Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 maggio 2024, n. 13760 - Caduta al suolo dell'addetto ai lavori di manutenzione del tetto di un capannone. Responsabilità del committente. Regresso



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE


composta dagli ill.mi sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia - Presidente

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere

Dott. RIVERSO Roberto - Consigliere

Dott. PONTERIO Carla - Consigliere

Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA
 


sul ricorso iscritto al n. 6458/2020 r.g., proposto

da

A.A., elett. dom.to presso la cancelleria di questa Corte, rappresentato e difeso dall'avv. Pietro Milazzo.

ricorrente

contro

B.B., elett. dom.to in Via (Omissis), rappresentato e difeso dagli avv.ti Enzo Ciardiello e Alessandro Angiolini; I.N.A.I.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, eletto dom.to in Via IV Novembre n. 144, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Andrea Rossi e Letizia Crippa;

Groupama Ass.ni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, eletto dom.to in Via Golametto n. 2, Roma, rappresentato e difeso dall'avv. Maurizio Romagnoli.

controricorrenti

nonché

C.C., titolare dell'omonima impresa edile;

Unipol SAI Ass.ni Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore.

intimati

avverso la sentenza della Corte d'Appello di Firenze n. 509/2019 pubblicata

in data 04/12/2019, n.r.g. 269/2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 27/02/2024 dal Consigliere dott. Francescopaolo Panariello.

 

Fatto


1.- B.B. aveva lavorato alle dipendenze di C.C., titolare dell'omonima impresa individuale edile, ed in tale qualità era stato destinato al cantiere delle opere appaltate da A.A.

In particolare, era stato addetto a lavori di manutenzione del tetto di un capannone, di proprietà del A.A., il quale non solo era il committente delle opere, ma altresì consigliere di amministrazione della A.A. Trasporti Srl, società che aveva sede proprio nello stabile in questione.

Deduceva che in data 08/10/2012 durante il lavoro era stato vittima di un infortunio per non essere stato dotato di sistemi di protezione né di dispositivi di sicurezza, né di adeguata formazione o informazione in relazione agli specifici rischi. In particolare era caduto dal tetto in eternit al suolo, da un'altezza di circa otto metri, riportando gravi lesioni.

Adìva il Tribunale di Arezzo per ottenere la condanna in solido del datore di lavoro e del committente per tutti i danni, non patrimoniale (nelle componenti del danno biologico, morale, esistenziale) e patrimoniale, rappresentato dalle spese mediche documentate e dal lucro cessante per la riduzione della capacità lavorativa specifica e per perdita di chance, nella misura eccedente l'indennizzo già riconosciuto dall'INAIL.

2.- I due convenuti si costituivano in giudizio e chiedevano di chiamare in garanzia le rispettive compagnie di assicurazioni, con cui avevano stipulato polizze per la responsabilità civile.

3.- Autorizzata la chiamata in garanzia, si costituivano le due compagnie, che contestavano l'operatività della polizza.

4.- Nel processo interveniva l'INAIL, che proponeva azione di regresso e di rivalsa nei confronti dei due convenuti per recuperare le prestazioni erogate all'infortunato. Deduceva di aver costituito una rendita per invalidità permanente nella misura dapprima del 68%, poi del 73% e di aver indennizzato un periodo di inabilità temporanea assoluta di 325 giorni.

5.- Assunte le prove testimoniali, espletata una consulenza tecnica d'ufficio medico-legale, il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda nei confronti del solo C.C. (datore di lavoro), che condannava a pagare al ricorrente la somma di Euro 308.107,82, oltre accessori e spese, nonché a pagare all'INAIL la somma di Euro 290.798,95, oltre accessori e spese; rigettava le domande sia del ricorrente sia dell'INAIL nei confronti del A.A.; rigettava la domanda di manleva avanzata dal C.C.

In particolare, escludeva la responsabilità del A.A. sia perché, non essendo imprenditore, avrebbe potuto rispondere solo se si fosse ingerito nell'attività dell'appaltatore, circostanza rimasta indimostrata in giudizio, sia perché a suo favore era intervenuta sentenza di assoluzione in sede penale, divenuta irrevocabile.

6. Avverso la pronunzia di primo grado proponevano separati appelli sia il lavoratore, che si doleva dell'esclusione della responsabilità del committente A.A., di cui chiedeva la condanna al pagamento delle medesime somme già liquidate dal Tribunale, sia l'INAIL, che si doleva del rigetto della sua domanda di regresso/rivalsa nei confronti del committente.

