Cassazione Civile, Sez. Lav., 26 febbraio 2024, n. 5061 - Ambiente di lavoro stressogeno


 

 

Nota a cura di Serra Dionisio, in Labor on line, 15.04.2024 "Sull’ambiente di lavoro stressogeno: una nuova pronuncia della Cassazione"
 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE


composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia - Presidente

Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere

Dott. ZULIANI Andrea - Consigliere Rel.

Dott. DE MARINIS Nicola - Consigliere

Dott. BUCONI Maria Lavinia - Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA
 


sul ricorso iscritto al n. 8026/2018 R.G. proposto da

Giampaolo CADORIN, elettivamente domiciliato in Roma, via Caroncini n. 27, presso lo studio dell'avv. Marina Wongher, che lo rappresenta e difende unitamente all'avv. Marina Melchiori

- ricorrente -

contro

Comune di San Martino di Lupari, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via Confalonieri n. 5, presso lo studio dell'avv. Andrea Manzi, rappresentato e difeso dall'avv. Marco Zanon

Gerry BORATTO, elettivamente domiciliato in Roma, via Confalonieri n. 5, presso lo studio dell'avv. Andrea Manzi, rappresentato e difeso dagli avv. Paolo Corletto e Giuseppe Dussin

Giuseppe BORTOLINI, elettivamente domiciliato in Roma, via Gregorio VII n. 466, presso lo studio dell'avv. Giuseppe

Salvatore Cossa, che lo rappresenta e difende, unitamente alle avv. Giulia Pividori e Daniela Graziani

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 748/2017, depositata il 4.1.2018 della Corte d'Appello di Venezia;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21.11.2023 dal Consigliere Andrea Zuliani.

 

Fatto


Il ricorrente impugna la sentenza con cui la Corte d'Appello di Venezia, in parziale riforma della decisione di primo grado, rigettò la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa di comportamenti persecutori tendenti al demansionamento asseritamente adottati nei suoi confronti dal Sindaco e dal Segretario del Comune di San Martino di Lupari, presso il quale egli aveva prestato servizio quale funzionario amministrativo contabile categoria D3.

In primo grado, il Tribunale di Padova aveva accolto le domande volte ad accertare l'illegittimità del collocamento in disponibilità del lavoratore, con condanna del Comune al reintegro del lavoratore nelle mansioni svolte (accoglimento già anticipato con provvedimento d'urgenza ante causam) e al pagamento delle differenze retributive nel frattempo maturate. Inoltre, il Tribunale aveva condannato il Comune al pagamento dell'indennità di posizione e di risultato dovuta fino al termine di scadenza della posizione organizzativa di capo Area Economica e Finanziaria (31.12.2009), previo accertamento dell'illegittimità della revoca anticipata di quell'incarico (nell'agosto del 2009).

La sentenza del Tribunale di Padova era stata appellata dal solo lavoratore, per rivendicare il diritto al risarcimento dei danni da demansionamento e da lesione del diritto alla salute, ma venne riformata dalla Corte territoriale solo in punto spese, con condanna del Comune di San Martino di Lupari alla rifusione di un terzo delle spese del giudizio di primo grado, che erano state invece interamente compensate dal Tribunale.

Il ricorso per cassazione è articolato in cinque motivi.

Il Comune di San Martino di Lupari, il Sindaco e il Segretario comunale si sono difesi con separati controricorsi.

Il ricorrente e il Segretario comunale hanno altresì depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell'art. 380-bis.1 c.p.c.
 

Diritto


1. Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", con riferimento allo "svuotamento delle mansioni" che il ricorrente avrebbe subito nell'agosto del 2009, quando gli venne revocata la posizione organizzativa assegnatagli al momento dell'instaurazione del contratto di lavoro.

1.1. Il motivo è inammissibile, in quanto pretende di qualificare in termini di "omesso esame" quella che è invece una critica al risultato dell'esame che la Corte d'Appello ha effettuato circa un fatto allegato dal ricorrente a sostegno delle sue domande. Nella sentenza impugnata l'ipotesi dello "svuotamento delle mansioni" assegnate al ricorrente è stata presa in considerazione ed esclusa, per così dire, a fortiori, nell'ambito del discorso volto ad escludere anche il semplice demansionamento, sul quale si dovrà tornare esaminando il secondo motivo di ricorso per cassazione.

