Cassazione Penale, Sez. 4, 20 febbraio 2024, n. 7415 - Infortunio con una sostanza chimica. Procedura di lavoro inidonea e omessa valutazione del rischio derivante dalla necessità di travasare il prodotto per suddividerlo in dosi



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta da:

Dott. DOVERE Salvatore -Presidente

Dott. VIGNALE Lucia -Relatore

Dott. SERRAO Eugenia -Consigliere

Dott. MICCICHÈ Loredana -Consigliere

Dott. RICCI Anna Luisa Angela -Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sui ricorsi proposti da:

A.A. nato a S il (omissis)

B.B. nato a A il (omissis)

avverso la sentenza del 06/04/2023 della CORTE APPELLO di MILANO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere LUCIA VIGNALE;

lette le conclusioni del Procuratore generale, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCA COSTANTINI, che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi

 

Fatto


1. Con sentenza del 6 aprile 2023, la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza pronunciata il 21 dicembre 2020 - all'esito di giudizio abbreviato - dal Tribunale di Milano nei confronti di A.A. e B.B. A.A. e B.B. sono stati ritenuti responsabili del reato di cui agli artt. 41, comma 1, 590 commi 1, 2 e 3 cod. pen. in danno di C.C., dipendente della “Ritrama Spa”. Di questo reato sono stati chiamati a rispondere: A.A., nella qualità di “datore di lavoro delegato per l'unità produttiva di Basiano della Ritrama Spa”, con poteri in materia di prevenzione infortuni e sicurezza dei luoghi di lavoro; B.B., quale preposto nella medesima unità produttiva.

2. Il procedimento ha ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi l'11 gennaio 2018 presso uno stabilimento della “Ritrama Spa” situato a Basiano (MI) e destinato alla produzione di fogli autoadesivi. L'infortunato, C.C., era addetto al laboratorio chimico e, il giorno dei fatti, stava svolgendo le attività necessarie alla preparazione di un particolare adesivo denominato “Scapa”, introdotto nel processo produttivo nell'autunno del 2016 dopo una fase di ricerca e sperimentazione iniziata nel 2015 presso un altro stabilimento dell'azienda, situato a C, specializzato negli ambiti della ricerca e dello sviluppo. Nella preparazione di questo adesivo era utilizzata una sostanza chimica - il “Laromin 327” - particolarmente pericolosa. La sentenza di primo grado (pag. 5) riporta la scheda di sicurezza di questo materiale nei seguenti termini: “tossico a contatto con la pelle, mortale se inalato, nocivo se ingerito, capace di provocare ustioni della pelle e gravi lesioni oculari”. Le norme di sicurezza da applicare nella “lavorazione Scapa” erano state elaborate il 15 novembre 2015 all'esito della fase di ricerca e sperimentazione ed erano state illustrate ai lavoratori dello stabilimento di B - tra questi anche a C.C. - in due incontri del 14 e 22 novembre 2016. Il Documento di Valutazione del Rischio (DVR), redatto il 30 settembre 2016, è riportato a pag. 12 della sentenza di primo grado. Questo documento stabiliva che tutte le attività rilevanti per la “lavorazione Scapa” (in particolare: “manipolazione, stoccaggio, trasporto di materie prime, smaltimento rifiuti, pulizia, manutenzione e attività ausiliarie in genere”) fossero “condotte in sicurezza”. Era previsto che il Laromin dovesse essere sempre utilizzato sotto cappa e indossando dispositivi personali di protezione (guanti, mascherine, occhiali e tuta).

Quando la “lavorazione Scapa” fu introdotta nel processo produttivo, il Laromin 327 era fornito dal produttore (la BASF) in flaconi da 500 grammi l'uno. Si trattava di flaconi di vetro spesso, di colore ambrato, con collo allungato e tappo di sicurezza a vite. Dopo una fase iniziale, però, il prodotto iniziò ad essere fornito in fusti metallici da 160 kg ciascuno, sicché sorse la necessità di travasare la sostanza in contenitori più piccoli.

Le sentenze di primo e secondo grado sono concordi nel riferire che a novembre del 2017, su iniziativa del preposto B.B., inserito un rubinetto nei fusti, il prodotto fu porzionato riempiendo flaconi di vetro identici a quelli inizialmente forniti dal produttore. Quando questi flaconi terminarono, B.B. decise di utilizzare barattoli di vetro simili a quelli che si usano per gli alimenti, di capienza pari a circa un chilo di prodotto. Il giorno dei fatti, C.C. doveva aprire uno di questi barattoli, ma, come già era accaduto in una precedente occasione, non riuscì a farlo. La volta precedente si era rivolto proprio a B.B. e questi lo aveva accompagnato in officina, aveva chiesto all'operaio manutentore D.D. di aiutarlo ad allentare leggermente il tappo mediante l'uso di una chiave a pappagallo, e aveva riconsegnato il barattolo, col tappo allentato, a C.C. che avrebbe dovuto procedere alla completa apertura e all'utilizzo del prodotto sotto cappa. Memore di questa esperienza, non riuscendo ad aprire il barattolo, C.C. si recò in officina, dove trovò il capo turno E.E. e gli spiegò la procedura che B.B. aveva seguito in precedenza. Il barattolo fu appoggiato su un tavolo, C.C. lo trattenne con entrambe le mani togliendosi i guanti per fare miglior presa e E.E. prese la chiave a pappagallo. Appena iniziò ad allentare il tappo, però, il barattolo esplose. E.E. e C.C. furono raggiunti dalla sostanza tossica e da schegge di vetro. Le lesioni conseguenti furono lievi per E.E., ma gravi per C.C. che riportò ustioni agli arti superiori. La malattia e l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni ebbero durata complessiva di 178 giorni.

2.1. Come si è detto, A.A. e B.B. sono stati chiamati a rispondere dell'infortunio: il primo, quale datore di lavoro delegato per lo stabilimento di B, con poteri in materia di prevenzione infortuni e sicurezza dei luoghi di lavoro; il secondo quale preposto all'unità produttiva.

A A.A. è stato contestato di non aver aggiornato il DVR prendendo in con siderazione le situazioni di pericolo conseguenti alla necessità di travasare il Laromin e non aver assicurato la predisposizione di una procedura di lavoro idonea a garantire la sicurezza nella manipolazione, nell'immagazzinamento e nel trasporto di questa sostanza. Quanto a B.B., secondo l'accusa egli non vigilò sull'utilizzo da parte di C.C. dei dispositivi di protezione individuale né sull'osservanza delle procedure aziendali previste per la specifica lavorazione e non segnalò al datore di lavoro la condizione di pericolo legata alla difficoltà di apertura dei barattoli di vetro nei quali il Laromin era stato trasferito. In ipotesi accusatoria, dunque, l'infortunio fu determinato da violazioni di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro: quanto a A.A., dalla violazione dell'art. 224, comma 1, lett. g) d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, che integra le disposizioni generali in tema di valutazione del rischio (artt. 17, 28 e 29 d.lgs. n. 81/08) con riferimento all'uso di agenti chimici imponendo “metodi di lavoro appropriati, comprese le disposizioni che garantiscono la sicurezza nella manipolazione, nell'immagazzinamento e nel trasporto sul luogo di lavoro di agenti chimici pericolosi”; quanto a B.B., dalla violazione dell'art. 19, comma 1, lett. a) e lett. f) del medesimo decreto.