In entrambi i giudizi si costituiva il A.A., che, oltre a contestare gli appelli, proponeva appello incidentale per riproporre la domanda di manleva nei confronti di Groupama Ass.ni Spa.

Si costituiva anche quest'ultima compagnia assicuratrice, che contestava la garanzia sia per insussistenza in capo al A.A. della qualità di assicurato, rivestita unicamente da A.A. Trasporti Srl, sia per l'esclusione dei lavori, in quanto di straordinaria manutenzione, dalle condizioni di polizza.

7.- Riuniti i due giudizi di appello, con la sentenza indicata in epigrafe la Corte territoriale, in parziale accoglimento dei due gravami, condannava il A.A. a pagare, in solido con il C.C., al lavoratore la somma di Euro 308.107,82, oltre accessori, nonché all'INAIL la somma di Euro 206.176,38, oltre accessori, rigettava la domanda di manleva del A.A. nei confronti di Groupama Ass.ni Spa.

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) l'eccezione del A.A., secondo cui il giudicato penale di assoluzione per non aver commesso il fatto sarebbe opponibile sia al lavoratore, sia ali INAIL, pur non avendo costoro partecipato al processo penale, è infondata;

b) per il lavoratore la vincolatività di quel giudicato è certamente esclusa dagli artt. 652, co. 1, e 75, co. 2, c.p.p., atteso che egli non si è costituito parte civile nel processo penale ed anzi ha proposto separata azione civile;

c) questo sistema è stato introdotto dal nuovo c.p.p., in cui il legislatore ha abbandonato il tradizionale principio dell'unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale, in favore dell'autonomia dei giudizi (Cass. sez. un. n. 1445/1998; Cass. sez. un. n. 1768/2011);

d) non può applicarsi il co. 3 dell'art. 75 c.p.c. (sospensione del processo civile iniziato dopo la costituzione civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado), atteso che nel caso in esame il giudizio di lavoro è iniziato con ricorso depositato il 10/12/2014 e la sentenza penale di primo grado è stata pronunziata in data 17/03/2016 (e non vi è stata costituzione di parte civile);

e) quanto all'INAIL, va precisato che l'istituto agisce verso il committente, ossia verso un soggetto terzo estraneo al rapporto assicurativo;

f) pertanto l'azione va qualificata non di regresso, bensì di rivalsa (o di surroga) nei confronti del terzo responsabile;

g) la distinzione fra le due azioni è stata ribadita dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. ord. n. 11324/2019), la prima regolata dagli artt. 10 e 11 D.P.R. n. 1124/1965, la seconda dall'art. 1916 c.c.;

h) dunque per il giudicato in esame trova applicazione l'art. 654 c.p.p., per cui esso può fare stato solo nei confronti di quei soggetti che abbiano partecipato al processo penale (Cass. ord. n. 30838/2018), mentre nella specie a quel processo penale l'INAIL non ha partecipato;

i) nei confronti di entrambi gli appellanti, allora, la responsabilità del committente può essere autonomamente valutata da questa Corte, senza alcun vincolo derivante da quel giudicato penale;

j) da tempo la giurisprudenza penale ritiene sussistente una posizione di garanzia anche in capo al committente, fermo restando che la sua responsabilità non può essere affermata in via automatica, perché occorre pur sempre verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative dell'impresa appaltatrice prescelta, avuto riguardo alla specificità dei lavori da seguire, ai criteri utilizzati dal committente per la scelta dell'appaltatore, alla sua ingerenza nell'esecuzione di quei lavori, nonché all'agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo (Cass. n. 3563/2012);

k) nel caso in esame i lavori commissionati imponevano la realizzazione di un'attività rischiosa e l'appaltatore non aveva apprestato alcuna misura di sicurezza, neppure la più elementare, così determinando una condizione di rischio evidente per qualsiasi soggetto ordinariamente diligente, a maggior ragione per una persona, come il A.A., che svolgeva un'attività di impresa;

l) non rileva che egli non fosse presente sul luogo al momento del fatto, poiché la sua posizione di garanzia gli imponeva di vigilare, di persona o a mezzo delegato, sulla predisposizione, da parte dell'appaltatore, almeno delle condizioni minime di sicurezza a fronte del rischio evidente di cadute dall'alto, non dovendo consentire, in caso diverso, l'accesso al bene di sua proprietà dove tali opere dovevano essere eseguite;

m) l'omissione di questa doverosa vigilanza determina la responsabilità del A.A.;