È appena il caso di precisare che lo svuotamento delle mansioni è questione diversa e distinta rispetto a quella della illegittimità della procedura per la dichiarazione di eccedenza di personale ovverosia del collocamento in disponibilità del lavoratore; illegittimità che è stata riconosciuta già dal Tribunale nella sentenza di primo grado (e, anzi, prima ancora, nella fase cautelare), con condanna del Comune alla reintegrazione del ricorrente nella sua posizione lavorativa e al risarcimento del danno. Tale aspetto non è in discussione in questa sede.

Lo svuotamento viene invece prospettato dal ricorrente con riferimento al confronto tra le mansioni a lui assegnate al momento dell'assunzione e quelle da lui svolte dopo la revoca della posizione organizzativa di capo Area Economica e Finanziaria, con assegnazione al settore Commercio Attività Produttive.

Correttamente la Corte d'Appello ha rilevato che il ricorrente "non ha allegato/dimostrato di avere subito il sostanziale svuotamento della propria attività lavorativa e la sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere in relazione alle nuove mansioni assegnategli", essendosi limitato a porre la diversa questione della incoerenza della nuove mansioni rispetto alla propria categoria di inquadramento contrattuale, prospettando che le nuove mansioni assegnate fossero tutte da ricondurre alla categoria immediatamente inferiore.

2. Il secondo motivo di ricorso denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001", per avere la Corte d'Appello ritenuto le mansioni svolte dal ricorrente dal settembre 2009 "equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento", rispetto alle mansioni svolte in precedenza.

2.1. Anche questo motivo è inammissibile.

Il ricorrente imputa alla Corte territoriale di avere affermato l'"equivalenza formale" tra mansioni previste in base all'inquadramento contrattuale in categoria D3 e mansioni assegnate al ricorrente dopo la revoca della posizione organizzativa di capo Area Economica e Finanziaria, sulla base della mera considerazione che il CCNL 31.3.1999 del comparto Regioni ed Autonomie locali classifica il personale dipendente in sole quattro categorie (A, B, C, D), traendone la conseguenza che l'inquadramento D3 non può costituire una categoria autonoma, ma soltanto una posizione economica nell'ambito della categoria D.

Invece, secondo il ricorrente, il giudice del merito non avrebbe dovuto limitarsi a considerare il contenuto del CCNL, dovendo tenere conto anche dello specifico "modello organizzativo" con cui il Comune di San Martino di Lupari avrebbe classificato il proprio personale in sei distinte categorie (A, B, B3, C, D e D3), invece che in quattro. Il ricorrente rileva altresì che tale classificazione del personale in sei categorie troverebbe riscontro anche nel suo contratto individuale di lavoro, ove l'inquadramento in "Categoria D3" precede l'indicazione della "Posizione economica D4".

Sennonché, il ricorso non riproduce e non descrive il contenuto del richiamato "modello organizzativo" con la completezza e la precisione sufficienti per giustificare l'affermazione del ricorrente secondo cui, con la sua adozione, il Comune di San Martino di Lupari avrebbe inteso classificare i propri dipendenti in sei distinte categorie, derogando alla quadripartizione del CCNL. Tale puntuale descrizione del contenuto dell'atto sarebbe stata tanto più necessaria, dal momento che lo stesso ricorrente afferma che il "modello organizzativo" sarebbe stato adottato dal Comune esercitando la facoltà concessa dall'art. 3, comma 6, del CCNL 31.3.1999. Quest'ultimo prevede, sì, che "gli enti identificano i profili professionali non individuati nell'allegato A o aventi contenuti professionali diversi rispetto ad essi", ma anche che "li collocano nelle corrispondenti categorie nel rispetto delle relative declaratorie". Dunque, identificazione di "profili professionali" non previsti per collocarli nelle "corrispondenti categorie" del CCNL; non per creare nuove categorie.

