Cassazione Penale, Sez. 4, 13 febbraio 2024, n. 6301 - Infortunio del lavoratore interinale con mansioni di letturista. Obblighi di formazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta da:
Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente
Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere
Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Relatore
Dott. DAWAN Daniela - Consigliere
Dott. GIORDANO Bruno - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A. nato a C il (Omissis)
avverso la sentenza del 28/02/2023 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ANNA LUISA ANGELA RICCI;
udito il PG, in persona del Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
udito il difensore avvocato MAGRI PIERO del foro di MILANO in difesa di A.A. che ha insistito per l'accoglimento del ricorso
Fatto
1. La Corte d'Appello di Torino, in data 28 febbraio 2022, in riforma della sentenza di assoluzione del Tribunale di Aosta, ha condannato l'imputata A.A., nella qualità di amministratore unico e legale rappresentante della M.P.S. Multiutility Public Solutions Srl, in ordine al reato di cui all'art. 590 cod. pen. in danno del lavoratore dipendente B.B., commesso in Aosta il 16 ottobre 2018.
Il processo ha ad oggetto un infortunio sul lavoro, la cui dinamica è stata descritta in maniera conforme dalle sentenze di merito, pur giunte a differenti conclusioni in punto affermazione della responsabilità penale. B.B., assunto come lavoratore interinale da circa un mese con mansioni di letturista (addetto alla lettura dei contatori), fin dall'inizio del rapporto e così pure il giorno dell'infortunio, era in affiancamento al lavoratore più anziano C.C., assunto due anni prima: i due operavano nel senso che B.B. doveva calarsi all'interno del tombino per effettuare la lettura del contatore, dopo che il collega C.C. avesse provveduto a sollevare e mettere in sicurezza il chiusino con le leve in dotazione. Il 16 ottobre 2018, al termine della giornata di lavoro, avendo notato che su una via era stata rimossa una impalcatura presente nei giorni precedenti, avevano deciso di verificare la lettura di un tombino ivi presente; C.C. aveva sollevato il chiusino con un attrezzo a sua disposizione ad un palmo da terra, quando il tombino gli era scivolato: B.B., che si trovava di fronte a lui inginocchiato, aveva improvvisamente allungato le mani nel tentativo di afferrarlo e era rimasto con il dito schiacciato dal tombino in caduta. A seguito dell'infortunio, B.B. aveva riportato lesioni personali gravi costituite da "trauma schiacciamento terzo dito mano sinistra con amputazione della falange distale" risultate guaribili in più di 40 giorni e con indebolimento permanente dell'organo della prensione.
All'imputata sono stati contestati, quali addebiti di colpa, la negligenza, l'imprudenza, l'imperizia e violazione dell'art. 2087 cod. civ. e della normativa di prevenzione infortuni sul lavoro ed in specie dell'art. 37 del D.Lgs. 9 aprile 2008 n 81, per non aver fornito al lavoratore una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza.
2. L'imputata ha proposto ricorso, a mezzo di difensore, formulando sei motivi.
2.1. Con il primo motivo ha dedotto il vizio di motivazione con riferimento alla definizione di abnormità del comportamento del lavoratore, alla sussistenza del nesso di causa tra l'omissione e l'evento, alla prevedibilità ed evitabilità dell'infortunio.
Quanto al primo profilo, il difensore osserva che la Corte, in un passaggio della motivazione, aveva dato atto che B.B. era stato assunto come letturista con l'incarico di effettuare la lettura dei contatori dopo che il collega C.C. avesse aperto il tombino e che ad B.B. dallo stesso C.C. era stata impartita l'istruzione di non sollevare i tombini e, in altro passaggio, in maniera contraddittoria con tali premesse, aveva sostenuto che il comportamento di B.B. in occasione dell'infortunio si era verificato nell'ambito del procedimento lavorativo a cui era stato addetto. La Corte avrebbe ignorato il contenuto di ben quattro testimonianze (quella del collega C.C., quella dell'ispettore della AUSL D.D., quella del socio M.P.S E.E., e quella del RSPP F.F.) da cui era emerso, sotto il profilo specifico della formazione, che ad B.B. era stato intimato di stare lontano dai tombini in occasione delle operazioni di sollevamento; che B.B. aveva già ricevuto una formazione di base sulla sicurezza; che era in fase di affiancamento ad un lavoratore esperto e avrebbe dovuto partecipare dopo qualche giorno ad un'ulteriore parte di corso di formazione più specifico.
