Cassazione Penale, Sez. 3, 01 dicembre 2023, n. 47904 - Il datore che ha osservato i protocolli Covid è assolto dalle imputazioni di violazione della sicurezza sul lavoro per distanze e mascherine



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACETO Aldo - Presidente -

Dott. PAZIENZA Vittorio - rel. Consigliere -

Dott. MENGONI Enrico - Consigliere -

Dott. MACRI’ Ubalda - Consigliere -

Dott. MAGRO Maria Beatrice - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
 


Sul ricorso proposto da:

Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Savona;

nel procedimento a carico di: A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza emessa il 14/10/2022 dal Tribunale di Savona visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione del Consigliere Dr. Vittorio Pazienza;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. Seccia Domenico, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso;

letta la memoria del difensore del A.A., avv. Federico Fontana, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Fatto


1. Con sentenza del 14/10/2022, il Tribunale di Savona ha assolto A.A. dai reati a lui ascritti, meglio descritti ai capi a), b), c) della rubrica, concernenti una pluralità di violazioni delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, riscontrate - con riferimento alla situazione pandemica da virus SARS COV. 2 - nel punto vendita (Omissis) di (Omissis), e contestate al A.A. nella qualità di datore di lavoro, correlata alla sua carica di Presidente del C.d.A. della (Omissis) LIGURIA SOC COOP. DI CONSUMO. In particolare, le contestazioni riguardano la mancata adozione di strutture idonee a garantire una distanza interpersonale superiore al metro tra gli addetti alle casse e la clientela (capo a), la mancata indicazione nel Documento di Valutazione dei Rischi delle misure preventive e protettive del personale predetto (capo b), la mancata fornitura ai dipendenti di dispositivi di protezione individuale conformi e adeguati al rischio derivante dal virus (capo c).

2. Con l'atto di appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Savona, qualificato come ricorso per cassazione dalla Corte d'Appello di Genova e trasmesso a questa Suprema Corte, si deduce anzitutto che il Tribunale non aveva adeguatamente motivato in ordine ai primi due capi di accusa. Inoltre, si censura la sentenza del Tribunale per aver ritenuto che la norma di chiusura contenuta nell'art. 2087 c.c. - posta a presidio dell'integrità fisica dei lavoratori rispetto ad eventuali lacune o incongruenze della normativa speciale, ovvero all'eventuale utilizzo di misure di sicurezza non in linea con la massima sicurezza tecnologicamente possibile - fosse stata derogata dalla normativa emanata a seguito dell'emergenza pandemica. Si sostiene in particolare, a tale ultimo proposito, che il richiamo all'art. 2087 c.c., contenuto D.L. n. 23 del 2020, art. 29-bis (convertito dalla L. n. 40 del 2020), aveva la sola funzione di limitare temporaneamente la responsabilità ex art. 2043 c.c. nei confronti del lavoratore alle sole ipotesi di mancata applicazione dei protocolli e delle linee guida citate dal predetto art. 29-bis del datore di lavoro (del resto, era lo stesso imputato ad aver implicitamente ammesso l'applicabilità delle disposizioni del D.Lgs. n. 81 del 2008, effettuando la valutazione del rischio biologico da potenziale esposizione non deliberata al virus).

In conclusione, il ricorrente ha censurato l'interpretazione dell'art. 29-bis quale "scudo penale" a copertura dei soggetti posti in posizione di garanzia come il datore di lavoro, dal momento che la legislazione emergenziale non aveva portato alla sospensione delle disposizioni ordinarie in materia e che gli stessi protocolli, non aventi rango di norme di legge, potevano al più considerarsi alla stregua di "buone prassi".

3. Con memoria ritualmente trasmessa, il difensore del A.A. replica alle argomentazioni del ricorrente, osservando che queste ultime avevano erroneamente interpretato la normativa emergenziale ed il contesto storico in cui queste erano state emanate, nel quale "le linee guida contenute nei Protocolli condivisi andavano a sostituire, per quanto riguarda lo specifico rischio biologico in questione, la valutazione del rischio da parte del datore di lavoro, essendo pertanto sufficiente, per questo specifico fine, che il datore di lavoro si adeguasse alle indicazioni contenute nei Protocolli stessi, nonchè alle ulteriori regole contenute nella normativa emergenziale" (pag. 10 della memoria).

