Cassazione Penale, Sez. 4, 19 febbraio 2024, n. 7217 - Caduta dall'alto durante i lavori di ristrutturazione di un capannone



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta da:

Dott. DOVERE Salvatore - Presidente

Dott. VIGNALE Lucia - Relatore

Dott. SERRAO Eugenia

Dott. MICCICHÉ Loredana

Dott. RICCI Anna Luisa Angela

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sul ricorso proposto da:

A.A. nato a C. (...)

avverso la sentenza del 01/12/2022 della CORTE APPELLO di BOLOGNA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere LUCIA VIGNALE;

lette le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCA COSTANTINI, che ha chiesto il rinvio della trattazione del procedimento in attesa della decisione devoluta alle Sezioni unite con ordinanza Sez. IV, n. 30386 del 08/06/2023;

 

Fatto


1. Con sentenza del 1° dicembre 2022, la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza pronunciata l'8 marzo 2017 dal Tribunale della stessa città, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di A.A. (e dei coimputati B.B. ed C.C.) per il reato di cui agli artt. 590, commi 1 e 2, 583, comma 1 n. 1, cod. pen., perché quel reato (in ipotesi accusatoria commesso il 19 gennaio 2010) si era estinto per intervenuta prescrizione. Ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen., la Corte di appello ha confermato le statuizioni civili della sentenza di primo grado, con la quale gli imputati erano stati condannati, in solido fra loro, al risarcimento del danno in favore della parte civile D.D. - da liquidarsi in separato giudizio - e al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 50.000,00.

2. Il procedimento ha ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi il 19 gennaio 2010 a Bologna in Via (...) dove era in atto la ristrutturazione di un capannone di proprietà della "E.E. Srl" della quale era amministratore unico A.A.. L'infortunato era dipendente, quale collaboratore familiare, della ditta "F.F. di G.G.". Questa ditta aveva ricevuto in subappalto dalla "(...) di C.C." l'esecuzione sulla copertura del capannone di una "pavimentazione autobloccante". I lavori di pavimentazione facevano seguito a lavori di impermeabilizzazione della medesima copertura effettuati dalla ditta "H.H.". La ristrutturazione del capannone era iniziata nel 2008 e prevedeva: l'ampliamento dell'interrato e del piano terra, la realizzazione di nuove pareti divisorie, l'esecuzione di opere di urbanizzazione e il rifacimento della copertura. In data 10 gennaio 2008 il committente aveva provveduto alla nomina di un coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione e in fase di esecuzione nella persona dell'Ing. B.B..

Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, il giorno dell'infortunio D.D. e suo fratello G.G. si recarono per la prima volta sulla copertura del capannone che dovevano pavimentare. Per motivi non accertati (che i giudici di merito hanno ritenuto non rilevanti ai fini della decisione) egli si spostò sulla copertura del capannone adiacente (anch'esso di proprietà della "E.E. Srl"), separata da quella oggetto dei lavori soltanto da un muretto dell'altezza di circa 40 cm. Su questa copertura in eternit era presente un lucernaio in vetroresina che cedette quando l'infortunato vi camminò. Precipitato per alcuni metri, D.D. riportò gravissime lesioni. Egli fu ricoverato presso il reparto di rianimazione dell'Ospedale di Bologna e poi nel reparto di medicina riabilitativa del medesimo ospedale, dal quale fu dimesso il 20 maggio 2010 con postumi permanenti.

2.1. All'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale ha ritenuto che la responsabilità dell'infortunio dovesse essere ascritta: a A.A. quale committente dei lavori; a B.B. quale coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione e in fase di esecuzione; a C.C. quale titolare dell'impresa affidataria delle opere di pavimentazione. La posizione di G.G., imputato quale titolare della impresa subappaltante ("F.F. di G.G.), è stata stralciata e definita con sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. Il giudice di primo grado ha ritenuto che l'area pericolosa avrebbe dovuto essere delimitata adeguatamente, inibendo l'accesso ad essa o segnalando la situazione di pericolo. Ha sottolineato: che l'infortunato era salito sulla copertura del capannone per svolgere il proprio lavoro; che sulla copertura ove si verificò l'infortunio erano stati lasciati materiali; che, in ogni caso, la parte di copertura resa pericolosa dalla presenza del lucernario era liberamente accessibile, sicché il comportamento consistito nello spostarsi dalla copertura oggetto dei lavori a quella adiacente non può essere ritenuto abnorme. Secondo il Tribunale, l'infortunio fu reso possibile dal comportamento colposo degli imputati: quanto a A.A., perché, in mancanza di nomina di un responsabile dei lavori, egli era tenuto a delimitare l'accesso alla copertura pericolosa e, comunque, ad informare le ditte che avevano ricevuto l'appalto delle caratteristiche del luogo di lavoro; quanto a Cervi, perché egli non predispose un Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) adeguato, che prevedesse una idonea delimitazione dell'area pericolosa; quanto a C.C., perché non trasmise il Piano Operativo di Sicurezza (POS) all'impresa esecutrice dei lavori e perché questo piano non prevedeva le opere necessarie a delimitare l'area pericolosa. In primo grado, dunque, gli imputati sono stati ritenuti responsabili del reato di cui all'art. 590 cod. pen. e, conseguentemente, condannati in solido al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile costituita.