Quanto al secondo profilo, il difensore osserva che la Corte non si sarebbe soffermata come doveroso, venendo in rilievo il sovvertimento in peius di una sentenza assolutoria, sull'addebito di colpa ravvisabile in capo all'imputata. L'istruttoria aveva chiarito che il gesto di B.B. era stato improvviso e che la sua formazione era in corso, tanto che anche la presenza del collega C.C. doveva intendersi come parte di tale percorso di formazione. La Corte non aveva spiegato in che senso la partecipazione di B.B. al corso di formazione specifica, che avrebbe dovuto tenersi di lì a pochi giorni, avrebbe potuto impedire il verificarsi dell'evento.
2.2. Con il secondo motivo, ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per riassunzione della prova dichiarativa. Il difensore osserva che la Corte aveva rigettato l'istanza sul presupposto che il sovvertimento della sentenza assolutoria non implicasse una diversa interpretazione delle prove dichiarative e che il Tribunale avesse errato dal punto di vista strettamente giuridico: in realtà la Corte aveva operato una completa e radicale rivalutazione o meglio svalutazione del contenuto delle dichiarazioni rese dai testi in senso peggiorativo per l'imputata. I testimoni C.C., D.D., G.G. e E.E., infatti, come detto, avevano chiarito che ad B.B. era stato intimato di non avvicinarsi nel corso delle operazioni di sollevamento del tombino e che la sua formazione era appunto in atto e non ancora completata.
2.3. Con il terzo motivo, ha dedotto il vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. Il difensore osserva che l'affermazione della Corte secondo cui non sarebbe stato documentato l'integrale risarcimento del danno sarebbe erronea e in contrasto con le risultanze processuali, da cui emergeva che il risarcimento era stato eseguito integralmente un mese prima della prima udienza dibattimentale.
2.4. Con il quarto motivo, ha dedotto il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 583, comma 1, n. 1, cod. pen. Il difensore lamenta che la Corte di Appello avrebbe ravvisato detta circostanza, senza confrontarsi con il contenuto e gli esiti della consulenza tecnica medico legale della difesa. La dott.ssa H.H., sentita nel corso del giudizio di primo grado, aveva stimato la durata della malattia in trenta giorni, tenuto conto della prognosi iniziale stimata dai sanitari del Pronto Soccorso, della mancanza di complicanze o di necessita di processi riabilitativi particolari e del fatto che la capacità dell'arto non aveva subito alcuna compromissione. Né poteva dirsi realizzato un indebolimento permanente dell'organo della prensione, posto che, come argomentato dal medico legale consulente, l'infortunio non aveva cagionato alcuna perdita di funzionalità della mano.
2.5 Con il quinto motivo, ha dedotto la violazione di legge per avere la Corte ritenuto inapplicabile nel caso di specie l'art. 593 cod. proc. pen., così come novellato dal d.gs n. 150 /2022, a norma del quale "sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell'ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa". Al momento della celebrazione dell'udienza in appello, tenutasi il 31 gennaio 2023, la disposizione era già in vigore con la conseguenza che la Corte d'Appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l'appello proposto dal Pubblico Ministero, alla luce del principio del tempus regit actum.
3. Il Procuratore Generale, nella persona del sostituto Olga Mignolo, ha chiesto il rigetto del ricorso.
Diritto
1. Il ricorso deve essere accolto con riferimento al terzo motivo e deve essere rigettato nel resto.
2. Il primo motivo, con cui il ricorrente sostiene l'interruzione del nesso causale per effetto della condotta abnorme del lavoratore e l'assenza di colpa in capo all'imputata, è infondato.
Occorre muovere dal rilievo che non vi è contestazione alcuna sulla ricostruzione dell'infortunio e che, pertanto, può dirsi accertato che la persona offesa si sia infortunata alla mano nel tentativo di afferrare il tombino sganciatosi dalla leva utilizzata dal collega.