n) ciò basta per accogliere l'appello del lavoratore, che ha impugnato la sentenza di primo grado solo per ottenere l'affermazione della solidale responsabilità del committente A.A.;

o) la decisione dell'appello proposto dall'INAIL, che agisce in via di surroga, implica invece la soluzione di ulteriori questioni, attinenti anche alla misura del risarcimento; p) il Tribunale ai fini della sua decisione ha fatto riferimento al conteggio di cui al doc. 1 dell'istituto, che però conteneva l'originaria quantificazione del costo dell'infortunio, mentre quello aggiornato era il conteggio di cui al doc. 1 bis depositato dall'INAIL il 16/10/2017;

q) dalla motivazione articolata nella sentenza di primo grado si evince inoltre che il Tribunale, ai fini del calcolo dell'importo dovuto all'istituto, ha richiamato l'invalidità permanente accertata dal CTU in giudizio;

r) questo metodo non può essere condiviso, poiché all'INAIL spetta la refusione dei costi sostenuti nell'adempimento della propria funzione istituzionale, calcolati secondo le modalità proprio del sistema delle assicurazioni sociali, sia pure nei limiti del danno civilistico; s) il Tribunale, pertanto, non poteva rideterminare l'entità di tali costi, ma solo limitarne la refusione al danno civilistico; t) a tale operazione provvede questa Corte;

u) non è contestato che l'INAIL abbia sostenuto un costo aggiornato per l'infortunio di Euro 484.950,55, di cui Euro 18.302,20 a titolo di indennità giornaliera, Euro 2.532,46 a titolo di spese mediche ed Euro 464.302,35 a titolo di valore capitalizzato della rendita, quest'ultimo ripartito in Euro 220.083,72 a titolo di danno biologico ed Euro 244.218,63 a titolo di danno alla capacità lavorativa specifica; v) il Tribunale ha quantificato il danno alla persona nella complessiva somma di Euro 545.562,04, ma ha poi riconosciuto al lavoratore a titolo di danno biologico la somma di Euro 308.107,82;

w) la somma totale dei due importi, ossia del danno biologico indennizzato dall'INAIL e di quello ottenuto dal lavoratore a titolo risarcitorio (220.083,72 + 308.107,82) è inferiore al totale del danno alla persona accertato dal Tribunale come pari ad Euro 545.562,04, sicché l'INAIL può ottenere l'intero indennizzo versato a titolo di danno biologico;

x) quanto alle ulteriori somme, va ricordato che l'INAIL indennizza, oltre al danno biologico, il danno patrimoniale sotto tre profili: la riduzione della capacità di guadagno, che per legge si presume in senso assoluto quando l'invalidità permanente superi il 16%; la perdita del salario durante il periodo di assenza per malattia, che l'INAIL indennizza con un'indennità giornaliera pari al 60% della retribuzione; le spese sanitarie;

y) secondo la giurisprudenza di legittimità, per il primo dei tre componenti può anche darsi che esso sia indennizzato dall'INAIL anche quando la vittima dell'infortunio non abbia patito o non abbia dimostrato ai aver patito un lucro cessante per la perdita o la riduzione della capacità di lavoro e di guadagno; z) d'altra parte l'accoglimento della domanda di surrogazione dell'INAIL presuppone l'accertamento che la vittima abbia effettivamente subito un danno civilistico alla capacità di lavoro, in assenza del quale non si ha surrogazione;

aa) tuttavia la prova di questo lucro cessante potrà essere dato anche in via presuntiva;

bb) diversamente accade per le altre due componenti, ossia indennità giornaliera e anticipazione delle spese mediche, perché in tal caso l'INAIL indennizza non danni presunti, ma effettivi, rispettivamente il lucro cessante per perdita della retribuzione e il danno emergente per le spese mediche;

cc) quindi il credito del danneggiato si trasferisce in capo all'INAIL ex art. 1916 c.c., con la conseguenza per cui le somme pagate a titolo di inabilità temporanea e di anticipazione di spese mediche l'INAIL ha sempre diritto di surrogarsi, perché si tratta di fatti concreti ed effettivi che dànno luogo a danni civilisticamente rilevanti; dd) a nulla rileva che la vittima, avendo continuato a percepire la retribuzione, non si accorga di aver patito un danno e non ne chieda il risarcimento;

ee) pertanto all'INAIL spettano sia le somme erogate al lavoratore a titolo di indennità giornaliera (Euro 18.302,20) sia quelle a titolo di spese mediche (Euro 2.532,46);

