Cassazione Civile, Sez. 3, 12 marzo 2024, n. 6531 - Suicidio dell'agente di Polizia Forestale sospeso dal lavoro a seguito di una denuncia sporta nei suoi confronti dalla sua ex fidanzata


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. SCRIMA Antonietta - Presidente

Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere - Est.

Dott. DELL'UTRI Marco - Consigliere

Dott. AMBROSI Irene - Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA
 


sul ricorso n. 11896/2022 R.G. proposto da:

A.A. e B.B., rappresentate e difese dall'avvocato Furlan Gian Maria, pec Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.;

- ricorrenti -

contro

C.C., domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi n. 12 presso l'Avvocatura Generale dello Stato da cui è rappresentato e difeso;

- controricorrente -;

avverso la sentenza n. 126/2022 della CORTE D'APPELLO di GENOVA, depositata il 7/02/2022;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/12/2023 dal Consigliere CHIARA GRAZIOSI:
 

Fatto


D.D. agiva davanti al Tribunale di Massa quale Giudice del lavoro nei confronti del Comandante del Corpo Forestale dello Stato C.C. e nei confronti del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, esponendo che, quale agente della Polizia Forestale presso il Comando Provinciale di Massa Carrara, egli era stato cautelativamente sospeso dal servizio con decreto di C.C. del 4 marzo 2005, emesso a seguito di una denuncia sporta nei suoi confronti dalla sua ex fidanzata E.E. e notificatogli il 5 marzo 2005, per l'ipotesi del reato di minaccia grave, motivando la sospensione "in relazione alla particolare gravità del reato ipotizzato, nonché ai pericoli per se stesso e per gli altri derivanti dalla permanenza in servizio dell'interessato, con conseguente detenzione dell'arma individuale in dotazione, che può essere ritirata solo previo allontanamento dal servizio".

La sospensione era stata poi revocata il 22 marzo 2005, salvo "l'esito del procedimento penale, per gli stessi fatti per i quali è stata disposta la sospensione cautelare" e prospettando pure un procedimento disciplinare. Nonostante l'archiviazione del procedimento penale, veniva infatti aperto un procedimento disciplinare, concluso senza sanzione alcuna più di due anni dopo, il 9 luglio 2007, solo allora restituendo al ricorrente gli emolumenti non percepiti durante il periodo di sospensione.

Il D.D. lamentava inoltre che tutti i provvedimenti relativi alla vicenda erano stati comunicati via fax al comando provinciale di Massa, mettendo così in dominio pubblico rispetto ai colleghi il loro contenuto.

Da tutto ciò l'attore deduceva che il C.C. avrebbe tenuto nei suoi confronti condotte riconducibili al mobbing e comunque a fattispecie penali e che di esse avrebbe dovuto rispondere anche il Ministero; conseguentemente chiedeva la condanna dei convenuti a risarcirgli i danni.

I convenuti si costituivano resistendo.

Nelle more del giudizio, nel maggio 2010, il D.D. si suicidava con la pistola di ordinanza. Si costituivano le sue eredi, cioè la madre B.B. e la sorella A.A., le quali, oltre al risarcimento dei danni chiesto dal de cuius, chiedevano il risarcimento di danni iure proprio per la sua morte, sostenendo che la vicenda aveva gravemente inciso sulla salute psichica del congiunto, conducendolo appunto al suicidio.

Con sentenza del 4 febbraio 2011 il Giudice del lavoro accoglieva l'eccezione di difetto di giurisdizione a favore del giudice amministrativo in relazione alle pretese nei confronti del Ministero, per il C.C. rimettendo la causa dinanzi al Giudice ordinario.

Istruita la causa mediante consulenza tecnica d'ufficio, testimonianze e prove documentali, il Tribunale, con sentenza n. 541/2018, rigettava ogni domanda compensando le spese.

Motivava il primo giudice che il provvedimento di sospensione cautelare, ex articolo 91 d.p.r. 3/1957, era legittimo perché dalla denuncia della ex fidanzata risultava che il D.D., commettendo una violazione di domicilio, aveva cercato di introdursi di notte in casa di lei dal balcone, che l'aveva minacciata di spararle e di spararsi e che l'aveva più volte percossa, compiendo anche atti di autolesionismo. Il fatto che il D.D. fosse in condizione di indagato era sufficiente per giustificare il provvedimento, peraltro revocato subito dopo l'archiviazione in sede penale.

Riteneva inoltre il Tribunale che il procedimento disciplinare era proseguito correttamente, perché spettava alla P.A. accertare la veridicità o meno degli episodi, tanto più che l'archiviazione era stata disposta per difetto di querela e il D.D. aveva rifiutato una visita medica, circostanza, questa, generante legittimi dubbi sulla sua salute psichica. Comunque non sussisteva nesso causale fra il danno biologico e la morte del D.D. da un lato e le condotte denunciate come commesse nei suoi confronti dall'altro, in quanto le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio erano in termini di verosimiglianza e prendevano le mosse dal non dimostrato presupposto che il D.D. non avesse avuto in precedenza segni di patologia psichica.

Proponevano appello B.B. e A.A.; resisteva C.C..

La Corte d'appello di Genova, con sentenza del 7 febbraio 2022, rigettava il gravame compensando per metà le spese di lite.

B.B. e A.A. hanno presentato ricorso, sulla base di quattro motivi, illustrati anche con memoria. C.C. si è difeso con controricorso.