2.2. I giudici di merito hanno ritenuto la penale responsabilità di entrambi gli imputati.

Quanto alla posizione di A.A., le sentenze di primo e secondo grado rilevano che, pur consapevole delle modalità con le quali il Laromin veniva fornito allo stabilimento (non più in boccette da 500 gr, ma in fusti metallici da 160 kg ciascuno), egli non valutò il rischio conseguente alla necessità di procedere al frazionamento di questo agente chimico in contenitori più piccoli; non si adoperò quindi, come avrebbe dovuto, perché fosse predisposta un'adeguata procedura operativa per questa specifica fase della lavorazione: una procedura che il DVR predisposto il 30 settembre 2016 non poteva contemplare perché a quell'epoca le modalità di fornitura del Laromin non erano ancora state modificate.

Con riferimento alla posizione di B.B., le sentenze di primo e secondo grado sottolineano: che egli assunse l'iniziativa di procedere al frazionamento della sostanza contenuta nei fusti adoperando, oltre alle boccette in vetro spesso con collo allungato e tappo di sicurezza a vite che erano state fomite in precedenza, anche barattoli in vetro simili a quelli che si utilizzano per gli alimenti; che tale scelta era fonte di pericolo per la maggior quantità di prodotto presente in quei barattoli (1 kg), per la larghezza dell'imboccatura e perché l'apertura di un tappo di maggiori dimensioni richiede una forza maggiore; che quando, per la prima volta, si manifestarono difficoltà nell'apertura, B.B. vi ovviò con l'utilizzo di una pinza a pappagallo così suggerendo nei fatti a C.C. la procedura, intrinsecamente pericolosa, che egli seguì in occasione dell'infortunio; che i problemi di sicurezza connessi alle operazioni di travaso e all'uso di contenitori diversi da quelli originali non furono segnalati ai fini dell'elaborazione di una procedura idonea e neppure fu segnalata la difficoltà riscontrata nell'apertura dei barattoli.

3. Per mezzo dei rispettivi difensori, muniti di specifico mandato ai sensi dell'art. 581, comma 1 quater, cod. proc. pen. A.A. e B.B. hanno proposto ricorso contro la sentenza de la Corte di appello. I ricorsi sono articolati in più motivi che saranno illustrati nei limiti strettamente necessari alla decisione come previsto dall'art. 173, comma 1, d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271.

4. Il ricorso proposto nell'interesse di A.A. si articola in quattro motivi.

4.1. Col primo motivo la difesa di A.A. deduce nullità della sentenza ai sensi dell'art. 178 lett. c) in relazione all'art. 106 cod. proc. pen. Premesso che A.A. è stato assistito, sia in primo che in secondo grado, dal medesimo difensore che assisteva B.B., il difensore nominato ai fini della proposizione del ricorso per cassazione osserva che i due imputati si trovavano in posizioni tra loro incompatibili e si duole che tale incompatibilità non sia mai stata rilevata. Sostiene che l'incompatibilità era evidente, atteso che a B.B. è stato contestato di non aver segnalato al datore di lavoro (e quindi, in ipotesi accusatoria, proprio a A.A.) la situazione di pericolo legata alle difficoltà di apertura dei contenitori di vetro.

Il ricorrente osserva quanto segue:

- negli scritti difensivi riguardanti la posizione di B.B. si sostiene che egli aveva informato la dirigenza della società di aver provveduto a trasferire il Laromin dai bidoni a contenitori di vetro;

- tale circostanza è stata valorizzata dalla Corte di appello per affermare che A.A. era stato reso edotto, sia pure a procedura ultimata, delle operazioni di travaso “con contestuale invio di documentazione fotografica attestante i diversi passaggi seguiti per effettuare la spillatura nel rispetto delle misure di prevenzione e sicurezza vigenti”;

- secondo la sentenza impugnata (pag. 10), avendo ricevuto tale documentazione fotografica, A.A. avrebbe dovuto disporre che fosse verificata l'idoneità dei contenitori nei quali il prodotto era stato travasato e la possibilità di manipolarli in sicurezza nel rispetto delle procedure descritte dal DVR, disponendo, in caso contrario, l'aggiornamento del DVR;

- nei motivi di appello, la difesa A.A. pose in luce che già a maggio del 2017 egli aveva segnalato la necessità di travasare il prodotto in fusti di dimensioni ridotte mediante esternalizzazione della procedura, ma invece di sostenere che questo precludeva la possibilità di una “spillatura interna”, si limitò ad affermare che l'operato di A.A. dimostrava una preferenza in favore della esternalizzazione del servizio;

- la sentenza impugnata ha valorizzato tale affermazione a pag. 10 della motivazione dove si legge infatti: “è la stessa difesa a ritenere che la mail di A.A. del 30 maggio 2017 "non fosse certo sintomatica della impercorribilità dell'opzione di spillatura interna, soprattutto laddove la stessa fosse stata condotta nel rispetto delle procedure già vigenti" (cfr. atto di appello pag. 11)”;

- così motivando, la Corte territoriale ha utilizzato una argomentazione che aveva valenza difensiva con esclusivo riguardo alla posizione di B.B. e ha reso evidente il concreto pregiudizio arrecato a A.A. dal fatto che la sua difesa e quella di B.B. erano state assunte dallo stesso avvocato.

4.2. Col secondo motivo, la difesa deduce errata applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. Osserva che, come la sentenza impugnata riconosce, l'evento lesivo fu determinato dalla conservazione della sostanza pericolosa n barattoli inidonei e ciò avvenne per decisione di B.B., il quale operò in tal senso senza informare A.A. Si trattò, dunque, di una iniziativa assunta da B.B. in assoluta autonomia, ma eccentrica, abnorme e perciò tale da escludere la rilevanza causale dell'ipotizzata inadeguatezza del DVR.

A sostegno di tali argomentazioni, la difesa sottolinea che, come documentalmente provato, il 30 maggio 2017, proprio in ragione della estrema pericolosità della sostanza, A.A. aveva disposto che il travaso del Laromin fosse eseguito da un fornitore esterno specializzato; che infatti, a novembre 2017, erano stati portati nello stabilimento 16 fustini da 10 kg di Laromin ottenuti travasando un fusto da 160 kg fornito dalla BASF.

Secondo la difesa di A.A., la condotta di B.B. fu doppiamente abnorme: in primo luogo, perché egli introdusse (dandone comunicazione ai propri superiori solo a cose fatte) una procedura di “spillatura interna” che non era prevista dal DVR; in secondo luogo, perché dispose che il Laromin fosse travasato anche in contenitori inidonei che non avrebbero consentito di utilizzare il prodotto nel rispetto delle condizioni di sicurezza previste. Così operando - sostiene il ricorrente - il preposto attivò un rischio eccentrico rispetto a quello che il datore di lavoro era chiamato a governare.