ff) questa Corte ritiene, inoltre, che vi sia la prova anche di un danno da effettiva riduzione della capacità lavorativa specifica, in considerazione della gravità delle conseguenze sulla sua integrità psico-fisica e della natura delle attività da lui svolte (operaio edile), come peraltro valutato anche dal CTU di primo grado;

gg) per tale voce di danno occorre utilizzare il criterio equitativo e all'uopo può essere utilizzato il coefficiente di capitalizzazione delle rendite previdenziali di cui al D.M. n. 96/2016, indicato dall'INAIL nelle sue note difensive, e pertanto a questo titolo va riconosciuta la somma di Euro 65.258,00;

hh) il totale del danno patrimoniale civilistico ammonta allora aa Euro 86.092,66, ossia ad un importo interiore a quanto corrisposto dall'INAIL quale quota di rendita; ii) in conclusione all'INAIL spetta la somma complessiva di Euro 306.176,38 (220.083,72 + 86.092,66);

jj) la domanda di manleva non può essere accolta, in quanto è pacifico che il contratto di assicurazione sia stato stipulato da A.A. Trasporti Srl e non da A.A. in proprio;

kk) quindi è irrilevante la clausola 11 delle condizioni di polizza, secondo cui l'assicurazione si estende alla responsabilità civile derivante all'assicurato nella sua qualità di proprietario e/o conduttore dei fabbricati nei quali si svolge l'attività, perché l'assicurato è appunto la società e non A.A. persona fisica; ll) neppure è utile la successiva pattuizione contenuta nell'appendice del 21/03/2013, stipulata quindi in data successiva all'infortunio e contenente non un mero "chiarimento" dell'originaria clausola 11, quanto un diverso patto non desumibile dall'originaria formulazione della clausola 11, sicché essa non è applicabile ad eventi lesivi verificatisi in data anteriore.

8.- Avverso tale sentenza A.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

9.- B.B., l'INAIL e Groupama Ass.ni Spa hanno resistito con controricorso, mentre gli altri intimati sono rimasti tali.

10.- Il ricorrente, nonché B.B. e l'INAIL hanno depositato memoria.

11.- Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.

 

Diritto


1.- Con il primo motivo, senza indicarne la sussunzione in uno di quelli a critica vincolata imposti dall'art. 360, co. 1, c.p.c., il ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 2049, 2087 c.c., 26 e 90 D.Lgs. n. 81/2008 ed una "carente motivazione".

In particolare si duole di una "schematica" applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza penale, senza considerare che l'art. 90 D.Lgs. n. 81/2008 prevede a carico del committente un obbligo di controllo solo formale, volto a verificare se l'appaltatore abbia prodotto il c.d. piano di sicurezza, nella specie prodotto, come risulta sia dalla testimonianza di D.D., ispettrice del lavoro, all'udienza dell'11/07/2017, sia dal documento n. 5 prodotto in primo grado, ossia dalla nota prot. 3350 del 22/05/2013 a firma della dott.ssa D.D. e del dott. E.E., sia infine dalla sentenza penale di suo proscioglimento.

Lamenta inoltre la pretermissione dei principi elaborati dalla sezione lavoro di questa Corte in relazione all'art. 2087 c.c., secondo cui l'obbligo di sicurezza previsto dalla norma si estende anche al committente soltanto qualora lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico-organizzativi dell'opera da eseguire (Cass. n. 11311/2017).

Si duole, infine, di un'applicazione automatica dei principi elaborati in sede penale, laddove sarebbe pur sempre stato necessario verificare in concreto "la percepibilità agevole ed immediata da parte del committente di eventuali situazioni di pericolo, anche in relazione alla specificità dei lavori da svolgere" (v. ricorso per cassazione, p. 11).

Il motivo è inammissibile con riguardo alla doglianza di "carente motivazione", ormai esclusa dal novero dei motivi a critica vincolata previsti dall'art. 360. Co. 1, c.p.c., salvi i ristretti limiti di cui al n. 5).

Il motivo è per il resto infondato.

Con riguardo all'ultima censura, contrariamente all'assunto del ricorrente, la Corte territoriale non ha fatto applicazione automatica dei principi giurisprudenziali elaborati in sede penale, ma al contrario, ribadendo la necessità di un accertamento in concreto (v. sentenza impugnata, p. 12), ha affermato: "... anche in questo caso infatti i lavori commessi imponevano la realizzazione di un'attività rischiosa e anche in questo caso per la loro esecuzione l'appaltatore non aveva apprestato alcuna misura di sicurezza, neppure la più elementare, così determinando una condizione di rischio evidente per qualsiasi soggetto ordinariamente diligente, a fortiori per una persona, come l'odierno appellato A.A., che svolgeva, seppure non in proprio, un'attività d'impresa" (v. sentenza impugnata, p. 13).