2.1. Sulla base di tali di dati di fatto, la Corte di Appello ha ravvisato un comportamento colposo dell'imputata in stretta casualità con il sinistro, consistito, in particolare, nel non aver fornito al lavoratore dipendente adeguata formazione e informazione. B.B. - ha rilevato la Corte - era stato impiegato nella mansione di letturista, pur avendo svolto solo un corso generale sulla sicurezza di appena quattro ore e non anche il corso specifico, in cui avrebbe dovuto ricevere specifiche istruzioni collegate a tali mansioni, previsto solo per le settimane successive. I Giudici hanno considerato irrilevante il fatto che il collega anziano C.C. gli avesse intimato di non avvicinarsi nel momento in cui erano in corso le operazioni di sollevamento del tombino, così come il fatto che egli fosse stato appunto affiancato a tale collega, osservando che l'adempimento dell'obbligo di formazione e informazione non è surrogabile dal travaso di conoscenze dai colleghi più esperti e che, appunto, B.B. non aveva ricevuto formazione specifica sui rischi connessi alla mansione, né gli era stato consegnato il manuale. Laddove l'obbligo formativo fosse stato assolto - ha proseguito la Corte - ad B.B. in maniera formale sarebbe stata impartita la direttiva di tenersi ad adeguata distanza dalle operazioni di apertura del "chiusino", in modo da non esporsi ai pericoli derivanti dal tipo di operazione effettuata, e ciò sarebbe valso ad evitare l'evento.
Il percorso argomentativo della sentenza impugnata appare coerente con i dati di fatto e immune da censure. L'individuazione dei profili di colpa è conforme al dettato normativo, per il quale l'addestramento è concetto diverso dalla formazione e informazione. L'art. 2 del D.Lgs. 81/08 distingue chiaramente, specificandone i diversi contenuti:
"aa) "formazione": processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi;
bb) "informazione": complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro;
cc) "addestramento": complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l'uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro".
La giurisprudenza ha chiarito che non può ritenersi adeguata una formazione, in tema di sicurezza, affidata alla mera trasmissione verbale o gestuale da parte di un soggetto dotato di superiore esperienza empirica sul campo giacché questa, sebbene a sua volta importante, non può sostituire ex sé quel bagaglio di conoscenze ed acquisizioni tecniche, di cui un formatore qualificato per la sicurezza deve essere dotato (Sez. 4, n. 35816 del 12/05/2021, Galletti, Rv. 281975 secondo cui "in tema di infortuni sul lavoro, non è sufficiente, per far ritenere adempiuti gli obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro, la messa a disposizione dei lavoratori di manuali di istruzione per l'uso dei macchinari"; Sez. 4. 21242 del 12/02/2014, Nogherot, Rv. 259219, secondo cui "l'attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. L'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione prevista dalla legge").
Anche il tema del giudizio controfattuale è stato esplorato in maniera adeguata e conforme al principio per cui "il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell'espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi" (Sez. 4, n. 8163 del 13/02/2020, Lena, Rv. 278603).
Il motivo del ricorso non si confronta con i principi su esposti e, nel ribadire che le testimonianze avevano chiarito come B.B. fosse stato affiancato al lavoratore più esperto che lo aveva avvertito della necessità di stare lontano dal tombino durante le operazioni di apertura, pretermette il rilievo che la formazione deve avere contenuti specifici e deve provenire, appunto, da soggetti qualificati.
2.2. La Corte ha escluso motivatamente che nel caso di specie la condotta del lavoratore infortunatosi, che di istinto aveva cercato di afferrare il tombino, potesse essere qualificata come abnorme e valesse perciò ad interrompere il nesso di causalità con l'evento, rilevando che essa non si era realizzata in ambito "avulso dal procedimento lavorativo a cui era stato addetto". Gli obblighi che il datore di lavoro non aveva ottemperato - hanno osservato i giudici - miravano proprio a scongiurare eventi determinati da condotte imprudenti o comunque colpose del lavoratore. Il ricorrente, di contro, sottolineando che B.B. era stato imprudente, fa coincidere, in maniera impropria, la nozione di abnormità con quella di colpa, ovvero nozioni che coprono ambiti del tutto differenti, e non tiene conto che la normativa prevenzionistica è volta proprio ad apprestare una tutela rispetto a situazioni di rischio in ambito lavorativo, collegate anche ad agire colposo del lavoratore. Sotto tale profilo si deve ribadire che a seguito dell'introduzione del D.Lgs. 626/94 e, poi, del T.U. 81/2008 si è passati dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, ma resta in ogni caso fermo il principio secondo cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.). All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (sez. 4 n. 15124 del 13712/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT c/ Musso Paolo, rv. 275017), oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (sez. 4 n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222).
