Cassazione Penale, Sez. 4, 06 maggio 2024, n. 17680 - Infortunio all'interno di un impianto di frantumazione durante la pulizia del nastro trasportatore. Quando il datore di lavoro fa tutto giusto. Responsabilità del dirigente di fatto. Art. 299 D.Lgs. 81


 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta da:

Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente

Dott. VIGNALE Lucia - Relatore

Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere

Dott. D'ANDREA Alessandro - Consigliere

Dott. CIRESE Marina - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

sui ricorsi proposti da:

A.A. nato a S il (omissis)

B.B. nato a C il (omissis)

avverso la sentenza del 24/03/2023 della CORTE APPELLO di ANCONA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere LUCIA VIGNALE;

lette le conclusioni del PG, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI ORSI, che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi;

 

Fatto


1. Con sentenza del 24 marzo 2023, la Corte di appello di Ancona ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Ascoli Piceno il 14 gennaio 2020 nei confronti di B.B. e di A.A.

Il Tribunale aveva affermato la penale responsabilità di B.B. - quale dirigente di fatto della "Tecno Costruzioni e Strade Srl" - per il delitto di cui all'art. 590, commi 1, 2 e 3 cod. pen. in danno del dipendente C.C.(costituitosi parte civile in giudizio) e per la contravvenzione di cui agli artt. 18, comma 1 lett. c) e lett. f), 55, comma 5, lett. c), D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81. Ritenuta la continuazione tra questi reati e concesse le attenuanti generiche, il giudice di primo grado aveva condannato l'imputato alla pena di mesi otto e giorni dieci di reclusione, oltre che al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidarsi in separato giudizio. Aveva invece assolto da ogni accusa, "per non aver commesso il fatto", A.A., imputata, quale legale rappresentante della società, del delitto sopra indicato e di alcuni illeciti contravvenzionali connessi.

La sentenza di primo grado fu impugnata dal difensore di B.B. che si doleva della condanna e, limitatamente alla assoluzione di A.A., anche dal Pubblico ministero. All'esito del giudizio di secondo grado, la Corte di appello ha accolto l'appello del Pubblico ministero, ma non quello proposto dalla difesa di B.B.: ha dichiarato non doversi procedere in relazione agli illeciti contravvenzionali perché estinti per prescrizione, ma ha ritenuto che entrambi gli imputati fossero responsabili del delitto di cui all'art. 590, commi 1, 2 e 3,cod. pen. La pena è stata determinata per A.A. in mesi otto di reclusione e rideterminata per B.B. in anni uno di reclusione. Confermate le statuizioni civili della sentenza di primo grado quanto alla posizione di B.B., anche A.A. è stata condannata al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita.

2. Il procedimento ha ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi ad Acquaviva Picena il 30 gennaio 2017 all'interno di un impianto di frantumazione gestito dalla "Tecno Costruzioni e Strade Srl".

Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, il giorno dei fatti il nastro trasportatore dell'impianto non funzionava bene. Per risolvere il problema, B.B. si avvicinò al macchinario insieme ad C.C. - dipendente della società con mansioni di carpentiere - e mise in movimento il nastro trasportatore facendolo girare a vuoto in modo da ripulirlo dai calcinacci che potevano rallentarlo. C.C. constatò che vi erano dei calcinacci attaccati a un rullo posto nella parte finale del nastro e, con gesto istintivo, utilizzando un varco privo di protezione, cercò di rimuoverli con la mano. L'avambraccio fu afferrato dagli organi in movimento e il lavoratore riportò un "trauma da maciullamento" cui conseguì l'amputazione del terzo prossimale dell'arto superiore destro.

2.1. Ai fini del presente ricorso rileva soltanto l'imputazione di cui all'art. 590 commi 1, 2 e 3jCod. pen. della quale A.A. e B.B. sono accusati: la prima, quale legale rappresentante; il secondo, quale dirigente di fatto della società.

Secondo l'accusa, A.A., datrice di lavoro dell'infortunato, avrebbe causato le lesioni occorse a C.C. per colpa generica e specifica e, in particolare, per aver violato:

- l'art. 18, comma 1, lett. f), D.Lgs. n.81/08 che impone al datore di lavoro di pretendere "l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione";

- l'art. 71, comma 7, lett. b) del medesimo decreto, in base al quale, il datore di lavoro deve prendere le misure necessarie affinché i lavori di riparazione, trasformazione o manutenzione di attrezzature che richiedono "per il loro impiego conoscenze o responsabilità particolari in relazione ai loro rischi specifici" siano svolti da lavoratori "qualificati in maniera specifica per svolgere detti compiti".

Il capo di imputazione attribuisce a B.B. la posizione di "dirigente di fatto" ai sensi dell'art. 299 D.Lgs. n. 81/08 e gli contesta: di aver affidato a C.C. compiti che non era formato a svolgere; di non aver preteso che egli si attenesse alle disposizioni aziendali in materia di sicurezza in violazione dell'art. 18, comma 1, lett. c) e lett. f),D.Lgs. n. 81/08.

Il Tribunale ha ritenuto la responsabilità di B.B. riconoscendogli la qualifica di dirigente di fatto e di responsabile della sicurezza e sottolineando che, al momento dell'infortunio, C.C. stava operando sotto la sua supervisione. La sentenza di primo grado osserva, in particolare (pag. 14 della motivazione), che B.B. consentì al lavoratore "di rimanere vicino alla macchina accesa in un momento in cui era possibile accedere direttamente al punto in cui si trovava l'ostruzione"; consentendo così, nei fatti, al lavoratore di agire direttamente sulla stessa ed entrare in contatto con gli organi lavoratori. Secondo il Tribunale, l'istintivo comportamento del lavoratore era prevedibile, rientrava nella sfera di rischio che il dirigente di fatto era chiamato a governare, e avrebbe dovuto essere impedito non consentendo a C.C. di avvicinarsi agli organi lavoratori in movimento, resi accessibili dalla rimozione della griglia di protezione che, di regola, chiudeva il varco nel quale l'infortunato introdusse la mano.

Avendo ascritto l'incidente ad una contingente violazione di obblighi di sicurezza da parte del dirigente di fatto, il Tribunale ha assolto A.A. dalle imputazioni a lei ascritte.