Ne consegue che il mero richiamo all'esercizio della facoltà concessa agli enti locali dall'art. 3, comma 6, non può bastare per avallare la proposta interpretazione del "modello organizzativo" come atto di autonomia regolamentare volto ad ampliare il numero delle categorie di inquadramento del personale previste dal CCNL. Né a tal fine può essere sufficiente il riferimento alla mera indicazione dell'inquadramento nel contratto individuale, il quale comunque certamente non può derogare sul punto alle previsioni della contrattazione collettiva.

In definitiva, il motivo non rispetta il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.), il quale, pur nel necessario rispetto del criterio di proporzionalità, richiede che dei documenti e degli atti processuali sui quali il ricorso si fonda sia riassunto il contenuto o siano trascritti i passaggi essenziali, con l'ulteriore requisito - per l'assolvimento dell'onere di deposito di cui all'art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c. - che del documento e dell'atto, specificamente indicati nel ricorso, deve essere identificata anche la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (Cass S.U. n. 8950/2022; Cass. nn. 12259/2022; 12481/2022; 11325/2023).

3. Il terzo motivo è volto a censurare la "violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c. e 420 c.p.c., nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", con riferimento alla negata sussistenza di condotte vessatorie subite dal ricorrente ed idonee a provocargli un danno alla salute.

3.1. Questo motivo è fondato, per quanto di ragione, nei termini di seguito precisati.

3.1.1. La sentenza non si presta a censure nella parte in cui ha motivato l'accertamento negativo del mobbing lavorativo. Quest'ultimo, secondo l'ormai consolidata definizione di origine giurisprudenziale, "è configurabile ... ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima" (Cass. n. 7641/2022, che richiama anche le precedenti Cass. nn. 12437/2018 e 26684/2017).

La Corte veneziana ha esaminato sia il profilo oggettivo, sia quello soggettivo, giungendo alla conclusione - con apprezzamento di per sé non sindacabile in questa sede - che "gli episodi denunciati dal ricorrente (taluni peraltro in termini assai generici, o addirittura infondati, come il lamentato demansionamento) non sono sintomatici di un preordinato intento persecutorio da parte del Sindaco o dei suoi collaboratori".

Né merita censura il fatto che la Corte territoriale abbia limitato l'indagine agli episodi allegati con il ricorso introduttivo del giudizio, confermando la decisione del Tribunale di negare ingresso a fatti sopravvenuti che il ricorrente avrebbe voluto allegare all'udienza di discussione. Infatti, se è certamente consentito, a determinate condizioni, superare le rigide preclusioni del rito del lavoro per portare nuove prove a dimostrazione della verità dei fatti posti a fondamento della domanda, non altrettanto può dirsi per l'allegazione di episodi sopravvenuti che andrebbe ad alterare "l'esposizione dei fatti ... sui quali si fonda la domanda" (art. 414, n. 4, c.p.c.) contenuta nel ricorso introduttivo (Cass. nn. 31558/2021; 23949/2013).

3.1.2. Ha invece errato, il giudice del merito, laddove ha ritenuto sufficiente escludere la configurabilità del mobbing lavorativo per rigettare totalmente la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore, nonostante l'ambito della responsabilità del datore di lavoro per il pregiudizio alla salute e alla personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) sia ben più ampio di quello occupato dalla specifica, e più grave, fattispecie del mobbing.

Tale carenza è tanto più vistosa dal momento che la Corte d'Appello ha affermato che "i fatti allegati ..., nel loro insieme, sono tali da rappresentare sicuramente una situazione di tensione interpersonale venutasi a creare sul luogo di lavoro tra il ricorrente e l'amministrazione, vissuta dal lavoratore in termini particolarmente gravosi (v. certificazione medica prodotta in causa dal ricorrente)".

La Corte d'Appello non avrebbe dovuto rigettare immediatamente la domanda di risarcimento del danno alla salute pur accennando all'esistenza di una patologia ("v. certificazione medica") dovuta a una "situazione di tensione interpersonale venutasi a creare sul luogo di lavoro".

Questa Corte ha già avuto diverse volte occasione di affermare che la riscontrata assenza degli estremi del mobbing non fa venire meno la necessità di valutare e accertare l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute dei lavoratori.

Infatti, "è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ..., lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ." (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016).