 

Diritto


1. Il primo motivo, ampiamente illustrato, denuncia violazione del sopravvenuto giudicato esterno della sentenza n. 28/2020 del Tar Toscana - integrato con successiva sentenza dello stesso Tar n. 1243/2021, che aveva accolto il ricorso in ottemperanza in ordine agli stessi causa petendi e petitum oggetto del presente giudizio - nonché omessa pronuncia e/o omesso esame delle domande delle ricorrenti e quindi del sopravvenuto giudicato esterno equiparabile quanto a rilevanza ed effetti al giudicato interno per violazione dell'articolo 2909 c.c., dell'articolo 28 Cost. e degli articoli 112, 113, 115, 116 e 132 c.p.c., nonché, in subordine, omesso esame del giudicato quantomeno quale prova documentale e/o fatto decisivo discusso, e dunque in relazione all'articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c.

La Corte d'appello non avrebbe esaminato tale giudicato, nonostante la rituale produzione in corso di causa da parte delle ricorrenti della sentenza n. 28/2020 del Tar Toscana che lo racchiudeva, integrata pure dalla sentenza del giudizio in ottemperanza, e nonostante che il giudicato fosse stato oggetto di discussione nella comparsa conclusionale e nella replica e incidesse per avere "definitivamente accertato il nesso di causalità tra la malattia psichica" - la cui evoluzione avrebbe condotto il D.D. al suicidio - e "la causa di servizio, da individuarsi (sulla base delle allegazioni di fatti e documenti contenuti nel ricorso davanti al Tar Toscana, proposto dalle ricorrenti) nella stessa condotta commissiva ed omissiva" del C.C..

I fatti su cui si sarebbe raggiunto il giudicato con la sentenza del Tar sarebbero "identici a quelli oggetto del giudizio di appello, in quanto identiche le allegazioni e le prove documentali"; nella comparsa conclusionale l'attuale parte ricorrente avrebbe esaminato tale sentenza passata in giudicato, che avrebbe pure prodotto, e la difesa del C.C. avrebbe replicato che il giudicato non sarebbe stato opponibile perché l'appellato non era parte nel giudizio amministrativo, nel quale "si discuteva di atti e non di fatti e condotte".

La rilevanza del giudicato nel presente giudizio, "in cui si discute della condotta del C.C. quale superiore gerarchico", deriverebbe dal combinato disposto degli articoli 2909 c.c. e 28 Cost.: il C.C. sarebbe responsabile diretto della violazione dei diritti del D.D. e detta responsabilità si estenderebbe allo Stato. In particolare, egli risponderebbe ex articolo 2043 c.c. e il Ministero ai sensi degli articoli 2087 e 2089 c.c., per cui il giudicato ex articolo 2909 c.c., seguendo una lettura costituzionalmente corretta dell'articolo 28 Cost., opererebbe ultra partes (Cons. Stato Ad. Plen., sentenze 4 e 5 nel 2019 e Cons. Stato n.799/2021); e S.U. 226/2001 avrebbe in pratica "equiparato il giudicato esterno al giudicato interno se idoneo ad incidere sulla controversia". D'altronde il C.C. sarebbe stato "sostanzialmente" parte anche nel giudizio davanti al Tar, avendo l'Avvocatura dello Stato difeso anche i suoi interessi, identici trattandosi "di sua responsabilità estensibile automaticamente al Ministero".

L'omessa disamina del giudicato, vertente "le stesse allegazioni, fatti e documenti del ricorso introduttivo del giudizio ordinario e dell'atto di appello", equivarrebbe ad una omessa pronuncia. Si riporta, per dimostrare l'identicità della tematica, uno stralcio del ricorso al Tar Toscana - che, in sostanza, descrive e censura il comportamento del C.C. quale Capo del Corpo Forestale (ricorso, pagine 33-34) - nonché uno stralcio della sentenza n. 28/2020 del Tar Toscana, ove tra l'altro, riguardo al "giudizio del Comitato di verifica", il giudice amministrativo afferma che, pur essendo un giudizio "di elevato tasso di discrezionalità tecnica", deve comunque "essere aderente alla situazione di fatto prospettata e documentata dal dipendente e... potersi giustificare alla luce delle massime di esperienza nonché dei criteri accettati dalla intera comunità scientifica" qualora non si tratti di un' "area grigia" opinabile; e subito dopo aggiunge: "Il fatto che situazioni lavorative come quelle che hanno connotato gli ultimi anni della carriera del D.D. siano suscettibili di ingenerare situazioni di forte stress con possibili risvolti patologici costituisce un dato di comune esperienza", per cui non averne tenuto conto "ai fini del giudizio sulla dipendenza da causa di servizio (a prescindere dal suo esito finale)" integra "grave vizio istruttorio del parere comitale che ne inficia la legittimità", conducendo pertanto ad accogliere la domanda di annullamento.

