Cassazione Penale, Sez. 4, 07 dicembre 2023, n. 48772 - Caduta dell'armatura metallica agganciata alla benna dell'escavatore sul lavoratore sceso a terra. Annullamento senza rinvio perchè il fatto non sussiste


Nota a cura di  Soprani Pierguido in Igiene e sicurezza del lavoro, 3/2024, pp. 149-154 "Il regime prevenzionistico del contratto di noleggio"  



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia - Presidente -

Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere -

Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere -

Dott. PEZZELLA Vincenzo - rel. Consigliere -

Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
 


sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis) il (Omissis);

avverso la sentenza del 23/01/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;

Lette le conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 conv. dalla L. n. 176 del 2020, come prorogato D.L. n. 228 del 2021, ex art. 16 conv. con modif. dalla L. n. 15 del 2022 e successivamente D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, ex art. 94, comma 2, come sostituito prima dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199, art. 5-duodecies di conversione in Legge del D.L. n. 162 del 2022) e poi dal D.L. 22 giugno 2023, art. 17 conv. con modif. dalla L. 10 agosto 2023, n. 112, del P.G., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. PASSAFIUME SABRINA, che ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

 

Fatto


1. Con sentenza del 31/1/2019 il Tribunale di Benevento in composizione monocratica assolveva perchè il fatto non sussiste A.A., unitamente al coimputato dal reato p. e p. dagli artt. 113, 589 c.p., perchè, in cooperazione tra loro "nelle qualità e con le condotte colpose di seguito descritte: C.C., in qualità di titolare della EdilD.D., ditta proprietaria della trivella utilizzata nel cantiere per l'esecuzione dei fori, in violazione delle norme di cui all'All. VI 2.2, 3.2.4, 3.2.5 del D.Lgs. n. 81 del 2008, acconsentiva a porsi alla guida dell'escavatore Komatsu mod. pc 230 n. telaio (Omissis) di proprietà della ditta 3R Costruzioni Srl , in sostituzione di E.E. ed a movimentarlo per lo spostamento di un'armatura metallica agganciata alla benna con una semplice catena, e perciò tenendo un comportamento contrario anche alle norme di ordinaria prudenza e perizia; B.B. nella qualità di socio titolare della ditta 3R Costruzioni, datore di lavoro di E.E., omettendo di sorvegliare e vigilare, in violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18 affinchè il E.E. non eseguisse operazioni pericolose durante il proprio lavoro, ed omettendo, in violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 90 e 96 di eseguire il Piano Operativo di sicurezza relativa al cantiere con l'indicazione della condotta da tenere nelle operazioni di aggancio e sgancio dei manufatti dall'escavatore, e di nominare il Coordinatore per la Sicurezza; entrambi con le condotte colpose sopra descritte cagionavano il decesso di E.E.; infatti, essendo addetto il E.E. proprio alla guida dell'escavatore nel cantiere edile della ditta 3R Costruzioni Srl , ed essendosi accorto che l'armatura metallica agganciata alla benna dell'escavatore non entrava nel foro già praticato nel terreno, perchè troppo poco profondo, procedeva a sollevare la gabbia stessa per poter operare un'ulteriore trivellazione del foro, ed avvedutosi che la gabbia già sollevata di circa due metri dal suolo assumeva una posizione non corretta per lo spostamento, scendeva dall'escavatore per sistemarla chiedendo al A.A. di assumere i comandi del mezzo; e così mentre il A.A. manovrava l'escavatore, il E.E. riposizionava la gabbia (senza eseguire la manovra correttamente, ovvero senza riabbassarla fino a farla appoggiare al suolo), e veniva investito dall'intera armatura che improvvisamente, a causa dello scorretto aggancio e della movimentazione del mezzo, si staccava dalla benna precipitando sulla persona del E.E., procurandogli gravissime lesioni personali da schiacciamento shock neurogeno e traumatico-emorragico, insufficienza respiratoria acuta con il conseguente decesso. In (Omissis) il (Omissis).

