 2020, all'udienza di discussione il Giudice ha assunto la causa in decisione, dando lettura del dispositivo e assumendo termine per il deposito delle motivazioni.

 

Diritto


Il ricorso non è fondato e non può pertanto essere accolto.

Per una corretta disamina della questione oggetto del giudizio, appaiono necessarie alcune considerazioni di carattere generale sul concetto di mobbing e di straining e della relativa risarcibilità.

Per mobbing (dall'inglese "to mob", cioè "attaccare", "aggredire") si intende, comunemente, una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità.

Secondo i più consolidati approdi giurisprudenziali e dottrinali, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti:

a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (cfr. Cass., n. 3785/2009).

A metà strada tra il mobbing e il semplice stress occupazionale, si pone una condizione psicologica definita straining.

Lo straining, dall'inglese "to strain", ha un significato molto simile a quello di "to stress", ossia "stringere, distorcere, mettere sotto pressione" e indica, infatti, una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima (il lavoratore), subisce da parte dell'aggressore (lo strainer, che solitamente è un superiore) almeno un'azione ostile e stressante, i cui effetti negativi sono di durata costante nel tempo. La vittima, inoltre, deve trovarsi in persistente inferiorità rispetto allo strainer, la cui azione viene diretta volontariamente contro una o più persone, sempre in maniera discriminante.

Sul piano pratico lo straining si differenzia dal mobbing per il modo in cui è perpetrata l'azione vessatoria: per la configurazione di una fattispecie di mobbing è necessario che l'azione di molestia sia caratterizzata da una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, che venga riscontrato un danno alla salute e, infine, che questo danno possa essere messo in relazione all'azione persecutoria svolta sul posto di lavoro; viceversa nello straining viene meno il carattere della continuità delle azioni vessatorie. Tale assunto è stato recentemente confermato dai giudici di legittimità, secondo i quali lo straining altro non è se non "una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie" (Cass. n. 3291/2016 e Cass. n. 3977/2018); azioni non necessariamente associate ad un intento persecutorio (Cass. n. 18927/2016), ma intenzionale che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c..

In altri termini, posto che la figura del mobbing e dello straining hanno rilevanza meramente descrittiva, il risarcimento del danno all'integrità psicofisica richiede l'accertamento della natura vessatoria anche di singoli comportamenti e pure in mancanza d'intento persecutorio. Nell'ipotesi in cui, come nella prospettazione del caso in esame, il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, di natura asseritamente vessatoria, onde valutare la ricorrenza di una fattispecie di straining si tratta di valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente ma sempre in sequenza causale, pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio - possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (cfr. Cass. n.15159/2019; Cass. n. 16256/2018; Cass. n. 3977/2018). Conseguentemente la nozione di straining, espressamente invocata dal ricorrente, avendo natura medico-legale, non riveste autonoma rilevanza ai fini giuridici, ma è utilizzata per identificare comportamenti che si pongano in contrasto con l'art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (cfr.: Cass. 29 marzo 2018 n. 7844).

Secondo la Suprema Corte, infatti, lo straining è una forma attenuata di mobbing che è configurabile quando vi siano comportamenti "stressogeni", scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manca la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma comunque realizzino effetti dannosi all'interessato (così: Cass. n. 15159/2019 cit.). La giurisprudenza di merito ha altresì sottolineato come lo straining, a differenza del mobbing, si caratterizza per la particolare aggressività del comportamento attuato dal datore di lavoro, manifestata attraverso la repentinità o la natura eclatante dell'azione o insita nelle specifiche circostanze del demansionamento, ovvero nel concomitante verificarsi di altri atti volti ad isolare, anche dal punto di vista umano, il lavoratore.

Tuttavia al pari del mobbing anche lo straining provoca al dipendente problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare, incidenti sulla sua qualità della vita.

Entrambe le fattispecie, nel persistente vuoto normativo, sono tutelabili in virtù di quanto disposto dall'art. 2087 c.c., che, quale norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, rappresenta strumento sanzionatorio atto a punire tutte quelle condotte del datore di lavoro capaci di ledere la personalità e la dignità del lavoratore. Ed infatti, ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" ed a tal fine occorre valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, o altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno.

Il lavoratore che subisce una condotta mobbizzante, comportamenti vessatori, lesivi e persecutori, sia pure nella forma meno intensa dello straining, ha dunque diritto al risarcimento del danno biologico, ma è onerato dell'allegazione probatoria dei fatti nei quali si è estrinsecata la condotta datoriale e del nesso causale tra il comportamento tenuto dal datore di lavoro (o dai colleghi) ed il pregiudizio alla propria salute.