3. Il secondo motivo, con cui il ricorrente si duole della mancata rinnovazione istruttoria a fronte del ribaltamento da parte della corte di appello della sentenza assolutoria in primo grado, è infondato. I principi che vengono in rilievo, in sintesi, possono essere così schematizzati:
- con la nota sentenza Dasgupta (n. 27620 del 28/04/2016, Rv. 267492) le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno evidenziato come la previsione contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d) CEDU precluda in appello il ribaltamento di una sentenza di assoluzione senza una rinnovazione, anche di ufficio, dell'istruttoria dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado. Il dovere del giudice di appello, in vista di un ribaltamento del proscioglimento in condanna, di rinnovare, anche d'ufficio, l'esame delle fonti di prova dichiarative ritenute decisive in primo grado discende, oltre che dai principi della CEDU, anche dal principio per cui non può reputarsi superato il dubbio ogniqualvolta, di fronte ad una diversa valutazione della prova dichiarativa che conduca ad un risultato peggiorativo nei confronti dell'imputato, il giudice di appello non abbia provveduto, in attuazione dei canoni di oralità e immediatezza, alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale dinanzi a sé;
- alla luce di tale precedente, il criterio della decisività va interpretato nel senso che la prova suddetta può dirsi decisiva laddove si tratti di un elemento che, sulla base della sentenza di primo grado, ha determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio e che, se espunto dal complesso del materiale probatorio, si rivela potenzialmente idoneo a incidere sull'esito del giudizio di appello;
- in continuità con questa impostazione si colloca anche Sezioni Unite Pavan (Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Rv. 275112), secondo cui le dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono prove dichiarative, sicché sussiste, per il giudice di appello che, sul diverso apprezzamento di esse, fondi la riforma della sentenza di assoluzione, l'obbligo di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale attraverso l'esame del perito o del consulente, mentre analogo obbligo non sussiste ove la relazione scritta del perito o del consulente tecnico sia stata acquisita mediante lettura, ivi difettando la natura dichiarativa della prova;
- tali principi hanno trovato corrispondente previsione normativa nel disposto di cui all'art. 603, comma 3 bis c.p.p., introdotto dall'art. 1/58 L. 103/2017 a norma del quale "Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale".
La giurisprudenza della Corte EDU, che si è pronunziata sul tema dell'overturning in malam partem (le sentenze 29/06/2017, Lorefice c. Italia; 28/02/2017, Manali c. Moldavia; 04/06/2013, Hanu c. Romania; 05/03/2013, Manolachi c. Romania; 21/09/2010, Marcos Barrios c. Spagna; 05/07/2011, Dan e. Moldavia), ha ritenuto necessario che il ribaltamento della sentenza di assoluzione di primo grado sia preceduto, in appello, dalla nuova escussione del teste sulla cui base tale overturning era avvenuto, pena la violazione dell'art. 6 CEDU. Da ultimo con la sentenza Tondo c. Italia del 22/10/2020, l'Italia è stata condannata per violazione dell'art. 6, par. 1 della CEDU in un caso di mancata rinnovazione della prova dichiarativa in appello - a seguito di annullamento con rinvio da parte di questa Corte; nella pronunzia in parola, la Corte di Strasburgo ha affermato che, quando un giudice di appello deve rivalutare la colpevolezza o l'innocenza di un imputato, non può, per motivi di equità del procedimento, decidere su tali questioni senza una valutazione diretta delle dichiarazioni dei "testimoni che hanno reso una deposizione durante il procedimento e alle cui dichiarazioni il giudice vuole dare una nuova interpretazione". In definitiva, può affermarsi che il vulnus individuato dalla Corte EDU al principio del giusto processo consiste nella violazione del principio di oralità ed immediatezza quale metodo più corretto per lo scrutinio di una prova che sia rilevante ai fini del giudizio, metodo che non può essere surrogato solo sulla base di quanto risulti verbalizzato, ma che impone che il Giudice di appello "veda" e "senta" personalmente il testimone sulla cui base avviene il ribaltamento.
Di contro, nel caso in cui la reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado avvenga in ragione di una diversa valutazione in termini giuridici di circostanze di fatto non controverse, non sussiste l'obbligo della rinnovazione istruttoria. In tale ipotesi, infatti, non viene in rilievo una diverso apprezzamento di prove dichiarative, ma solo un diverso inquadramento giuridico rispetto ad una ricostruzione fattuale non controversa, sicché difetta la ratio posto alla base dell'obbligo della rinnovazione, individuata nella necessità che solo l'assunzione diretta della prova da parte del giudice chiamato a decidere sia il metodo idoneo a dissipare i dubbi e le incertezze insorti sulla colpevolezza dell'imputato (in tal senso, da ultimo, Sez.4, n. 31541 del 22/06/2023, Lazzari, Rv. 284860).