4.3. Il terzo motivo costituisce sviluppo del secondo, deduce infatti errata applicazione degli artt. 40, 41 e 43 cod. pen. La difesa sottolinea: che A.A. non poteva prevedere ed evitare l'autonoma (e improvvida) iniziativa adottata da B.B. col trasferire il Laromin dai fusti ai contenitori in vetro; che, se anche ne fu informato, lo fu solo quando il trasferimento era ormai avvenuto e sulla base di fotografie che documentavano l'uso di flaconi dal collo allungato identici a quelli inizialmente forniti dal produttore, ma non l'uso di barattoli (del quale la dirigenza rimase all'oscuro); che l'uso di barattoli era ignoto al datore di lavoro e, di conseguenza, questi non poteva attivarsi per individuare una procedura idonea ad assicurare che questo tipo di contenitori fosse adoperato in condizioni di sicurezza.

In sintesi, secondo la difesa, il datore di lavoro non avrebbe potuto disciplinare una lavorazione che presupponeva l'uso (a lui ignoto) di barattoli non idonei, sicché la condotta doverosa che, secondo la sentenza impugnata, A.A. avrebbe omesso era in concreto inesigibile.

4.4. Col quarto motivo, la difesa deduce vizi di motivazione. La sentenza impugnata, infatti, ha ritenuto che A.A. fosse stato informato che il Laromin era stato travasato in contenitori di vetro, ma non ha giustificato tale affermazione se non sostenendo che dall'esternalizzazione delle operazioni di spillatura e confezionamento “non può dedursi” che la spillatura interna fosse stata esclusa.

A questo proposito la difesa osserva:

- che, secondo le disposizioni impartite da A.A., il travaso del contenuto dei fusti da 160 kg in recipienti di minori dimensioni doveva essere eseguito da una ditta esterna e pertanto egli non aveva motivo di codificare modalità di spillatura interna né di controllare l'idoneità dei contenitori;

- che lo stesso B.B., in una memoria difensiva presentata nel procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti dalla società (acquisita agli atti e utilizzata ai fini della decisione), ha sostenuto di aver documentato fotograficamente le operazioni di travaso e di aver inviato tali documenti a “F.F., G.G. e H.H.”, ma non ha detto di averli inviati a A.A.;

- che la conoscenza di tale documentazione da parte di A.A. non può essere desunta dall'invio della stessa ad altri dirigenti dello stabilimento;

- che la persona offesa, sentita dalla Polizia giudiziaria, ha dichiarato: “la decisione di spillare il Laromin nei barattoli di vetro è stata presa dal nostro responsabile sig. B.B. “...” non penso che a livello dirigenziale fossero a conoscenza di tale operazione”;

- che la documentazione fotografica (allegata agli atti e al ricorso) mostra il riempimento di flaconi a collo allungato e non il riempimento di barattoli sicché, anche se avesse potuto esaminarla, il datore di lavoro non avrebbe potuto rendersi conto della inidoneità dei recipienti utilizzati.

In sintesi, la difesa si duole di un duplice vizio di motivazione ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. Sostiene: da un lato, che la motivazione è carente perché afferma, senza spiegarne le ragioni, che A.A. potè esaminare la documentazione fotografica del trasferimento del Laromin dai fusti ai contenitori di vetro; dall'altro, che la motivazione è, in ogni caso, manifestamente illogica. Anche ammettendo che le fotografie siano state inviate a A.A., infatti, non si potrebbe ignorare che le stesse documentano il riempimento di flaconi a collo allungato identici a quelli utilizzati fino a quel momento (certamente idonei allo scopo) per l'uso dei quali era stata prevista una apposita procedura. Secondo la difesa, ciò rende illogica la tesi sostenuta nella sentenza impugnata secondo la quale A.A. non poteva limitarsi a prendere visione delle fotografie, ma doveva controllare che il prodotto travasato fosse custodito in contenitori idonei alla conservazione e alla successiva manipolazione in sicurezza.

5. Il ricorso proposto nell'interesse di B.B. si articola in tre motivi.

5.1. Col primo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione ed errata applicazione degli artt. 41 cod. pen. e 19, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 81/08. Rileva che B.B. seppe che si erano verificate difficoltà di apertura di un barattolo in un'unica occasione. Si trattò, dunque, di un problema isolato e fu lo stesso B.B. a risolverlo con l'aiuto di un operaio manutentore che allentò leggermente il tappo mediante l'uso di una chiave a pappagallo. In quell'unico caso, B.B. agì in sicurezza nel rispetto delle procedure e indossando i guanti. Il tappo fu allentato e fatto "sfiatare" senza che si verificasse alcun problema. Non emerse dunque una situazione di pericolo tale da far sorgere un obbligo di segnalazione, tanto più che la scheda di sicurezza del Laromin parla di materiale tossico per inalazione, ingestione e contatto con la pelle e gli occhi, ma non segnala rischi di esplosione.

Secondo il ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata è manifestamente illogica nella parte in cui afferma che, riscontrata in un unico caso una difficoltà nell'apertura di un barattolo, B.B. avrebbe dovuto ipotizzare l'esistenza di un pericolo ricorrente. Secondo la difesa è manifestamente illogica anche l'altra affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale, avvalendosi, in quell'unica occasione, di una pinza a pappagallo, B.B. avrebbe “dato il via ad una prassi di lavoro pericolosa”. Nel giungere a tali conclusioni, infatti, i giudici di merito avrebbero omesso di considerare che, dopo aver proceduto ad allentare il tappo, B.B. non impartì a C.C. nessuna disposizione, neppure verbale, affinché eventuali episodi simili fossero gestiti nello stesso modo.

5.2. Col secondo motivo, la difesa deduce erronea applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. e vizi di motivazione. Sostiene che l'infortunio fu reso possibile dal comportamento abnorme e imprevedibile di C.C. Rileva che, come l'infortunato ha dichiarato, quel giorno non era previsto dovessero essere eseguite lavorazioni facendo uso del Laromin e C.C. non comunicò a B.B. la sua intenzione di procedere in tal senso. Sottolinea che l'infortunato si tolse i guanti e, così facendo, violò deliberatamente (ma con condotta imprevedibile) disposizioni di sicurezza delle quali era informato, che aveva sempre rispettato e visto rispettare. Ricorda che, quando questo avvenne, B.B. non era presente nello stabilimento.

Secondo la difesa, la condotta dell'infortunato - consapevolmente elusiva delle disposizioni antiinfortunistiche ed eccentrica rispetto alle mansioni che egli avrebbe dovuto assolvere quel giorno - fu causa esclusiva dell'evento e attivò un rischio eccedente rispetto a quello che B.B. era chiamato a governare. Il ricorrente sostiene che a tali argomentazioni difensive la sentenza impugnata e quella di primo grado non avrebbero fornito adeguata risposta, essendosi limitate a sottolineare che le mansioni di C.C. comprendevano la manipolazione di agenti chimici e pertanto l'attività che stava svolgendo non era estranea alle sue competenze.