In tema di responsabilità del datore di lavoro per mobbing o per straining, infatti, il lavoratore non è certo tenuto a dimostrare materialmente la colpa del titolare, ma è comunque soggetto all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale e delle regole di condotta che assume essere state violate, della nocività dell'ambiente di lavoro nonché il nesso eziologico tra la condotta del datore ed il pregiudizio all'integrità psicofisica che lamenta di aver sofferto (Cass. n. 13693/2015).

Analogo ragionamento vale anche per le condotte demansionanti, di cui pure il ricorrente assume di essere stato vittima: "Quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile" (Cass. n. 17365/2018).

Tenuto conto di quanto esposto, nel caso di specie gli esiti della istruttoria portano a ritenere non sussistente una responsabilità datoriale, risultando invece che il datore di lavoro - a fronte della situazione di difficoltà in cui si è trovato ad operare il ricorrente - abbia agito per tutelarne sia l'integrità psicofisica sia la professionalità, abbia cercato di attenuare le frizioni tra il ricorrente ed i colleghi ed abbia ricercato un diverso ambito di realizzazione professionale del proprio dipendente.

Con riferimento alla asserito verificarsi nel reparto di pediatria di una situazione di ostracismo nei confronti del ricorrente, nato in concomitanza con l'elaborazione e la realizzazione del progetto "quasi a casa" e accresciutosi in seguito a varie denunce di disfunzioni organizzative e gestionali nell'ambito del reparto, le risultanze della istruttoria non hanno affatto confermato la tesi attorea, ma hanno viceversa delineato un ambiente in cui i vari operatori - pur rendendosi conto di una situazione di difficoltà personale del lavoratore - non ne hanno revocato in dubbio la professionalità, l'attitudine organizzativa e le capacità.

In tal senso depongono innanzi tutto le dichiarazioni dei testi attorei, i quali - pur dando atto di aver riscontrato taluni problemi - hanno puntualizzato che essi non erano relativi "alla posizione del ricorrente" e che alcuno si era mai permesso di individuare la sua persona o il suo ruolo come problematico (cfr. dichiarazioni del teste M.D. di cui al verbale di udienza del 5.4.2019), hanno confermato di non aver mai notato "in reparto alcuna ostilità nei confronti del ricorrente, non mi è parso che venisse escluso dal personale medico e che non fosse gradito, anzi" e, anche con riferimento al medico referente del progetto "qui a casa" hanno sottolineato che i rapporti con "la dott.ssa G. erano normali rapporti di lavoro, non ho mai assistito a dispetti, non ho mai visto che si nascondevano le cose" (cfr. dichiarazioni del teste G.T. di cui al verbale di udienza del 30.9.2020).

Circa la percezione della figura del ricorrente nell'ambito del reparto di pediatria non giovano alla tesi attorea dell'avvenuta emarginazione, isolamento o quantomeno del diffondersi di un sentimento di disistima e di disprezzo neppure le dichiarazioni della teste E.M.P., la quale - sebbene sia apparsa animata da un forte spirito di critica e di rivalsa nei confronti di taluni infermieri e responsabili amministrativi addetti al reparto o con esso operanti - non ha enucleato nelle proprie dichiarazioni alcun elemento di fatto idoneo a far emergere episodi di vessazione, di esclusione, di ghettizzazione, di sfiducia o di discredito del ricorrente. In particolare, sebbene la teste abbia confermato che nell'ambito del reparto pediatria si verificarono alcuni episodi di disorganizzazione a scapito dei pazienti, la stessa ha precisato che tali episodi riguardano da un canto l'avvenuta consegna di un farmaco ad una paziente e la richiesta di chiarimenti da parte dell'infermiera B.T. e i dottori G. e P. circa la necessità di informare il coordinatore di tale consegna, dall'altro la mancata predisposizione della cartella di un paziente del day hospital e non ha enucleato però alcun episodio di discredito o di tentativo di isolamento del ricorrente (cfr. dichiarazioni di E.M.P. di cui al verbale di udienza del 6.11.2019).