Quanto alla portata dell'art. 2087 c.c., la lettura meramente "formale" proposta dal ricorrente, in combinato disposto con l'art. 90 D.Lgs. n. 81/2008, non può essere condivisa.

In primo luogo, per quanto rileva nella presente fattispecie, ai sensi dell'art. 26, co. 3-ter, D.Lgs. n. 81/2008, "... in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente, il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall'esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell'inizio dell'esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l'appalto; l'integrazione, sottoscritta per accettazione dall'esecutore, integra gli atti contrattuali". Ciò dimostra che il legislatore pone a carico del committente precisi obblighi di prevenzione, soprattutto riferiti a "rischi specifici", che egli è in grado di apprezzare e valutare, in quanto sono relativi a strutture, impianti, opere di cui ha la disponibilità e di cui quindi conosce, o dovrebbe conoscere, la portata pericolosa e la conseguente esposizione a rischio di chi vi lavora.

Inoltre, sul piano della scelta dell'appaltatore, nell'art. 90 D.Lgs. n. 81 cit. il legislatore limita al profilo formale la verifica dell'idoneità tecnico-professionale dell'impresa affidataria, dell'impresa esecutrice o del lavoratore autonomo in relazione al lavoro da affidare, nei soli casi in cui "i lavori non comportano rischi particolari". Nel caso in esame, invece, come accertato dalla Corte d'Appello, i lavori erano da eseguire sul tetto del capannone, ossia implicavano la loro esecuzione ad una quota in altezza (di circa otto metri) rispetto al piano stradale. Pertanto il rischio di caduta cui erano esposti i lavoratori addetti - tra cui l'B.B. - era evidentemente "particolare". Si aggiunga che, come ritenuto dalla Corte territoriale con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, si trattava di un rischio manifestamente evidente e quindi immediatamente percepibile e comprensibile da qualunque persona di normale diligenza.

Al cospetto di queste risultanze, la decisione impugnata si rivela conforme a diritto: come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la responsabilità del committente certamente sussiste ai sensi dell'art. 2087 c.c. (in aggiunta ed in solido con quella dell'appaltatore) qualora la situazione di pericolo sia di agevole ed immediata percepibilità da parte sua (Cass. ord. n. 9178/2023).

Inoltre, la Corte territoriale - con un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede - ha affermato che i lavori commissionati imponevano la realizzazione di un'attività rischiosa e l'appaltatore non aveva apprestato alcuna misura di sicurezza, neppure la più elementare, così determinando una condizione di rischio evidente per qualsiasi soggetto ordinariamente diligente. Ha poi ritenuto irrilevante il fatto che il committente non fosse presente sul luogo al momento dell'infortunio, poiché la sua posizione di garanzia gli imponeva di vigilare, di persona o a mezzo delegato, sulla predisposizione, da parte dell'appaltatore, almeno delle condizioni minime di sicurezza a fronte del rischio evidente di cadute dall'alto, non dovendo consentire, in caso diverso, l'accesso al bene di sua proprietà dove tali opere dovevano essere eseguite. Anche tale parte della decisione è conforme a diritto: questa Corte ha già affermato che "ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 7 del D.Lgs. n. 626 del 1994, vigente ratione temporis', che disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, il committente, nella cui disponibilità permanga l'ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice, e che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata" (Cass. n. 5419/2019; nello stesso senso Cass. n. 798/2017). Ne deriva che è conforme a diritto anche l'individuazione della "posizione di garanzia" in capo al A.A. da parte della Corte territoriale.

Infine, ai sensi dell'art. 93 D.Lgs. n. 81/2008, "il committente è esonerato dalle responsabilità connesse all'adempimento degli obblighi limitatamente all'incarico conferito al responsabile dei lavori". Nel caso concreto, dall'accertamento compiuto dalla Corte territoriale non risulta che ii A.A. abbia conferito delega ad un soggetto diverso.

2.- Con il secondo motivo, senza indicarne la sussunzione in uno di quelli a critica vincolata imposti dall'art. 360, co. 1, c.p.c., il ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 10 e 11 d.P.R. n. 1124/1965, 1916 c.c., 654 c.p.p., 2 L. n. 123/2008, 61 D.Lgs. n. 81/2008, nonché un'extrapetizione o ultrapetizione in violazione dell'art. 112 c.p.c. ed una "carente motivazione".