5.3. Col terzo motivo, la difesa deduce erronea applicazione degli artt. 41 cod. pen. e 19, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 81/08. Sottolinea che, quando si verificò l'infortunio, B.B. non era presente in reparto avendo ormai terminato il proprio turno di lavoro. Non poteva dunque vigilare su C.C., assicurarsi che facesse uso dei dispositivi di protezione e osservasse le procedure aziendali relative all'uso del Laromin (che quel giorno neppure doveva essere adoperato). Rileva che, in occasione dell'unico precedente episodio nel quale si erano verificati problemi di apertura di un barattolo di Laromin, B.B. aveva indossato i guanti di sicurezza e così pure G.G., che lo aveva aiutato ad allentare il tappo con una pinza a pappagallo. Pertanto, non si può sostenere che la procedura seguita da B.B. alla presenza di C.C. possa aver indotto l'infortunato a non utilizzare i dispositivi di protezione che gli erano stati forniti. In estrema sintesi, secondo la difesa, i giudici di merito avrebbero attribuito a B.B. una responsabilità di posizione. Non avrebbero spiegato, infatti, perché egli avrebbe potuto essere a conoscenza della condotta elusiva delle norme di prevenzione attuata da C.C., perché avrebbe dovuto prevederla e come avrebbe potuto evitarla.

6. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi.

7. In data 24 gennaio 2024 i difensori di A.A. e B.B. hanno depositato memorie di replica insistendo per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi.

 

Diritto


1. Nessuno dei motivi di ricorso merita accoglimento.

2. È manifestamente infondato il primo motivo del ricorso proposto da A.A. che ha dedotto la nullità della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 178 lett. c) cod. proc. pen. Secondo la difesa, tale nullità deriverebbe dal fatto che nel giudizio di merito, in violazione dell'art. 106 cod. proc. pen., non fu rilevata l'incompatibilità tra la posizione di A.A. e quella del coimputato B.B., assistiti sia in primo che in secondo grado dallo stesso difensore di fiducia.

Nel formulare l'eccezione, il difensore del ricorrente (nominato ai fini della proposizione del ricorso per Cassazione), dà atto del costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale “l'incompatibilità che, a norma dell'art. 106, comma 1, cod. proc. pen., vieta l'affidamento della difesa di più imputati a un unico difensore, è causa di nullità della decisione soltanto se il contrasto di interessi tra coimputati è effettivo, concreto ed attuale, nel senso, cioè, che sussiste un conflitto che rende impossibile la proposizione di tesi difensive tra loro logicamente conciliabili, implica una posizione processuale che rende concretamente inefficiente e improduttiva la comune difesa ed è riscontrabile in relazione a specifici atti del procedimento” (Sez. 5, n. 39449 del 17/05/2018, De Luca, Rv. 273766; Sez. 2, n. 10757 del 18/01/2017, H., Rv. 269310; Sez. 1, n. 29479 del 23/10/2012, dep. 2013, Vangjelaj, Rv. 256448). Sostiene tuttavia che, nel caso di specie, il conflitto tra la posizione di A.A. e quella di B.B. era evidente già sulla base del contenuto dell'imputazione perché B.B. era accusato di non aver fornito informazioni doverose al datore di lavoro (id est: a A.A.) e il datore di lavoro era accusato di non aver tenuto conto nel DVR di tutti i rischi connessi all'utilizzo nel processo produttivo di un prodotto tossico e nocivo come il Laromin 327: rischi che, almeno in parte, proprio le informazioni fornite da B.B. avrebbero dovuto evidenziare.

Secondo la difesa, tale incompatibilità, già ipotizzabile in astratto, si manifestò in concreto e recò pregiudizio alla posizione di A.A.. Nell'impugnare la sentenza di primo grado, infatti, il difensore del datore di lavoro non chiarì, come avrebbe dovuto, che il trasferimento della sostanza in flaconi o barattoli di vetro non era mai stato autorizzato e B.B. lo aveva disposto in totale autonomia. Sostenne, invece, con un'affermazione che aveva valenza difensiva per B.B., ma era pregiudizievole per A.A.: che la suddivisione del prodotto, a cura dei dipendenti della Ritrama, in contenitori più piccoli rispetto al fusto da 160 kg pervenuto allo stabilimento non era stata esclusa dal datore di lavoro, il quale aveva solo manifestato “la sua preferenza per l'esternalizzazione della procedura di travaso” (così testualmente pag. 11 dei motivi di appello). Nel ricorso si sottolinea che questa affermazione è stata utilizzata nella sentenza di appello quale argomento a carico di A.A. e si sostiene che ciò rende palese il concreto pregiudizio subito dal ricorrente a causa della situazione di incompatibilità.

Il motivo non ha pregio.

Come emerge con chiarezza dalla lettura del capo di imputazione, non vi era alcuna astratta incompatibilità tra la posizione di B.B. e quella di A.A.. Se è vero, infatti, che al primo è stato contestato di non aver informato il secondo delle difficoltà manifestatesi nell'apertura di alcuni dei contenitori di vetro usati per frazionare il Laromin, è pur vero che A.A. non è stato accusato della mancata valutazione di questo particolare rischio, ma, più in generale, di non aver adeguato il DVR alle diverse modalità di fornitura del prodotto, che rendevano necessaria la previsione di una “nuova procedura lavorativa al fine di spillare e successivamente utilizzare in sicurezza il Laromin” (così recita il capo di imputazione). Secondo l'ipotesi accusatoria, dunque, non fu l'omessa informazione da parte di B.B. a determinare l'omissione ascritta a A.A.; caso mai, fu l'omissione del datore di lavoro - che non valutò il rischio derivante dalla necessità di travasare il prodotto per suddividerlo in dosi e usarlo in sicurezza - che consentì a B.B. di adottare modalità operative pericolose.

La prospettata situazione di incompatibilità, oltre a non essere sussistente in astratto, non risulta essersi manifestata in concreto.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (per tutte: Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Carciati, Rv. 232522; Sez. 5, n. 39449 del 17/05/2018, De Luca, Rv. 273766), perché si determini una incompatibilità rilevante ai sensi dell'art. 106 cod. proc. pen. l'inconciliabilità tra linee difensive deve essere riscontrabile in relazione a specifici atti del procedimento (per tutte: Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Carciati, Rv. 232522; Sez. 5, n. 39449 del 17/05/2018, De Luca, Rv. 273766) e, nel caso di specie ciò non è avvenuto. Basta in proposito ricordare: che il processo è stato definito cori rito abbreviato; che nel corso del giudizio, nessuno dei due imputati ha chiesto di essere interrogato o di poter rendere dichiarazioni; che le dichiarazioni rese da B.B. nelle indagini, come riportate nelle sentenze, nel ricorso e nella documentazione ad esso allegata, non facevano riferimento alcuno alla posizione di A.A. Non rileva in contrario l'affermazione contenuta nell'appello proposto nell'interesse di A.A. secondo la quale non vi sarebbe stata da parte del datore di lavoro una “univoca opzione “...” per l'esternalizzazione delle operazioni di spillatura e confezionamento”. Tale affermazione, infatti, prende le mosse da argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado e, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, non può essere considerata quale chiara espressione della inconciliabilità tra le posizioni di B.B. e A.A. nessuno dei quali, in concreto, ha fornito una versione difensiva incompatibile con quella fornita dal coimputato, tale da rendere impossibile, per il difensore, sostenere le due tesi senza cadere in contraddizione.