Il primo giudice -come ricorda la sentenza impugnata- addiveniva ad un verdetto assolutorio nei confronti del A.A., ritenendo che lo stesso non ricoprisse alcuna posizione di garanzia nei confronti del E.E., non essendone il datore di lavoro. Costui, infatti, era dipendente della ROBERTO GROUP rappresentata da B.B.. A.A.. inoltre, a giudizio del primo giudice non aveva posto in essere alcuna condotta causalmente collegata all'evento morte.

Il ragionamento del giudice di prime cure si concludeva, infine, con considerazioni di portata generale sui temi di prova che involgono anche la posizione di A.A.. In particolare, la persona offesa, scendendo dalla gru e manovrando la gabbia metallica potrebbe aver tenuto una condotta imprevedibile ed esorbitante dalle proprie mansioni cagionando egli stesso l'evento. L'incidente potrebbe essere stato causato dall'improvvisa rottura del gancio della benna o della gabbia stessa oppure ancora da un errore commesso dallo stesso E.E. al momento dell'aggancio della gabbia alla benna. L'evento potrebbe essere, dunque. la risultante di una tragica fatalità imprevedibile ed inevitabile.

2. Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello il PM presso la Procura di Benevento, rilevando l'erroneità in fatto e in diritto della sentenza impugnata. In particolare, ricorda l'appellante che al A.A. erano contestate violazioni di norme di sicurezza stabilite dall'allegato VI del D.Lgs. n. 81 del 2008 proprio a presidio dell'incolumità del lavoratore intento ad effettuare operazioni a terra nell'area di attività di macchine da lavoro semoventi.

La condotta dell'imputato, che aveva accettato di sostituire E.E. alla guida della gru, mentre quest'ultimo da terra cercava di riposizionare la gabbia rimasta sospesa al gancio della benna, risultava essere in palese violazione della citata normativa antiinfortunistica.

Il PM richiamava le concordi deposizioni dei testimoni presenti al fatto che hanno consentito la ricostruzione della dinamica dell'incidente. Contestava, infine, la correttezza sotto il profilo giuridico dell'affermazione del giudice di prime cure secondo cui A.A., non essendo datore di lavoro di E.E., non aveva alcuna posizione di garanzia nei confronti di quest'ultimo, richiamando precedenti giurisprudenziali che hanno al contrario ravvisato una posizione c.d. di protezione nei confronti di tutti i soggetti che prestano la loro opera in cantiere, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

3. La Corte di Appello di Napoli con sentenza del 23/1/2023 in riforma della sentenza di primo grado, accogliendo l'appello del PM, ha dichiarato A.A. responsabile del reato a lui ascritto e lo ha condannato alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, con pena sospesa e non menzione.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, A.A., deducendo i motivi di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

Con un primo motivo il difensore ricorrente lamenta inosservanza o erronea applicazione della legge penale e delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro in ragione dell'erronea individuazione del ruolo del A.A. nell'ambito del reato colposo a lui ascritto e della sua non riconosciuta estraneità ai fatti contestati.

A.A. -si ricorda in ricorso - veniva rinviato a giudizio ex art. 113 e 589 c.p. unitamente a B.B. per avere provocato la morte di E.E., in violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Veniva poi rinviato a giudizio, ex art. 378 c.p. anche F.F..

In particolare, al A.A. che non era il datore di lavoro del E.E. ma unicamente proprietario della trivella usata per effettuare gli scavi dove poi andavano impiantate le gabbie metalliche da riempire di calcestruzzo), veniva contestato di essersi posto alla guida dell'escavatore manovrato dal E.E., (di proprietà della 3R Costruzioni di cui il F.F. era socio titolare, nonchè datore di lavoro esclusivo del E.E.) mentre questi era sceso per sistemare la gabbia metallica poi cadutagli addosso provocandone il decesso.

Dal dibattimento emergeva con chiarezza che, al momento del crollo della gabbia sul E.E., il A.A. non si trovava alla guida dell'escavatore ma era semplicemente presente sul posto, unitamente ai suoi operai addetti alla trivella.

Il ricorrente ricostruisce schematicamente la vicenda nei seguenti termini: il cantiere era della 3R Costruzioni che doveva realizzare dei locali da adibire ad uffici su suolo di proprietà dei G.G..