Dato che "il Ministero non si conformava", le attuali ricorrenti erano poi ricorse a un giudizio di ottemperanza, e la loro prospettazione vi era accolta dal medesimo Tar Toscana con sentenza n. 1234/2021. In questa ulteriore pronuncia, a proposito di quanto sarebbe emerso "dalla documentazione del fascicolo", il Tar afferma: "Non è vero... che la situazione conflittuale si sarebbe velocemente conclusa una volta intervenuto il decreto di archiviazione atteso che ancora per mesi i superiori gerarchici del D.D., dopo la sua riammissione in servizio, hanno continuato ad ipotizzare ai fini disciplinari la sussistenza di indagini per il reato di minaccia grave per il quale la Procura non lo aveva mai iscritto nel registro degli indagati. Nemmeno è vero che le prime manifestazioni della patologia risalirebbero al marzo 2008, essendo intervenuto in tale data solo il primo riconoscimento ufficiale della malattia la cui insorgenza... non è quindi di tre anni ma di circa 11 mesi (se si assume che la definitiva chiusura della indagine interna sulla presunta minaccia grave si sia conclusa il 13 gennaio 2006) durante i quali peraltro il D.D. aveva già cominciato a soffrire di ipertensione. Infine anche la possibile rilevanza causale della vicenda lavorativa... è stata nuovamente esclusa dal Comitato in modo del tutto apodittico utilizzando le stesse stereotipe espressioni che il Tribunale aveva considerato del tutto insufficienti ad escludere la sussistenza del nesso eziologico"; si rinviene invece "la sussistenza della causa di servizio per la patologia di cui al ricorso".

Successivamente il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3113/2022, respingendo l'appello del Ministero, ha confermato la sentenza n. 1234/2021 del Tar Toscana. Il ricorso riporta le ragioni di diritto offerte nella motivazione della sentenza del Consiglio di Stato, che, dopo aver argomentato sulla specie del giudizio di ottemperanza, ha affermato che la P.A., dopo il giudicato, "poteva e doveva... esercitare nuovamente il suo potere discrezionale, ma ciò era tenuta a fare in maniera conforme alle - oramai definitive - pattuizioni del Tar in merito all'insanabile contrasto rilevato tra l'affermazione dell'organo centrale in ordine alla assenza di fattori di servizio potenzialmente incidenti sulla insorgenza del disturbo rispetto agli atti e ai presupposti stessi della istanza presentata dal D.D.; infatti, evidente... era apparsa, al Tar che ha pronunciato l'annullamento, la ricorrenza, negli ultimi anni della carriera del D.D., di penose situazioni lavorative, come pure la loro capacità di ingenerare situazioni di forte stress con possibili risvolti patologici; e non avere tenuto conto di ciò ai fini del giudizio sulla dipendenza da causa di servizio ha costituito in prima battuta un grave vizio istruttorio del primo parere comitale e poi, in occasione del secondo parere, una palese violazione del giudicato, per le ragioni già esposte... nell'ambito della ricostruzione del fatto ... e cioè: - l'accertata protrazione, per un... tempo considerevole, della situazione conflittuale in ufficio, ben oltre l'intervento del decreto di archiviazione e della riammissione del D.D. in servizio; - la collocazione delle prime manifestazioni della patologia a pochi mesi di distanza dai fatti generativi della condizione stressante; - l'asserita esclusione di ogni possibile rilevanza causale della vicenda lavorativa sulla base delle stesse "stereotipe espressioni che il Tribunale aveva considerato del tutto insufficienti ad escludere la sussistenza del nesso eziologico"".

2. Il secondo motivo, presentato da un'estesa rubrica, denuncia violazione degli articoli 191 ss., 112, 113, 115, 116, 132, 181 ss. c.p.c nonché "omessa disamina per omessa pronuncia su fatti assolutamente rilevanti ed oggetto di discussione con conseguente nullità della sentenza... per non avere neppure confutato né prese in esame le conclusioni medico - scientifiche dal CTU e di tre diversi CT di parte sull'omessa pronuncia in punto di nesso di causalità tra la vicenda per cui è causa e l'infermità psichica" che avrebbe patito D.D.; denuncia altresì "omessa disamina del giudicato avente quantomeno valenza di prova documentale, e/o di fatto decisivo, omessa disamina della certificazione dell'ASL 1 di Massa - Carrara in data 11 10 2005 (doc. n.° 24) che attestava per la prima volta episodi di ipertensione arteriosa, omessa disamina della certificazione del dottor F.F., psicologo in L, dalla quale risultava la tensione emotiva derivante dal provvedimento di sospensione cautelare..., omessa disamina del certificato dell'ambulatorio della Medicina del Lavoro Azienda Ospedaliera (Omissis), omessa disamina della consulenza della dottoressa G.G. (doc. numero 28), omessa disamina di quanto accertato dal Dipartimento del Ministero Militare di Medicina Legale di L, Commissione Medica di Verifica": tutti questi documenti avrebbero certificato la malattia psichica insorta in relazione all'ambiente di lavoro e dunque alla "contestata condotta del C.C.", documenti peraltro oggetto di disamina da parte del CTU H.H., il quale "ha infatti applicato criteri di comune esperienza e massime della Suprema Corte, anche laddove evidenzia persino che il D.D. era sano... e non sussistevano preesistenze o motivi o vicende" diversi dalla condotta del C.C. "cui riferire la malattia". Ancora, si denuncia violazione degli articoli 112, 113, 115, 116 e 132 c.p.c. "che impongono al giudice di porre a base della decisione allegazioni, circostanze di fatto, documenti, nel caso di specie assolutamente rilevanti, la cui disamina avrebbe indotto... a ritenere provata la malattia psichica contratta dal D.D. a seguito della condotta commissiva ed omissiva del C.C.".