A ciò deve aggiungersi che la lamentata nullità non è mai stata dedotta nel giudizio di merito e, quando un unico difensore assiste diversi coimputati in posizione di conflitto di interessi, la situazione che si verifica è diversa da quella che si determina in caso di "assenza" del difensore (disciplinata dall'art. 179 cod. proc. pen.) e non è equiparabile ad essa. Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, infatti, mentre dall'"assenza" del difensore consegue una nullità assoluta rilevabile in ogni stato e grado del procedimento ex art. 179 cod. proc. pen., la violazione dell'art. 106 cod. proc. pen., rileva ai sensi dell'art. 178, lett. c) cod. proc. pen. e determina una nullità a regime intermedio (Sez. 3, n. 10102 del 26/11/2015, dep. 2016, Kokalcheva, Rv. 266711). Nel caso in esame, dunque, anche a voler ammettere che una tale nullità possa essere reputata sussistente, si tratterebbe di una nullità intermedia, verificatasi nel corso del giudizio di primo grado che, ai sensi dell'art. 180 cod. proc. pen., non può essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo. Quand'anche sussistente, inoltre, ai sensi dell'art. 182 cod. proc. pen., tale nullità non può essere dedotta in giudizio da A.A. che vi ha dato causa nominando quale difensore di fiducia lo stesso legale che assisteva B.B. e continuando a farsi assistere da lui per tutto il corso del giudizio di merito.

3. Col secondo e col terzo motivo, la difesa di A.A., deduce errata applicazione degli artt. 40, 41 e 43 cod. pen. Sostiene che l'evento lesivo fu determinato dal fatto che B.B. decise di conservare il Laromin in barattoli inidonei e tale iniziativa non fu comunicata a A.A. sicché questi non poteva prevenirla ed evitarla.

Come si è detto, la “lavorazione Scapa” che prevedeva l'uso del Laromin fu introdotta nel ciclo produttivo dello stabilimento di Basiano alla fine del 2016. Come si legge a pagina 12 della sentenza di primo grado, il DVR redatto il 30 settembre 2016 stabiliva che il Laromin dovesse essere sempre utilizzato sotto cappa e indossando dispositivi personali di protezione (guanti, mascherine, occhiali e tuta) e che tutte le attività rilevanti per la “lavorazione Scapa” (in particolare: “manipolazione, stoccaggio, trasporto di materie prime, smaltimento rifiuti, pulizia, manutenzione e attività ausiliare in genere”) fossero “condotte in sicurezza”. Dalle sentenze di merito - che possono essere lette congiuntamente e costituiscono un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595) - risulta che, nella fase iniziale, il prodotto giunse nello stabilimento in flaconi da 500 grammi e per questo non fu compiuta alcuna valutazione del rischio che poteva derivare dalla necessità di travasarlo in contenitori di dimensioni minori (una operazione che, all'evidenza, è diversa da quella della apertura dei contenitori). Dopo alcuni mesi dall'avvio della produzione, però, la BASF iniziò a fornire il Laromin in fusti metallici da 160 kg e pertanto si pose il problema di travasare il prodotto in recipienti più piccoli. Dalle sentenze e dalla documentazione allegata al ricorso emerge che il problema era noto a A.A. il quale, con mail del 30 maggio 2017 (allegato 5), dispose che il travaso fosse eseguito da un fornitore esterno specializzato. In concreto, tuttavia, ciò avvenne solo a novembre del 2017, quando la “Ichernco Srl” restituì alla Ritrama il contenuto di un fusto da 160 kg di Laromin che aveva provveduto a travasare in fustini da 10 kg (allegato 6).

Il ricorrente sostiene che, avendo esternalizzato il servizio, A.A. non era tenuto a valutare i rischi connessi al travaso del Laromin. Pertanto, non doveva individuare le caratteristiche dei contenitori da utilizzare a tal fine né le modalità operative necessarie a svolgere quel lavoro in sicurezza. Seguendo tale impostazione, l'infortunio sarebbe ascrivibile in via esclusiva all'imprudente comportamento di B.B., il quale, di propria iniziativa, decise di travasare la sostanza in contenitori di vetro utilizzando, o tre ai flaconi originali (certamente idonei allo scopo), anche barattoli da 1 kg con tappo a vite e imboccatura larga.

Sviluppando tale argomentazione, la difesa sottolinea che, in una nota di risposta ad una lettera di contestazione inviatagli dall'azienda dopo i fatti (allegato 3 all'atto di ricorso), B.B. ha detto di aver “autorizzato il travaso di una parte del materiale sia in flaconi vuoti, ma originali, sia in altri contenitori in vetro, sempre con tappo in plastica” e di aver documentato fotograficamente l'operazione di travaso dal bidone inviando le fotografie ad F.F., G.G. e H.H. senza informarli, però, di quanto materiale sarebbe stato travasato. Nello stesso documento (che faceva parte degli atti utilizzabili ai fini della decisione), B.B. spiegò: “nel frattempo, c'era in discussione come trattare questo fusto, fino alla decisione finale di inviarlo al fornitore Ichemco che avrebbe provveduto al travaso in fustini da 10 kg”, e precisò: “non essendo io in possesso di una tempistica/modalità precisa dell'operazione, ho autorizzato il travaso di più quantitativo di Laromin in modo da avere prodotto di scorta e, non essendo fornito di sufficienti flaconi originali, ho fatto travasare in quelli di vetro trasparente in nostro possesso”.

Secondo la difesa, queste dichiarazioni provano che il travaso del prodotto non era stato autorizzato, sicché il datore di lavoro non era tenuto ad aggiornare il DVR con riferimento a tale procedura e tanto meno doveva verificare che i contenitori utilizzati fossero idonei. Nel ricorso si sottolinea, inoltre, che B.B. non ha mai dichiarato di aver comunicato a A.A. l'avvenuta esecuzione del travaso.

3.1. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, la circostanza che le operazioni di travaso fossero state disposte da B.B. in piena autonomia non è stata ignorata dai giudici di merito, secondo i quali la mail del 30 maggio 2017 - con la quale A.A. dava disposizione di “travasare il prodotto” sottolineandone la pericolosità - dimostra che egli era informato del fatto che le modalità di consegna erano cambiate (pag. 11 della sentenza di primo grado; pag. 9 della sentenza impugnata). I giudici di merito hanno sostenuto che questa missiva non è sufficiente da sola a far ritenere che vi sia stata una “univoca opzione dell'imputato per l'esternalizzazione delle operazioni di spillatura e confezionamento” (pag. 10 della sentenza impugnata). A sostegno di tale conclusione hanno osservato che, pur essendo informato delle nuove modalità di confezionamento del prodotto adottate dal fornitore, A.A. non si preoccupò di stabilire in termini espliciti, aggiornando in tal senso il DVR, che le operazioni di spillatura (rese necessarie da questa novità) non dovevano essere eseguite all'interno dello stabilimento (pag. 12 della sentenza di primo grado, pag. 10 della sentenza impugnata).