Anche la tesi della imposizione delle ferie o del recupero delle ore eccedenti non trova invero riscontro negli esiti della istruttoria. Se da un lato il verbale dell'incontro del 9.10.2017, nel quale è attestato che parte attore assentì alla richiesta datoriale di fruire di ulteriori 15 giorni di ferie rispetto ai due già programmati, non costituisce piena prova poiché priva della sottoscrizione dei partecipanti alla riunione (cfr. doc. 3 fasc. conv.), in tal senso depongono le dichiarazioni dei testi S.C. e P.G., le quali illustrano le ragioni di tale richiesta evidenziando che, in accoglimento della richiesta di trasferimento ad altro reparto, l'ente datoriale avrebbe ricercato un altro incarico di coordinamento da attribuire al lavoratore (cfr. verbali di udienza del 5.4.2019 e del 6.11.2019).

Ancora, risulta smentita anche la tesi secondo la quale lo svilimento della professionalità perpetrato dall'Azienda convenuta diverrebbe manifesto in considerazione delle mansioni attribuite a parte attorea presso la nuova unità organizzativa di assegnazione e della particolare collocazione del suo nuovo ufficio in seguito al trasferimento presso l'unità organizzativa della formazione.

Dalle dichiarazioni della teste E.C. è emerso che le strutture della formazione sono state "progettate" dopo la costruzione dell'ospedale e che i relativi spazi sono stati ricavati in modo da essere visibili, in prossimità del c.u.p., e sono situati nella parte interna del padiglione, cosicché anche la stessa teste aveva a sua disposizione solo un ufficio privo di finestre e di illuminazione naturale (cfr. verbale di udienza del 30.9.2020; nel senso prospettato depongono anche le circostanze riferite dal teste N.T.C. di cui al medesimo verbale di udienza).

Circa l'avvenuto demansionamento in seguito all'assegnazione presso l'unità operativa della formazione, invece, la medesima teste E.C. ha illustrato le modalità attraverso le quali ha inteso utilizzare e sviluppare le competenze organizzative e tecniche già possedute dal ricorrente al momento dell'assegnazione al nuovo incarico e come si sia prodigata anche per garantirgli l'accrescimento professionale, mediante l'attribuzione del ruolo di tutor nell'ambito del corso di laurea in scienze infermieristiche e con l'assegnazione di compiti e mansioni di organizzazione e di controllo confacenti rispetto al livello D di inquadramento (in relazione al quale invero parte attorea non ha mai specificato le ragioni per cui le mansioni attribuite nell'ambito dell'unità operativa della formazione sarebbero inferiori rispetto a quelle in precedenza svolte presso la pediatria).

Inoltre non si ravvisa alcun illegittimo esercizio del potere datoriale nella scelta della capo area P.G. di procedere ad un confronto dialettico tra il ricorrente, nella sua veste di coordinatore del personale infermieristico, e due infermiere (T. e V.) in merito alla valutazione compiuta dal primo. Come emerso in sede istruttoria tale contraddittorio fu proposto dal capo area P.G. in considerazione delle difficoltà relazionali che riguardavano parte del personale infermieristico e fu svolto senza esercizio di alcun tipo di pressione e senza imposizione di sorta sugli esiti della valutazione. Il teste P.G. a tal proposito ha evidenziato che: "il momento della valutazione del personale infermieristico è un momento importante, perché in quel momento si restituisce il riscontro di un anno di lavoro; nel 2017 le infermiere T. e V. si lamentarono con me, la V. perché la valutazione era stata data in tre minuti in modo molto spiccia e non chiara e senza capire cosa fosse stato detto; la T. si lamentò del voto ottenuto e si lamentò del fatto che la valutazione gli era stata data solo l'ultimo giorno prima delle ferie ed era più bassa degli anni precedenti. Ricevute le segnalazioni delle infermiere, io ho convocato il ricorrente per chiarire gli aspetti delle valutazioni e, d'accordo con lui, abbiamo scelto di convocare anche le due infermiere e lui addirittura ne chiamò una per telefono. Insomma comparvero tutti e tre insieme davanti a me e lì condividemmo gli aspetti della valutazione, che spetta sempre e comunque al coordinatore e non a me. In quell'occasione, per aiutare le parti coinvolte a contestualizzare la valutazione e per essere neutrale, io aprii le valutazioni e le rilessi con il ricorrente e una infermiera per volta e, in relazione ai 4 item di valutazione contestati per ciascuna infermiere, ci fu un confronto tra le infermiere e il ricorrente, ma lui non in quell'occasione non disse molto, mentre le infermiere sottolineavano la loro condotta per conseguire un punteggio più alto; nel confronto dialettico con tutte le parti, decidemmo d'accordo con M. di alzare la valutazione di due item per le infermiere e di mantenere invariati gli altri due item, su un totale di 12 item; all'esito della riunione, per rendere più agevole il flusso di comunicazione, io inviai al ricorrente il file con la nuova valutazione e nel ricevere la mail, lui non manifestò alcuna contrarietà rispetto alle nuove valutazioni fatte in mia presenza. Preciso che in questa occasione io cercai di essere neutrale, appunto perché la valutazione non è di mia competenza e cercai solo di instaurare un confronto collaborativo tra il coordinatore e le infermiere valutate" (cfr. verbale di udienza del 6.11.2019).

