Cassazione Penale, Sez. 4, 01 febbraio 2024, n. 4338 - Omicidio colposo ai danni di un minore ascritto all’amministratore e al direttore di un punto vendita per uso inidoneo degli scaffali e per la mancanza di istruzioni per il caricamento della merce 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta da:

Dott. PICCIALLI Patrizia - Presidente

Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere

Dott. CAPPELLO Gabriella - Consigliere

Dott. BRUNO Mariarosaria - Relatore

Dott. MARI Attilio - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA



sui ricorsi proposti da:

A.A. nato a T il (Omissis)

B.B. nato a C il (Omissis)

avverso la sentenza del 23/02/2023 della CORTE APPELLO di CAGLIARI

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere MARIAROSARIA BRUNO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI ORSI

che ha concluso chiedendo ...

Il Proc. Gen. conclude per il rigetto per tutti e due i ricorsi, udito il difensore

È presente l'avvocato DALLAVALLE MARCO del foro di MILANO in difesa di: B.B.

Il difensore presente chiede l'accoglimento del ricorso

È presente l'avvocato DELOGU MASSIMO del foro di CAGLIARI in difesa di:

B.B.

il difensore presente si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.

È presente l'avvocato SBISA' FRANCESCO del foro di MILANO in difesa di: A.A.

Il difensore presente chiede l'accoglimento del ricorso

 

Fatto

 

1. Con sentenza del 23/2/2023, la Corte d'appello di Cagliari ha confermato la pronuncia di condanna emessa dal Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Cagliari a carico di A.A. e B.B. per il reato di omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche.

Agli imputati era contestato di avere cagionato la morte di C.C., di anni 4, nelle rispettive qualità di amministratore e direttore del punto vendita di E della società "Metro Italia Cash and Carry Spa", infortunio occorso in data 21/10/2016.

Gli imputati, omettendo di adottare le misure necessarie affinché gli scaffali dell'esercizio commerciale fossero adeguatamente utilizzati ed omettendo di impartire precise istruzioni per il caricamento della merce, causavano la morte della minore, la quale, trovandosi sul passeggino nei pressi di una scaffalatura, veniva travolta da un pallet contenente un carico di merce ivi riposto del peso di oltre trecento chilogrammi.

I giudici di merito, nelle due sentenze conformi, hanno ritenuto dimostrata la penale responsabilità degli imputati in ordine al reato loro ascritto, accertando che la caduta della merce era stata causata dallo scorretto posizionamento del carico sulle travi "rompitratta" dello scaffale che lo reggevano. I profili di colpa specifica individuati nelle sentenze di merito hanno riguardato la mancata individuazione del rischio rappresentato dalla caduta dall'alto della merce, la mancata adozione dei rimedi necessari ad evitare simili eventi, la mancata formazione del personale.

2. Avverso la sentenza di cui sopra hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo dei comuni difensori, articolando i seguenti motivi di doglianza.

I) Violazione dell'art. 40, comma 1, cod. pen.; contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

La Corte di appello di Cagliari sarebbe incorsa in evidenti vizi motivazionali. La ricostruzione offerta della causa della caduta del carico sarebbe frutto del travisamento delle emergenze probatorie. L'assunto in base al quale il carico di merce (pallet di cartoni da pizza) rovinato sulla bambina fosse stato collocato scorrettamente sulla scaffalatura è circostanza smentita dalle dichiarazioni di D.D., che ha proceduto all'alloggiamento della merce. Costei, la cui posizione è stata oggetto di archiviazione, ha dichiarato di essere sicura di avere correttamente riposto il pallet sullo scaffale. Pertanto, la ricostruzione del fatto risulta incompatibile con le dichiarazioni di chi ha materialmente collocato il carico sulla scaffalatura.

Altrettanto priva di riscontro è l'affermazione contenuta in sentenza secondo la quale il pallet si sarebbe mosso in seguito al sommarsi delle vibrazioni causate dalla movimentazione delle altre merci: in base al dato temporale, dal momento del posizionamento del pallet alla caduta del carico è trascorso un intervallo di tempo di circa 20 ore; inoltre, non è verosimile che un carico del peso di 350 kg. subisca uno spostamento dovuto a semplici vibrazioni.

Una corretta valutazione degli elementi di prova avrebbe imposto una diversa risoluzione del caso.

La Corte di appello ha trascurato di considerare che D.D. possedeva l'abilitazione all'uso dei carrelli elevatori da oltre 20 anni e che la stessa ha escluso che il carico fosse stato posizionato in modo precario e instabile; ha inoltre omesso di considerare che altri operatori erano intervenuti sulle corsie del supermercato denominate 6/a e 5/a, realizzando operazioni che non hanno formato oggetto di alcun accertamento.

Sulla base di tali elementi di prova, il giudizio esplicativo risulta non convincente e segnato da evidenti aporie logiche, che minano alla base il successivo sviluppo argomentativo della sentenza impugnata.

Anche con riferimento al secondo ineludibile passaggio valutativo, relativo al giudizio predittivo, la sentenza impugnata mostra evidenti lacune e aspetti contradditori.

Nell'atto di appello le difese avevano lamentato la nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, in quanto il Giudice di primo grado non aveva chiarito quali condotte omesse dagli imputati, neppure indicate in forma precisa nella imputazione, fossero state poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità.

Nel ritenere infondata questa doglianza, la Corte di Appello ha fornito una risposta insoddisfacente e perplessa, confermando l'indeterminatezza degli addebiti mossi agli imputati.

Cercando continuità con la sentenza di primo grado, la Corte di merito individua la condotta attesa nell'omessa individuazione del rischio derivante dallo scorretto posizionamento dei "rompitratta" e nella conseguente omessa predisposizione di una procedura nel Documento di Valutazione dei Rischi o aliunde che indicasse ai carrellisti di verificare la corretta posizione delle travi prima eli caricare le merci (cfr. pag. 5 della motivazione).