In particolare, con riguardo all'azione proposta dall'INAIL, lamenta l'omesso rilievo del fatto che l'istituto aveva espressamente proposto azione di regresso ex artt. 10 e 11 D.P.R. n. 1124/1965, il cui presupposto è che il soggetto contro cui l'azione venga esercitata sia stato condannato penalmente per i fatti che hanno dato luogo al risarcimento. Sicché, mancando - come nella specie - una condanna penale, l'azione di regresso sarebbe preclusa.

Sostiene che in senso contrario non vale invocare C. Cost. n. 102/1981, perché in quella sentenza venne dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 11 D.P.R. n. 1124/1965 in un sistema - come quello all'epoca vigente - che non consentiva all'INAIL di partecipare al processo penale. Assume che la situazione normativa è mutata, dapprima con l'art. 2 L. n. 123/2007, poi con l'art. 61 D.Lgs. n. 81/2008, secondo cui il P.M. dà immediata notizia dell'infortunio all'INAIL proprio al fine dell'eventuale costituzione di parte civile. Dunque, assume che venuto meno il presupposto normativo da cui partiva la sentenza costituzionale del 1981, tornerebbe la preclusione per l'azione di regresso qualora il processo penale si sia concluso con una sentenza di assoluzione.

Il motivo è inammissibile con riguardo alla censura di "carente motivazione" per le ragioni già esposte con riguardo al primo motivo.

Il motivo è nel resto infondato, sebbene sia necessaria la correzione della motivazione della sentenza d'appello circa la qualificazione giuridica dell'azione proposta dall'INAIL, che è di regresso.

La Corte d'Appello ha espressamente qualificato quella dell'INAIL come azione di surroga ex art. 1916 c.c. ed ha motivato questa qualificazione giuridica come necessaria conseguenza del fatto che, quanto alla posizione del A.A., la domanda risulterebbe proposta non contro il datore di lavoro, bensì contro il terzo responsabile, così inteso il committente di un appalto.

Sul punto va invece evidenziato che, proprio alla luce delle considerazionisopra svolte circa la contitolarità di determinati obblighi di protezione in capo al datore di lavoro (appaltatore) e al committente, quest'ultimo rientra nel novero dei soggetti passivamente legittimati rispetto all'azione di regresso disciplinata dagli artt. 10 e 11 D.P.R. n. 1124/1965. Pertanto non è il "terzo" nei cui confronti è configurabile, invece, l'azione di surroga ex art. 1916 c.c., poiché questo "terzo" è un soggetto esterno al rischio protetto dall'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (Cass. sez. un. 16/04/1997, n. 3288).

Alla luce di tali principi di diritto, questa Corte ha affermato che "L'azione di regresso dell'INAIL, esperibile non solo nei confronti del titolare del rapporto assicurativo, ma anche di chi, assumendo una posizione di garanzia nel luogo di lavoro, ha l'obbligo di tutelare l'incolumità degli occupati al di là della qualifica formale di datore di lavoro, in caso di opere svolte in esecuzione di un contratto di appalto, può essere esercitata anche nei confronti del committente, quale garante della vigilanza relativa alle misure di protezione da adottare in concreto" (Cass. n. 375/2023; v. già Cass. n. 12561/2017). Dunque il committente è soggetto che partecipa al controllo sul rischio e quindi è "interno" alla situazione pericolosa tutelata dall'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. Ne deriva che anche nei suoi confronti trova applicazione l'azione di regresso dell'INAIL ai sensi degli artt. 10 e 11 D.P.R. cit.

Ciò posto, contrariamente all'assunto del ricorrente, ai fini dell'accoglimento della domanda di regresso non è affatto necessaria la condanna penale, perché l'accertamento della rilevanza penale del fatto ben può essere compiuta, in via autonoma, dal giudice del lavoro (Cass. ord. n. 29769/2022; Cass. n. 7473/1990). Nel caso concreto questo accertamento è vieppiù consentito, in quanto il giudicato penale di assoluzione del A.A. non spiega alcuna efficacia preclusiva nei confronti dell'INAIL, che - come è pacifico - non ha partecipato a quel processo penale. In tal caso l'Inail può agire in regresso nei confronti del datore di lavoro anche quando il processo penale promosso contro quest'ultimo si sia concluso con sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto (Cass. n. 7473/1990). Infatti, la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 102/1981, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 10 e 11 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui preclude in sede civile l'esercizio del diritto di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro - e per quanto sopra detto, anche del committente - qualora il processo penale promosso contro di lui o di un suo dipendente per il fatto dal quale l'infortunio è derivato si sia concluso con sentenza di assoluzione, malgrado che l'Istituto non sia stato posto in grado di partecipare al detto procedimento penale, ossia si sia trovato in una situazione di "impossibilità giuridica o di fatto" di parteciparvi.