La EdilD.D. noleggiava semplicemente le trivelle che dovevano preparare le cavità dove poi i mezzi della 3R avrebbero provveduto a impiantare le gabbie metalliche da riempire di calcestruzzo, quindi la EdilD.D. e A.A. non avevano alcun ruolo da subappaltatore come si afferma erroneamente in sentenza.

Il cantiere era e restava nel controllo della 3R. L'escavatore e la gabbia che aveva colpito il E.E. erano manovrati da questi nelle ore che avevano preceduto il decesso, ed erano di proprietà della 3R di cui il E.E. era dipendente.

Il ricorrente evidenzia che l'appello proposto dal PM contro la sentenza con cui il giudice monocratico del Tribunale di Benevento aveva assolto ex art. 530 c.p.p., comma 2 tutti gli imputati paradossalmente limitato al solo A.A. e non al B.B., unico e solo datore di lavoro del defunto E.E., partirebbe da un dato di fatto errato, laddove si legge che "è evidente che il A.A. era il responsabile dell'impresa incaricata di eseguire i lavori". Il PM appellante stigmatizza la sentenza di primo grado che ha escluso ogni responsabilità del A.A. nei confronti del E.E., "non essendo il suo datore di lavoro", ribadisce che "il datore di lavoro ha l'obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro di tutti i soggetti che prestano la loro opera nell'impresa" e conclude attribuendo al A.A. "quale responsabile dell'impresa che stava eseguendo i lavori... il dovere giuridico di impedire che il povero E.E. manovrasse...l'escavatore".

Eppure -si legge in ricorso- il dibattimento aveva fatto ampia luce sul punto.

All'udienza del 18/2/2016 veniva sentito il teste H.H., tecnico per la prevenzione della Asl di Avellino, la cui deposizione fu particolarmente illuminante ma della quale il pubblico ministero non ha tenuto conto. A pag. 31 del verbale l'H.H., incalzato dal giudice, afferma di non poter dire se il A.A. fosse salito o meno sull'escavatore: "Quindi non è in grado di dire se il A.A. con certezza si sia effettivamente messo al comando dell'escavatore?". "NO".

E ancora, a pag. 32, il giudice chiede: "chi era tenuto alla sorveglianza dell'attività svolta da E.E.?". L'H.H. risponde: "il datore di lavoro". E il giudice: "Di E.E.? Che sarebbe B.B.?". "Si, B.B.". E sempre il giudice, sempre a pag. 32 del verbale, rivolgendosi all'H.H.: "perchè se non ci fosse prova che è salito sulla benna, la posizione di A.A. la ditta proprietaria della trivella non avrebbe alcun diretto coinvolgimento, è così?". "Si diciamo che l'unico coinvolgimento potrebbe essere questo, cioè la presenza del signor A.A. sull'escavatore".

A pag. 33, infine, il giudice ripete nuovamente all'H.H. se esclude che il A.A. sia salito sull'escavatore ed il teste ribadisce che non vi sono prove in tal senso. E che il A.A. non sia mai salito sull'escavatore manovrato dal E.E. viene affermato e ribadito dai testi I.I. e L.L..

Quindi l'assunto della Procura, che accusava il A.A. di essersi posto alla guida dell'escavatore (di proprietà della 3R) sarebbe smentito oltre che dagli operai presenti anche e soprattutto dal teste pubblico ufficiale H.H. e, correttamente, il giudice di primo grado, ha pronunciato una sentenza di assoluzione.

Il ricorrente sostiene che l'impugnazione della Procura era totalmente priva di pregio. In primo luogo, perchè non contesta (e non può farlo) che il A.A. fosse alla guida dell'escavatore ma ignorando del tutto la deposizione del proprio teste H.H. e, soprattutto ignorando il capo di imputazione che individuava il B.B. come datore di lavoro di E.E., qualifica il A.A. come datore di lavoro del defunto. Circostanza totalmente inventata.