La conclusione a cui giunge la Corte d'Appello circa la mancanza di procedure in merito al posizionamento dei rompitratta è sorretta da una motivazione intrinsecamente illogica, dato che sono i medesimi giudici a riconoscere che era "immediatamente rilevabile da qualsiasi persona dotata di normale intelligenza e di comune buon senso, che i carrellisti, per scongiurare il pericolo di cadute di merci dall'alto, prima di caricare le merci sugli scaffali, controllassero ogni volta il corretto posizionamento delle travi rompitratta". I giudici hanno così dimostrato, in concreto, di non ritenere necessaria la procedura di cui si lamenta l'assenza, in quanto la stessa

avrebbe soltanto ribadito ciò che i carrellisti già conoscevano. Il passaggio motivazionale rivelerebbe l'assenza del nesso di causa necessario per riconoscere la responsabilità colposa contestata agli imputati.

La non corretta individuazione della condotta attesa, quale conseguenza della inesatta ricostruzione del fatto, si evincerebbe dall'argomentazione in cui la Corte di merito, richiamando la presenza di una prescrizione impartita ai carrellisti di non "strisciare" sul pallet e di non esercitare "forze orizzontali" nel corso del caricamento, afferma che "il pericolo che le travi si spostassero dalla loro sede era immanente nella già richiamata prescrizione, invece impartita ai dipendenti della Metro, di non strisciare sul pallet ed esercitare forze orizzontali" in quanto ciò "poteva determinare lo spostamento dei rompitratta e creare situazioni di rischi per l'incolumità dei frequentatori del supermercato" (cfr. sent. app., pag. 17). Tale procedura era dunque nota e diffusamente applicata dai carrellisti.

L'illogicità intrinseca della motivazione emerge anche nel passo in cui, la Corte di merito, nel tentare di superare il dato oggettivo della conoscenza di tale prescrizione afferma che la mera presenza di una prescrizione non esclude di per sé il rischio della sua inosservanza e, quindi, nel caso specifico, il rischio di spostamento delle travi rompitratta. Invero, se il comportamento atteso non esclude il rischio della caduta, esso non ha alcuna efficacia causale sull'evento verificatosi.

II) Violazione degli artt. 40, comma 1 e 2 e 41 cod. pen.; errata individuazione del nesso causale; travisamento probatorio cori conseguente contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Nell'atto d'appello i ricorrenti avevano sostenuto come la mancanza di specifiche prescrizioni scritte in ordine al corretto posizionamento dei pallet sugli scaffali, con particolare riguardo ai rompitratta, fosse del tutto irrilevante sotto il profilo causale, posto che i carrellisti erano, comunque, edotti in tal senso.

La Corte di merito respinge tale assunto, osservando che "l'asserita, generalizzata consapevolezza, in capo ai lavoratori della Metro, della necessità di verificare, prima di ogni carico, il corretto distanziamento delle travi rompitratta mobili, non trova appaganti riscontri nelle risultanze processuali" (cfr. pag. 14 sentenza appello).

Per avvalorare tale affermazione, la sentenza richiama stralci delle sommarie informazioni rese da alcuni dipendenti della società.

Sul punto, occorre innanzitutto premettere che è incontestato che la responsabile del posizionamento del pallet fosse stata la carrellista D.D.. Risulta, quindi, del tutto ininfluente rispetto alla vicenda che occupa la circostanza che altro personale della Metro non avesse contezza del corretto posizionamento dei rompitratta.

La carrellista D.D., la quale aveva posizionato il carico, era perfettamente a conoscenza della procedura di caricamento del pallet sugli scaffali.

In questa situazione, diventa del tutto illogico sostenere -come avviene nella sentenza impugnata -che fosse necessaria la previsione di una procedura scritta sul caricamento della merce per evitare l'evento. Invero, da un lato, vi è la prova che la corretta procedura di caricamento del pallet fosse nota alla persona che aveva caricato la merce crollata; dall'altro, è dimostrato che il solo fatto della esistenza di una prescrizione scritta avente ad oggetto, nello specifico, il corretto posizionamento dei rompitratta non avrebbe evitato l'evento con ragionevole certezza.

La Corte d'appello, nel tentativo di sostenere la rilevanza e la necessità di una procedura che "guidasse" l'operato dei carrellisti in ogni passaggio operativo relativo alla verifica del corretto posizionamento dei rompitratta, incorre in un evidente travisamento della prova, dato che i carrellisti hanno dichiarato di essere ben a conoscenza dell'esigenza di compiere un corretto caricamento delle merci, con ciò intendendo riferirsi anche la verifica della posizione dei rompitratta.

Sul punto va rilevato come la sentenza d'appello abbia svolto un'indebita selezione delle parti delle deposizioni dei carrellisti, omettendo di considerare le testimonianze nella loro interezza, dalle quali risulta che i carrellisti hanno sempre applicato specifiche procedure di verifica del corretto posizionamento dei rompitratta, apprese durante la loro formazione e le attività di affiancamento.

La Corte di merito ha quindi fatto cattivo governo delle prove testimoniali, non solo travisandone il contenuto, ma selezionando i passaggi utili a fondare il proprio convincimento.

III) Violazione degli artt. 40, commi 1 e 2 e 41 cod. pen. per avere la sentenza errato nell'individuare profili di colpa in capo agli imputati; travisamento delle prove con conseguente contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Nell'atto d'appello i ricorrenti hanno contestato con ampie argomentazioni il mancato fissaggio dei rompitratta.

A tale riguardo la Corte d'appello sostiene che, avendo la società Dekra (società di certificazione) individuato una fonte di pericolo giallo per la incolumità dei lavoratori, era preciso dovere degli organi della Metro attivarsi d'iniziativa per individuare gli specifici pericoli ai quali i lavoratori erano esposti ed impartire le opportune prescrizioni per neutralizzarli.

La Corte d'appello, tuttavia, non considera le seguenti circostanze.