Ha sottolineato a tal fine:

- che, secondo quanto previsto dal Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) predisposto dalla A.A. quale datrice di lavoro, le operazioni di manutenzione dovevano essere svolte ad organi fermi e l'impianto era fornito di un dispositivo che permette il movimento a velocità ridotta o ad intermittenza (pag. 6 della motivazione);

- che A.A. rivestiva un ruolo meramente formale e, di fatto, l'impianto era diretto dal padre B.B., al quale era stato anche conferito l'incarico di responsabile della sicurezza (pag. 15 della motivazione);

- che il verificarsi dell'infortunio non fu determinato da un problema strutturale dell'impianto - i cui organi lavoratori erano protetti da una griglia che qualcuno aveva rimosso - e neppure dalla mancata formazione del lavoratore, ma dal fatto che B.B., dirigente di fatto, si rese inadempiente ai propri obblighi (pag. 16 della motivazione).

In sintesi, la sentenza di primo grado ha ritenuto che la condotta omissiva de dirigente di fatto sia stata causa esclusiva dell'evento.

2.2. Contro la sentenza del Tribunale hanno proposto appello il difensore di B.B. e il Pubblico ministero. Il primo, ha chiesto l'assoluzione sottolineando che l'impianto era conforme alle norme in materia di sicurezza e l'infortunio fu reso possibile da un comportamento abnorme e imprevedibile de lavoratore il quale, inopinatamente, infilò la mano negli ingranaggi in movimento, Il secondo, ha chiesto l'affermazione della penale responsabilità di A.A. osservando che, ai sensi dell'art. 299 D.Lgs. n. 81/08, la condotta colposa de dirigente di fatto non esclude la responsabilità del datore di lavoro.

La Corte di appello ha rinnovato l'istruttoria dibattimentale, esaminando testimoni le cui dichiarazioni erano state riportate nella sentenza di primo grado All'esito, ha affermato la responsabilità di entrambi gli imputati per l'infortunio accorso a C.C.

Nell'esaminare la posizione di B.B., la Corte territoriale ha richiamato (facendole proprie) le argomentazioni sviluppate dalla sentenza di primo grado e ha sottolineato (pag. 13 della motivazione): che egli svolgeva d fatto mansioni organizzative e direttive proprie del datore di lavoro; dava disposizioni ai dipendenti circa i compiti da svolgere; si occupò in prima persone di verificare le ragioni del malfunzionamento del nastro trasportatore; si fece affiancare da C.C. nel compimento di tali attività; era nelle immediate vicinanze del luogo ove si verificò l'infortunio.

Con riferimento alla posizione di A.A. la Corte territoriale ha osservato:

- che la responsabilità di B.B. non esclude quella della figlia, la quale era legale rappresentante della società e, oltre ad essere datore di lavoro, aveva assunto la qualifica di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) (pag. 14 delia motivazione);

- che, pur non presente costantemente nello stabilimento, l'imputata "svolgeva le mansioni proprie di un datore di lavoro (si occupava di assunzioni, pagamenti, dava disposizioni ai dipendenti, anche raccomandando loro di fare "attenzione")" (pag. 14 e 15 della motivazione);

- che l'obbligo del rispetto della normativa antinfortunistica "discende direttamente dall'assunzione formale del ruolo di datore di lavoro" e non viene meno "per il fatto che il ruolo rivestito sia meramente apparente" (pag. 15 della motivazione).

La Corte di appello riferisce (pag. 19) che vi è in atti una lettera del 19 dicembre 2016 con la quale A.A. ha attribuito al padre B.B. l'incarico di ""preposto" ai fini della sicurezza". Ritiene, tuttavia, che questa lettera non possa essere considerata quale delega di funzioni efficace ai sensi dell'art. 16 D.Lgs. n. 81/08. La sentenza non riporta il contenuto della lettera, ma afferma che "considerato il tenore e, soprattutto, la mancanza di attribuzione al preposto dei necessari poteri", questo documento "non appare idoneo al trasferimento di obblighi in materia antiinfortunistica" (pag. 20 della motivazione).

Avendo ritenuto che nessuna delega fosse stata formalmente conferita da A.A. al padre B.B., la Corte di appello ha sottolineato:

- che l'imputata non pose "in essere alcuna vigilanza" e, nella sostanza, si disinteressò del rispetto degli obblighi in materia di prevenzione (pag. 20 della motivazione);

- che, quale datrice di lavoro, ella aveva l'obbligo di formare e informare i dipendenti riguardo a tutte le attività che gli stessi potevano essere chiamati a svolgere;

- che tale dovere trova fondamento, oltre che nelle disposizioni del D.Lgs. n. 81/08, anche nella "disposizione generale di cui all'art. 2087 cod. civ., norma "di chiusura" del sistema" (pag. 21 della motivazione).

La Corte territoriale ha escluso che il comportamento dell'infortunato, per quanto imprudente, possa considerarsi abnorme e imprevedibile, osservando che egli si fece male mentre svolgeva mansioni che gli erano state affidate e che il rischio concretizzatosi era tra quelli che il datore di lavoro e il dirigente di fatto erano chiamati a prevenire.

3. Entrambi gli imputati, per mezzo del comune difensore, hanno proposto tempestivo ricorso contro la sentenza della Corte di appello. Il ricorso consta di cinque motivi (il terzo dei quali articolato in più punti).

3.1 Col primo motivo la difesa dei ricorrenti sostiene che la sentenza di primo grado sarebbe affetta da nullità assoluta ai sensi dell'art. 179 cod. proc. pen. per essere stato violato l'art. 17, comma 3, D.Lgs. 13 luglio 2017, n. 116. La difesa riferisce che, nel corso del giudizio di primo grado, le funzioni di pubblico ministero d'udienza furono svolte da un vice procuratore onorario e ricorda che, in base alla disposizione citata, i vice procuratori onorari possono svolgere funzioni di pubblico ministero, per delega del procuratore della Repubblica, "nei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica, ad esclusione di quelli relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro". Secondo la difesa, tale divieto ha carattere assoluto e pone un limite invalicabile alla possibilità di delegare il viceprocuratore onorario a svolgere in udienza le funzioni di pubblico ministero. Comporta, dunque, una nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, perché "afferente all'iniziativa dell'ufficio del pubblico ministero" nell'esercizio dell'azione penale.

3.2. Col secondo motivo, la difesa deduce inosservanza o errata applicazione dell'art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. Rileva che la Corte di appello ha riformato la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale nei confronti di A.A. procedendo a nuovo esame di alcuni testimoni, ma senza risentire il teste D.D., titolare di una ditta esterna incaricata della manutenzione dell'impianto. Secondo la difesa, si tratta di una prova decisiva perché dimostra che la datrice di lavoro aveva affidato i lavori di manutenzione a una ditta esterna (quindi al personale specializzato operante alle dipendenze di quella ditta) e, pertanto, non aveva l'obbligo di formare i propri dipendenti allo svolgimento di attività manutentive, né poteva prevedere che attività di questo tipo sarebbero state svolte in proprio. Muovendo da tali considerazioni, la difesa sostiene che, per poter accogliere l'impugnazione proposta dal Pubblico ministero, la Corte di appello avrebbe dovuto procedere a nuovo esame diD.D. La sentenza di condanna si fonda, infatti, sull'assunto che C.C. si sia infortunato mentre svolgeva attività di manutenzione,, ma dalle dichiarazioni rese dal teste emerge che tali attività venivano svolte dai suoi dipendenti e non dai dipendenti della "Tecno Costruzioni e Strade Srl".