Secondo i giudici di merito, quando fu informato delle nuove modalità di confezionamento del Laromin, A.A. avrebbe dovuto valutare i rischi conseguenti: o prevedendo espressamente l'esternalizzazione della spillatura del prodotto (e il confezionamento in contenitori più piccoli) con esclusione espressa della possibilità di svolgere tali attività all'interno dello stabilimento; oppure disciplinando questa attività e fornendo indicazioni specifiche sul modo in cui la spillatura doveva essere eseguita (e quindi sulle caratteristiche che avrebbero dovuto avere i contenitori utilizzati a tal fine). Muovendo da queste premesse, la sentenza impugnata e quella di primo grado hanno ritenuto che, non avendo impartito precise indicazioni in proposito, A.A. rese possibile l'imprudente comportamento di B.B. (che pertanto non costituisce causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento).

Dalle sentenze di merito emerge inoltre che, in assenza di precise indicazioni di segno contrario, l'iniziativa adottata da B.B. non era imprevedibile e tale conclusione non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità atteso che la “lavorazione Scapa” non era stata sospesa, l'impiego del Laromin era necessario, i tempi della esternalizzazione erano incerti (e si rivelarono in concreto assai lunghi) ed era pertanto ragionevole assicurarsi la disponibilità di prodotto di scorta e prevedibile che ciò sarebbe avvenuto. A ciò deve aggiungersi che, come i giudici di merito hanno sottolineato (pag. 15 della sentenza di primo grado, pag. 7 della sentenza impugnata), l'esternalizzazione fu concretamente attuata facendo travasare il Laromin in fustini da 10 kg, ma per i lavoratori era preferibile utilizzare contenitori più piccoli e più maneggevoli. Questo prodotto, infatti, doveva essere miscelato ad altri operando sotto cappa e rispettando le quantità previste per ogni lavorazione.

3.2. Da quanto esposto emerge che la condotta alternativa doverosa che A.A. avrebbe dovuto tenere per evitare l'evento è stata individuata - coerentemente con le emergenze istruttorie - nell'aggiornamento del DVR, il quale, tenuto conto delle nuove modalità con le quali il Laromin veniva fornito, doveva: o vietare ogni attività di travaso del prodotto all'interno dello stabilimento, oppure, in alternativa, disciplinare nel dettaglio questa attività in modo da garantire che fosse svolta in sicurezza. La Corte di appello ha sottolineato in tal senso che nel DVR del 30 settembre 2016 era stata valutata e regolamentata solo l'utilizzazione del Laromin, non si faceva cenno alle attività di spillatura e confezionamento del prodotto in recipienti di piccole dimensioni e, quando emerse che queste attività erano necessarie, il datore di lavoro avrebbe dovuto o disciplinarle oppure esternalizzarle (e vietare che fossero svolte dai dipendenti). Le prescrizioni impartite per l'utilizzazione, infatti, non coprivano i rischi derivanti dall'attività di travaso e per individuare contenitori idonei alla conservazione e al successivo utilizzo in sicurezza del prodotto, sarebbe stato necessario valutare in questa prospettiva le caratteristiche del Laromin. È coerente con questa impostazione l'osservazione secondo la quale l'esternalizzazione concretamente attuata non era sufficiente: in primo luogo, perché non fu stabilito che si trattasse dell'unica modalità di travaso consentita; in secondo luogo, perché non si valutò se bastava suddividere il prodotto in fustini da 10 kg oppure era necessaria - e funzionale all'utilizzazione del materiale in condizioni di sicurezza - la predisposizione di contenitori di dimensioni ancora inferiori.

Alla luce delle considerazioni svolte, il secondo e il terzo motivo del ricorso proposto da A.A. non meritano accoglimento.

4. Neppure il quarto motivo può essere accolto, anche se si deve dare atto al ricorrente che i giudici di merito non hanno spiegato sulla base di quali elementi sia possibile affermare che A.A. potè esaminare la documentazione fotografica relativa al trasferimento del Laromin dai fusti ai contenitori di vetro.

Come noto, l'obbligo di prevenzione gravante sul datore di lavoro non è limitato al solo rispetto delle norme tecniche, ma richiede anche l'adozione di ogni ulteriore accortezza necessaria ad evitare i rischi per i lavoratori, purché ciò sia concretamente specificato in regole che descrivono con precisione il comportamento da tenere per evitare il verificarsi dell'evento (Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016, dep.2017, Ferrentino, Rv. 270380; Sez. 4, n. 14915 del 19/02/2019, Arrigoni, Rv. 275577). La responsabilità per colpa, infatti, non si fonda unicamente sulla titolarità di una posizione gestoria del rischio, ma presuppone l'esistenza e la necessità di dare applicazione a regole aventi specifica funzione cautelare, perché contenenti l'indicazione delle misure da adottare per impedire che l'evento temuto si verifichi (Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, dep. 2016, Barberi, Rv. 267813). Si è sottolineato in proposito che il dovere di diligenza e la regola cautelare “si integrano definendo nel dettaglio il concreto e specifico comportamento doveroso; ciò assicura che non si venga chiamati a rispondere penalmente per la sola titolarità della posizione e pertanto a titolo di responsabilità oggettiva” (Sez. 4, n. 14915 del 19/02/2019, Arrigoni, Rv 275577, pag. 4 della motivazione).

Nel caso oggetto del presente giudizio, la Corte territoriale ha ritenuto che, essendo a conoscenza del fatto che il Laromin sarebbe giunto nello stabilimento in confezioni da 160 kg, il datore di lavoro avrebbe dovuto valutare i rischi conseguenti e individuare le misure idonee a prevenirli. A differenza di quanto sostenuto nel ricorso, dunque, A.A. è stato ritenuto responsabile dell'infortunio occorso a C.C. soltanto perché non impedì che nelle operazioni di travaso fossero usati barattoli inidonei (uso del quale, in effetti, non risulta fosse informato), ma prima ancora (e soprattutto) perché non aggiornò il DVR e non disciplinò in termini espliciti (eventualmente anche vietandole) le attività di spillatura e confezionamento del Laromin della cui necessità era informato fin dal mese di maggio del 2017.

In altri termini, come emerge da un'attenta lettura della sentenza impugnata, l'affermazione della penale responsabilità del datore di lavoro trova fondamento nella constatazione che una completa ed efficace valutazione del rischio (valutazione non delegabile ai sensi dell'art. 17 d.lgs. 81/08) e il conseguente doveroso aggiornamento del DVR avrebbero potuto evitare l'evento.

Si tratta di conclusioni conformi ai principi di diritto che regolano la materia. In tema di prevenzione degli infortuni, infatti, il datore di lavoro (anche avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione) “ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi eli protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori” (in tal senso, per tutte: Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109).