-il codice giallo rilevato dalla Dekra in sede di verifica ispettiva del 18/2/2016 si riferiva a rompitratta di scaffalature diverse rispetto a quella interessata dal crollo;

- il codice giallo, essendo definito quale "Danno grave per il quale è richiesto un intervento di ripristino nel più breve tempo possibile", non prevede alcuna eliminazione urgente, come erroneamente indicato dalla Corte d'Appello, ma un "ripristino", che, sul piano terminologico e procedurale, comporta il mero riportare la situazione allo stato di funzionalità preesistente;

- la Metro, a seguito della rilevazione del codice giallo, si è tempestivamente attivata ripristinando la situazione: la Dekra, infatti, in data 11/10/2016 (appena dieci giorni prima dell'incidente) aveva rilasciato il certificato di collaudo della struttura.

Risulta evidente, quindi, come la soc. Metro, a seguito dei rilievi sollevati in sede di manutenzione delle scaffalature, abbia tempestivamente posto in essere le attività necessarie di ripristino, tanto da ottenere, pochi giorni prima dell'evento, il certificato di collaudo finale.

La sentenza impugnata, omettendo di considerare tali emergenze e, travisandone il contenuto, giunge erroneamente ad attribuire in capo agli imputati responsabilità smentite da evidenti elementi oggettivi.

IV) Violazione dell'art. 42 cod. pen.; carenza ed illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità dell'imputato B.B. (Capo 6 della sentenza impugnata).

Nella motivazione della sentenza oggetto di impugnazione, la Corte di Appello di Cagliari, con riferimento alla responsabilità dell'imputato B.B., afferma che entrambi gli imputati erano Datori di Lavoro, riconducendo alle loro persone l'addebito di avere omesso di analizzare ed individuare il pericolo di caduta dei le merci dall'alto a causa del prevedibile, scorretto posizionamento delle travi rompitratta mobili e di avervi posto rimedio.

Quanto all'imputato B.B., la Corte rileva che egli aveva fatto parte del Gruppo di Valutazione costituito in funzione dell'elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi in vigore all'epoca del fatto e che aveva anche sottoscritto il Documento stesso nella dichiarata veste di delegato del datore di lavoro, assumendo le consequenziali responsabilità.

Null'altro si aggiunge in motivazione in merito alla posizione del suddetto imputato.

La sentenza erra nell'individuare B.B. quale Datore di lavoro; il ricorrente, infatti, era, all'epoca dell'infortunio, direttore del magazzino Metro di C ed era un dirigente della società, come aveva correttamente sostenuto il giudice di primo grado.

Non vi è nulla in atti che possa legittimare l'attribuzione al suddetto imputato della qualifica di "datore di lavoro" ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. b) D.Lgs. 81/2008.

La stessa Corte di Appello prende atto che sul frontespizio del Documento di Valutazione dei Rischi del magazzino della soc. Metro di C, lo B.B. viene indicato come "delegato del datore di lavoro", sicché appare evidente l'equivoco in cui è incorso il giudice di appello.

In proposito la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire che "L'unicità del concetto di datore di lavoro impone di escludere che la relativa figura possa essere sotto-articolata", negando che si possa ipotizzare nell'ambito della medesima organizzazione la compresenza di più datori di lavoro (così Sez. 3, sent. n. 9028/22).

La circostanza che B.B. non fosse il Datore di Lavoro ha importanti riflessi nella vicenda in esame, posto che la redazione del Documento di Valutazione dei Rischi e la sua sottoscrizione, ai sensi dell'art. 17 del D.L.vo 81/2008, competono al Datore di lavoro e non sono delegabili.

Pertanto, sebbene il ricorrente abbia sottoscritto il Documento di Valutazione dei Rischi del magazzino Metro di C in qualità di "delegato", non può essere chiamato a rispondere delle criticità ivi riscontrate.

È pur vero che B.B. ha fatto parte del Gruppo di Valutazione costituito in funzione dell'elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi, (insieme al Datore di Lavoro, al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, agli addetti del Servizio di Prevenzione e Protezione ed al Medico Competente), ma in atti manca qualunque approfondimento in relazione al contributo fornito dall'imputato con riferimento al predetto documento ed al contenuto della delega conferita dal datore di lavoro.

L'affermazione contenuta in sentenza circa l'assunzione di responsabilità di B.B. nella sua veste di delegato del datore di lavoro appare assolutamente apodittica, posto che non si è a conoscenza del contenuto della delega e degli eventuali poteri conferiti da parte del Datore di Lavoro.

Non può non rilevarsi come, in assenza di tali elementi conoscitivi, la Corte di appello abbia attribuito all'imputato una responsabilità da "posizione", senza evidenziare quali siano i concreti profili di colpa individuabili nella condotta serbata.

V) Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'affermazione di penale responsabilità dell'imputato A.A..

La Corte d'appello di Cagliari ha risolutamente negato che l'assunzione della posizione di garanzia dell'imputato solo quindici giorni prima dell'infortunio potesse essere causa dell'inesigibilità del rispetto della regola cautelare violata.

Nella motivazione della sentenza si legge che, nell'arco temporale di soli quindici giorni, ben si sarebbe potuto (e dovuto) pretendere dal neo-datore di lavoro di "prendere subito cognizione delie situazioni problematiche più gravi, segnalate dalle fonti più autorevoli, quali la società di certificazione Dekra; verificare se erano state risolte e, altrimenti, provvedere con urgenza" (cfr. sentenza app., pag. 20).

Ebbene, in merito a tale affermazione, la Corte di Appello non ha fatto buon governo dei principi in diritto espressi recentemente sul punto dalla Suprema Corte.

In un caso del tutto simile a quello in esame, in cui, peraltro, il periodo temporale intercorrente tra l'assunzione della posizione di garanzia e la verificazione dell'infortunio era di ben sei mesi, la Suprema Corte (Sez. 4, n. 33548/22) ha affermato che l'assunzione di una determinata carica, che comporti l'acquisizione di una posizione di garanzia, implica l'accertamento della sussistenza della concreta possibilità dell'agente di uniformarsi alla regola violata, valutando la situazione di fatto in cui ha operato.