3.3. Col terzo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione della sentenza impugnata sia sotto il profilo della contraddittorietà o manifesta illogicità, sia sotto il profilo del travisamento della prova.

Osserva in particolare:

- che la Corte di appello ha attribuito l'infortunio a responsabilità degli imputati, sostenendo che l'incidente si verificò mentre era in corso una attività di manutenzione il cui contenuto non è stato precisato;

- che, con tale affermazione, la Corte di appello ha introdotto nel processo una informazione che non esiste, "atteso che non vi era manutenzione in corso, tantomeno nel punto in cui l'operaio ha intruso il braccio";

- che, avendo ipotizzato lo svolgimento di attività di manutenzione, la Corte territoriale ha anche sostenuto che l'infortunato svolgeva per la prima volta tale attività alla quale non era formato;

- che C.C. ha dichiarato di aver lavorato più volte (almeno venti o trenta) nell'impianto di frantumazione e ha descritto il compito che gli era assegnato, attinente al ciclo della lavorazione, ma non ad attività di tipo manutentivo.

Nel censurare la motivazione della sentenza impugnatala difesa rileva che, secondo la Corte territoriale, B.B. incaricò C.C. di compiere attività di manutenzione e, quindi, di pulire il rullo, ma anche questo dato non esiste nel processo, atteso che lo stesso C.C. ha dichiarato di aver agito istintivamente, senza aver ricevuto alcuna indicazione da parte di A.A. o di altri, dopo essersi reso conto che c'erano calcinacci attaccati a un rullo. Secondo la difesa, poiché ha considerato l'inserimento della mano nell'ingranaggio come parte di una attività di manutenzione, la sentenza impugnata ha ignorato le dichiarazioni dell'infortunato e travisato l'esito dell'istruttoria dibattimentale lasciando intendere - in contrasto con le emergenze istruttorie - "che, quella dell'inserimento del braccio, fosse un'operazione di manutenzione richiesta da B.B.".

Sotto diverso profilo, la difesa osserva che il riferimento ad attività di manutenzione in corso è stato determinato anche dalle dichiarazioni rese dall'infortunato in sede di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. Quando è stato sentito dalla Corte di appello, infatti, l'infortunato ha sostenuto, per la prima volta, che il nastro trasportatore aveva due cinghie bruciate e fu necessario sostituirle. La difesa osserva: in primo luogo, che nessuno dei testimoni esaminati dalla Corte di appello ha confermato questo dato; in secondo luogo, che, quand'anche la sostituzione delle cinghie fosse stata necessaria, tale attività sarebbe stata svolta comunque a molti metri di distanza dal punto nel quale si verificò l'infortunio e anche C.C. ha reso dichiarazioni in tal senso. Il difensore sottolinea che, facendo riferimento alla sostituzione delle cinghie - della quale non aveva mai parlato prima -, la parte civile ha accreditato la tesi secondo la quale al momento del fatto erano in corso attività di manutenzione e sostiene che ciò avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a dubitare dell'attendibilità dell'infortunato o, comunque, a motivare sul punto.

3.4. Col quarto motivo, la difesa deduce violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e)cod. proc. pen. quanto all'affermazione della penale responsabilità di A.A.. Secondo la difesa, la Corte territoriale avrebbe dovuto spiegare in che modo le norme di prevenzione infortuni che l'imputata è accusata di aver violato abbiano potuto avere rilevanza causale nel verificarsi dell'evento anche alla luce del documento acquisito agli atti, dal quale risulta che la A.A. aveva conferito al padre B.B. "incarico di preposto". La motivazione sul punto, invece, sarebbe carente.

La difesa riferisce che, nella lettera di incarico, era stato attribuito a B.B. il compito di "sovraintendere e vigilare" sull'osservanza da parte dei lavoratori degli obblighi in materia di sicurezza; di "verificare che solo i lavoratori adeguatamente formati" accedessero alle zone di grave rischio e pericolo; di adempiere agli obblighi di informazione e formazione. Secondo la difesa, si tratta di una delega idonea a conferire ampi poteri di intervento, protezione e controllo e a questa delega si accompagnavano poteri di spesa. Ciò trova conferma nelle dichiarazioni rese da E.E. (figlio di B.B. e fratello di A.A.). Come risulta dalla sentenza di primo grado, infatti, egli ha dichiarato che l'impianto di triturazione era stato creato dal padre ed era il padre a gestirlo, occupandosi, con pieni poteri, del concreto svolgimento dell'attività lavorativa. A fronte di ciò, la Corte di appello si è limitata ad affermare, senza spiegare tale affermazione, che la lettera di incarico non conferiva a B.B. i poteri necessari al "trasferimento di obblighi in materia antinfortunistica".

3.5. Col quinto motivo, la difesa lamenta manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con la quale è stata esclusa l'abnormità della condotta del lavoratore.

OSSERVA:

- che C.C. si inginocchiò per raggiungere un pertugio rimasto aperto a seguito della rimozione di una griglia di protezione e inserì la mano in uno spazio di circa dieci centimetri venendo a contatto con un rullo in movimento;

- che, come lo stesso infortunato ha riconosciuto, si trattò di un atto spontaneo che B.B. non aveva richiesto;

- che quel gesto non era prevedibile né per il preposto (o dirigente di fatto) né per la datrice di lavoro;

- che la sentenza impugnata non ha spiegato perché il rispetto delle norme di prevenzione indicate nel capo di imputazione avrebbe impedito l'evento, ma si è limitata a far riferimento all'art. 2087 cod. civ. quale fonte di un generico dovere, gravante sul datore di lavoro, di garantire la sicurezza assoluta dei lavoratori.

4. Con memoria scritta tempestivamente depositata il Procuratore generale ha concluso per l'inammissibilità di tutti i motivi di ricorso

 

Diritto


1. Il ricorso merita accoglimento, quanto alla posizione di A.A., nei termini che saranno di seguiti precisati. Non merita accoglimento, invece, quanto alla posizione di B.B.