D'altronde, applicando i principi affermati dalla Corte Costituzionale con la citata pronunzia, la censura si rivela inammissibile per difetto di autosufficienza. La preclusione invocata dal ricorrente può operare solo a condizione che l'INAIL sia stato messo in condizione di partecipare al processo penale. Dunque ai fini dell'autosufficienza del motivo il ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare in quale atto processuale, fase e grado, aveva eccepito, dedotto e dimostrato che il P.M. avesse dato immediata notizia del fatto di reato all'INAIL per l'eventuale costituzione di parte civile. Tale onere non è stato adempiuto.

In ogni caso, in mancanza della prova di tale condizione (ossia che l'INAIL fosse stato messo nella condizione di partecipare al processo penale), l'azione di regresso resta ammissibile in virtù degli artt. 10 e 11 D.P.R. n. 1124/1965 nella loro portata normativa come delineata dalla sentenza n 102/1981 della Corte costituzionale.

3.- Con il terzo motivo, senza indicarne la sussunzione in uno di quelli a critica vincolata imposti dall'art. 360, co. 1, c.p.c., il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 112 c.p.c. per extrapetizione e/o ultrapetizione, nonché una "carente motivazione".

In particolare si duole che la Corte territoriale abbia omesso di considerare che, a fronte di una sentenza di primo grado che aveva riconosciuto al lavoratore solo il danno biologico c.d. differenziale, aveva escluso la sussistenza di un danno patrimoniale ed aveva determinato in una certa misura l'importo da corrispondere all'INAIL in via di regresso a carico del datore di lavoro C.C., mentre l'INAIL, con i suoi due motivi di appello, si era soltanto doluto del fatto che il Tribunale non avesse considerato il costo infortuni aggiornato al momento della sentenza ed avesse determinato il valore capitalizzato della rendita applicando un coefficiente diverso da quello utilizzato dall'istituto.

Assume che, pertanto, era passato in giudicato il capo della sentenza di primo grado relativo al rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale, sicché la Corte d'appello non avrebbe potuto riconoscere anche tale posta risarcitoria, liquidata in via equitativa.

Il motivo è inammissibile con riguardo alla censura di "carente motivazione" per le ragioni già esposte con riguardo al primo motivo.

Per il resto il motivo è infondato.

Il giudicato interno, invocato dal ricorrente, riguarda unicamente il capo della sentenza di primo grado relativo al rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale c.d. differenziale, originariamente avanzata dal lavoratore infortunato.

Domanda del tutto distinta ed autonoma è quella di regresso ex artt. 10 e 11 D.P.R. n. 1124/1965 proposta dall'INAIL. Anzi, dalla sentenza di primo grado si evince che il rigetto della domanda del lavoratore al risarcimento del danno patrimoniale differenziale è dipeso proprio dal fatto che il Tribunale ha accertato che l'INAIL aveva ristorato il danno (patrimoniale) da incapacità lavorativa e che per la dedotta perdita di chance il lavoratore non aveva provato i presupposti.

Ne consegue che il primo motivo di appello proposto dall'INAIL, che lamentava la mancata considerazione del "costo infortuni aggiornato" al momento della sentenza, ossia del costo complessivo delle indennità erogate all'infortunato, e quindi pretendeva l'esatta determinazione della somma oggetto dell'azione di regresso, ha investito la Corte territoriale del potere di rideterminare il costo complessivo ed effettivo dell'infortunio, ivi compresa la componente patrimoniale del danno indennizzato dall'istituto, al fine di stabilire quale dovesse essere la somma di cui l'INAIL poteva pretendere il regresso. Ne consegue che nessun giudicato sul punto si era formato e nessuna violazione dell'art. 112 c.p.c. vi è stata.

4.- Con il quarto motivo, senza indicarne la sussunzione in uno di quelli a critica vincolata imposti dall'art. 360, co. 1, c.p.c., il ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1370 c.c., nonché "errata/insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la Corte territoriale rigettato il suo appello incidentale, con cui aveva riproposto la domanda di condanna di Groupama Ass.ni Spa a tenerlo indenne in caso di sua condanna risarcitoria.