Si illustra il motivo lamentando che il giudice d'appello "non solo ha omesso di esaminare... il giudicato avente quantomeno valenza di prova documentale e/o di fatto decisivo... ma anche la CTU medico legale sempre in relazione al nesso di causalità tra la condotta del C.C. e la malattia contratta dal D.D., fino all'evolversi in pejus", nonché "documenti e certificazioni". Tra questi, in particolare, la - richiamata in rubrica - certificazione dell'11 ottobre 2005 di "episodi di ipertensione arteriosa", la certificazione - relazione dello psicologo F.F. ("La tensione emotiva vissuta dall'iniziale provvedimento di sospensione... avrebbe gradualmente compromesso il grado di sicurezza e di autostima dell'interessato in campo lavorativo, prima di allora sostenuto da elevate aspettative professionali, con conseguenti riflessi nella qualità della vita personale e relazionale. Il disturbo affettivo accertato, correlabile ad un disturbo dell'adattamento con ansia ed umore depresso misti, necessita di un approccio specialistico integrato, psicofarmacologico - psicoterapeutico..."), il certificato dell'Ambulatorio di Medicina del Lavoro dell'Azienda Sanitaria P, (Omissis), del febbraio 2008 (doc. 27), attestante "disturbo dell'adattamento e situazione lavorativa caratterizzata anamnesticamente dalla presenza di rilievi avversativi", la relazione e la certificazione del medico legale G.G. del giugno 2008 (doc. 28) - indicante "la sussistenza di un danno biologico pluridimensionale nella misura del 25%" - e l'accertamento del Dipartimento del Ministero Militare di Medicina Legale di L, Commissione Medica di Verifica, il quale dapprima, nel giugno 2008, accertava disturbo dell'adattamento in relazione all'ambiente di lavoro, dichiarando il D.D. non idoneo al servizio per 49 giorni, e poi, nell'agosto 2008, riscontrava la persistenza del disturbo dichiarandolo non idoneo per altri 42 giorni, e nel settembre 2008 ancora non idoneo per 21 giorni, ritenendolo idoneo solo il 6 ottobre 2008.

Dunque il giudice d'appello avrebbe violato le norme indicate in rubrica e al contempo non avrebbe fondato la pronuncia su elementi decisivi e discussi, "come sopra documentati e certificati", il cui esame lo avrebbe condotto "a ritenere provata la malattia psichica contratta dal D.D. a seguito della condotta commissiva ed omissiva del C.C.".

La corte territoriale avrebbe omesso "persino la mancata disamina di una questione decisiva discussa" quale la "condotta omissiva del C.C., rappresentata dall'inerzia protrattasi per due anni a riguardo della chiusura del procedimento", fatto che sarebbe "assolutamente decisivo" e "in diretta relazione con l'insorgere della malattia psichica", come risulterebbe dal sopra citato certificato dell'11 ottobre 2005 dell'Asl, in un contesto in cui "a nulla erano valsi sia la diffida del difensore... sia inviti del Comandante Provinciale... a indurre il C.C. a chiudere la vicenda" (qui si richiamano i docc. 19 - 21); e tanto più che un ambiente di lavoro militare avrebbe condotto il D.D. a percepire in maggior misura rispetto a qualsiasi altro dipendente pubblico "l'ostilità e l'intento persecutorio del superiore gerarchico" quali stress e condizioni avverse da cui sarebbe insorta la malattia, come riconosciuto nella sentenza del Tar, richiamante pure giurisprudenza di legittimità al riguardo. A questo, si ripete, si sarebbe aggiunta l'omissione della disamina della consulenza tecnica d'ufficio e delle tre consulenze di parte, che pure avrebbero riconosciuto "la malattia, la percentuale invalidante ed il nesso di causa con la condotta del C.C.".

In conclusione, il giudice d'appello avrebbe "gravemente omesso la disamina del giudicato e di circostanze inoppugnabili", esaminando invece "circostanze di rilevanza secondaria" e "argomentando... contro ogni logica, sicché le motivazioni del punto sono solo apparenti".

3. Il terzo motivo denuncia violazione degli articoli 112, 113, 115, 116 e 132 c.p.c. nonché violazione e falsa applicazione degli articoli 91 d.p.r. 3/1957, 3 e 21 septies l. 241/1990, 55 T.U. Pubblico Impiego e 2043 c.c. "per violazione delle norme sulla motivazione della sentenza e sull'esame delle domande proposte", nonché "un percorso logico errato" per mancato esame e mancata pronuncia su un punto decisivo rappresentato dalla responsabilità del C.C. anche per colpa ex articolo 2043 c.c., "non solo per aver adottato un provvedimento disciplinare illegittimo - la sospensione dal servizio - ma per avere tenuto aperto ingiustificatamente un procedimento per ben due anni, continuando a diffamare e/o insultare il D.D., firmando... anche il provvedimento di rigetto del riconoscimento della malattia professionale dallo stesso causata", atto annullato dal Tar Toscana.

Anche questo motivo si presenta assai esteso.