Nella fattispecie in esame, la Corte d'appello di Cagliari, in aperto contrasto con l'approdo raggiunto dalla Suprema Corte anche nella citata pronuncia, ha ritenuto che l'arco temporale di quindici giorni potesse considerarsi pacificamente adeguato perché il neo datore di lavoro potesse prendere piena cognizione delle specifiche problematiche tecniche relative al tema della salute e sicurezza di ogni singola sede di lavoro, nonché agire di conseguenza con estrema sollecitudine per neutralizzare il rischio del verificarsi di eventi dannosi o pericolosi.

VI) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al mancato accoglimento della richiesta di concessione dell'attenuante del risarcimento del danno.

VII) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Diritto


1. I motivi di doglianza non sono accoglibili ad eccezione di quello riguardante l'attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 6 cod. pen., limitatamente al quale si impone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

È opportuno riassumere le articolate censure oggetto del ricorso, che investono nella sua interezza il ragionamento seguito dai giudici di merito per addivenire all'affermazione di responsabilità degli imputati.

Le difese contestano, in primis, la correttezza del giudizio esplicativo posto a fondamento della ricostruzione dell'infortunio, assumendo che la individuazione della causa del ribaltamento del pallet dall'ultimo ripiano dello scaffale della corsia n. 5 del supermercato, posto ad un'altezza di quattro metri, non sia dipeso dal posizionamento scorretto dei "rompitratta" (elementi mobili esistenti sullo scaffale che servivano ad assicurare i pallet all'interno della scaffalatura) e neppure dalla mancanza di informazioni somministrate ai carrellisti sulle procedure di caricamento, essendo costoro al corrente dell'esatta procedura da seguire.

All'uopo lamentano come i giudici di merito siano incorsi nel vizio del travisamento della prova, considerando solo in modo parziale le dichiarazioni raccolte dai numerosi carrellisti escussi nel corso del dibattimento (testi E.E., F.F., G.G., H.H.). Hanno anche evidenziato come la Corte d'appello non abbia attribuito giusto valore alla deposizione della carrellista D.D., che si era occupata del posizionamento del carico collassato, la quale si era detta certa di avere ben collocato il pallet sullo scaffale e di essere stata adeguatamente istruita sulle regole da seguire nel compimento dell'operazione. Tali argomentazioni si rinvengono nei motivi primo e secondo del ricorso, nei quali sono richiamati stralci delle deposizioni dei carrellisti e di D.D., la cui posizione aveva formato oggetto di decreto di archiviazione, essendo stata originariamente indagata per i fatti in contestazione.

Nello sviluppo delle critiche alla motivazione delle sentenza di appello, i difensori assumono come siano rimasti incomprensibili i profili di responsabilità contestati e addebitati agli imputati.

Quanto alla posizione di garanzia rivestita dagli imputati, le difese rilevano come la Corte di appello abbia erroneamente attribuito a B.B. la qualifica di datore di lavoro; quanto alla posizione di A.A., effettivo datore di lavoro, i difensori lamentano come i giudici abbiano trascurato di considerare che il predetto aveva assunto tale qualifica quindici giorni prima dell'infortunio mortale, periodo di tempo del tutto insufficiente perché questi fosse in condizione di rendersi conto delle criticità esistenti in azienda e di porvi rimedio (motivi quarto e quinto del ricorso).

Tutto ciò premesso, si ritiene che i motivi di doglianza riguardanti l'individuazione della causa dell'infortunio mortale ed i profili di responsabilità addebitati agli imputati siano in parte infondati, in parte inammissibili.

2. I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, attingendo questioni tra loro connesse, riguardanti l'accertamento e la ricostruzione del fatto.

La Corte di appello, diversamente da quanto sostenuto dalle difese, ha offerto congrua motivazione a sostegno della ricostruzione operata in ordine alla causa del ribaltamento del pallet dallo scaffale.

Nel ricostruire la vicenda, i giudici hanno evidenziato come il ripiano contenente il pallet crollato fosse costituito da una cornice metallica rettangolare, i cui lati più lunghi sono denominati "correnti", e da due travi ortogonali mobili, denominate "rompitratta", destinate a sopportare il carico e ad evitare che questo si muovesse. Il posizionamento dei rompitratta doveva essere regolato al momento del caricamento dei bancali per essere idoneo ad accogliere il carico (cfr. pag. 5 della sentenza: "Le estremità delle travi non erano fissate ai correnti, sui quali poggiavano, ma erano mobili, in modo che le travi medesime potessero essere allontanate o avvicinate l'una all'altra, così da permettere il comodo e sicuro posizionamento di bancali di diverse dimensioni").

All'atto del sopralluogo effettuato dopo il tragico evento, si legge in sentenza, si era accertato che la distanza delle travi rompitratta dello scaffale interessato dal crollo era di 112 centimetri, a fronte di una larghezza del bancale di 120 centimetri. I giudici hanno poi evidenziato come il bancale fosse sostenuto, da un lato, da una superficie di

appoggio di pochi millimetri, avendo il personale che aveva proceduto ad effettuare gli accertamenti notato che la traccia lasciata dal posizionamento del bancale in quel punto, libera dalla polvere, era di pochi millimetri, La piattaforma aveva quindi perso aderenza e si era inclinata verso la corsia pedonale, venendo fotografata in tale stato all'atto del sopralluogo (si vedano sul punto anche i riferimenti, contenuti a pag. 6 della sentenza di primo grado, al fascicolo fotografico realizzato dai Carabinieri intervenuti sul posto subito dopo il fatto).

Con argomentare logico, i giudici di merito hanno quindi concluso che la causa della caduta del pallet fosse da ascriversi al cattivo posizionamento dei rompitratta mobili ed alle vibrazioni generate dal posizionamento delle altre merci negli scaffali vicini.

La criticità riguardante la regolazione dei rompitratta mobili, rischio non previsto nel DVR, era già nota nell'ambito dell'attività dell'esercizio commerciale, essendo stata rilevata nella primavera dello stesso anno 2016 dalla società di certificazione Dekra, a cui l'azienda aveva affidato l'attività di revisione periodica delle scaffalature.