Il motivo è articolato in tre censure:

a) l'art. 11 del contratto assicurativo, nel prevedere che "l'assicurazione si estende alla responsabilità civile derivante all'Assicurato nella sua qualità di proprietario e/o conduttore dei fabbricati nei quali si svolge l'attività", deve essere interpretato secondo il senso letterale. L'espressione "proprietario e/o conduttore" dimostrerebbe che la comune intenzione delle parti era quella di riferire la garanzia assicurativa a tre ipotesi, quella di A.A. Trasporti Srl in quanto proprietaria, quella di A.A. Trasporti Srl in quanto conduttrice, quella in cui il proprietario dell'immobile sia un terzo e la società sia solo conduttrice. A conferma di tale interpretazione sta il fatto che la clausola riferisce la garanzia all' "assicurato" e non al "contraente", volendo in tal modo intendere che la garanzia era estesa anche al terzo, diverso dal contraente, che fosse risultato proprietario dell'immobile nel quale l'attività d'impresa veniva svolta;

b) ad ulteriore conferma di questa interpretazione sta il comportamento complessivo anche successivo dei contraenti, rappresentato dalla "appendice di precisazione" del 21/03/2013, con cui le parti avevano stabilito che "a maggior chiarimento di quanto indicato in polizza all'art. 11) delle Condizioni Particolari ... si precisa che le garanzie devono intendersi prestate anche nell'interesse dei proprietari di detti fabbricati qualora i proprietari stessi - persone fisiche e/o giuridiche -siano riconducibili ai soci della contraente stessa". Non si è trattato di un'estensione della garanzia, erroneamente ritenuta tale dalla Corte d'Appello, e ciò sarebbe dimostrato dal fatto che il premio assicurativo era rimasto invariato, come provato dal documento n. 21;

c) pur qualora la clausola dell'art. 11 restasse di dubbia portata, comunque dovrebbe essere interpretata nel senso contrario al predisponente (art. 1370 c.c.), ossia alla compagnia assicuratrice.

Il motivo è inammissibile e infondato:

sub a) perché si limita a contrapporre una propria interpretazione delle clausole contrattuali a quella della Corte territoriale del tutto plausibile e quindi insindacabile in sede di legittimità. Sul piano letterale l'interpretazione dei giudici d'appello è conforme all'art. 1362 c.c., perché le parti sono state esattamente individuate nella compagnia assicuratrice, da un lato, e nella società A.A. Trasporti Srl, dall'altro, considerata contraente ed assicurato. L'invocata possibile dissociazione, invece, fra "assicurato" e "contraente" postulerebbe la trasformazione del contratto in uno per conto di chi spetta (A.A. in proprio), regolato dall'art. 1891 c.c., che tuttavia richiede l'indicazione almeno dei criteri di identificazione del terzo. Nel caso in esame la Corte territoriale ha esattamente affermato che soltanto con l'appendice successiva gli originari contraenti avevano indicato criteri volti ad allargare l'ambito soggettivo della categoria dell'assicurato, con conseguenti effetti ex nunc;

sub b) perché, a voler per un momento seguire la tesi difensiva del ricorrente, si finirebbe per ammettere che, con quell'appendice (stipulata successivamente all'infortunio per cui è causa), il rischio assicurato sarebbe passato e non futuro, ciò che è incompatibile con il contratto di assicurazione, tipicamente aleatorio proprio in quanto volto a fronteggiare (mediante una tutela indennitaria) rischi futuri ed incerti. Ne consegue che è conforme a diritto l'interpretazione data dai giudici d'appello, secondo cui quell'appendice di precisazione era un'estensione soggettiva della garanzia assicurativa, pertanto valida solo ex nunc;

sub c) perché non vi è alcun dubbio sul significato dell'art. 11 della polizza (nella sua formulazione originaria) e pertanto non può trovare applicazione la regola ermeneutica di cui all'art. 1370 c.c., che ha una portata solo sussidiaria (Cass. n. 6467/2007; Cass. n. 11278/2005).

5.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

6.- In caso di diffusione va disposto che sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti e dei terzi coinvolti nel presente giudizio, ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. n. 196/2003

 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.500,00 in favore di B.B., Euro 7.500,00 in favore di I.N.A.I.L. ed Euro 5.000,00 in favore di Groupama Ass.ni Spa, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge per ciascun controricorrente.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, D.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell'art. 13, co. 1 bis, D.P.R. cit., se dovuto.

In caso di diffusione dispone che sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti e dei terzi coinvolti nel presente giudizio, ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. n. 196/2003.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 27 Febbraio 2024.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2024.