Anzitutto si sostiene che avrebbe errato il giudice d'appello nel ritenere legittima la sospensione dal servizio del D.D., "peraltro asserendo fatti, circostanze non veritiere, addomesticando la motivazione", contro il giudicato amministrativo. Il Questore di Massa e il C.C. avrebbero travisato le dichiarazioni di E.E., che avrebbe accusato il fidanzato di tentata violazione di domicilio, qualificandole invece minaccia grave; per questo il C.C. avrebbe sospeso il D.D. - mai iscritto nel registro degli indagati per tale reato - "senza neppure attendere la qualificazione del reato da parte degli inquirenti". Quindi il provvedimento di sospensione sarebbe stato illegittimo, "non solo perché la sospensione dal servizio poteva essere decisa soltanto quando l'impiegato fosse sottoposto a procedimento penale, ma in primis perché il D.D. veniva sospeso per aver commesso un reato solo immaginato dal Capo della Forestale e dalla Questura". Ciò era stato denunciato nel secondo motivo d'appello, rimarcando pure che l'ipotizzato reato di "tentata violazione di domicilio" era stato subito archiviato per difetto di querela; il giudice d'appello, però, avrebbe commesso il medesimo errore, così ponendosi anche in contrasto "con il Giudicato amministrativo derivante dalla decisione del Tar Toscana, che in merito all'illegittimità degli atti e della condotta del C.C. non sollevava dubbio", e "caparbiamente" confermando la decisione del Tribunale al riguardo. In tal modo si sarebbe verificato "vizio di motivazione nel percorso logico giuridico del giudice di merito", il quale avrebbe "considerato legittimo un atto amministrativo fondantesi su di un'ipotesi di reato insussistente e privo del fatto", in violazione dell'articolo 91 d.p.r. 3/1957; per di più la corte territoriale avrebbe "concluso il suo ragionamento analizzando solo il decreto di sospensione, la sua legittimità e l'assenza del dolo in capo al C.C., senza invece prendere in esame le richieste risarcitorie ex art. 2043 c.c. e quindi anche per colpa", incorrendo pertanto nel vizio di mancata pronuncia.

Si censura la motivazione della sentenza impugnata "laddove... giunge persino a sostenere un'inattività del D.D. che ha diffidato la P.A. a concludere il procedimento soltanto una volta", benché per legge il procedimento avrebbe dovuto concludersi in 120 giorni, e nonostante che il comandante provinciale avesse inviato lettere al C.C. di invito alla chiusura. Inoltre sarebbe un errato ragionamento concludere affermando che mancava comunque il dolo del C.C., pur se avesse adottato un provvedimento illegittimo, in quanto "le domande delle ricorrenti non riguardavano solo il mobbing e dunque il dolo, bensì... anche la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.", oltre a reati di abuso d'ufficio (articolo 323 c.p.), omissione di atti d'ufficio (articolo 328 c.p.), calunnia (articolo 368 c.p.) e diffamazione (articolo 595 c.p.). Perciò "l'eventuale assenza dell'intento persecutorio o del dolo" non avrebbe precluso l'esame degli ulteriori aspetti di illegittimità nella condotta del C.C. invocati dalle ricorrenti: non solo il C.C. "aveva esercitato un potere disciplinare illegittimamente", ma aveva altresì, "ancor più illegittimamente", continuato a perseguitare il D.D., in particolare "rifiutando/omettendo... di compiere atti necessari del proprio ufficio (art. 328 c.p.)" - come l'archiviazione del procedimento disciplinare - e diffamandolo. Su questo non vi sarebbe nella sentenza impugnata "neppure una riga di motivazione". E "ciò che per il Tar è massima d'esperienza", ossia il fatto che la sottoposizione a un procedimento disciplinare illegittimo per due anni generi "stress e disturbo", per il giudice d'appello invece sarebbero soltanto "effetti collaterali di un provvedimento legittimo".

Si richiama ancora, infine, l'asserita "portata esterna del giudicato amministrativo", oltre all'atto sottoscritto dal C.C. che "disconosceva la malattia del D.D. per cause di servizio" annullato dal Tar.

4. Il quarto motivo lamenta "ancora una volta" omessa disamina e pronuncia delle domande proposte, in violazione degli articoli 112, 113, 115, 116 e 132 c.p.c. e "delle norme sulla motivazione della sentenza e sull'esame delle domande proposte".

Si richiama il quarto motivo d'appello (che, nella premessa del ricorso, e precisamente a pagina 21, è sintetizzato come "omessa pronuncia in punto di nesso di causalità tra la condotta del C.C. e la malattia psichica del D.D." disattendendo pure le conclusioni medico - scientifiche della CTU e di tre perizie di parte, che tutte confluivano "alla sussistenza del nesso di causa"), osservando che il C.C. avrebbe "emesso e mantenuto nel tempo un provvedimento di sospensione illegittimo" e rifiutato/omesso di archiviare il procedimento disciplinare chiuso soltanto il 9 luglio 2007.

Si rileva che il Tribunale, pur avendo reputato di non dover affrontare la questione della sussistenza di un nesso di causalità, aveva comunque esternato al riguardo "considerazioni fuorvianti", affermando che le conclusioni della CTU di primo grado erano soltanto "espresse in termini di mera verosimiglianza" e presupponevano, soprattutto, un "fatto in realtà indimostrato", cioè che il D.D. non presentasse anteriormente "segni di sofferenza psichica", basandosi però "non su certificazioni mediche ma sulle note informative relative al comportamento in servizio... inidonee a fondare una seria anamnesi"; e non sarebbero state considerate - osservava ancora il Tribunale - le dichiarazioni della E.E., "seppure ritrattate con dichiarazioni rese al superiore del D.D.", le quali, se vere, sarebbero state, "almeno in teoria, associabili al disturbo psichiatrico".

Questo passo della sentenza di primo grado sarebbe stato l'oggetto del quarto motivo d'appello, del quale però la corte territoriale avrebbe ritenuto non necessario il vaglio "dato che non era stato provato il dolo in capo al C.C.". Tale motivo veniva infatti "superato" nella sentenza qui in esame come segue: "L'ultimo motivo di appello risulta assorbito, non essendo stata provata la sussistenza dell'illecito contestato negli atti introduttivi e dell'elemento soggettivo in capo a C.C., ragion per cui non è necessaria alcuna indagine in punto nesso causale".