D'altra parte, il regime derogatorio rispetto alle ordinarie disposizioni emergeva anche dalla rubrica e dal testo D.L. n. 18 del 2020, art. 16 mentre la questione dell'astratta incompatibilità con il principio di massima tutela del lavoratore, elaborato nell'interpretazione dell'art. 2087 c.c., era stato risolto alla radice dell'art. 29-bis del citato D.L. n. 23: "Tale norma, evidentemente, costituisce la "chiusura del cerchio", in quanto rassicura il datore di lavoro che, con specifico riferimento al rischio di contagio dal virus SARS-COV2, non si applicherà il principio di massima tutela del lavoratore (in quanto, come già detto, oggettivamente impossibile da applicare), ma sarà sufficiente che il datore di lavoro applichi costantemente e scrupolosamente, all'interno della propria realtà aziendale, le regole previste dai Protocolli condivisi e dall'ulteriore normativa emergenziale, applicabili nel settore di riferimento" (cfr. pag. 12 della memoria). Il difensore evidenzia ancora - oltre alla analiticità dei protocolli e al rilievo conferito anche alle future modificazioni degli stessi - che l'art. 29-bis, introdotto con legge ordinaria, contiene disposizioni di grado equivalente, nella gerarchia delle fonti, a quelle introdotte con il D.Lgs. n. 81 del 2008. Sotto altro profilo, si richiamano le decisioni governative che avevano destinato i dispositivi di protezione FFP2, nella prima fase introvabili, ai settori connotati da maggior rischio di contagio, e la conseguente inaccoglibilità dell'interpretazione sostenuta dal P.M. ricorrente.

In conclusione, il difensore sottolinea quanto emerso dall'istruttoria dibattimentale in ordine all'adozione, in concreto, di misure di precauzione ulteriori rispetto a quelle previste dai protocolli e dalla normativa emergenziale (limitazione degli accessi nel punto vendita, obbligo di mascherina esteso a tutto il personale, realizzazione di un "box" in plexiglass per gli addetti alle casse, ecc.).

 

Diritto


1. Il ricorso è infondato.

2. La verifica della fondatezza delle contestazioni rivolte al A.A., nella già ricordata qualità di datore di lavoro con riferimento al punto vendita (Omissis) LIGURIA di (Omissis) Superiore, impone all'evidenza di esaminare i rapporti esistenti tra le disposizioni emergenziali progressivamente introdotte nell'ordinamento, al fine di contrastare il diffondersi del virus COVID-19, e le norme poste a tutela della sicurezza dei lavoratori, penalmente sanzionate ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008.

In particolare, è necessario stabilire se debba riconoscersi, alle prime, una valenza derogatoria rispetto alla ordinaria portata applicativa delle seconde, sia con riferimento a disposizioni di dettaglio (quali, per quanto qui specificamente rileva, l'adozione di misure idonee a garantire il rispetto della distanza interpersonale minima di un metro, ovvero - in caso di impossibilità - l'utilizzo, da parte del lavoratore, di dispositivi di protezione individuali di una determinata tipologia); sia, più in generale ed anzitutto, con riferimento al principio di massima tutela del lavoratore, elaborato e costantemente applicato - accanto ed oltre alle specifiche disposizioni gravanti sul datore di lavoro - dalla giurisprudenza attraverso l'interpretazione, ormai pienamente consolidata, dell'art. 2087 c.c. (cfr. ad es. Sez. 4, n. 9745 del 12/11/2020, dep. 2021, Dutu, Rv. 280696 - 02, secondo cui "in tema di infortuni sul lavoro, per configurare la responsabilità del datore di lavoro non occorre che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 c.c. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore").

Il Pubblico Ministero ricorrente si è chiaramente espresso nel senso dell'esclusione della predetta portata derogatoria, sostenendo - come si è già precedentemente accennato - che la normativa emergenziale non aveva in alcun modo comportato la sospensione delle disposizioni ordinarie in tema di sicurezza del lavoro, e che in particolare il richiamo all'art. 2087 c.c. (contenuto nel D.L. n. 23 del 2020, art. 29-bis una delle disposizioni introdotte nell'emergenza pandemica, sulla quale si tornerà) aveva avuto solo l'effetto di limitare, temporaneamente, la responsabilità ex art. 2043 c.c. del datore di lavoro, qualora non avesse rispettato i protocolli e le linee guida citati dallo stesso art. 29-bis.

Su tali premesse interpretative, il ricorrente ha sollecitato l'annullamento della sentenza emessa dal Tribunale di Savona, che aveva escluso la rilevanza penale di quanto accertato dagli operanti - in sede di ulteriore accesso dopo l'indicazione delle prescrizioni da ottemperare - in ordine all'assenza, nella postazione di cassa del supermercato, di una struttura idonea ad assicurare la distanza di un metro (essendo presenti pannelli non adeguatamente sviluppati in orizzontale), ed al mancato utilizzo di un dispositivo facciale di tipo FFP2 da parte dell'addetto alle cassa (che indossava solo una mascherina chirurgica).

3. Ad avviso di questo Collegio, la ricostruzione operata dal Tribunale di Savona merita di essere condivisa.

3.1. All'esito di una puntuale disamina delle risultanze acquisite, la sentenza impugnata ha preso anzitutto in considerazione il D.L. n. 18 del 2020, art. 16 il quale, al comma 1, testualmente dispone che "per contenere il diffondersi del virus COVID-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla Delib. Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, sull'intero territorio nazionale, per tutti i lavoratori e i volontari, sanitari e no, che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 74, comma 1, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall'art. 5-bis, comma 3, del presente decreto. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari". Al comma 2, si autorizza altresì l'utilizzo - "fino al termine dello stato di emergenza di cui alla Delib. Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020" - di mascherine prive del marchio CE prodotte in deroga alle vigenti disposizioni sull'immissione in commercio.