Su questo dato di fatto errato, ossia che il E.E. fosse dipendente del A.A. e non del B.B., la Procura chiedeva la condanna del Ferriere che avrebbe avuto il dovere giuridico di impedire che il E.E. manovrasse l'escavatore.

Sembra inoltre -prosegue il ricorso- che il PM fraintenda anche la deposizione del teste I.I. citando la sentenza di primo grado in cui questi dice che "il suo datore di lavoro non faceva neppure in tempo a salire sull'escavatore"; ma il I.I. era dipendente del A.A. e parlando di "suo datore" si riferisce al proprio datore, non al datore di lavoro del E.E.. Peraltro, leggendo il verbale del 18.2.16 a pag. 14, il I.I. non parla di "datore di lavoro" ma dice "il padrone mio" non lasciando quindi nessun adito a dubbi.

Ebbene, lamenta il ricorrente che la Corte partenopea, investita della questione, dopo un lungo preambolo sulla necessità di una motivazione rafforzata in caso di condanna a seguito di sentenza assolutoria, omette di rilevare che il capo di imputazione nei confronti del A.A. viene "ricalibrato" andando a contestare le norme dell'allegato VI del D.Lgs. n. 81 del 2008 e la qualità di datore di lavoro smentita oltre che dai fatti anche dalle risultanze dibattimentali.

Nemmeno una parola -ci si duole- viene spesa sul ruolo del B.B. ma, per giustificare la sentenza di condanna, viene attribuito al A.A. un ruolo di subappaltatore che nemmeno il Pm aveva ipotizzato e si dice (pag. 5 della sentenza) che "l'imputato non avrebbe dovuto consentire a E.E. di scendere dalla gru e manovrare da terra la gabbia metallica".

Ma -si domanda il ricorrente- a che titolo il A.A. avrebbe potuto farlo? Il E.E. era dipendente del B.B., l'escavatore che manovrava era del B.B., il B.B. e solo il B.B. avrebbe potuto ordinare al suo dipendente di fare o non fare una certa cosa. Il A.A. avrebbe potuto al massimo consigliare ma certo nessun ordine poteva dare ad un soggetto non suo diretto dipendente. Estendere la responsabilità del A.A., fino al punto di dire che egli avrebbe dovuto imporre al E.E. di fermarsi e di attendere che egli (il A.A.) "una volta salito sulla gru, ponesse a terra la gabbia, consentendogli di lavorare in sicurezza" appare irragionevole. Se si fosse trattato di appoggiare la gabbia al suolo, questa operazione poteva essere fatta tranquillamente dal E.E. che era addetto alla guida dell'escavatore per cui non si comprende quale contestazione si vada a muovere al A.A..

Vi sarebbe di più. Il ruolo di subappaltatore in capo al A.A. non esisterebbe per la semplice ragione che non vi è mai stato nessun contratto di appalto. La 3R stava eseguendo dei lavori su un terreno di sua proprietà dove sorgono impianti ed uffici ed aveva commissionato alla EdilD.D. non i lavori a realizzarsi (a cui avrebbe provveduto con le proprie maestranze e con i propri mezzi) ma, unicamente la trivellazione del terreno attraverso non un contratto di subappalto ma di un contratto di nolo. Non si comprenderebbe in alcun modo da dove la Corte di Appello abbia tirato fuori il contratto di subappalto che nemmeno il Pm aveva ipotizzato nell'atto di appello dove si parlava del A.A. come datore di lavoro.

Stupisce per il ricorrente che per arrivare a condannare il A.A. si passi, dopo l'accusa smentita in dibattimento di aver manovrato l'escavatore, a disegnargli prima un ruolo di datore di lavoro e poi ad uno di subappaltatore, senza che vi sia un appiglio in tal senso negli atti. Si vuole dire a tutti i costi che il A.A. avesse nei confronti del E.E. una posizione di garanzia che, casomai, era da attribuire al B.B. contro cui, però, non è stata proposta impugnazione.

In altri termini, il A.A., da titolare della ditta EdilD.D., come da originario capo di imputazione, diventa nell'appello del Pm datore di lavoro (qualità che nel capo di imputazione era attribuita al B.B.), e poi diventa subappaltatore per la Corte di Appello.