Si oppone che le prove documentali e testimoniali raccolte avrebbero condotto il giudice d'appello ad accogliere le domande delle attuali ricorrenti, giacché il CTU ha ritenuto "comprovata la sussistenza del nesso di causalità" tra la condotta del C.C. e il pregiudizio all'integrità psicofisica del D.D.. Si invoca (pagine 63 - 64 del ricorso) quanto emergeva al riguardo nella seconda CTU, sostenendo poi che questa non sarebbe stata "contestata da controparte... in punto di nesso di causalità tra la condotta e la malattia e l'idoneità di questa a condurre il D.D. al suicidio", dalla consulenza non essendo "emersi fattori esogeni tali da indurre una malattia psichica" in un soggetto che, "prima delle vessazioni" da parte del C.C., "era un agente "modello",... persino premiato per i propri risultati", non manifestante alcun segno di disturbo se non a partire dalla vicenda de qua. Il che coinciderebbe, d'altronde, con il giudicato amministrativo.

Si conclude infine per la cassazione della sentenza impugnata con decisione nel merito.

5.1 Il principio della ragione liquida conduce ad esaminare congiuntamente il secondo e il quarto motivo, che a ben guardare lamentano -; e in questo senso sono riqualificabili come denuncianti non solo omesso esame di fatto discusso e decisivo, ma anche, globalmente e logicamente a monte, motivazione apparente - il non aver affrontato nella motivazione della pronuncia impugnata la questione della situazione psicofisica del D.D. come conseguenza o meno della vicenda disciplinare, astenendosi il giudice d'appello da ogni vaglio della consulenza tecnica d'ufficio e in generale di tutto quel che in tema è stato istruito (oltre alle tre consulenze di parte, certificazioni mediche anteriori, tra cui quelle che ritennero inidoneo al lavoro il D.D. in relazione alla sua salute psicofisica), limitando invece la motivazione a trattare elementi in realtà secondari nella vicenda, e comunque pretermettendo, in particolare, di accertare se la protrazione temporale della procedura disciplinare - oggettivamente sproporzionata rispetto alla durata del procedimento penale -, abbia o meno integrato una condotta illecita del C.C., semmai in termini colposi ex articolo 2043 c.c., cagionante una tutt'altro che imprevedibile conseguenza negativa sulla salute psicofisica del D.D. in termini di stress: e ciò in quanto è notorio che produce sensibile stress una non minimale attesa di "uscire" da una situazione sgradevole e spinosa (sia di per sé, sia per la sua diffusione all'esterno, cioè ai colleghi con cui ogni giorno si condivide l'attività lavorativa).

È evidente che proprio questo costituisce il nucleo della regiudicanda che era stata sottoposta al giudice di merito. Secondarie ictu oculi rispetto ad esso, visto quel che comunque era indiscutibilmente avvenuto, risultano le questioni - con unica eccezione di quella relativa alla durata della procedura disciplinare, di per sé, peraltro, radicalmente insufficiente - cui la corte territoriale ha dedicato la motivazione della sua sentenza, considerato tra l'altro che nessuna delle censure veicolate nel gravame concerneva la sussistenza di un preteso giudicato.

5.2 Invero, come riassume la stessa sentenza impugnata, l'appello si articolava in quattro motivi, di cui il primo riguardava l'ammissione di capitoli di prova, il secondo sosteneva l'illegittimità della - brevissima nell'arco della vicenda, come si è visto - sospensione cautelare, e il terzo lamentava il ritardo della restituzione degli emolumenti perduti durante la sospensione e la trasmissione via fax degli atti relativi a quest'ultima. A parte allora la messa in pubblico degli atti della vicenda - come già rilevato riconducibile al nucleo tematico -, era invece il quarto motivo a "centrare" il tragico accaduto, sotto il profilo della correttezza e della integrità dell'accertamento del fatto stesso, necessitante per la sua natura anche valutazioni "tecniche" (qui, mediche): accertamento che naturalmente compete al giudice di merito.

Così il motivo basilare per la prospettazione attorea è stato in sostanza riassunto dalla Corte d'appello: "Con l'ultimo motivo, gli (sic) appellanti hanno lamentato che, erroneamente, il Tribunale aveva escluso la sussistenza del nesso causale tra il suicidio e la condotta contestata al convenuto... Il Tribunale aveva sbagliato nell'affermare che non c'era prova del fatto che il sig. D.D. non avesse disturbi psichici precedenti la vicenda... in quanto, in senso contrario, vi era la documentazione di servizio prodotta in causa, da cui non emergeva, pur all'esito delle prove psicoattitudinali, alcun problema psichiatrico. Inoltre, anche la ctu aveva riconosciuto l'esistenza del nesso di causalità tra il suicidio e la particolare condizione dell'ambiente di lavoro del sig. D.D.".

5.3 Il giudice d'appello, allora, si dispiega alquanto, dopo aver celermente respinto il primo motivo, sulla seconda e sulla terza censura, esaminate in modalità congiunta, insistendo tra l'altro sulla pretesa mancanza della "prova della condotta dolosa" del C.C. laddove con il suo provvedimento di sospensione "non aveva fatto altro che recepire la qualificazione dei fatti adottata dalla Questura", sulla sufficienza della motivazione di tale provvedimento e sul fatto che questo sarebbe stato "l'unico modo per ritirare la pistola".