La decisione impugnata ha fatto buon governo di tali principi. La Corte ha, infatti, precisato che nel caso in esame l'appello del Pubblico Ministero non aveva contestato in alcun modo la prova dichiarativa, ma solo le conseguenze tratte dal primo giudice in ordine ai fatti emersi dalle deposizioni dei testi esaminati, ossia la sussunzione dei fatti correttamente accertati sotto la fattispecie incriminatrice.
Il ricorrente lamenta che la Corte avrebbe operato una rivalutazione o meglio "svalutazione" del compendio dichiarativo da cui sarebbe emerso che in realtà B.B. era stata "formato" e reso edotto dei rischi, quando, in realtà, i giudici, nel sviluppare le argomentazioni in ordine alla affermazione della responsabilità penale dell'imputata, hanno ritenuto quanto dichiarato dai testi accertato, ma non anche tale da fare venire meno, per le ragioni supra indicate di carattere esclusivamente giuridico, né l'addebito di colpa, né il nesso di causa.
4. Il quarto motivo, relativo alla contestazione delle lesioni come gravi è infondato.
Si deve ricordare, in primo luogo, che in tema di lesioni personali la durata della malattia causata alla vittima costituisce accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune da vizi (Sez. 4, n. 12035 del 21/10/1982, Valentino, Rv. 156699; Sez. 1, n. 1700 del 18/12/1968, dep. 1969, Ritorto, Rv. 110830).
La valutazione compiuta al riguardo dai giudici di merito è stata ancorata a precisi dati documentali. Il Tribunale ha richiamato la prognosi di durata della malattia di venti giorni formulata dai sanitari del pronto soccorso il giorno dell'infortunio, ma anche la successiva certificazione Inail con cessazione dello stato di malattia al 31 dicembre 2018 (a far data dal 16 ottobre 2018) pari a oltre 40 giorni e l'amputazione della falange distale terzo dito mano sinistra con indebolimento permanente organo prensione; la Corte di Appello si è soffermata soprattutto su tale ultimo dato e ha osservato che l'indebolimento doveva ritenersi insussistente, indipendentemente dal grado.
Anche sotto tale profilo la decisione della Corte non si presta a censure. giudici, in coerenza con l'assunto per cui, ai sensi dell'art. 583 cod. pen., le lesioni sono gravi quando la durata della malattia o della incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni è superiore ai 40 giorni, hanno dato rilievo anche al certificato del medico che aveva dichiarata la cessazione della malattia oltre i 40 giorni dalla data dell'infortunio. A tale fine si deve osservare che la lesione personale deve considerarsi grave, se l'incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni perduri oltre il quarantesimo giorno, ivi compreso il periodo di convalescenza o quello di riposo dipendente dalla malattia (Sez. 5 n. 4014 del 27/10/2015, dep. 2016, Cucchiella, Rv. 267556).
In ogni caso i giudici hanno ritenuto sussistente anche l'indebolimento permanente dell'organo della prensione, menomato nella sua potenzialità funzionale, senza che sia rilevante il grado dell'indebolimento, in continuità con l'orientamento di legittimità per cui si ha indebolimento nel caso di amputazione di due falangi (Sez. 4, n. 6851 del 02/04/1981, Miglini, Rv.149722) e anche di una sola falange (Sez. 4, n. 2200 del 30/09/1982, dep. 18/03/1983, Lazzaretto, Rv. 157894).
5. Infondato è anche il quinto motivo, con cui il ricorrente censura la ritenuta ammissibilità dell'appello del Pubblico Ministero. L'art. 593, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 34 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 a decorrere dal 30 dicembre 2022, prevede l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa: per la disposizione in vigore al momento della emissione della sentenza di primo grado (11 marzo 2021) l'inappellabilità era, invece, limitata alle sole sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa. Secondo il ricorrente, poiché al momento della celebrazione del processo in appello, 31 gennaio 2023, la nuova disposizione era già in vigore, la Corte avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità della impugnazione avverso la sentenza di primo grado proposta dal Pubblico Ministero.