Le dichiarazioni della carrellista che aveva posizionato il carico, si osserva in sentenza, avvalorano e non incrinano la suddetta ricostruzione: l'impiegata D.D., infatti, aveva affermato nel corso del suo esame di non avere controllato il corretto posizionamento delle travi rompitratta al momento delle operazioni di carico.

I rilievi difensivi sulla ricostruzione del fatto e sul giudizio esplicativo (motivi primo e secondo del ricorso), alla luce delle logiche e coerenti argomentazioni svolte dai giudici dell'appello, non possono trovare accoglimento in questa sede e sono inammissibili.

È noto come la Corte di Cassazione non sia investita del compito di rivalutare e reinterpretare il materiale probatorio in atti, dovendo verificare la correttezza logica del ragionamento espresso dai giudici di merito, la coerenza del discorso giustificativo rispetto agli stessi elementi rappresentati in motivazione, la completezza delle risposte offerte alle censure sollevate dalla difesa (cfr. Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944; altresì Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U., n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203428).

Ciò premesso, i primi due motivi di ricorso, nei quali, dietro l'apparente prospettazione del vizio di legittimità, si richiama l'attenzione della Corte di Cassazione su parte del contenuto delle testimonianze raccolte nel dibattimento e si propongono alternative ricostruzioni della causa del crollo del bancale, esulano dal perimetro valutativo di competenza di questa Corte, rimanendo del tutto indifferenti sul piano della valutazione da operarsi in sede di legittimità.

Devono aggiungersi, a completamento di quanto già detto in ordine alla inammissibilità degli argomenti sviluppati nei primi due motivi di ricorso, le seguenti considerazioni.

Il fatto che la posizione della carrellista D.D. sia stata definita con decreto di archiviazione è del tutto irrilevante ai fini della esclusione della responsabilità dei titolari della posizione di garanzia chiamati a rispondere dell'evento.

Ed invero, ove nell'ambito di un infortunio commesso con violazione delle norme antinfortunistiche si individuino una pluralità di posizioni di garanzia, ciascuno dei garanti risponde per intero dell'obbligo di tutela imposto dalla legge e delle conseguenze della sua violazione, indipendentemente dalle sorti degli altri (cfr. Sez. 4, n. 6507 del 11/01/2018, Caputo, Rv. 272464:"In materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione").

Il provvedimento di archiviazione che ha escluso la responsabilità della carrellista, di cui, peraltro, non si conosce il contenuto, non è quindi suscettibile di incrinare la ricostruzione operata dai giudici di merito in sentenza e non funge eia esimente per gli attuali imputati.

Non si riconosce nella trama argomentativa della sentenza impugnata il lamentato vizio del travisamento della prova alla luce delle argomentazioni sostenute nel ricorso.

Il vizio ricorre quando il giudice di merito ha fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. Secondo consolidato orientamento di questa Corte, ribadito anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen. (cfr. Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Talamanca, Rv. 276432), è onere del ricorrente assicurare il requisito dell'autosufficienza dell'atto probatorio che si assume travisato, provvedendo alla produzione dell'atto integrale a sostegno del vizio dedotto (Sez. 1, n. 6112 del 22/1/2009, Bouyahia, Rv. 243225; Sez. 6, n. 20059 del 16/1/2008, P.M. in proc. Magri, Rv. 240056 ed altre prec. conf. V. anche Sez. 1, n. 23303 del 18/11/2014 (dep.2015), Savasta e altri, Rv. 263601; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. 3, n. 43322 del 2/7/2014, Sisti, Rv. 260994; Sez. 2, n. 24925 del 11/0/2013, Cavaliere, Rv. 256540; Sez. 2, n. 26725 del 1/3/2013, Natale, Rv. 256723; Sez. 2, n. 2531 5 del 20/3/2012, Ndreko, Rv. 253073). Con particolare riferimento alle prove dichiarative, non è consentito dedurre il travisamento della prova attraverso il richiamo a passaggi e stralci delle deposizioni testimoniali, in quanto ciò non consente di saggiare realmente la ricorrenza delle gravi, decisive incongruenze logiche sottese al vizio del travisamento della prova (cfr. Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008, Rv. 241023: "In forza della regola della "autosufficienza" del ricorso, operante anche in sede penale, il ricorrente che intenda dedurre in sede di legittimità il travisamento di una prova testimoniale ha l'onere di suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone, non consentendo la citazione di alcuni brani delle medesime l'effettivo apprezzamento del vizio dedotto"; Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, dep. 2015, Rv. 263601:"In tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell'atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall'indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedono ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte").

Ebbene, la doglianza proposta nei termini di cui al ricorso, nella sostanza, sollecita una diversa valutazione delle dichiarazioni dei testimoni attraverso un richiamo frammentario al loro contenuto, che, come sostenuto dagli orientamenti citati, non consente di saggiare la lamentata incongruenza del ragionamento seguito dai giudici di merito.

3. Infondato è il terzo motivo di ricorso. Il rischio mal governato individuato dai giudici di merito nelle conformi sentenze riguardava la possibilità che la merce deposta sugli scaffali crollasse in conseguenza dello scorretto posizionamento delle travi "rompitratta", su cui dovevano essere alloggiati i pesanti bancali.

La criticità rappresentata dallo scorretto posizionamento delle travi, ha spiegato il giudice dì primo grado, non contemplata nel DVR, era stata chiaramente sottolineata dal personale tecnico del Servizio prevenzione e sicurezza dell'ASL di C nell'approfondita relazione acquisita in atti (cfr. pag. 8 e seguenti della sentenza di primo grado). Le suddette travi erano elementi mobili presenti nelle scaffalature, che dovevano essere posizionati adeguatamente prima del carico dei bancali per scongiurare il pericolo di possibili cadute.

La Corte di merito ha evidenziato come, prima dell'infortunio, non fossero state somministrate ai carrellisti apposite disposizioni atte a regolare la delicata attività del collocamento dei bancali sugli scaffali, dovendo le travi rompitratta essere poste ad una distanza di quaranta centimetri l'una dall'altra per assicurare la stabilità del carico.