Passa poi a disattendere la doglianza sulle modalità di comunicazione dei provvedimenti della vicenda, e lo fa con un argomento palesemente illogico, asserendo in sostanza che, anche qualora la modalità di comunicazione non tuteli le "esigenze di riservatezza imposte dalla particolare vicenda", ciò non potrebbe derivare da "malanimo nei confronti del dipendente", in quanto da una testimonianza risulterebbe "che era prassi procedere alla comunicazione via fax di atti connotati da urgenza": quindi, ad avviso del giudice d'appello, tutti gli atti, del tutto indipendentemente dal loro contenuto, se urgenti avrebbero potuto essere "messi in piazza", come se non fossero già all'epoca utilizzabili strumenti di maggiore riservatezza rispetto al fax, e come se un dirigente della pubblica amministrazione che sospende un dipendente non dovesse, pur espletando il suo compito con diligenza, percepire alcuna necessità di riservatezza del dipendente stesso in relazione ad un atto oggettivamente imbarazzante - anche se ciò in concreto non avesse poi leso l'immagine o l'onore davanti a colleghi che nella situazione si sarebbero dimostrati amici -.

5.4 L'ultimo motivo, comunque, non riguardava soltanto, a proposito di "condotta contestata", la mancata tutela della riservatezza (anch'essa, evidentemente, elemento costitutivo della "particolare condizione dell'ambiente di lavoro del sig. D.D."), ma altresì, ut supra rilevato, la lunga protrazione della vicenda disciplinare, sproporzionale rispetto a quella penale, dedotta come intrinsecamente connessa - proprio nel senso eziologico - con la patologia psicofisica che avrebbe portato il D.D. al suicidio.

Escludendo il "nesso causale tra il suicidio e la condotta contestata" dal C.C. (così, ancora ut supra ripreso, riassume la stessa sentenza impugnata), ad avviso della corte territoriale sarebbe venuto meno ogni profilo di responsabilità di quest'ultimo; e infatti la corte, come già si è visto, dichiara: "L'ultimo motivo di appello risulta assorbito, non essendo stata provata la sussistenza dell'illecito contestato negli atti introduttivi e dell'elemento soggettivo in capo a C.C., ragion per cui non è necessaria alcuna indagine in punto nesso causale".

Tuttavia, per ricostruire - realmente e integralmente - il fatto, riconoscendone o escludendone il suo risvolto psicofisico, era evidente l'occorrenza anche di una valutazione tecnica: e la CTU non sarebbe stata attinente ad un nesso causale astratto, bensì, dovendolo ricostruire (se sussisteva) in termini di concretezza nella vicenda, avrebbe dovuto esaminare come si era formata (sempre se si era formata) la patologia, id est quali erano le caratteristiche della condotta alla quale si era attribuita dalla parte attrice la correlazione causale, per valutare se questa condotta fosse o meno idonea a incidere sullo stato psicofisico della persona nei cui confronti era stata tenuta.

5.5 Nella fattispecie in esame, ictu oculi, la parte attrice aveva prospettato che fosse stata la condotta del C.C. - e precisamente l'aver per due anni tenuto il dipendente "appeso" in una situazione di incertezza assai stressante - a incidere causalmente sulla salute del D.D. suscitando la patologia: pertanto il vaglio affidato al consulente tecnico quale esperto di scienza psichiatrica non poteva includere soltanto lo stato psicofisico in sé se questo era davvero stato alterato, ma in tal caso, anche per pienamente comprenderlo, doveva identificare (o comunque contribuire a identificare) l'origine del suddetto stato psicofisico, e quindi quel che era connesso a tale stato come sua fonte generante.

Non a caso, infatti, risulta che era stata disposta CTU, ritenendola evidentemente non superflua, essendo notorio che una protratta situazione di accusa fa "vivere male" il soggetto accusato; e non a caso erano state prodotte documentazioni mediche di contenuto quasi sempre psichiatrico, come sopra si è già esposto traendolo dal ricorso, alcune di esse tra l'altro relative anche a una sopravvenuta e conseguente incapacità lavorativa del D.D.; e non a caso, infine, emerge ancora dal ricorso (pagine 62 - 64) che il CTU ha offerto una valutazione sugli effetti della condotta del dirigente rispetto all'integrità psicofisica del suo subordinato D.D..

5.6 La corte territoriale ha omesso in toto di motivare sugli esiti della CTU e sulla documentazione medica, e lo ha fatto sulla base di un'affermazione apodittica: non sussiste l'illecito, quindi non occorre "alcuna indagine in punto nesso causale". La radicale irrazionalità che in tal modo depriva di una reale motivazione risiede proprio nell'asserto, così formulato, che l'esistenza o meno di illiceità nella condotta del dirigente, nel caso in esame, si possa accertare mediante elementi che prescindono del tutto dalla situazione e dalla evoluzione di salute del dipendente nel periodo in cui il dirigente ha tenuto tale condotta. Così la corte effettivamente espunge dalla trasparenza motivazionale una parte fondamentale del thema decidendum, cioè l'accertamento sul fatto che la condotta del dirigente abbia o meno leso la salute del dipendente.