In definitiva, all'esito della istruttoria documentale e testimoniale, le tesi attoree non risultano affatto provate e i fatti enucleati in ricorso come sintomatici del mobbing o quantomeno dello straining non sono affatto emersi, considerato che tutti i testi hanno invero confermato che nel reparto di pediatria ove il ricorrente operava come coordinatore era diffuso e condiviso nei suoi confronti un sentimento di stima e di rispetto. La circostanza che il ricorrente abbia avuto uno screzio con l'infermiera B.T. (confermata da tutti i testi e descritta più nel dettaglio dal teste attoreo G.T., che ha dato atto di aver assistito ad un episodio in cui, pur non comprendendone le ragioni, vide "l'infermiera T. che urlava" in un confronto con il ricorrente) e che in seguito ad esso abbia avvertito un generale mancato adeguato riconoscimento del suo lavoro, dell'impegno profusovi, della disponibilità sempre offerta non ha appunto trovato riscontro, tanto che gli stessi testi attorei hanno confermato che "Dopo l'episodio con l'infermiera T. mi accorsi che il ricorrente stava male; lui in genere era molto presente e molto collaborante e in quel periodo invece era molto distrutto. Dopo il medesimo episodio si capiva in reparto che il ricorrente non poteva stare più al suo posto di lavoro, in reparto noi o.s.s. e gli infermieri lo avevamo percepito, ma nessuno diceva nulla e continuavamo a lavorare tranquilli. G. svolgeva sempre la sua attività e non mancava mai, ma dopo l'episodio con la T. in reparto tra il personale infermieristico, noi o.s.s. e il personale medico i rapporti continuarono normalmente con le stesse modalità con cui continuavano a lavorare in precedenza" (cfr. dichiarazioni di G.T. di cui al verbale di udienza del 30.9.2020). Anche la dedotta ritorsione subita per effetto delle segnalazioni delle disfunzioni gestionali e organizzative verificatesi in reparto è rimasta priva di oggettiva prova, essendo invece emerso che in seguito ad esse parte attorea venne coinvolta nel procedimento per la rettifica di tali disfunzioni e vi si sottrasse: "Anche le denunce che lui presentò e che portarono ad ispezioni dei Nas e della Ats non portarono rilievi rispetto agli episodi denunciati. … In relazione agli episodi organizzativi che avevano creato problemi, ricordo l'episodio di un agenda che aveva creato questioni su aspetti concernenti l’ esecuzione di un non giusto programma, in quell'occasione io chiesi al ricorrente di fare un approfondimento per verificare se c'erano problemi tecnici ma alla fine ho dovuto organizzare io un incontro con la direzione medica per capire se questo tipo di agenda poteva essere gestita diversamente e i problemi sono stati risolti con l'introduzione di una nuova agenda tanto che non ne sono stati più segnalati" (cfr. dichiarazioni di S.C. di cui al verbale di udienza del 5.4.2019).

Alla luce di tutto quanto esposto, dunque, è evidente come non sia ravvisabile alcuno dei requisiti al quale la giurisprudenza di legittimità riconduce l'accertamento dello straining, posto che non sono stati minimamente dimostrati dal lavoratore (su cui incombe il relativo onere) né la valenza quale fonte di stress dei comportamenti posti in essere dal datore di lavoro, né che tali condotte siano state scientemente attuate nei suoi confronti. Il ricorso deve pertanto essere integralmente rigettato.

Tenuto conto della particolarità della questione affrontata, le spese del giudizio vengono integralmente compensate tra le parti.

 

P.Q.M.


Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

- Rigetta il ricorso;

- Compensa integralmente tra le parti le spese di lite;

- Fissa in sessanta giorni il termine per il deposito delle motivazioni.

Così deciso in Bergamo, il 29 giugno 2022.

Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2023.