2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. La circostanza che, nel corso del giudizio di primo grado, le funzioni di pubblico ministero d'udienza siano state svolte da un viceprocuratore onorario in violazione dell'art. 17, comma 3, D.Lgs. n. 116/2017 non è idonea ad integrare una nullità assoluta ai sensi dell'art. 179 cod. proc. pen. perché non riguarda l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale.

Secondo la difesa, nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 cod. pen. commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la delega conferita da! procuratore della Repubblica al viceprocuratore onorario sarebbe "inutiliter data" e, quindi, inesistente. La difesa dimentica, però, che la dedotta violazione di legge non ha ad oggetto l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale bensì la sua partecipazione al procedimento. Si tratta, dunque, di una nullità a regime intermedio, rilevante ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. Una nullità che avrebbe dovuto essere dedotta nei modi e nei termini previsti dall'art. 180 cod. proc. pen. - vale a dire, con l'atto di appello, subito dopo la deliberazione della sentenza di primo grado - ed è stata dedotta invece, con eccezione tardiva, soltanto in sede di ricorso per cassazione.

In tal senso la giurisprudenza di questa Corte si è già pronunciata: in un processo per violazione dell'art. 615 ter cod. pen. attribuito al pubblico ministero distrettuale dall'art. 51, comma 3 quinquies, cod. proc. pen. nel corso del quale la pubblica accusa era stata rappresentata in udienza da un viceprocuratore onorario cui non risultava essere stata conferita delega ai sensi dell'art. 162 D.Lgs. 28 luglio 1989 n. 271 (Sez. 5, n. 37524 del 14/10/2020, Ambrosino, Rv 280077); in un caso in cui un viceprocuratore onorario sprovvisto di delega era intervenuto in udienza quale rappresentante dell'ufficio di procura di fronte al Tribunale in composizione monocratica (Sez. 1, n. 22409 del 30/03/2007, Busso, Rv. 236928); in un caso di carenza di delega in capo al viceprocuratore onorario intervenuto in un processo di fronte al giudice di pace (Sez. 5, n. 6216 del 24/11/2015, dep. 2016, Colosimo, Rv. 266097).

3. Non ha maggior pregio il secondo motivo, col quale la difesa deduce inosservanza dell'art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. per non essere stata disposta, in sede di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, una nuova audizione del teste D.D. che era stato sentito nel corso del giudizio di primo grado quale titolare di una ditta esterna incaricata della manutenzione dell'impianto.

Com'è stato chiarito dalle Sezioni unite, con la sentenza n. 14426 del 28/1/2019, Pavan, Rv. 275112, (pag. 19 della motivazione), la prova della quale l'art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. impone la rinnovazione, "deve avere le seguenti caratteristiche: a) può avere ad oggetto sia dichiarazioni percettive che valutative, perché la norma non consente interpretazioni restrittive di alcun genere; b) deve essere espletata a mezzo del linguaggio orale (testimonianza; esame delle parti; confronti; ricognizioni), perché questo è l'unico mezzo che garantisce ed attua i principi di oralità ed immediatezza: di conseguenza, in essa non possono essere ricompresi quei mezzi di prova che si limitano a veicolare l'informazione nel processo attraverso scritti o altri documenti (art. 234 c.p.p.); c) deve essere decisiva, essendo stata posta dal giudice di primo grado a fondamento dell'assoluzione; (...) d) di essa il giudice di appello deve dare una diversa valutazione".

Quanto al concetto di decisività, la sentenza Pavan ha richiamato i principi già espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267491 secondo la quale (pagg. 16 e ss.): "ai fini della valutazione del giudice di appello investito di una impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione, devono ritenersi prove dichiarative "decisive" quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio, e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso del materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee a incidere sull'esito del giudizio di appello, nell'alternativa "proscioglimento-condanna"". Secondo la sentenza Pavan, sono ugualmente "decisive" le prove dichiarative che, "ritenute di scarso o nullo valore probatorio dal primo giudice, siano, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti, da sole o insieme ad altri elementi di prova, ai fini dell'esito di condanna". Non è "decisivo", invece, "un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell'affermazione della responsabilità".

Applicando questi principi al caso che ci occupa, si deve osservare che le dichiarazioni rese dal teste D.D. non sono state neppure citate nella sentenza di primo grado, secondo la quale A.A. doveva essere assolta perché, al dì là della qualifica formalmente rivestita, aveva affidato al padre la gestione dell'impianto e l'infortunio era stato determinato dall'attivarsi di un rischio che, essendo presente in loco, solo B.B. poteva controllare e prevenire. Nel giungere a conclusioni differenti, la Corte territoriale non ha compiuto una diversa valutazione delle dichiarazioni di D.D.. In particolare, non ha escluso che l'impianto fosse oggetto di regolare manutenzione affidata a una ditta esterna, ma si è limitata a constatare che, nel giorno in cui si verificò l'infortunio, il nastro trasportatore aveva presentato anomalie di funzionamento. Poiché non è controverso che quel giorno la ditta di manutenzione non sia stata chiamata e non è controverso che questo sia dipeso da una scelta di B.B., non si comprende perché sarebbe stato decisivo per la Corte di appello procedere a nuova audizione del titolare della ditta incaricata della manutenzione, le cui dichiarazioni non erano state citate nella sentenza di primo grado, non erano state valutate decisive ai fini del proscioglimento dell'imputata e non sono state oggetto di diversa valutazione ai fini della condanna.

Nell'affermare la penale responsabilità di A.A., infatti, la Corte di appello non ha sostenuto che la valutazione dei rischi connessi alla manutenzione dell'impianto non fosse adeguata. Ha osservato invece: che il ruolo di dirigente di fatto svolto da B.B. non era idoneo a liberare da responsabilità la legale rappresentante della società e che, non avendo validamente delegato lo svolgimento di compiti di prevenzione, A.A. era tenuta a svolgerli in prima persona, pretendendo l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e adottando le misure necessarie affinché i lavori di riparazione, trasformazione o manutenzione delle attrezzature fossero svolti esclusivamente da lavoratori appositamente formati (art. 18, comma 1, lett. f) e art. 71, comma 7, lett. b) D.Lgs. n. 81/08).

In sintesi: la prova dichiarativa della cui mancata rinnovazione la difesa si duole non è stata oggetto di differente valutazione da parte del giudice di primo grado e dei giudici di appello sicché non si tratta di una prova decisiva la cui rinnovazione sarebbe stata necessaria ai sensi dell'art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen.