Sul fatto che questa lesione vi sia stata o no, infatti, ovvero sul profilo consequenziale, non incide quanto anteriormente richiama il giudice d'appello in ordine al protrarsi della condotta omissiva del C.C.. Secondo la corte territoriale, "l'eventuale inerzia nel chiudere la vicenda potrebbe giustificarsi per intoppi burocratici, non direttamente imputabili al C.C., ma ai diversi uffici coinvolti". Anche questa parte della motivazione infatti non è altro che un'apparenza, in quanto inserisce soltanto una mera eventualità, senza indicare alcun elemento specifico nel senso che effettivamente si siano verificati intoppi. Si tratta dunque di un asserto "vuoto", che per di più assume una veste ontologicamente contraddittoria se si compara la celerità dell'abbrivio del procedimento disciplinare con la durata di ben due anni per raggiungerne la fine, e ciò senza che risulti emersa alcuna specifica indagine che abbia obbligato a protrarlo in siffatta notevole misura. In tal modo, l'affermazione motivazionale diventa un circuito tautologico, cioè un ragionamento apparente: si è impiegato del tempo perché si è impiegato; e a ciò si aggiunga che nessuna identificazione concreta viene fornita di quelli che sarebbero stati i "diversi uffici coinvolti", e parimenti nessuna indicazione su che cosa significano in questo tipo di procedura disciplinare gli "intoppi burocratici".

5.7 Un effettivo apparato motivazionale non può eludere dalla spiegazione del concreto thema decidendum mediante meri asserti e pure genericità. La motivazione, è ben noto, costituisce uno strumento di legittimazione dell'esercizio del potere giurisdizionale. Pertanto l'obbligo motivazionale del giudice deve essere interpretato e delineato, anche nel testo attualmente vigente dell'articolo 360 c.p.c. (come riformato dal d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012 n. 134; e su ciò non inciderà neppure la novellazione operata dal D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, qui ratione temporis non applicabile), alla luce del ratio dell'articolo 111, sesto comma, Cost. gli ha conferito: la decisione giurisdizionale, di accoglienza o di rigetto che sia, deve essere trasparente, ovvero realmente spiegata nelle sue ragioni. È per questo che, accanto alla fattispecie specifica riconducibile all'articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c. e a quella, parimenti specifica, della materiale assenza di motivazione, anche dopo la riforma del 2012 permane, quale motivo denunciabile articolo 360, primo comma, n. 4 c.p.c. per impedire che la decisione non si esterni in modo costituzionalmente non integro, la fattispecie della motivazione apparente, nella quale rientra, per logica ed effettività giuridiche, il "salto" motivazionale avente ad oggetto elementi fondanti dell'accogliere o del disattendere, che genera una incongruità ontologica della decisione (in ordine ai salti logici arrecanti inaccettabili contraddittorietà, sulla scorta di S.U. 3 novembre 2016 n. 22232, cfr. da ultimo Cass. sez. 6-1, ord. 1° marzo 2022 n. 6758, Cass. sez. L, ord. 14 febbraio 2020 n. 3819 e Cass. sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019 n. 13977).

Nel caso in esame, come già si è evidenziato, la Corte d'appello ha omesso di considerare tutta la questione psichiatrica che è stata oggetto della istruttoria, sia in termini di documentale certificazione, sia in termini di perizie extragiudiziali, sia e soprattutto in termini di consulenza tecnica d'ufficio (ad abundantiam, non essendo allo stato tale giurisprudenza esente da contrasti, si rileva pure la sussistenza di pronunce di legittimità che ravvisano addirittura vizio denunciabile articolo 360, primo comma, n.5 c.p.c. nell'omesso esame di una espletata CTU: Cass. sez. 6-3, ord. 7 settembre 2020 n. 18598; Cass. sez. 3, 31 maggio 2018 n. 13770, Cass. sez. 3, 29 maggio 2018 n. 13399 e Cass. sez. 3, 7 luglio 2016 n. 13922; e sul rilievo della CTU cfr., da ultimo, Cass. sez. 6.1, ord. 1° marzo 2022 n. 6758). E lo ha fatto sulla base di una motivazione apparente, in quanto si è sottratta, come si è visto, ad esaminare in modo completo la condotta attribuita al C.C., sia sotto il profilo della durata della procedura disciplinare, sia sotto il profilo della eventuale correlazione tra la condotta stessa e l'insorgenza di una patologia psichica nel suo subordinato D.D., per le caratteristiche di pubblicizzazione e di protrazione temporale che la stessa Corte d'appello, pur tentando di qualificarle come innocue - il che invece, alla luce del notorio, avrebbe potuto accertarsi solo con una valutazione tecnica, ovvero psichiatrica -, ha riconosciuto come esistenti.

Dunque, il percorso del giudice d'appello ad un certo punto vede inserito un "salto" nella ricostruzione motivazionale, in contraddittorietà proprio all'accertamento appena compiuto, cioè quello della messa in pubblico delle comunicazioni attinenti alla vicenda e quello della oggettiva protrazione (il giudice d'appello ha accertato un decorso di due anni) della procedura disciplinare intrapresa nei confronti del D.D.; e ciò in un contesto in cui non solo reati dolosi sono stati attribuiti dalla parte attrice al C.C., ma anche un c.d. mobbing discendente, illecito di abuso gerarchico riconducibile pure a forme colpose - come, nel caso in esame, avrebbe potuto verificarsi proprio nella esternazione ai colleghi di dati personali e nel cronologicamente eccessivo assoggettamento alla procedura disciplinare -.

6. In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata risulta quindi radicalmente incompleta e contraddittoria, vale a dire affetta da apparenza, il che conduce, accogliendo i motivi vagliati e assorbite le ulteriori censure, alla sua cassazione, con rinvio, anche per le spese, alla Corte di Genova, in diversa sezione e diversa composizione.

 

P.Q.M.


Accogliendo il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Genova.
Così deciso in Roma il 19 dicembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2024.