La società "Dekra", che aveva provveduto a revisionare le scaffalature ed a rilasciare il certificato di collaudo all'esito delle operazioni, durate alcuni mesi, aveva rilevato gravi lacune nella manutenzione delle strutture di stoccaggio, segnalando "rompitratta mancanti o mal posizionati" (cfr. pag. 42 della sentenza di primo grado).

Ebbene, alla stregua della logica ricostruzione operata dai giudici di merito, non rileva il fatto che tra gli scaffali segnalati dalla società certificatrice non rientrasse quello interessato dal crollo e neppure che, all'esito delle operazioni di verifica, lo stabilimento avesse superato positivamente il collaudo: sebbene le anomalie riscontrate dalla società "Dekra" fossero state eliminate, la mobilità delle travi rompitratta, su cui incidevano i carichi manovrati costantemente dal personale dell'azienda, non istruito sulla necessità di effettuare precisi controlli sulla distanza delle travi, determinava una situazione d'immanente pericolo per i lavoratori e per coloro che frequentavano le corsie del supermercato.

A tale evenienza l'azienda aveva tentato di porre rimedio, prescrivendo ai dipendenti addetti al carico di non esercitare forze orizzontali e di non "strisciare" sui pallet (cfr. pag. 17 della sentenza di appello "il pericolo che le travi si spostassero dalla loro sede era immanente nella già richiamata prescrizione, invece impartita ai dipendenti della Metro, di "non strisciare sul pallet ed esercitare forze orizzontali": ovvio, perché ciò poteva determinare lo spostamento dei rompitratta e situazioni di rischio per l'incolumità dei frequentatori del supermercato"). Si trattava tuttavia di disposizioni del tutto inadeguate a scongiurare il pericolo in esame.

Le anomalie segnalate dalla società certificatrice, riguardanti anche lo scorretto posizionamento dei rompitratta, a cui aveva posto rimedio l'azienda dopo i rilievi, era suscettibile di ripresentarsi anche a distanza di pochi giorni dall'esito positivo del collaudo, dipendendo dal costante caricamento dei bancali sugli scaffali, operazione non assistita da una procedura idonea a regolamentare puntualmente il corretto distanziamento delle travi rompitratta mobili.

4. Devono essere rigettate le censure riguardanti i profili di responsabilità individuati dai giudici di merito con riferimento alle posizioni di garanzia assunte dagli imputati ricorrenti.

La valutazione del rischio nell'attività lavorativa spetta al datore di lavoro (art. 2 D.Lgs. 81/08), qualifica pacificamente rivestita da A.A., il quale aveva accettato detto incarico dal Consiglio di amministrazione della "Metro Italia Cash and Carry Spa". L'attività di individuazione dei rischi presenti nell'azienda o nei luoghi in cui si svolge attività lavorativa e la redazione del DVR (Documento valutazione rischi) non sono delegabili per espressa previsione di legge (art. 17 D.Lgs. 81/08). Pertanto, è irrilevante, ai fini della esclusione della responsabilità del ricorrente, il fatto che il DVR fosse stato redatto dal "delegato del datore di lavoro", attuale coimputato B.B..

La difesa ha sostenuto che il breve tempo intercorso tra la nomina e l'infortunio (15 giorni) non avrebbe consentito al ricorrente Casalotto di prendere cognizione dei rischi collegati al caricamento dei bancali sugli scaffali e di porvi rimedio. Si tratta di una questione in fatto, a cui ì giudici di merito hanno offerto congrua risposta, non censurabile in questa sede. In tempi vicini alla nomina del ricorrente, ha osservato la Corte di merito, vi era stata la segnalazione urgente di pericolo proveniente dalla società incaricata della verifica degli scaffali, che aveva riguardato proprio il posizionamento delle travi. L'imputato, sia pure nominato da breve tempo, avrebbe dovuto e potuto informarsi sulle problematiche più gravi, segnalate da fonti autorevoli, onde provvedere ad adottare con sollecitudine le necessarie misure di tutela.

Altrettanto corretta è la decisione riguardante i profili di responsabilità individuati a carico di B.B., che rivestiva la qualifica di Direttore dello stabilimento.

Il riferimento alla esistenza di due datori di lavoro contenuto in sentenza è indubbiamente non corretto, tuttavia, nella sostanza, la decisione dei giudici di merito non è meritevole di essere censurata.

Il Direttore del punto vendita è figura equiparabile, alla stregua delle definizioni contenute nel TU in materia di sicurezza, al Dirigente, il quale è tenuto, in ragione delle sue competenze professionali, ad attuare le direttive del Datore di Lavoro in materia di sicurezza ed anche a vigilare sulla correttezza dei processi produttivi e lavorativi sotto il profilo della sicurezza (art.2 D. Lgs 81/08).

Era quindi precipuo compito del ricorrente quello di curare l'aspetto riguardate il corretto utilizzo delle attrezzature e di attuare procedure operative che mettessero al riparo da rischi la salute dei lavoratori e degli avventori dell'esercizio commerciale (cfr. Sez. 4, n. 24452 del 19/03/2015, Rv. 263726 - 01: "in tema di prevenzione degli infortuni, le omissioni o le carenze del documento di valutazione dei rischi adottato dal datore di lavoro non esonerano da responsabilità per le lesioni occorse ai lavoratori gli ulteriori garanti della sicurezza sul lavoro, atteso che la constatazione dell'esistenza di un rischio impone loro, nell'ambito delle rispettive competenze, di adottare le misure appropriate per rimuoverlo. (In applicazione del principio la S.C. ha confermato la sentenza di condanna per il reato di lesioni colpose occorse ad un operaio, pronunciata nei confronti del direttore di stabilimento, delegato dal datore di lavoro in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, non avendo egli provveduto né a spiegare i rischi collegati ad una determinata attività né adottato le procedure di sicurezza adeguate, pur essendo perfettamente a conoscenza del rischio lavorativo connesso a detta attività)"; Sez. 4, n. 8094 del 16/11/2018, dep. 2019, Rv. 275151: "In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il direttore generale di una struttura aziendale è destinatario "iure proprio", al pari dei datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dai conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù del ruolo apicale ricoperto, assume una posizione di garanzia a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori"; Sez. 4, n. 41981 del 07/02/2012, Rv. 255001: "In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il direttore dello stabilimento di una società per azioni è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dai conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti".