Viene inoltre mantenuto nei suoi confronti l'art. 113 c.p. senza che egli abbia cooperato con nessuno, stando all'impugnazione ed alla successiva sentenza.

E' evidente quindi -secondo la tesi proposta in ricorso- che la sentenza impugnata, che cerca in ogni modo di giustificare la condanna, sia da annullare in quanto muove, appiattendosi sul gravame proposto dal Pm, dal presupposto totalmente errato in base al quale il A.A. era onerato di una posizione di garanzia verso il dipendente della ditta 3R, in quanto subappaltatore per la Corte e in quanto datore di lavoro per il Pm, laddove l'unico titolare della posizione di garanzia e l'unico ed esclusivo datore di lavoro era il B.B..

Altresì evidente per il ricorrente è che vi sarebbe stata, quindi, una erronea applicazione sia della normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro (attribuendo al A.A. oneri che non aveva) sia della stessa legge penale in ordine alla erronea valutazione delle risultanze dibattimentali ed alla "ricalibratura" dell'imputazione avvenuta con i motivi di gravame.

Con un secondo motivo sin lamenta manifesta illogicità della motivazione ritenendo che le censure mosse alla sentenza di appello in termini di violazione di legge possano estendersi anche alla motivazione, che sarebbe totalmente illogica. Ciò perchè, essendo erroneo il punto di partenza, anche la motivazione non può che essere tale.

Per il ricorrente, senza ulteriormente ripetersi, sta di fatto che la Corte territoriale abbia "creato" un ruolo di subappaltatore in capo al A.A. che non troverebbe alcun riscontro in atti e non spiegherebbe perchè sarebbe tale. Così come non spiegherebbe perchè, in presenza di un appello che qualifica l'imputato come datore di lavoro, lo si condanni in qualità di subappaltatore.

Inoltre, il ricorrente si duole che non venga spesa una parola sul ruolo del B.B. che, anche volendo dimenticare il suo ruolo indiscusso di datore di lavoro, era comunque indagato per cooperazione colposa nell'evento.

Infine, si lamenta che alcun rilievo sia stato dato alla memoria difensiva del difensore Avv. Cardinale, depositata telematicamente, stante la trattazione scritta che pure era degna di attenzione ed andava come minimo confutata nei suoi punti cardine.

Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

3. Il PG presso questa Corte ha reso le conclusioni scritte riportate in epigrafe.

 

Diritto


1. I motivi sopra illustrati sono fondati e, pertanto, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.

2. In primis va rilevato che la sentenza impugnata disattende il costante orientamento di questa Corte di legittimità (vedasi, in ultimo, Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228) che ha ormai sgombrato il campo da ogni dubbio sul fatto che il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è tenuto, anche d'ufficio, a rinnovare l'istruzione dibattimentale anche successivamente all'introduzione dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis ad opera della L. 23 giugno 2017, n. 103.

Si tratta di un orientamento che ha fatto seguito a Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486, ed è stato confermato dalla giurisprudenza successiva (cfr. ex multis Sez. 5, n. 15259 del 18/2/2020, Menna, Rv. 279255), che ha precisato che costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull'esito del giudizio, nonchè quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna.

Questa Corte di legittimità ha successivamente ribadito tale principio con riferimento al giudizio abbreviato (Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano, Rv. 269785), stabilendo che è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all'esito di giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all'esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni.

I principi espressi dalle sentenze delle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano, intervenute prima della modifica normativa dell'art. 603 c.p.p., rappresentano l'approdo di un complesso percorso interpretativo che, muovendo dall'obbligo di motivazione rafforzata in caso di riforma in appello della sentenza di proscioglimento di primo grado (Sez. U, n. 45726 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226093) e dal dovere di confutazione specifica dei più rilevanti argomenti valorizzati nella motivazione della sentenza da parte del giudice d'appello che la riformi totalmente (Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679), ha riconosciuto rilievo centrale al canone dell'al di là dii ogni ragionevole dubbio" (art. 533, comma 1, introdotto dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46) che, ai fini della condanna, presuppone la certezza della colpevolezza, a differenza dell'assoluzione che presuppone la mera non certezza della colpevolezza.