4. Col terzo motivo, i ricorrenti deducono vizi di motivazione della sentenza impugnata, sia sotto il profilo della contraddittorietà o manifesta illogicità che sotto il profilo del travisamento della prova. Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, al momento del fatto erano in corso attività di manutenzione, disposte da B.B. per rimediare al malfunzionamento del nastro trasportatore e la difesa sostiene che, giungendo a questa conclusione, i giudici di merito avrebbero dato per certo un dato che non esiste nel processo. Quel giorno, infatti, l'impianto di frantumazione aveva regolarmente operato; C.C. vi aveva lavorato, come già aveva fatto altre volte, nel rispetto delle proprie mansioni di carpentiere; nessuno gli aveva dato incarico di pulire i rulli del nastro trasportatore. A sostegno di tali argomentazioni, la difesa sottolinea che lo stesso infortunato ha ammesso di aver agito istintivamente, staccando con le mani alcuni calcinacci rimasti attaccati ad un rullo.

Le sentenze di primo e secondo grado (concordi sul punto) riferiscono che l'infortunio si verificò nel primo pomeriggio, dopo la pausa pranzo. Richiamano in tal senso (valutandole attendibili) le dichiarazioni dell'infortunato secondo il quale, nel corso della mattinata, il nastro trasportatore "non funzionava tanto bene" (pag. 1 della sentenza di primo grado) e per questo, dopo il pranzo, quando l'impianto fu acceso, si decise di farlo funzionare a vuoto. Non risulta che su questo punto C.C. abbia reso dichiarazioni differenti nel corso delle deposizioni rese in primo e secondo grado e i ricorrenti non contestano, per questa parte, la ricostruzione dei fatti fornita dall'infortunato. La difesa non contesta neppure che, dopo aver riavviato il nastro, B.B. si sia avvicinato ad esso insieme a C.C. per verificare se i problemi riscontrati fossero risolti. I giudici di merito hanno concordemente ritenuto che la pulizia del nastro - ancorché realizzata riavviandolo e facendolo girare a vuoto - sia una attività di manutenzione e tale conclusione non è contraddittoria né manifestamente illogica.

La circostanza che, in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, C.C. abbia riferito che c'erano due cinghie bruciate non è stata neppure menzionata dalla sentenza di appello sicché sulla stessa non è necessario soffermarsi. Non è per questo, infatti, che i giudici di merito hanno parlato di una manutenzione in corso, ma piuttosto perché C.C. ha riferito che il nastro non funzionava bene e ciò indusse B.B. a disporre che fosse fatto girare a vuoto. Non è controverso, inoltre, che, al momento del fatto, la griglia di protezione che avrebbe dovuto inibire l'accesso agli organi lavoratori in movimento e chiudere il varco nel quale C.C. infilò la mano non fosse in sede perché qualcuno l'aveva rimossa. Come emerge dalla lettura delle sentenze di primo e secondo grado, non si è accertato in giudizio quando ciò fosse avvenuto e ad opera di chi. Tuttavia, nessun profilo di contraddittorietà o manifesta illogicità può essere ravvisato nell'aver ritenuto una tale rimozione compatibile con un temporaneo malfunzionamento del nastro trasportatore e con la necessità di accertarne le cause.

A pag. 23 del ricorso, la difesa sostiene che, secondo i giudici di appello, l'infortunato inserì la mano tra il rullo e il nastro compiendo una "operazione di manutenzione richiesta da B.B.", ma questa affermazione è smentita dalla lettura del provvedimento impugnato. I giudici di appello, infatti, si sono limitati a constatare (come già aveva fatto il giudice di primo grado): che l'infortunio si verificò mentre il nastro trasportatore girava a vuoto; che, secondo le attendibili dichiarazioni dell'infortunato, B.B. aveva deciso di procedere in tal senso perché il nastro non scorreva e doveva essere pulito; che, in quel momento, la griglia di protezione posta in corrispondenza di uno dei rulli non era in sede.

Le sentenze di primo e secondo grado sono concordi per quanto riguarda la ricostruzione dei fatti e rilevano: che C.C. si avvicinò alla macchina accesa insieme a B.B.; che la rimozione della griglia di protezione consentiva di raggiungere gli organi lavoratori in movimento; che C.C. si accovacciò per guardare attraverso il varco lasciato aperto dalla rimozione della griglia, si accorse della presenza di calcinacci attaccati al rullo e, con gesto istintivo, cercò di rimuoverli con la mano; che, nel momento in cui questo avvenne, B.B. si trovava a poca distanza dal proprio dipendente: avrebbe quindi potuto e dovuto impedirgli di avvicinarsi agli organi lavoratori non protetti.

La difesa non contesta questa ricostruzione dei fatti e tuttavia sostiene il travisamento della prova, osservando che, diversamente da quanto sostenuto dai giudici di merito, C.C. non stava svolgendo attività di manutenzione, ma era addetto al ciclo produttivo in un impianto nel quale - per sua stessa ammissione - aveva lavorato almeno venti o trenta volte (pag. 19 e 20 del ricorso). Secondo la prospettazione difensiva, la decisione sarebbe frutto di travisamento della prova perché "non vi era manutenzione in corso, tantomeno nel punto in cui l'operaio ha intruso il braccio" (pag. 18 del ricorso).

4.1. Come è stato recentemente chiarito: "il vizio di "contraddittorietà processuale" (o "travisamento della prova") vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e avalutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di reinterpretazione nel merito dell'elemento di prova" (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370).

Nel caso di specie, non è possibile sostenere che sia stata omessa la valutazione di elementi probatori acquisiti nel processo e potenzialmente decisivi, sicché deve essere escluso il vizio di travisamento della prova per omissione (cfr. Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, P., Rv. 278457). Non può ritenersi, inoltre, che siano state introdotte nella motivazione informazioni che non esistono nel processo e, dunque, non si può sostenere che il dato probatorio sia stato trasposto in modo inesatto nel ragionamento del giudice di merito o distorto nel suo significato. La difesa contesta, infatti, che possa essere qualificata come attività di manutenzione la pulizia di un nastro trasportatore resa necessaria dalla constatata difficoltà di movimento del nastro stesso e contesta che all'infortunato fossero stato affidati compiti operativi mentre tale attività era in corso. Le censure formulate, dunque, si riferiscono in parte alla qualificazione giuridica della attività in corso e, in altra parte, si esauriscono nella richiesta di una rilettura degli elementi di prova, inammissibile nel giudizio di legittimità. Ed invero, l'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. non consente, neppure dopo la modifica apportata dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell'apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito.