Alla luce dei principi espressi da questa Corte nelle pronunce richiamate, il ricorrente, destinatario iure proprio dei precetti antinfortunistici, a prescindere dalla esistenza di una formale delega, era tenuto a vigilare sulla regolarità dell'attività che si svolgeva nell'esercizio commerciale, a dare istruzioni affinché le lavorazioni potessero svolgersi in sicurezza, ad impedire la violazione della normativa antinfortunistica, ad individuare eventuali criticità e rendere edotto di questo il datore di lavoro. Tutto ciò rende priva di rilevanza, nell'economia della decisione assunta, l'osservazione proveniente dalla difesa riguardante il fatto che nel corso della istruttoria non sia emersa prova del contenuto della delega conferita all'imputato dal datore di lavoro.

5. Parimenti infondata è la doglianza riguardante la motivazione posta a fondamento del diniego della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale (motivo settimo del ricoroso).

Sul punto la Corte di merito ha offerto adeguata giustificazione, ponendo in rilievo il grado elevato della colpa riconosciuto nella condotta serbata dagli imputati, la esposizione a pericolo di un numero rilevantissimo di persone, l'entità del danno cagionato.

Alla stregua dei principi stabiliti da questa Corte, il beneficio della non menzione della condanna di cui all'art. 175 cod. pen., fondato sul principio dell'"emenda", è rimesso all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito che deve indicare le ragioni della sua mancata concessione sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (così, ex multis, Sez. 2, n. 16366 del 28/03/2019, Rv. 275813). Occorre osservare come il riconoscimento del suddetto beneficio non è necessariamente conseguenziale a quello della sospensione condizionale della pena, rispondendo gli istituti a finalità diverse.

Più recente orientamento di questa Corte ha sostenuto che, ove il giudice stabilisca di concedere unicamente la sospensione condizionale della pena, debba specificare le ragioni per le quali gli elementi valutati in senso favorevole per la concessione di tale beneficio non siano stati reputati idonei a sostenere l'applicazione dell'istituto di cui all'art. 175 cod. pen. oppure indicare altri elementi di segno contrario conducenti a questo fine.

Ebbene, la lettura delle motivazioni espresse nelle sentenze di merito sul punto consente di affermare che la Corte d'appello abbia adempiuto all'onere motivazionale richiesto dalla recente giurisprudenza di legittimità. Il giudice di primo grado aveva ritenuto di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena, limitandosi a richiamare l'assenza di precedenti ostativi.

La Corte di merito ha fatto riferimento ad elementi ulteriori per giustificare la mancata concessione del beneficio di cui all'art. 175 cod. pen., evocando la gravità del fatto e la rilevante esposizione a pericolo di lavoratori e avventori del supermercato determinata dalla condotta serbata dagli imputati.

6. Deve invece considerarsi meritevole di accoglimento il sesto motivo di ricorso. La giustificazione riguardante il diniego dell'invocata attenuante del risarcimento del danno è priva di idonee argomentazioni a sostegno.

La Corte di appello, rilevando che il risarcimento era stato corrisposto dalla società assicuratrice, ha ritenuto di escludere il beneficio, evidenziando come l'adempimento della corresponsione dei premi assicurativi provenisse dalla soc. Metro e non dagli imputati. Ha poi evidenziato che il risarcimento non fosse integrale, essendo intervenuta una transazione tra le parti, circostanza che esclude, ipso facto, la possibilità di concedere l'attenuante.

Con riferimento alla prima ragione del diniego, viene in rilievo la questione riguardante il riconoscimento dell'attenuante in conseguenza della corresponsione del risarcimento da parte di un ente assicuratore.

In base al consolidato orientamento della Corte di legittimità, ribadito recentemente da questa stessa sezione, il risarcimento ad opera del terzo non è ostativo al riconoscimento dell'attenuante, purché l'imputato dimostri di avere fatto propria la volontà di risarcire la vittima del reato (cfr., da ultimo, Sez. 4, n. 12121 del 14/12/2022, dep. 2023, Rv. 284327 - 01: "Ai fini della configurabilità dell'attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 6 cod. pen., il risarcimento del danno eseguito dal terzo assicuratore deve ritenersi effettuato dall'imputato, anche se soggetto diverso dall'assicurato, a condizione che questi ne abbia avuto conoscenza e abbia mostrato la volontà di farlo proprio. (Fattispecie in tema di omicidio colposo da sinistro stradale cagionato da un dipendente della società titolare del contratto di assicurazione)".

Il collegio, pur dovendo ammettere la esistenza di talune pronunce dissonanti, aderisce a tale orientamento, da ritenersi maggioritario.

In origine, le Sezioni Unite Presicci (Sez. U. n. 5909 del 23/11/1988, dep. 1989, Rv. 181084), in un caso di omicidio colposo commesso con violazione delle norme in materia di circolazione stradale, avevano escluso l'applicabilità dell'attenuante in ipotesi di risarcimento effettuato da un ente assicuratore.

Il principio così espresso è stato successivamente oggetto di rivisitazione a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale.

Il giudice delle leggi, con la sentenza n. 138 del 1998, pronunciatosi sulla questione di legittimità costituzionale - sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. - dell'art. 62, comma 1, n. 6, prima parte, cod. pen., in materia di assicurazione obbligatoria contro la responsabilità civile verso terzi derivante dalla circolazione di veicoli a motore e natanti, aveva dichiarato la questione non fondata, sollecitando nel contempo un'interpretazione adeguatrice della norma nel senso di ritenere che l'attenuante in parola fosse operante anche quando l'intervento risarcitorio, comunque riferibile all'imputato, fosse stato compiuto prima del giudizio da un ente assicuratore. La Corte Costituzionale ebbe così a sostenere una lettura alternativa a quella propugnata nella sentenza Presicci, tesa ad interpretare la norma in chiave eminentemente soggettiva.