5. Così individuato il nucleo fondante dell'argomentazione sviluppata dai giudici di merito per affermare la penale responsabilità di A.A., non è importante sapere se egli fosse informato o meno delle operazioni di travaso disposte da B.B. e del fatto che tali operazioni erano state eseguite utilizzando anche contenitori in vetro differenti da quelli forniti dal produttore del Laromin. Ai fini dell'applicazione dell'art. 224, comma 1 lett. g), d.lgs. n. 81/08 (e degli artt. 17, 28 e 29 del medesimo decreto), infatti, tale circostanza non ha particolare rilievo. Rileva, invece, che A.A. non abbia valutato i rischi derivanti dal fatto che un agente chimico, altamente tossico, non era più fornito alla Ritrama in flaconi da 500 gr, ma in fusti metallici da 160 kg, e di conseguenza non abbia aggiornato il DVR. Invero, le nuove modalità di fornitura avevano ricadute sullo svolgimento del lavoro e pertanto A.A. aveva l'obbligo giuridico di indicare prassi operative idonee a prevenire i rischi, nuovi e diversi, che ciò comportava.

Come i giudici di merito hanno sottolineato, se tale valutazione del rischio fosse stata compiuta l'evento lesivo non si sarebbe verificato perché il travaso non sarebbe avvenuto e, se il Laromin fosse venuto a mancare, la produzione sarebbe stata bloccata; oppure, in alternativa, perché quell'attività sarebbe stata disciplinata per garantirne lo svolgimento in sicurezza. Ciò avrebbe ragionevolmente impedito l'uso di una chiave a pappagallo per allentare il tappo di un barattolo contenente una sostanza altamente tossica e avrebbe consentito di valutare se all'interno dei contenitori poteva formarsi del gas e se ciò determinava rischi di esplosione (una valutazione che poteva incidere sulle caratteristiche dei recipienti, sia con riferimento allo spessore del vetro che con riferimento alle dimensioni dell'imbocco).

Per quanto esposto, anche se l'affermazione (contenuta nella sentenza impugnata) secondo la quale A.A. fu informato del fatto che B.B. aveva spillato il Laromin e lo aveva travasato in barattoli, non è adeguatamente motivata, la sentenza impugnata merita conferma. Eliminando idealmente tale passaggio argomentativo, infatti, il ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale appare comunque idoneo a giustificare l'affermazione della penale responsabilità.

6. Devono essere esaminati a questo punto i motivi di ricorso proposti da B.B., che è stato ritenuto responsabile dell'infortunio occorso a C.C. quale preposto all'unità produttiva. Come si è detto, i giudici di merito hanno sostenuto che fu proprio B.B. a disporre che il Laromin fosse travasato dal fusto di 160 kg in contenitori più piccoli e tale circostanza non è controversa. Neppure è controverso che sia stato B.B. a decidere di utilizzare, oltre ai contenitori originali (in vetro spesso di colore ambrato, con collo allungato e tappo di sicurezza a vite), anche barattoli di vetro a collo largo, simili a quelli che si usano per gli alimenti, capaci di contenere circa un chilo di prodotto. Secondo i giudici di merito questa attività non era stata espressamente vietata da A.A. sicché, nel disporla, B.B. non agì al di fuori delle proprie competenze. Tuttavia, poiché la procedura non era disciplinata dal DVR, ai sensi dell'art. 19, comma 1 lett. f), d.lgs. n. 81/08, B.B. avrebbe dovuto segnalare i problemi derivanti dalle operazioni di travaso e le difficoltà riscontrate nell'apertura dei barattoli.

7. Le sentenze di primo e secondo grado hanno attribuito particolare rilievo ai fini della affermazione della penale responsabilità di B.B. al fatto che, secondo quanto riferito da C.C., a differenza dei flaconi originali, i barattoli nei quali era stato travasato il Laromin presentavano difficoltà di apertura. La persona offesa ha dichiarato che, nell'unica precedente occasione nella quale aveva cercato di svitare il tappo di uno di questi barattoli non era riuscito a farlo, aveva provato a prenderne altri incontrando la stessa difficoltà e si era rivolto a B.B. segnalando il problema. Questi si era recato in officina e - con l'aiuto di un operaio (D.D.) - aveva proceduto ad allentare il tappo avvalendosi di una chiave a pappagallo. Secondo i giudici di merito, operando in tal senso, B.B. indicò nei fatti a C.C. la procedura che avrebbe dovuto seguire se avesse nuovamente riscontrato una difficoltà analoga; ciò che era probabile (se non certo) atteso che il problema segnalato non riguardava un unico contenitore, ma più barattoli che C.C. aveva cercato di aprire quel giorno.

Col primo motivo di ricorso, la difesa contesta tali conclusioni. Sostiene in particolare: che B.B. non introdusse una prassi, ma risolse un problema che riteneva isolato; che C.C. non fu autorizzato ad operare nello stesso modo e, tanto meno, B.B. gli suggerì di farlo; che il preposto non fu informato da C.C. o da altri del ripresentarsi del problema e non aveva l'obbligo di informare il datore di lavoro di una difficoltà riscontrata occasionalmente e subito risolta.

7.1. Ai sensi dell'art. 19, comma 1 lett. f), d.lgs. n. 81/08, il preposto deve “segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta”. Non è illogico né contraddittorio aver ritenuto che la difficoltà riscontrata nell'apertura del tappo a vite di uno dei barattoli utilizzati per travasare il Laromin costituisse una oggettiva situazione di pericolo e B.B. fosse tenuto a comunicarla al datore di lavoro e non è controverso che egli non lo abbia fatto: scelse, infatti, di allentare il tappo (e farlo "sfiatare") facendo uso di una chiave a pappagallo (uno strumento metallico che può provocare scintille).

Quando compi questa scelta, B.B. non poteva pensare che la difficoltà nell'apertura costituisse un episodio isolato: in primo luogo, perché quel giorno C.C. aveva provato ad aprire altri barattoli riscontrando lo stesso problema e di questo ha sostenuto di aver informato il preposto; in secondo luogo, perché i barattoli in parola erano differenti rispetto a quelli inizialmente forniti dal produttore e tale diversità, riguardante le caratteristiche dell'imboccatura e il diametro del tappo, non erano irrilevanti ai fini della difficoltà riscontrata. Come la Corte territoriale ha sottolineato infatti (pag. 11): “un tappo a vite di quelle dimensioni avrebbe “...” evidentemente richiesto una più intensa pressione di quella necessaria a svitare il tappo delle boccette originali, con conseguente maggior pericolo di riversamenti del prodotto all'esterno”. Quei barattoli, inoltre, “racchiudevano un quantitativo di prodotto (circa un chilo) superiore rispetto alle boccette originali (da mezzo chilo), con conseguente maggiore possibilità che al loro interno si sviluppassero più elevate concentrazioni di gas, suscettibili di favorirne lo scoppio anche in caso di minime pressioni sul tappo”.

Non è illogico né contraddittorio aver ritenuto che le modalità operative adottate dal preposto per risolvere il problema abbiano costituito, nei fatti, una indicazione a procedere nello stesso modo, sicché non ha alcun pregio l'argomentazione difensiva volta a sottolineare che B.B. non impartì a C.C. espresse indicazioni in tal senso. A questo proposito è sufficiente osservare che il ricorrente non ha neppure provato a sostenere di aver vietato a C.C. di fare la stessa cosa che aveva visto fare a lui o di soprassedere nell'uso del Laromin se il problema si fosse ripresentato: una evenienza più che prevedibile, atteso che C.C. si rivolse a B.B. dopo aver cercato, senza successo, di aprire più di un barattolo. A ciò deve aggiungersi che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, la procedura adoperata da B.B. (e implicitamente suggerita a C.C.) per allentare il tappo, non era affatto conforme alle disposizioni del DVR. Se è vero, infatti, che B.B. e G.G. indossavano i guanti e gli altri dispositivi di protezione individuale, è pur vero che l'operazione consistita nell’allentare (e far "sfiatare") il tappo fu eseguita in officina, sicché la manipolazione del barattolo non avvenne sotto cappa come il DVR prevedeva.