Sul tema della individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall'una all'altra, si sono già espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 27614 del 29/03/2007, Lista Rv. 236537 secondo cui "l'applicazione del principio "tempus regit actum" impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell'impugnazione." Le Sezioni Unite, in tale occasione, chiamate a dirimere un contrasto circa la applicabilità, ai procedimenti in corso e in difetto di norma transitoria, dell'art. 9 della legge n. 46/2006 che aveva abrogato l'art. 577 cod. proc. pen. (cioè il potere eccezionale della parte civile di proporre gravame agli effetti penali nei casi di ingiuria e diffamazione), hanno affermato che il regime delle impugnazioni va ancorato, in base all'art. 11 delle preleggi, alla disciplina vigente all'atto della pronuncia della sentenza, "posto che è in rapporto a quest'ultimo actus e al tempo del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione e i modi e i termini per esercitarla": il principio posto a base della decisione è quello della tutela dell'affidamento maturato dalla parte in relazione alla "fissità del quadro normativo", onde scongiurare che diritti eventualmente già maturati, pur non ancora esercitati, subiscano l'incidenza di mutamenti legislativi improvvisi che vanno a depauperare posizioni processuali acquisite. Le pronunce successive alla Sezioni Unite Lista, hanno fatto applicazione dello stesso principio: così Sez. 1, n. 5697 del 12/12/2014, dep. 2015, Ministero della Giustizia, Rv 262355 con cui la Corte ha ritenuto di essere competente a decidere sul ricorso per cassazione proposto avverso la decisione del magistrato di sorveglianza in tema di reclamo giurisdizionale, emessa nel vigore dell'art. 35 bis, comma quarto, legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo introdotto dall'art. 3, comma primo, lett. b), D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, prima delle modificazioni apportate dalla legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 10. e ha conseguentemente escluso di dover procedere alla qualificazione dell'atto di impugnazione come reclamo al tribunale di sorveglianza, così come stabilito dalle previsioni della legge di conversione; Sez. 1, n. 27004 del 29/04/2021, Pimpinella, Rv. 281615 cui la Corte ha ritenuto che la sentenza di non luogo a procedere, ex art. 425 cod. proc. pen., emessa prima dell'entrata in vigore della legge n. 103 del 2017, modificativa dell'art. 428 cod. proc. pen., è impugnabile mediante ricorso per cassazione secondo il regime previgente.
Il ricorrente, dunque, nell'affermare che il regime applicabile sarebbe quello in vigore al momento della celebrazione dell'appello, non tiene conto di tale consolidato orientamento espresso anche a Sezioni Unite. Impropriamente, inoltre, richiama l'ordinanza Sez.4 del 24/01/2023 n.2854 che aveva ritenuto l'immediata operatività anche ai processi in corso dell'art. 573 comma 1 bis cod. proc. pen., pure introdotto dalla Riforma Cartabia, in quanto tale orientamento è stato superato da Sez. U, n. 38481 del 25/05/2023, D. Rv. 285036 secondo cui "L'art. 573, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall'art. 33 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione di parte civile sia intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022, quale data di entrata in vigore della citata disposizione".
6. Infine fondato è, come detto, il terzo motivo con cui si censura il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della riparazione del danno.
Come indicato espressamente dall'art. 62 n. 6 cod. pen., ai fini del riconoscimento dell'attenuante, il risarcimento dev'essere integrale ed effettivo (ex plurimis, Sez. 6, n. 15875 del 24/03/2022, Battistini, Rv. 283190), tanto che, in caso di riparazione parziale o inadeguata, non può giovare all'imputato la dichiarazione liberatoria resa dalla persona offesa (Sez. 5, n. 7826 del 30/11/2022, dep. 2023, Bojic, Rv. 284224; Sez. 5, n. 13282 del 17/01/2013, Sanchez, Rv. 255187).
Sulla base di tali dati, la Corte di Appello, in replica ad analogo motivo dedotto in appello, ha negato la ravvisabilità dell'attenuante in esame, in quanto non sarebbe stato documentato l'intervenuto integrale risarcimento del danno. Dall'esame degli atti allegati al ricorso, tuttavia, emerge che la persona offesa era stata risarcita in data antecedente alla prima udienza dibattimentale del 28 novembre 2019, nel corso della quale era stato aperto il dibattimento, e, escussa nel corso del giudizio, aveva confermato appunto tale circostanza.
La motivazione della Corte, dunque, nel negare che il risarcimento sia stato integrale, da un lato non esplicita le ragioni di tale affermazione e dall'altro non si confronta con i dati sopra richiamati.
7. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla mancata concessione dell'attenuante ex art. 62 n. 6 cod. pen., con rinvio, per nuovo giudizio sul punto, ad altra sezione della Corte di Appello di Torino. Il ricorso deve, invece, essere rigettato nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla mancata concessione dell'attenuante ex art. 62 n. 6 c.p. e rinvia, per nuovo giudizio sul punto, ad altra sezione della Corte di Appello di Torino. Rigetta nel resto il ricorso. Deciso il 17 gennaio 2024.
Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2024.