5. Un ulteriore vizio di motivazione dedotto col terzo motivo riguarda la ritenuta attendibilità del lavoratore infortunato, che è stato sentito come testimone sia in primo grado che in grado di appello. La difesa osserva che, quando è stato sentito dalla Corte di appello, C.C. ha parlato della rottura di due cinghie di trasmissione alla quale non aveva mai fatto riferimento prima, cosi accreditando la tesi secondo la quale, al momento del fatto, erano in corso attività di manutenzione. Sostiene che questo avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a dubitare dell'attendibilità dell'infortunato o, comunque, a spiegare perché le sue dichiarazioni sono state valutate credibili.

Il motivo è infondato. Già il giudice di primo grado aveva qualificato le attività che erano in corso al momento dell'infortunio quali attività di manutenzione. Tale qualificazione trova fondamento nel fatto che, secondo l'infortunato, il nastro trasportatore non girava bene e perciò, dopo essere stato spento nella pausa pranzo, era stato riavviato a vuoto. Su questo punto, l'infortunato ha reso dichiarazioni sempre coerenti e - come i giudici di merito hanno osservato - tali dichiarazioni trovano conferma nelle modalità dell'incidente riferite dai testimoni intervenuti in soccorso del ferito e nella constatazione che, nel punto in cui l'incidente si verificò, la griglia di protezione era stata rimossa.

La sentenza impugnata non fa alcun riferimento alla sostituzione delle cinghie che, all'evidenza, non è stata considerata rilevante ai fini della decisione perché non fu C.C. a compierla e perché, come l'infortunato ha chiarito, le due cinghie si trovavano a circa dieci metri di distanza dal luogo dell'infortunio. Se ne desume che la Corte di appello ha valutato irrilevante il particolare della rottura delle cinghie aggiunto dall'infortunato nella propria narrazione solo nel giudizio di secondo grado. Su questo punto, peraltro, il ricorso non è autosufficiente perché non documenta che le dichiarazioni relative alla sostituzione delle cinghie siano state smentite dai testimoni esaminati in appello.

6. Per ragioni di logica espositiva deve essere esaminato adesso il quinto motivo, col quale la difesa dei ricorrenti sostiene che l'infortunio fu determinato in via esclusiva dall'imprudente comportamento del lavoratore, qualificabile come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento perché idoneo ad attivare un rischio eccedente rispetto a quello che gli imputati erano chiamati a governare.

Il motivo è infondato. Per giurisprudenza costante, un comportamento, anche avventato, del lavoratore, se realizzato mentre egli è dedito al lavoro affidatogli, può essere invocato come imprevedibile o abnorme solo se il datore di lavoro ha adempiuto tutti gli obblighi che gli sono imposti in materia di sicurezza sul lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande A., Rv. 214999; Sez. 4, n. 1588 del 10/10/2001, Russello, Rv. 220651; Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne, Rv. 259227; Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386). A questo proposito, la giurisprudenza più recente ha opportunamente sottolineato che in tema di prevenzione antinfortunistica, perché il comportamento colposo del lavoratore possa ritenersi abnorme e idoneo ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del titolare della posizione di garanzia e l'evento lesivo, "è necessario non tanto che esso sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia" (Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023, Cimolai, Rv. 284237; Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, Vigo, Rv. 281748; Sez. 4, n. 5794 del 26/01/2021, Chierichetti, Rv. 280914). Ponendosi in questa prospettiva, si è affermato che il comportamento negligente, imprudente e imperito tenuto dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni a lui affidate può costituire concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, solo se questi "ha posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (Fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro in quanto la mancata attuazione delle prescrizioni contenute nel Pos e la mancata informazione del lavoratore avevano determinato l'assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati al lavoratore infortunato)" (Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, Simeone, Rv. 276242).

6.1. Tanto premesso, si deve osservare che la necessità di ripulire dai calcinacci un nastro trasportatore facente parte di un impianto di frantumazione non è certamente remota o imprevedibile e che, al momento dell'infortunio, B.B. aveva deciso di far girare il nastro trasportatore a vuoto (senza caricarvi materiale) proprio perché non funzionava bene ed era necessario ripulirlo.

È doveroso, inoltre, ricordare che, ai sensi dell'art. 69, lett. b) D.Lgs. 81/08, si intende per "uso di una attrezzatura da lavoro" qualsiasi "operazione lavorativa connessa" a quella attrezzatura e quindi: "la messa in servizio o fuori servizio, l'impiego, il trasporto, la riparazione, la trasformazione, la manutenzione, la pulizia, il montaggio, lo smontaggio". A ciò deve aggiungersi che, ai sensi dell'art. 73, comma 1, D.Lgs. n. 81/08, i lavoratori incaricati dell'uso di un'attrezzatura devono disporre di ogni necessaria informazione e istruzione e ricevere una formazione e un addestramento adeguati, in rapporto alla sicurezza, non solo relativamente "alle condizioni di impiego" dell'attrezzatura, ma anche con riferimento "alle situazioni anormali prevedibili".

Nel caso in esame, l'infortunio fu reso possibile dal fatto che a C.C. fu consentito di avvicinarsi al nastro trasportatore in movimento ancorché la grata destinata a proteggere gli organi lavoratori fosse stata rimossa, ciò che rendeva la macchina non più conforme alle norme in materia di sicurezza. Ne consegue che non furono adottate tutte le cautele necessarie a governare il rischio dell'imprudente esecuzione da parte del lavoratore infortunato dei compiti a lui assegnati, compiti ai quali non era estranea la pulizia del macchinario che, in quel momento, era in corso.

A questo proposito è doveroso richiamare il contenuto dell'allegato V al D.Lgs. n. 81/08 (richiamato dagli artt. 70 e 71 del medesimo decreto) in base al quale:

- "Le operazioni di manutenzione devono poter essere effettuate quando l'attrezzatura di lavoro è ferma. Se ciò non è possibile, misure di protezione appropriate devono poter essere prese per l'esecuzione di queste operazioni, oppure esse devono poter essere effettuate al di fuori delle zone pericolose" (punto 11.1. della prima parte);

- "Nelle macchine con cilindri lavoratori e alimentatori accoppiati e sovrapposti, o a cilindro contrapposto a superficie piana fissa o mobile, quali laminatoi, rullatrici, calandre, molini a cilindri, raffinatrici, macchine tipografiche a cilindri e simili, la zona di imbocco, qualora non sia inaccessibile, deve essere efficacemente protetta per tutta la sua estensione, con riparo per impedire la presa

e il trascinamento delle mani o di altre parti del corpo del lavoratore" (punto 5.9.1. della seconda parte).

Si deve ricordare, inoltre, che l'allegato VI al citato D.Lgs. disciplina l'uso dei macchinari e prevede, al punto 1.6., il divieto di pulire a mano "gli organi e gli elementi in moto di attrezzature di lavoro, a meno che ciò non sia richiesto da particolari esigenze tecniche", disponendo che in questi casi (dunque in casi simili a quello in esame) debba "essere fatto uso di mezzi idonei ad evitare ogni pericolo".