Tali disposizioni legislative sono state interpretate secondo il loro significato letterale, ovvero nel senso di consentire, ove risultasse impossibile garantire la distanza interpersonale di un metro, l'utilizzo delle mascherine chirurgiche: interpretazione confermata dal fatto che il medesimo legislatore aveva invece "preteso" l'utilizzo dei dispositivi FFP2, in caso di contatto prolungato del lavoratore con l'utenza (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata, in cui si fa l'esempio del tatuatore).

Il Tribunale di Savona ha quindi richiamato il D.L. n. 23 del 2020, art. 29-bis ai sensi del quale "ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui al D.L. 16 maggio 2020, n. 33, art. 1, comma 14, nonchè mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale".

E' opportuno evidenziare che, nella sentenza impugnata, si esclude che a tale disposizione possa essere considerata uno "scudo", un "salvacondotto" implicante un generico esonero da responsabilità del datore di lavoro, dal momento che i protocolli generali e quelli per specifici settori, richiamati nell'art. 29-bis e soggetti a successivi aggiornamenti, avevano proprio la funzione di individuare e specificare le misure necessarie per la tutela dei lavoratori contro il rischio da contagio COVID, tenendo conto degli aspetti peculiari delle attività lavorative, e dell'esperienza fino a quel momento maturata con riferimento ad un grave fattore di rischio di assoluta novità.

Tirando le fila del discorso, il Tribunale di Savona ha posto in evidenza che, con la normativa emergenziale introdotta dal legislatore ordinario, si era per un verso proceduto alla temporanea individuazione delle misure di prevenzione e delle regole di cautela da osservarsi nei luoghi di lavoro, correlata all'eccezionalità dell'emergenza e a fattori di rischio sconosciuti: in tale contesto, si è ulteriormente osservato che "non pare possibile ricercare al di fuori delle norme emergenziali le misure dovute dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. perchè non si può individuare ex post un diverso catalogo di misure applicabili al fine di attribuire ‘in maniera retroattiva una antidoverosità della condotta del debitore di sicurezza" (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata).

Per altro verso, ad avviso del Tribunale, il richiamo ai protocolli contenuto nell'art. 29-bis doveva interpretarsi nel senso del temporaneo discostamento dalla "regola giurisprudenziale della massima sicurezza (tecnologicamente) possibile", proprio perchè doveva essere l'adozione dei protocolli ad "assicurare alle persone che lavorano livelli di sicurezza ‘adeguatì e non quindi un generico livello massimo della sicurezza tecnologicamente possibile (che, nel caso del rischio COVID, sarebbe sostanzialmente indefinibile)" (cfr. pag. 7, cit.).

3.3. Ritiene il Collegio che il percorso argomentativo tracciato dal Tribunale di Savona sia immune da censure qui deducibili.

Deve in particolare osservarsi che la valorizzazione dei protocolli, da parte del legislatore dell'emergenza, non è stata effettuata in termini generici o astratti, ma attraverso una diretta, indiscutibile correlazione con gli obblighi gravanti sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c., nel senso appunto che, per ciò che riguarda i rischi da contagio COVID, i datori di lavoro pubblici e privati "adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c." applicando le prescrizioni e adottando le misure contenute nei protocolli.

L'interpretazione del P.M. ricorrente, che vorrebbe circoscrivere la portata di tale disposizione alla dinamica del rapporto civilistico intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore, non trova alcun riscontro nella lettera dell'art. 29-bis, e appare poco convincente anche da un punto di vista sistematico, essendo chiara - per le ragioni chiaramente espresse nel provvedimento impugnato (cfr. supra, p. 3.2) la portata eccezionale delle disposizioni in questione, volte a rimodulare, durante l'emergenza pandemica - e per la non controversa impossibilità di individuare concretamente, ex ante, un livello di "massima tutela" perseguibile - i profili della valutazione dei rischi e della individuazione delle misure da adottare da parte datoriale.

Tra l'altro, si è visto - con specifico riferimento alla necessità sia di far rispettare la distanza di un metro, sia di individuare le misure da adottare in caso di impossibilità - che la "soluzione" era stata offerta direttamente da un altro intervento legislativo, ovvero dal già citato art. 16 D.L. n. 18, significativamente rubricato "Ulteriori misure di protezione a favore dei lavoratori e della collettività" (cfr. supra, p. 3.1): l'interpretazione volta a ridurre quelle disposizioni ad un mero ambito prettamente civilistico, ovvero alla, limitazione delle ipotesi di inadempimento del datore di lavoro nei confronti della controparte, ed aia sostenere, al contempo, la persistente efficacia ed operatività - anche ai fini penali - del principio di massima tutela codificato nell'art. 2087 c.c., costituisce operazione ermeneutica non condivisibile, alla luce di quanto fin qui esposto.

4. Le considerazioni fin qui svolte impongono il rigetto del ricorso proposto dal Pubblico Ministero.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2023