Il comma 3-bis, inserito nell'art. 603 c.p.p. dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 58 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), costituisce l'evoluzione delle regole della rinnovazione istruttoria in appello, secondo l'esegesi "formante" sviluppatasi attraverso le pronunce del Supremo collegio penale, a partire proprio dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2016, Dasgupta.

La modifica normativa ha saldato sul medesimo asse cognitivo e decisionale dovere di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, obbligo di motivazione rinforzata da parte del giudice dell'impugnazione in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado, canone dell'al di là di ogni ragionevole dubbio" in ossequio allo statuto fondante del processo penale" ispirato ai principi fondamentali del contraddittorio, dell'oralità, dell'immediatezza nella formazione della prova.

L'intervento legislativo che ha introdotto il citato art. 603, comma 3 bis ha dato vita ad una norma eccezionale, di stretta interpretazione, che individua una nuova ipotesi di ammissione delle prove, limitando l'obbligo alle ipotesi in cui il soggetto impugnante sia il pubblico ministero e non la parte civile (Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, Rv. 275112).

Si è, tuttavia, condivisibilmente affermato (vedasi Sez. 4 n. 37956/2021) che la novella non autorizza, però, a ritenere che" in caso di impugnazione della sola parte civile, il giudice di appello che intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione non sia obbligato a rinnovare le prove dichiarative incidenti in maniera determinante sulla decisione. Al riguardo le stesse Sezioni Unite Pavan osservano che i lavori parlamentari che hanno portato all'introduzione del comma 3-bis nel corpo dell'art. 603 c.p.p. e la Relazione governativa esprimono, nel solco tracciato dalla Corte EDU e dalla giurisprudenza di legittimità con le citate sentenze Dasgupta e Patalano, la necessità di dare una "soluzione, a livello legislativo, alla problematica della modalità con la quale si deve tutelare il contraddittorio nell'ipotesi in cui sia appellata una sentenza di assoluzione". E' indubbio, infatti, che, relativamente a questa ipotesi, il contraddittorio deve essere implementato con il principio dell'oralità anche in appello, perchè questo costituisce il metodo epistemologico più corretto ed idoneo a superare l'intrinseca contraddittorietà fra due sentenze che, pur sulla base dello stesso materiale probatorio, giungano ad opposte conclusioni. Non appare influente, sotto detto aspetto, la circostanza che l'impugnazione sia stata proposta dal pubblico ministero piuttosto che dalla parte civile, posto che "il nostro sistema processuale non prevede differenziazioni delle regole probatorie ai fini dell'accertamento della responsabilità penale e civile, nel contesto unitario del processo penale, non potendo, sotto il profilo del diritto di difesa, diversamente declinarsi le regole poste a presidio dello stesso, a seconda se vengano in rilievo profili penali o esclusivamente civili. Tale conclusione non è, infatti, in alcun modo desumibile dai principi della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, come sviluppati dall'interpretazione della Corte comunitaria e recepita nella Carta costituzionale all'art. 111, nonchè dalla prospettiva posta a fondamento dell'elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte" (conf. Sez. 5, n. 15259 del 18/02/2020, Menna, Rv. 279255; Sez. 5, n. 32854 del 15/04/2019, Gatto, Rv. 277000).

Fuori di ogni dubbio, in ogni caso, a fronte nel caso che ci occupa di un appello del PM che una sentenza che volesse ribaltare la pronuncia assolutoria di primo grado rivalutando aspetti decisivi del fatto (come si dirà tra poco, a cominciare dalla presenza dell'imputato sull'escavatore), portati nel processo dalle testimonianze di chi era presente all'incidente, imponeva al giudice di secondo grado la rinnovazione di queste ultime.