A seguito dell'intervento della Consulta, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza Pagani, (Sez. U, n. 5941 del 22/01/2009, Rv. 242215), giudicando in merito alla possibilità di comunicare la circostanza attenuante ai concorrenti nel reato, hanno avuto modo di specificare, cosi valorizzando il favor reparandi, come, nei reati colposi, il criterio di ragionevolezza imponga - in ragione di una visione socialmente adeguata del fenomeno - di dare rilievo al fatto che l'imputato abbia stipulato un'assicurazione o abbia rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivati dall'attività pericolosa. Nel corpo della motivazione della decisione da ultimo richiamata, si è precisato come la Corte Costituzionale avesse preso una decisa posizione per la natura oggettiva della circostanza, riconoscendo, nello stesso tempo, che l'intervento risarcitorio dovesse essere "comunque riferibile all'imputato".

Su questo solco si è affermato, sempre in tema di omicidio colposo da incidente stradale, che, ai fini della ricorrenza dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen., il risarcimento, ancorché eseguito dalla società assicuratrice, debba ritenersi effettuato personalmente dall'imputato tutte le volte in cui questi ne abbia conoscenza e mostri la volontà di farlo proprio (Sez. 4, n. 13870 del 06/02/2009, Cappelletti, Rv. 243202).

Il principio ha trovato applicazione anche nello specifico ambito degli infortuni sul lavoro per il caso di risarcimento effettuato dalla società o dall'ente nell'ambito del quale abbia operato l'imputato, da ritenersi effettuato personalmente da costui tutte le volte in cui egli abbia mostrato la volontà di farlo proprio (cfr. Sez. 4 n. 23663 del 24/01/2013, Rv. 256194 (in fattispecie in cui la Corte ha riconosciuto l'attenuante al delegato alla sicurezza di un'azienda con riferimento al risarcimento effettuato dalla società titolare dell'azienda medesima); conforme Sez. 4 n. 14523 del 02/03/2011, Rv. 249937 (in fattispecie relativa a omicidio colposo addebitato al responsabile di un reparto della ditta presso la quale lavorava la p.o.)).

Ebbene, la decisione impugnata contrasta con il condivisibile orientamento richiamato, frutto di una evoluzione interpretativa che trae origine dalla sentenza della Corte Costituzionale sopra citata: sulla base delle indicazioni esegetiche provenienti dalla Consulta, deve ritenersi che l'attenuante in parola sia configurabile ove si accerti la sussistenza del profilo "volontaristico" dell'imputato, anche nel caso in cui l'intervento risarcitorio provenga dal terzo assicuratore.

Alla luce delle considerazioni che precedono, escluso che il risarcimento proveniente dall'ente assicuratore sia ostativo alla concessione dell'attenuante, occorre che la Corte di appello si soffermi sull'aspetto volontaristico e sulla eventuale manifestazione di volontà proveniente da ciascun imputato di fare proprio il risarcimento intervenuto da parte della società assicuratrice.

La manifestazione della volontà riparatoria, oltre che emergere da un atto o comportamento riferibile all'imputato, di natura processuale o extraprocessuale, deve rivestire i caratteri della concretezza e tempestività, estrinsecandosi in un fattivo contributo "personale" all'adempimento (così, in motivazione, Sez. 4, n. 12121 del 14/12/2022 citata in precedenza).

Del pari insoddisfacente è la motivazione riguardante la mancanza del requisito dell'integralità del ristoro, che viene fatta discendere esclusivamente dalla intervenuta transazione.

In base a consolidato orientamento di questa Corte, condiviso dal collegio, l'integralità del risarcimento, richiesta per il riconoscimento della circostanza attenuante della riparazione del danno, non è esclusa dall'esistenza di un accordo transattivo (ex multis Sez. 2, n. 51192 del 13/11/2019, C., Rv. 278368 - 02, così massimata : "Ai fini delia configurabilità della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 6, cod. pen., il risarcimento del danno deve essere integrale, ossia comprensivo della totale riparazione di ogni effetto dannoso, e la valutazione in ordine alla corrispondenza fra transazione e danno spetta al giudice, che può anche disattendere, con adeguata motivazione, ogni dichiarazione satisfattiva resa dalla parte lesa"; conforme a Sez. 2, n. 53023 del 23/11/2016, Casti, Rv. 268714 - 01; Sez. 1, n. 5767 del 08/01/2010, Scotuzzi, Rv. 246564).

Nel negare la sussistenza dei presupposti di legge per riconoscere in favore degli imputati l'attenuante del risarcimento del danno, la Corte di appello ha reso una motivazione apodittica che non consente di comprendere le ragioni del diniego.

In ossequio all'orientamento richiamato si reputa non sufficiente il solo riferimento alla denominazione dell'atto di "transazione", comunemente usato nella prassi, per desumere che il ristoro economico riconosciuto dall'istituto di assicurazione alla vittima del reato non sia stato integrale, dovendo il giudice valutare se, per effetto dell'accordo raggiunto con il terzo assicuratore, sia stato corrisposto un ristoro economico totale ed effettivo.

Si ritiene quindi necessario, in accoglimento delle censure difensive contenute nel sesto motivo di ricorso, che il giudice, rivalutando gli aspetti concernenti la richiesta di riconoscimento dell'attenuante in parola, offra adeguata motivazione con riferimento ai profili concernenti la volontarietà del risarcimento e l'integralità o meno di esso.

7. Sulla base di quanto precede, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al punto relativo alla circostanza attenuante del risarcimento dei danni con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Cagliari; i ricorsi sono rigettati nel resto.

Ai sensi dell'art. 624 cod. proc. pen. si dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità degli imputati. Si dispone l'oscuramento dati.

 

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto relativo alla circostanza attenuante del risarcimento dei danni e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d'appello di Cagliari; rigetta i ricorsi nel resto. Visto l'art. 624 cod. proc. pen. dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità degli imputati.
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2024.