Cassazione Civile, Sez. Lav., 21 febbraio 2024, n. 4664 - Stress per il dirigente medico: comportamenti discriminatori e vessatori
Nota a cura di Marsico Giuseppe Maria, in Labor on line, 14.04.2024 "Profili ricostruttivi in tema di responsabilità civile del datore di lavoro: tra risarcimento del danno, ambiente di lavoro stressogeno e responsabilità oggettiva"
Presidente Tria – Relatore Marotta
Rilevato che
1. Con sentenza n. 213 del 2018, la Corte d'appello di Ancona accoglieva l'appello proposto dall'Azienda Sanitaria (OMISSIS) e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di P.V.M., dirigente medico presso l'Unità Operativa cardiologia (struttura complessa) dell'Ospedale (OMISSIS) nonché responsabile dell'Unità per il Dolore Toracico denominata “Chest Pin Unit” (struttura semplice) intesa ad ottenere il risarcimento del danno in conseguenza di comportamenti persecutori vessatori, discriminatori posti in essere ai suoi danni.
Disattesa preliminarmente l'eccezione di inammissibilità del gravame, la Corte territoriale riteneva che i comportamenti descritti nell'atto introduttivo del giudizio, attribuiti al primario dell'Unità Operativa di Cardiologia, dott. L.M., potessero essere qualificati in termini di condotte mobbizzanti.
Escludeva che l'aver adibito il P.V.M. con una certa sistematicità ad attività da svolgere al di fuori del reparto di cardiologia avesse in sé una valenza vessatoria essendo piuttosto le relative determinazioni aziendali ascrivibili a scelte di massimizzazione dell'efficienza del reparto.
Riteneva che l'accertato clima di conflittualità all'interno del reparto smentisse l'esistenza di un intento persecutorio.
Riteneva poco significativi gli sviluppi delle vicende penali scaturite dalle denunce reciproche del P.V.M. e del primario L.M. così come alcune frasi pronunciate in occasione di un brindisi augurale da parte del L.M. (“P.V.M. (OMISSIS)”) e svalutava altri episodi asseritamente denotanti un intento persecutorio.
Riteneva che le patologie psico-somatiche lamentate dal P.V.M. ed acclarate dalla consulenza all'uopo disposta in primo grado non implicassero per se stesse anche la dimostrazione della loro genesi ed anzi evidenziava che, alla luce degli esiti istruttori, si doveva ipotizzare che nel determinismo della malattia psico-somatica la componente soggettiva (eccessiva perturbabilità del ricorrente) avesse avuto un ruolo essenziale rispetto agli sviluppi della vicenda lavorativa ed al concreto atteggiarsi, nello specifico, delle relazioni professionali.
4. Avverso tale pronuncia P.V.M. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a tre articolati motivi.
5. L'(OMISSIS) ha resistito con controricorso.
6. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Considerato che
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione ed erronea applicazione dei principi costituzionali e normativi in materia di mobbing e di diritti inviolabili della persona nonché violazione degli artt. 2,4 e 32 Cost. e 2103 e 2087 cod. civ.
Sostiene che la Corte territoriale abbia errato nel non ritenere, nello specifico, sussistenti tutti i presupposti ritenuti essenziali ed imprescindibili da questa Corte di legittimità ai fini della configurabilità non solo di comportamenti di mobbing ai suoi danni (estromissione dal reparto e trasferimento ad altro presidio ospedaliero, impulso a pretestuose indagini penali) ma soprattutto nell'aver svalutato e relegato in ambito di ordinaria conflittualità lavorativa tra dipendenti l'insostenibile situazione determinatasi all'interno del reparto caratterizzata da diffusi contrasti e da comportamenti adottati ai suoi danni (estromissione dal reparto e trasferimento ad altro presidio ospedaliero, impulso a pretestuose indagini penali, contestazioni, dinieghi) e comunque per aver escluso la riferibilità all'Azienda datrice di lavoro della responsabilità per tale clima conflittuale generativo di danno.
Censura la sentenza impugnata anche per omesso di considerare che era stata la stessa Azienda ad ammettere implicitamente l'insostenibilità della situazione conflittuale tra il ricorrente ed il primario a tal punto da proporre e poi disporre il trasferimento d'ufficio del P.V.M. (e non anche di altri dirigenti medici) ad altro presidio ospedaliero e per non aver ricollegato tale situazione conflittuale ai danni alla salute ad esso ricorrente derivati.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione ed erronea interpretazione dei principi e delle norme in tema di dirigenza medica, delle norme di cui al d.lgs. n. 502/1992 e del c.c.n.l. Dirigenza medica e sanitaria dell'8/6/2000, violazione degli artt. 2697 e 2712 cod. civ. nonché degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ. ed ancora violazione del principio di autonomia tra giudicato penale e giudizio civile, violazione ed erronea interpretazione degli artt. 651 e ss. cod. proc. pen.
Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha relegato il rapporto tra il primario del reparto (dott. L.M.) ed il dott. P.V.M. ad un rapporto di parità e ad un conflitto di personalità in contrasto tra i predetti là dove il ruolo del primo implicava il potere gerarchico di verifica e controllo sui dirigenti medici del reparto oltre che la responsabilità per i disservizi generatori di lamentele e dissidi.
Critica, altresì, la decisione della Corte territoriale per essersi sostanzialmente appiattita sull'esito del procedimento penale a carico del dott. L.M. (iscritto per il reato di calunnia su denuncia del dott. P.V.M. - dopo che, a sua volta il suddetto primario aveva presentato denuncia a carico del P.V.M., per il reato di interruzione di un servizio di pubblica necessità - e definito con richiesta di archiviazione del P.M. al G.I.P. del Tribunale di (OMISSIS)) senza alcun accertamento dei fatti e delle responsabilità civili dedotte in giudizio.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omesso e carente esame di innumerevoli punti controversi e decisivi per il giudizio.
Lamenta la mancata valutazione di plurime circostanze asseritamente rilevanti come ad esempio la “regia occulta” del primario nella gestione dell'indagine penale ed il suo “indottrinamento” dei sottoposti prima delle loro deposizioni dinanzi alla polizia giudiziaria, l'inadempienza e il disinteresse da parte del medesimo primario all'adozione doverosa di un protocollo regolamentare delle consulenze cardiologiche interne (causativa di disservizi e ritardi tanto che era stata disposta l'apertura di un procedimento disciplinare a carico dello stesso, poi rimasto senza esito), l'aver profferito il medesimo primario, nel corso di una festicciola in reparto in data 23/2/2011 (e cioè dopo pochi giorni da quando il P.V.M. aveva ricevuto l'avviso di garanzia), una frase offensiva (“P.V.M. (OMISSIS)”) significativa del disegno ordito illecitamente dal primario in danno del P.V.M. e della capacità del primo di incidere negativamente nei confronti di quei dirigenti che come il P.V.M. avevano, nel tempo, manifestato dissensi e critiche.
4. Il ricorso è fondato per le ragioni e nei termini di seguito illustrati.
5. Emerge dalla sentenza impugnata che la vicenda in relazione alla quale l'odierno ricorrente ha agito in giudizio era maturata in un contesto di lavoro caratterizzato da “diffuse ostilità” tra medici del reparto e primario e che le stesse avevano interessato più della metà dei medici dello stesso “parrebbe a motivo di una certa contrarietà del primario all'espletamento da parte di costoro di attività intra moenia” (v. pag. 4 della sentenza).
Pur a fronte di tale oggettiva situazione, sfociata, nel caso del P.V.M., in punte di contrapposizione estrema ed in una denuncia penale per il reato di interruzione di pubblico servizio, che aveva, come si legge, determinato (all'indomani della ricezione da parte del predetto del relativo avviso di garanzia) la pronuncia da parte del primario, nel contesto di un festeggiamento nel reparto, della frase “P.V.M. (OMISSIS)”, la Corte territoriale ha escluso la violazione dell'art. 2087 cod. civ. essenzialmente sottolineando la mancanza di un intento persecutorio tale da unificare i vari episodi dedotti a corredo della domanda e da integrare la responsabilità risarcitoria.
Ma una situazione di costrittività ambientale è configurabile anche a prescindere dalla concreta individuazione di un mobbing e da una eventuale particolare sensibilità ovvero suscettibilità del dipendente.
Occorre, infatti, ricordare che, per orientamento consolidato di questa Corte, la violazione da parte del datore di lavoro dell'art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze del caso, soprattutto in tema di prescrizione e onere della prova.
Invero, la giurisprudenza di legittimità si è univocamente espressa nel senso che, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 cod. civ., la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile - ma è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (v. ex multis Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 13 ottobre 2015, n. 20533; Cass. 9 giugno 2017, n. 14468). Quindi, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per la tecnopatia contratta (o per l'infortunio subìto) dal dipendente, grava su quest'ultimo l'onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, della malattia e del nesso causale tra la nocività dell'ambiente di lavoro e l'evento dannoso, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all'attività svolta nonché di aver adottato tutte le misure che - in considerazione della peculiarità dell'attività e tenuto conto dello stato della tecnica - siano necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza.
6. Inoltre, come ricordato da Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291, grazie al carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta all'art. 2087 cod. civ., nonché all'ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.) ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, la giurisprudenza di questa Corte ha inteso l'obbligo datoriale di “tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” nel senso di includere anche l'obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi ( v. anche Cass. 22 marzo 2002, n. 4129).
Alla luce di tale cornice di principi, anche costituzionali, la tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore non ammette sconti, in ragione di fattori quali l'ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva, nella predisposizione di condizioni ambientali sicure.
Questo implica anche l'obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale (sulla scorta di quanto affermato anche dalla Corte costituzionale, vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003 e Cass. 5 novembre 2012, n. 18927).