Contro la sentenza di condanna del Tribunale, hanno proposto appello A.A., B.B. e C.C. contestando le rispettive posizioni di garanzia e sostenendo di non aver violato norme di prevenzione antiinfortunistica. Tutti gli imputati hanno sostenuto, inoltre, che l'infortunio era stato reso possibile dal comportamento abnorme e imprevedibile dell'infortunato che si era recato sul tetto di un capannone limitrofo a quello sul quale doveva operare, non interessato ai lavori di ristrutturazione: un comportamento che, in tesi difensiva, era idoneo ad interrompere il nesso causale tra le ipotizzate condotte colpose e l'evento perché eccedente la sfera di rischio sulla quale i garanti erano tenuti ad intervenire.

La Corte di appello ha preso atto che il reato era estinto per prescrizione e ha riformato la sentenza impugnata quanto all'affermazione della penale responsabilità. Ne ha confermato, però, le statuizioni civili. Nel motivare questa decisione ha fatto applicazione dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 182 del 2021 e ha ritenuto (pag. 8 della motivazione) che l'accertamento richiesto dall'art. 578 cod. proc. pen., avendo ad oggetto solo la fondatezza della richiesta della domanda risarcitoria, dovesse essere svolto, "sia riguardo al nesso causale", sia riguardo "all'elemento soggettivo dell'illecito", sulla base della regola di giudizio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente". Ha escluso, dunque, che ai fini dell'affermazione della responsabilità civile, il compendio probatorio dovesse essere valutato secondo la regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, che si applica solo per l'accertamento dei reati. Muovendo da queste premesse, la Corte di appello ha affermato che dell'accertamento puramente civilistico sussistevano "tutti gli elementi, sia in ragione dell'accertata posizione di garanzia degli appellanti che dei profili di colpa concretamente ravvisabili in nesso sinergico con l'infortunio de quo". Pertanto, ha ritenuto corretta la condanna solidale degli imputati al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

3. Contro la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso il solo A.A., il quale, per mezzo del difensore munito di procura speciale, ha articolato un unico motivo deducendo violazione dell'art. 578 cod. proc. pen. e vizi di motivazione. Il difensore si duole che la Corte di territoriale non abbia dato risposta ai motivi di appello essendosi limitata ad affermare, in termini apodittici, che, secondo la regola di giudizio del "più probabile che non", doveva ritenersi provata la riconducibilità a tutti gli imputati (e quindi anche a A.A.) della responsabilità per il danno cagionato alla parte civile.

Dopo aver trascritto integralmente i motivi di appello, la difesa del ricorrente osserva che con quei motivi era stata contestata: da un lato, l'esistenza della posizione di garanzia; dall'altro, l'esistenza del nesso causale sotto il profilo della abnormità e imprevedibilità della condotta del lavoratore. Osserva che la risposta fornita dalla Corte di appello a queste eccezioni è così carente da poter essere considerata inesistente.

Si duole che la Corte di appello, pur fornita di piena cognizione sul merito del fatto illecito ascritto a A.A., abbia ritenuto che l'applicazione delle regole di giudizio proprie del diritto civile le consentisse di non confrontarsi con i motivi di gravame dedotti dalla difesa.

4. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte osservando che risulta devoluta alle Sezioni Unite di questa Corte, con udienza fissata al 28 marzo 2024, la questione volta a chiarire "se nel giudizio di appello promosso avverso la sentenza di condanna dell'imputato anche al risarcimento dei danni, intervenuta l'estinzione del reato per prescrizione, il giudice debba pronunciarsi sulle statuizioni civili sulla base della regola di giudizio processual-penalistica dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" ovvero di quella processual-civilistica del "più probabile che non"". Secondo il PG la decisione sarebbe rilevante nel presente ricorso, la cui trattazione, pertanto, dovrebbe essere rinviata ad un'udienza successiva alla pronuncia del massimo consesso.