Per quanto riguarda la posizione di B.B. a ciò deve aggiungersi che, come i giudici di merito hanno sottolineato, quel giorno egli era presente sul posto, sovraintendeva in concreto allo svolgimento del lavoro e si avvicinò al nastro trasportatore insieme a C.C. Pertanto (sia che gli si attribuisca la qualità di preposto che quella di dirigente di fatto), egli era certamente in condizione di governare il rischio che si concretizzò: poteva e doveva impedire al lavoratore di avvicinarsi a un macchinario dal quale erano state rimosse le necessarie protezioni; poteva e doveva vigilare affinché non fosse violato il divieto di compiere operazioni su organi in movimento, espressamente sancito, anch'esso, dall'allegato VI al D.Lgs. n. 81/08 (punto 1.6.2.).

7. Si deve esaminare adesso il quarto motivo di ricorso che si riferisce alla posizione di A.A.. Con questo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione della sentenza impugnata quanto all'affermazione della penale responsabilità dell'imputata che era stata assolta in primo grado "per non aver commesso il fatto".

Come noto, per poter riformare in grado di appello una sentenza di assoluzione pur in mancanza di elementi sopravvenuti, non basta una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado (ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza), ma è necessario che tale diversa valutazione sia caratterizzata da una forza persuasiva superiore rispetto a quella operata dal primo giudice, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio: è necessaria dunque una "motivazione rafforzata" (Sez. 2, n. 11883 del 08/11/2012, dep. 2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 5, n. 54300 del 14/09/2017, Banchero, Rv. 272082).

A questo proposito, è stato recentemente affermato che la "motivazione rafforzata", richiesta nel caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, "consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore. (In motivazione, la Corte ha precisato che l'obbligo di motivazione rafforzata prescinde dalla rinnovazione dell'istruttoria, prevista dall'art.603, comma 3-bis, cod. proc. pen., in quanto trova fondamento nella mera necessità di dare una spiegazione diversa rispetto a quella cui era pervenuta la sentenza di primo grado) (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056). L'obbligo di motivazione rafforzata è stato escluso solo nel caso in cui il provvedimento assolutorio abbia un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo. Si è osservato infatti che, in questo caso, non vi è neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice, essendo la decisione di appello l'unica realmente argomentata (Sez. 6, n. 11732 del 23/11/2022, S., Rv. 284472).

Nel caso di specie, l'obbligo di motivazione rafforzata non può considerarsi adempiuto.

7.1. Si deve premettere che la Corte di appello ha fornito una motivazione completa riguardo al significato che deve essere attribuito alla disposizione di cui all'art. 299 D.Lgs. n. 81/08. Sul punto, la sentenza impugnata ha fatto applicazione di principi di diritto consolidati, sottolineando (pag. 15) che la responsabilità del datore di lavoro non viene meno per il fatto che quel ruolo sia meramente apparente, essendo in tal caso configurabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 299 D.Lgs. n. 81/08, la corresponsabilità del datore di lavoro e di colui che, pur se privo di tale investitura, ne eserciti, in concreto, i poteri giuridici. Si tratta di conclusioni conformi ai principi di diritto che regolano la materia. Ed invero, la previsione dell'art. 299 D.Lgs. n. 81/08, elevando a garante colui che di fatto assume ed esercita i poteri del datore di lavoro, amplia il novero dei soggetti investiti della posizione di garanzia, ma, in assenza di delega dei poteri relativi agli obblighi prevenzionistici in favore di un soggetto specifico, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, che di tali poteri è investito ex lege (sull'argomento: Sez. 4, n. 30167 del 06/04/2023, Di Rosa, Rv. 284828; Sez. 4, n. 2157 del 23/11/2021, dep. 2022, Baccalini, Rv. 282568; Sez. 4, n. 49732 del 11/11/2014, Canigiani, Rv. 261181).

Fatta questa doverosa premessa, si deve osservare che l'esame della posizione di A.A., non si esaurisce con l'interpretazione dell'art. 299 D.Lgs. n. 81/08.

Secondo la giurisprudenza, chi si accolla e svolge nei fatti i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto assume la posizione di garante senza che ciò valga ad escludere la responsabilità di colui che riveste formalmente la qualifica di datore di lavoro (Sez. 4, n. 22079 del 20/02/2019, Cavallari, Rv. 276265; Sez. 4, n. 22606 del 04/04/2017, Minguzzi, Rv. 269973), ma il datore di lavoro può liberarsi da responsabilità se prova di aver validamente conferito una delega ai sensi dell'art. 16 D.Lgs. n. 81/08 a un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza, dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (per tutte: Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261108; Sez. 4, n. 4350 del 16/12/2015, dep. 2016, Raccuglia, Rv. 265947). Come è stato opportunamente sottolineato, questa delega deve essere conferita con atto "espresso, inequivoco e certo" e deve investire una "persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, fermo restando, comunque, l'obbligo, per il datore di lavoro, di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive" (Sez. 4, n. 24908 del 29/01/2019, Ferrari, Rv. 276335).

Il Tribunale ha fatto applicazione di questi principi quando ha affermato che, alla luce degli elementi acquisiti agli atti, A.A. risultava aver conferito delega al padre B.B. affinché questi si occupasse della gestione dell'impianto di frantumazione e ha sottolineato che B.B. era l'unico ad occuparsi dell'andamento dell'impianto sotto il profilo tecnico e organizzativo. Nella medesima prospettiva, il giudice di primo grado ha sostenuto che, nel caso di specie, la datrice di lavoro aveva adempiuto ai compiti che non aveva delegato (o non poteva delegare). Ha sottolineato, infatti: che, secondo quanto previsto dal DVR, gli interventi di manutenzione dovevano essere svolti ad organi fermi, oppure (se era indispensabile che fossero eseguiti con gli organi in movimento) "a velocità ridotta o intermittente"; che il DVR affidava le attività di manutenzione a una ditta esterna e, quindi, a lavoratori qualificati.