3. La sentenza impugnata, inoltre, richiama i principi secondo cui la necessità della motivazione rafforzata (o rinforzata) della sentenza di appello che ribalti quella assolutoria di primo grado sussiste anche nell'ipotesi di riforma ai soli effetti civili (v., ad esempio, Sez. 4, n. 42868 del 26/9/2019, Miceli, Rv. 277624). E correttamente precisa che tale deve intendersi una motivazione dotata di una forza persuasiva superiore rispetto a quella della sentenza riformata" essendo necessario un percorso argomentativo attraverso il quale il giudice del gravame dimostri di essersi confrontato con le ragioni addotte dal primo giudice, ponendo criticamente in evidenza carenze e illogicità, in riferimento ad elementi di prova sottovalutati o trascurati ovvero inconferenti o contraddittori rispetto alla ricostruzione dei fatti posti a base della sentenza appellata. Non bastando, in altri termini, contrapporre alla decisione plausibile del giudice di prime cure, una ricostruzione antitetica altrettanto logica operata in sede d'impugnazione da parte di giudici che. secondo un'icastica espressione della giurisprudenza di legittimità, si posizionano orizzontalmente rispetto allo stesso materiale di prova, ma essendo necessario che il giudice del gravame dimostri l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza del primo giudice e dia conto delle ragioni delle diverse scelte decisorie operate alla luce di elementi di prova non valutati o diversamente valutati. Ciò in quanto il presidio garantistico della motivazione rinforzata deve essere inoltre letto in combinato disposto con l'obbligo di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in caso di motivi d'appello che involgano una diversa valutazione della prova dichiarativa. La motivazione dei giudici di appello, che intendano riformare una sentenza di assoluzione non può, infatti, prescindere dalle risultanze probatorie acquisite in secondo grado ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3 bis, che andranno lette senza soluzione di continuità col patrimonio epistemologico già presente, non rientrando nei poteri del giudice la selezione del materiale o peggio, la costituzione di improprie gerarchie tra le fonti di conoscenza.

Ebbene, di tali principi i giudici partenopei non operano un corretto governo.

Peraltro, fondata è la doglianza difensiva che nessuna articolata risposta viene fornita dai giudici partenopei alle considerazioni svolte nella memoria difensiva datata 18/1/2023 depositata, in uno con le conclusioni, dal difensore del A.A. per l'udienza non partecipata del 23/1/2023.

4. Ed invero, occorre prendere le mosse dal capo d'imputazione e dalla sentenza di assoluzione del giudice sannita.

Nell'editto accusatorio al A.A., cui viene attribuito il ruolo di "titolare della EdilD.D., ditta proprietaria della trivella utilizzata nel cantiere per l'esecuzione dei fori" viene rimproverato di avere accettato di sostituire E.E. -operaio poi deceduto e che non era un suo dipendente bensì un dipendente della ROBERTO GROUP - alla guida dell'escavatore di proprietà della 3R costruzioni che lo stesso E.E. stava guidando mentre il E.E. provvedeva da terra a risolvere l'inconveniente determinato dalla circostanza che l'armatura metallica agganciata alla benna dell'escavatore non entrava nel foro già praticato sul terreno, perchè troppo profondo. Mentre il A.A. lo sostituiva alla guida dell'escavatore il E.E., allora, da terra, provvedeva a sollevare la gabbia per poter operare un'ulteriore trivellazione dei fori, operando la manovra scorretta che poi ne avrebbe determinato la morte.

Il capo d'imputazione, pertanto, dà per scontato che il A.A. non fosse il datore di lavoro del E.E., ma sembra delinearne l'assunzione di una posizione di garanzia di fatto nel momento in cui acconsente a mettersi ai comandi dell'escavatore per consentire a E.E. di operare da terra (nel capo d'imputazione si legge testualmente "mentre il A.A. manovrava l'escavatore").

Il giudice di primo grado, riteneva tuttavia che non vi fosse prova che il A.A. si fosse posto alla guida dell'escavatore.

Egli era nei pressi dello stesso, ma come si legge a pag. 1 della sentenza di primo grado, I.I., dipendente dell'odierno ricorrente, ha affermato che il A.A. non fece nemmeno in tempo a salire sull'escavatore. Si legge in sentenza che ad un certo punto, il E.E. era sceso dall'escavatore per girare la gabbia che non entrava nel foro appena praticato e, mentre lui cercava di evitarlo, il suo datore di lavoro" (e qui pare chiaro, come rileva il ricorrente, che il I.I. si riferisca al A.A. come suo datore di lavoro e non del E.E.) "non faceva neppure in tempo a salire sull'escavatore che la gabbia si staccava dalla benna ed investiva il E.E. che rimaneva a terra".