Ciò fermo restando che l'art. 2087 c.c. non prevede un'ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro per i danni subiti dai lavoratori a causa dell'esecuzione della prestazione lavorativa, ma lo onera della prova di avere adottato tutte "le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" (v. Cass. nn. 24804/2023, 34968/2022, 33239/2022, 29909/2021, 14192/2012, 4184/2006).

In tali misure rientra senz'altro la prevenzione e, ove possibile, la rimozione di una "situazione di tensione interpersonale venutasi a creare sul luogo di lavoro" (sulla conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, v. Cass. n. 26684/2017).

3.2. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata sotto questo profilo, con rinvio alla medesima Corte d'Appello perché esamini nuovamente la domanda del ricorrente, in diversa composizione, attenendosi al principio per cui in caso di accertata insussistenza dell'ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un'ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, fermo restando che grava su quest'ultimo l'onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l'ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie.

4. Con il quarto motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 700 c.p.c." laddove la Corte d'Appello ha negato al ricorrente il rimborso delle spese legali affrontate nella fase stragiudiziale che ha preceduto il contenzioso giudiziario.

La Corte d'Appello ha affermato che, trattandosi delle spese legali relative alla tutela stragiudiziale che ha preceduto la domanda cautelare contro il collocamento in disponibilità del lavoratore, il ricorrente avrebbe dovuto proporre la relativa domanda di rifusione nello stesso procedimento cautelare.

4.1. Il motivo è infondato, quantunque la motivazione del rigetto sia errata, perché il dispositivo della sentenza è comunque conforme al diritto, sicché può e deve essere

integrato in questa sede con una diversa motivazione (art. 384, comma 4, c.p.c.).

È chiaro che il provvedimento di accoglimento della domanda cautelare può regolare soltanto le spese del relativo procedimento - e solo qualora si tratti di provvedimento cautelare anticipatorio emesso ante causam (artt. 669-octies, comma 7, c.p.c.) - mentre non potrebbe contenere una condanna al pagamento di ulteriori spese che, in quanto relative all'assistenza stragiudiziale (sia pure riferita alla medesima vicenda), sono estranee alla regolazione delle spese processuali. Quella volta a ottenere il ristoro delle spese di assistenza stragiudiziale è, in sostanza, una ordinaria domanda di condanna al risarcimento dei danni, che - a meno che non si prospetti un pregiudizio irreparabile in caso di ritardato adempimento - non può trovare risposta nel provvedimento d'urgenza. Di conseguenza, la domanda di condannare il Comune alla rifusione delle spese legali di assistenza stragiudiziale non poteva essere considerata preclusa per il fatto di non essere stata proposta nel procedimento cautelare.

Tuttavia, come rileva lo stesso ricorrente, il recupero delle spese per un'assistenza stragiudiziale cui sia seguita l'attività giudiziale è possibile, a titolo di risarcimento del danno, solo se si tratta di spese "necessarie e giustificate", in ossequio al principio generale in materia di responsabilità per danni, limitata ai danni che sono conseguenza diretta dell'illecito (artt. 1223 e 2056 c.c.). Ebbene, il ricorrente nulla deduce per sostenere che le spese di assistenza stragiudiziale da lui sostenute fossero "necessarie e giustificate", nonostante la difesa tecnica nella fase stragiudiziale non sia obbligatoria e, soprattutto, nonostante essa non dia normalmente diritto ad un autonomo compenso al difensore che svolga poi la difesa giudiziale relativa al medesimo affare (v. Cass. n. 24682/2017; Cass. S.U. n. 17357/2009).

5. Infine, il quinto motivo censura la "violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92, nonché del d.m. 10.3.2014, n. 55" nella condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di lite, giudicata eccessiva ed iniqua.

5.1. Il motivo rimane assorbito in conseguenza della cassazione con rinvio della sentenza impugnata, che determina la necessità di una nuova decisione anche sulla regolazione delle spese di lite.

6. Si dà atto che, in base all'esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.


La Corte:

accoglie il terzo motivo di ricorso, per quanto di ragione; dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo, respinge il quarto e dichiara assorbito il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d'Appello di Venezia, in diversa composizione, anche per decidere sulle spese legali del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2023.

Depositata in cancelleria il 26 febbraio 2024.