In sintesi, la sentenza di primo grado ha escluso che vi sia stata da parte di A.A. una incompleta o inadeguata valutazione dei rischi (che, infatti, non le è stata contestata) e ha sostenuto: da un lato, che B.B. "oltre ad essere il responsabile della sicurezza, era anche colui che dirigeva l'impianto" (pag. 15 della motivazione); dall'altro, che essendo presente al momento dei fatti, B.B. poteva rendersi conto che la griglia di protezione era stata rimossa e aveva la possibilità di impedire l'imprudente comportamento del lavoratore, sicché l'evento fu determinato esclusivamente dalla condotta omissiva del preposto (o dirigente di fatto), il quale non si attenne alle indicazioni del DVR e, in ogni caso, consentì al lavoratore di rimanere vicino alla macchina in funzione "in un momento in cui era possibile accedere direttamente al punto in cui si trovava l'ostruzione" (pag. 14 della motivazione).

Nel contrastare tali conclusioni, la Corte di appello osserva (pag. 19) che B.B. aveva ricevuto, in data 19 dicembre 2016, l'incarico di "preposto ai fini della sicurezza", ma questa delega non aveva i requisiti previsti dall'art. 16 D.Lgs. n. 81/08. La sentenza impugnata, però, si limita ad affermare che a B.B. non erano stati attribuiti "i necessari poteri", senza chiarire quali, tra i poteri necessari (organizzazione, gestione, controllo e spesa), fossero in concreto mancanti. Non tiene conto, inoltre, delle dichiarazioni rese da E.E. (riportate a pag. 12 della sentenza di primo grado).secondo le quali l'impianto di frantumazione era stato realizzato da B.B., che se ne era sempre occupato da solo, tanto che, "per mettere a norma se mancava qualcosa", "l'ispettorato del lavoro, insieme all'A.R.P.A.M." parlavano direttamente con lui.

A ciò deve aggiungersi che la sentenza impugnata non spiega quali fossero le specifiche competenze attribuite a B.B. nella lettera che gli conferiva l'incarico di "preposto ai fini della sicurezza" e non chiarisce perché la lettera con la quale tale incarico è stato conferito (della cui esistenza dà atto) sarebbe inidonea a rendere operante l'art. 19 D.Lgs. n. 81/08, in base al quale i preposti, "secondo le loro attribuzioni e competenze", devono "sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro" (cosi recitava la lettera a) del citato art. 19 nel testo vigente all'epoca dei fatti).

La motivazione della sentenza impugnata non fa riferimento neppure all'ulteriore argomentazione sviluppata dal giudice di primo grado, secondo il quale l'infortunio fu determinato da una contingente violazione degli obblighi di sicurezza da parte di B.B., il quale non si attenne alle indicazioni del DVR e non impedì a C.C. di avvicinarsi agli organi lavoratori in movimento, resi accessibili dalla rimozione della griglia di protezione; una rimozione che, secondo quanto emerge dalla lettura delle sentenze di merito, poteva essere stata compiuta proprio per verificare le ragioni del malfunzionamento del nastro trasportatore ed essere, quindi, occasionale e contingente. Secondo la sentenza di primo grado, tale condotta colposa fu da se sola sufficiente a determinare l'evento e la Corte di appello non ha spiegato perché le violazioni di norme di prevenzione ascritte a A.A. nella qualità di legale rappresentante della società si configurino quale antecedente causale della condotta colposa ascritta al coimputato e costituiscano anch'esse un antecedente necessario del verificarsi dell'evento. Non è sufficiente in tal senso il riferimento all'art. 2087 cod. civ. Il giudice di primo grado, infatti, aveva esplicitamente escluso la rilevanza causale di tutte le violazioni di norme in materia di prevenzione infortuni contestate alla legale rappresentante della società e la Corte di appello non ha contrastato tali argomentazioni compiendo il doveroso giudizio controfattuale.

7.2. In sintesi, la Corte di appello, pur avendo deciso per la condanna di A.A., in riforma della sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale, non ha adempiuto all'obbligo di motivazione rafforzata. La sentenza impugnata, infatti, non dà conto di tutti i passaggi logici compiuti ai fini dell'affermazione della penale responsabilità della A.A.

8. La difesa non ha formulato censure riguardo al trattamento sanzionatorio e - come già illustrato - nessuno dei motivi di ricorso proposti nell'interesse di B.B. merita accoglimento. Di conseguenza è preclusa a questa Corte la possibilità di intervenire sull'entità della pena inflitta a B.B.. La Corte di cassazione, infatti, può rilevare d'ufficio solo l'illegalità della pena determinata dall'applicazione di una sanzione ab origine contraria all'assetto normativo vigente perché di specie diversa da quella di legge o irrogata in misura superiore al massimo edittale (cfr. Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886; Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Miraglia, Rv. 283689; Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106) e tale illegalità non discende dalla violazione del divieto di reformatio in pejus che pure è avvenuta.

Come già riferito, a B.B. era stata inflitta in primo grado, la pena di mesi otto e giorni dieci di reclusione e tuttavia la Corte di appello ha inflitto all'imputato la pena di anni uno di reclusione. Il trattamento sanzionatorio è stato dunque modificato in senso deteriore e ciò è avvenuto (in assenza di appello del Pubblico ministero) ancorché la Corte di appello avesse precisato di dover rideterminare la pena perché uno dei reati oggetto della condanna pronunciata in primo grado era estinto per prescrizione e, di conseguenza, doveva essere esclusa la continuazione. Non essendo stata dedotta dal ricorrente, la violazione del divieto di reformatio in pejus non può essere rilevata d'ufficio. Si tratta, infatti, di una pena illegittima, ma non di una "pena illegale", dovendo essere considerata tale soltanto la pena che "ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, nonché 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti per le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge" (Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886).

8.1. Non determina l'illegalità della pena neppure la constatazione che, concesse all'imputato le attenuanti generiche, la pena è stata determinata in misura pari al minimo edittale previsto per le lesioni gravi dall'art. 590, comma 2, cod. pen. Come risulta dalla lettura della sentenza di primo grado, il Tribunale ha concesso a B.B. le attenuanti generiche senza compiere il giudizio di bilanciamento. Non ha specificato, dunque, se le attenuanti siano state valutate equivalenti, prevalenti o subvalenti rispetto all'aggravante di cui all'art. 590, comma 2, cod. pen. In caso di subvalenza, però, la pena inflitta sarebbe conforme a quella minima consentita. Pertanto, la pena inflitta non è illegale e, per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, le sentenze di primo e secondo grado scontano un vizio di motivazione che non è stato dedotto e non può essere rilevato d'ufficio.

9. Per quanto esposto, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla posizione di A.A. con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Perugia. Al rigetto del ricorso proposto nell'interesse di B.B. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi della persona offesa ai sensi dell'art. 52, comma 2, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

 

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata nei confronti di A.A. e rinvia, per nuovo giudizio, alla Corte di appello di Perugia. Rigetta il ricorso di B.B. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Oscuramento dati della persona offesa.

Cosi deciso il 26 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2024.