Il teste L.L. (pag. 3 della motivazione della sentenza di primo grado), altro dipendente del A.A. presente nel cantiere, confermava la circostanza di avere visto che il E.E. si trovava all'interno dell'escavatore e stava posizionando la gabbia nel foro precedentemente praticato quando, essendovi incastrata, era sceso per spostarla a mano, chiedendo al proprio titolare di salire sull'escavatore. Affermava, tuttavia che, giratosi dopo aver sentito un forte rumore mentre era intento ad altra lavorazione, aveva visto la gabbia a terra e il E.E. con la gamba incastrata sotto. Ma all'interno dell'escavatore non aveva visto nessuno.

Per il giudice di primo grado: "Dall'esame degli operai presenti al momento del fatto, risulta incontrovertibilmente che fu proprio il povero E.E. ad agganciare la gabbia alla benna e che, durante le operazioni di riposizionamento della gabbia, il A.A., al quale il E.E. aveva chiesto di mettersi alla guida dell'escavatore al suo posto, non aveva fatto neppure in tempo a salirci, che la gabbia si staccava, schiacciando il povero E.E.".

In altri termini, per il giudice di primo grado non c'è prova del comportamento materiale contestato al A.A..

Aggiungeva poi, ancora, il giudice beneventano: "Orbene, posto che il A.A. si trovava sul cantiere, di proprietà dei G.G., quale proprietario della trivella utilizzata per fare i fori all'interno dei quali dovevano essere posizionate le gabbie metalliche che sarebbero servite per creare delle fondazioni, nessuna posizione di garanzia rivestiva nei confronti del E.E., non essendo il suo datore di lavoro. Non avendo poi posto in essere alcuna condotta causalmente collegata all'evento morte, nei confronti dello stesso si impone una sentenza assolutoria perchè il fatto non sussiste" (pag. 5 della sentenza di primo grado).

A fronte di quella sentenza, come rileva il ricorrente, il PM sannita fondava l'atto di appello sull'affermazione (oggettivamente errata) che il A.A. fosse il datore di lavoro del lavoratore deceduto.

La Corte partenopea, a sua volta, ribaltando la pronuncia del primo giudice, ha invece affermato la sussistenza di una posizione di garanzia in capo all'imputato, in quanto "subappaltatore" interessato all'esecuzione di un'opera specialistica (l'esecuzione delle trivellazioni per la realizzazione dei fori all'interno dei quali dovevano essere calate le gabbie metalliche del tipo di quelle manovrate dal E.E.).

Ebbene, posto che il ruolo di subappaltatore neppure emerge dal capo d'imputazione e che la sentenza impugnata (che, come detto, avrebbe dovuto fornire una "motivazione rafforzata") non illustra sulla base di quali elementi sia possibile affermare che il A.A. avesse concluso un contratto di subappalto con 3R Costruzioni Srl (datore di lavoro di M.M.).

Secondo l'assunto del giudice del gravame, "l'imputato non avrebbe dovuto consentire al E.E. di scendere dalla gru e manovrare da terra la gabbia metallica prima che la stessa fosse stata adagiata sul terreno in condizioni di sicurezza". Tuttavia, quand'anche si volesse ritenere che fossero stati subappaltati al A.A. i lavori di trivellazione -del che, allo stato, i giudici del merito non danno conto essere emersa prova- poichè l'incidente occorso al E.E. avvenne a seguito della movimentazione dell'escavatore di proprietà della 3R Costruzioni Srl , attività completamente estranea all'area di controllo del A.A., non si comprende in ragione del ruolo quale potere egli avesse verso la persona offesa di fare rispettare le disposizioni concernenti l'uso delle attrezzature di lavoro (nella specie, l'escavatore) indicate nel capo d'imputazione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2023