 

Diritto


1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

2. La Corte territoriale ha dichiarato l'estinzione per prescrizione del reato oggetto del procedimento. Di conseguenza, in ossequio ai principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 182 del 7 luglio 2021 (dep. il 30 luglio 2021), ha ritenuto di dover valutare soltanto la sussistenza della responsabilità civile e di dover compiere tale accertamento secondo le regole di giudizio civilistiche. La necessità di applicare tali regole di giudizio, tuttavia, non consente di sottrarsi all'obbligo di motivazione. Pertanto, ai fini della decisione sulla domanda risarcitoria, la Corte di appello avrebbe dovuto confrontarsi con i motivi di gravame e spiegare, facendo applicazione delle regole di valutazione della prova proprie del giudizio civile, per quali ragioni le doglianze della difesa non fossero fondate e perché gli elementi costitutivi dell'illecito civile ascritto a A.A. potessero essere reputati sussistenti. Avrebbe quindi dovuto replicare alle argomentazioni dell'appellante spiegando, secondo il criterio della "probabilità prevalente": perché l'infortunio fosse ascrivibile a responsabilità del committente; quale condotta doverosa egli avrebbe dovuto tenere; perché tale condotta sarebbe stata idonea ad impedire l'evento.

La lettura della sentenza impugnata rende evidente che ciò non è stato fatto. Dopo aver esposto il contenuto degli appelli proposti da ciascun imputato (e, tra questi, i motivi dedotti da A.A.), la Corte territoriale si è limitata ad affermare, con una motivazione cumulativa (che assimila le posizioni degli imputati senza distinguerle e senza tenere conto dei diversi argomenti sviluppati da ciascun appellante), che la natura civilistica dell'accertamento richiesto "sia riguardo al nesso causale, sia all'elemento soggettivo dell'illecito", consente di affermare la responsabilità civile, "sia in ragione dell'accertata posizione di garanzia degli appellanti, che dei profili di colpa concretamente ravvisabili in nesso sinergico con l'infortunio" (cosi testualmente, pag. 8 della motivazione). A questa apodittica affermazione non si affianca alcuna motivazione ulteriore. Segue ad essa la conferma delle statuizioni civili della sentenza pronunciata l'8 marzo 2017 dal Tribunale di Bologna.

3. Per quanto esposto, l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento impugnato è del tutto carente. Dalla motivazione fornita, infatti, non emerge l'itinerario logico-giuridico seguito dalla Corte di appello per ritenere sussistenti gli elementi costitutivi dell'illecito civile. Il difetto di motivazione trasmoda, dunque, in violazione di legge (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692) e il ricorso deve trovare accoglimento.

Ai fini della decisione non è necessario attendere che le Sezioni Unite di questa Corte si pronuncino sulla questione controversa che è stata loro devoluta con ordinanza di questa Sezione (n. 30386 del 08/06/2023, Calpitano). Il ricorrente, infatti, non si duole del fatto che il reato sia stato dichiarato estinto per prescrizione, sicché il proscioglimento pronunciato ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. è ormai definitivo e il ricorso ha ad oggetto esclusivamente l'affermazione della responsabilità a fini civili. Non devono pertanto essere applicati i principi affermati dalla sentenza n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274, secondo la quale, "in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento". Il ricorrente, non sostiene, infatti, che, in presenza di un reato prescritto, la Corte di appello avrebbe comunque dovuto valutare se sussistessero le condizioni per applicare l'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., ma sì duole che la sussistenza dell'illecito civile non sia stata compiutamente motivata. Oggetto del ricorso, dunque, non è la regola di giudizio della "probabilità prevalente" applicata dalla Corte di appello, ma la carenza della motivazione con la quale il giudice, chiamato dall'art. 578 cod. proc. pen. ad operare un vaglio dei profili di responsabilità civile ascritti a A.A., ha confermato le statuizioni civili della sentenza di primo grado: una motivazione "apparente" che non consente di comprendere l'itinerario logico-giuridico seguito per ritenere sussistenti gli elementi costitutivi dell'illecito civile.

4. Per quanto esposto, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alle statuizioni civili che riguardano il ricorrente. Ne consegue, ai sensi dell'art. 622 cod. proc. pen., il rinvio al giudice civile competente in grado di appello. In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi della persona offesa ai sensi dell'art. 52, comma 2, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

 

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Ai sensi dell'art. 52, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, dispone che, in caso di riproduzione della sentenza, venga omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi della persona offesa.

Così deciso il 30 gennaio 2024.

Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2024.