A ciò è da aggiungere che la ricordata portata costituzionale della materia trattata ha spinto il diritto vivente, e in alcuni casi quello vigente, ad ammettere che le condotte potenzialmente lesive dei diritti di cui si tratta siano soggette a prove presuntive. Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) - che esige che il Giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell'istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri e quindi esclude che il Giudice, avendo a disposizione una pluralità di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. 9 marzo 2012, n. 3703) - consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (vedi per tutte: Cass. 5 novembre 2012, n. 18927 cit.). Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di prova del danno da demansionamento (Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n, 28274), oltre a trovare riscontro anche nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato 21 aprile 2010, n. 2272).
7. Ebbene, alla luce di quanto finora osservato, al fine di rintracciare una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in capo al datore di lavoro, quale quella nello specifico dedotta, ancorché con una principale ascrivibilità della stessa ad una ipotesi di mobbing, non è necessaria, la presenza di un “unificante comportamento vessatorio”, ma è sufficiente l'adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici.
Tali principi sono stati di recente confermati da Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692, la quale ha affermato che: “è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ. È, infatti, comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento - imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 cod. civ.); si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028; Cass. 25 gennaio 2021, n. 1509) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972) e questa S.C. ha del resto già ritenuto che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013 cit. e, prima Cass. 21 ottobre 1997, n. 10361), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.P.R. n. 1124/1965 e d.lgs. n. 38/2000, nelle forme della c.d. "costrittività organizzativa"), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell'art. 2087 cod. civ.”.
In sostanza, anche in assenza di un intento persecutorio unificante le singole condotte oggetto di esame, ovvero solo caratterizzante una o più di esse, le stesse andavano singolarmente e nell'insieme considerate alla luce della violazione dell'art. 2087 cod. civ.: circostanza, quest'ultima, apoditticamente esclusa nella sentenza in ragione della accertata insussistenza di un comportamento programmaticamente e volontariamente vessatorio.
8. Ed allora, non vale atomisticamente svalutare ciascuno dei comportamenti indicati come significativi di un contesto lavorativo stressogeno (al punto che il P.V.M. aveva, poi, preferito accettare la proposta di trasferimento ad altro incarico), occorrendo esaminare gli stessi anche prescindendo da una preordinata volontà di emarginazione o isolamento e cioè come comportamenti, di fatto, determinativi di un ambiente di lavoro non certo ideale per svolgere serenamente i delicati compiti assegnati.
Come già ricordato, il lavoratore che agisce per ottenere il risarcimento dei danni causati dall'espletamento dell'attività lavorativa non ha l'onere di dimostrare le specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza. Al contrario, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr., oltre alle altre pronunce sopra citate, la più recente Cass. 29 marzo 2022, n. 10115).
Né può sostenersi che una “soggettiva pertubabilità” del ricorrente abbia avuto un ruolo “essenziale” nella vicenda lavorativa in questione (pag. 6 della sentenza), ricadendo sul datore di lavoro l'obbligo di tutelare la salute sempre e comunque, a prescindere da particolari emotività del dipendente.
Nello specifico, al contrario, tale psicologica propensione ad una somatizzazione (sofferta) delle vicende, non poteva che indurre a maggiori cautele da parte del primario non solo nella predisposizione della organizzazione del reparto ma anche, e soprattutto, nell'instaurazione di relazioni quotidiane quanto più possibile franche e serene.
Tutto ciò ha, evidentemente, inciso anche nella valutazione del danno che, in caso di nocività dell'ambiente di lavoro, nonché di nesso tra questo ed il pregiudizio per la salute, non è eludibile.
9. La nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico- legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. 10 dicembre 2019, n. 32257).
Ed allora il vizio dedotto, che riguarda, tra l'altro, l'erronea imputazione delle condotte ad un ricercato (ed escluso) intento vessatorio, è certamente censurabile in sede di legittimità, aldilà delle valutazioni di merito non annoverate nella attività nomofilattica riservata alla Suprema Corte.
Vale la pena, sul punto, richiamare una recente pronuncia di questa Corte (Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101), secondo cui, in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica. La reiterazione, l'intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza.
10. Così, nello specifico, la Corte territoriale ha omesso di valutare/interpretare le varie condotte poste in essere dall'Azienda datrice di lavoro che - a prescindere dalla sussistenza di comportamenti intenzionalmente vessatori nei confronti del P.V.M. - ben possono essere state, anche in ragione della reiterazione delle stesse, esorbitanti od incongrue rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, e così poste in violazione dell'art. 2087 cod. civ. anche eventualmente sotto il profilo della contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia, come tali causative di pregiudizi per la salute (si richiamano le già citate pronunce di legittimità secondo cui, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative “stressogene”, e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno).
11. Conclusivamente, il ricorso va accolto per quanto di ragione.
La sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d'appello di Ancona che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame, uniformandosi ai su affermati principi, e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
12. La fondatezza del ricorso rende inapplicabile il disposto dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, quanto al raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Ancona, in diversa composizione.