7.2. Alla luce delle considerazioni svolte, il primo motivo del ricorso proposto da B.B. è infondato. La sentenza impugnata, infatti, ha correttamente applicato la disposizione di cui all'art. 19, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 81/08 e ha coerentemente evidenziato che l'immediata segnalazione del problema avrebbe consentito di approfondirlo, di valutare l'idoneità dei contenitori adoperati, di elaborare procedure appropriate per garantirne l'uso in condizioni di sicurezza.

8. Non ha maggior pregio il secondo motivo di ricorso, con quale B.B. sostiene che l'infortunio fu reso possibile dia un comportamento abnorme e imprevedibile di C.C.

Per giurisprudenza costante, un comportamento, anche avventato, del lavoratore, se realizzato mentre egli è dedito al lavoro affidatogli, può essere invocato come imprevedibile o abnorme solo se il soggetto titolare della posizione di garanzia ha adempiuto agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande A., Rv. 214999; Sez. 4, n. 1588 del 10/10/2001, Russello, Rv. 220651; Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne, Rv. 259227; Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386). A questo proposito, la giurisprudenza più recente ha opportunamente sottolineato che “in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia” (Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023, Cimolai, Rv. 284237; Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, Vigo, Rv. 281748; Sez. 4, n. 5794 del 26/01/2021, Chierichetti, Rv. 280914). Ponendosi in questa prospettiva si è affermato che il comportamento negligente, imprudente e imperito tenuto dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni a lui affidate può costituire concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, solo se questi “ha posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (Fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro in quanto la mancata attuazione delle prescrizioni contenute nel Pos e la mancata informazione del lavoratore avevano determinato l'assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati al lavoratore infortunato)” (Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, Simeone, Rv. 276242).

Muovendo da queste premesse si deve osservare:

- che la necessità di procedere all'apertura dei barattoli contenenti Laromin si presentava ogni qualvolta l'uso di quel prodotto era necessario;

- che tale evenienza non era rara ed era conseguente al regolare svolgimento dell'attività lavorativa;

- che B.B. era informato del fatto che alcuni tappi potevano essersi bloccati ed era consapevole che questo problema riguardava i contenitori differenti rispetto a quelli utilizzati inizialmente.

Il rischio che si concretizzò col verificarsi dell'infortunio, pertanto, non era eccentrico o esorbitante rispetto a quello che B.B. era chiamato a governare ed anzi, in qualche misura, era stato proprio B.B. ad aggravarlo non avendo segnalato le difficoltà nell'apertura dei barattoli e non avendo chiesto l'elaborazione di una corretta procedura operativa. Col proprio esempio, inoltre, B.B. suggerì a C.C. che, per allentare il tappo, ci si poteva avvalere di una pinza a pappagallo e questo lavoro poteva essere compiuto in officina; suggerì dunque - nei fatti - al lavoratore una procedura inidonea e potenzialmente pericolosa, cui dette attuazione indossando i DPI ma non operando sotto cappa, in violazione del DVR. Non rileva in contrario che il giorno dei fatti, C.C. non avesse ricevuto l'incarico di utilizzare il Laromin. Egli ha chiarito, infatti, di aver iniziato quella lavorazione per anticiparsi nello svolgimento dei propri compiti e non è controverso che la manipolazione di questo agente chimico nocivo rientrasse tra le mansioni dell'infortunato. Non vale ad escludere la responsabilità di B.B. neppure la constatazione che, al momento dei fatti, C.C. non indossava i guanti. Se è vero, infatti, che tale imprudente comportamento rese più gravi le conseguenze lesive dell'incidente, è pur vero che non fu il mancato uso dei guanti a renderlo possibile.

9. L'argomentazione con la quale i giudici di merito hanno ritenuto sussistente la violazione dell'art. 19, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 81/08 presenta profili di illogicità. La Corte territoriale osserva (pag. 12) che, quando aiutò C.C. a rimuovere il tappo bloccato, B.B. diede il via a “una prassi di lavoro pericolosa, non conforme alle disposizioni e alle istruzioni impartire nel DVR “...” con ciò di fatto togliendo valore - quantomeno agli occhi del lavoratore infortunato - alle misure di prevenzione imposte, in favore di una più diretta e sommaria soluzione delle criticità”. Trascura però che, secondo quanto riferito dal teste G.G. (pag.7 della sentenza di primo grado), quando diede il via a tale prassi, B.B. indossava i DPI e non li tolse, né lo fece G.G. A C.C., dunque, fu "suggerito" di utilizzare una pinza per allentare il tappo e gli fu "suggerito" di farlo "sfiatare" senza operare sotto cappa (mentre l'aspirazione dei vapori avrebbe ridotto il rischio di una esplosione come quella che in concreto si verificò), ma non gli fu "suggerito" di non utilizzare i dispositivi personali di protezione. Inoltre, non essendo presente nello stabilimento quando l'infortunio di verificò, B.B. non poteva vigilare su C.C. né invitarlo a non togliere i guanti. Ne consegue che l'infortunio non può essere ascritto a un difetto di vigilanza sull'utilizzo dei DPI (in specie dei guanti) e, per questa parte, la sentenza impugnata merita censura. Si deve constatare tuttavia che, eliminando idealmente dalla sentenza i passaggi argomentativi nei quali si fa riferimento all'art. 19, comma 1 lett. a), d.lgs. n. 81/08, il ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale rimane idoneo a giustificare l'affermazione della penale responsabilità che, come già illustrato, trova fondamento nella accertata violazione dell'art. 19, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 81/08.

Ciò impone di procedere ai sensi dell'art. 619 cod. proc. pen. l'errore riscontrato, infatti, non ha inciso sul dispositivo. A ciò deve aggiungersi che, quando il convincimento del giudice poggia su più ragioni distinte, ciascuna delle quali idonea a giustificare la decisione adottata, i vizi logici o giuridici relativi ad una sola di tali ragioni non inficiano la decisione poiché essa trova adeguato sostegno negli altri motivi non affetti da quei vizi (Sez. 5, n. 37466 del 22/09/2021, Almi, Rv. 281877; Sez. 5, n. 2128 del 13/1/1978, Bartomioli, Rv. 138077; Sez. 4, n. 216 del 02/05/1975, dep. 1976, Alba, Rv. 131797; Sez. 1, n. 604 del 02/05/1967, Solejam, Rv. 105773).

10. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi della persona offesa ai sensi dell'art. 52, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

 

P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Ai sensi dell'art. 52, comma 2, d.lgs. n. 196/2003, dispone che, in caso di riproduzione della sentenza, venga omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi della persona offesa.

Così deciso il 30 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2024.