Cassazione Civile, Sez. Lav., 26 luglio 2024, n. 20972 - Legittimo il licenziamento del lavoratore che abusa dei permessi sindacali



Presidente Doronzo - Relatore Amendola

 

Rilevato che

1. la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata, nell'ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato, sebbene con diversa motivazione, la pronuncia di primo grado che aveva respinto l'impugnativa del licenziamento disciplinare proposta da P.D. nei confronti della (OMISSIS) Srl;

2. la Corte, in sintesi, ha accertato come “sussistenti le condotte rilevanti sul piano disciplinare in relazione alle giornate di assenza per permesso sindacale del 19 settembre e del 22 ottobre” del 2018;

quanto alla mancata indicazione delle norme violate in sede di procedimento disciplinare, la Corte ha escluso che ciò fosse imposto non solo dall'art. 7 S.d.L. ma anche dal tenore testuale dell'art. 73 del CCNL Tessile Abbigliamento SMI;

circa l'eccepita tardività della contestazione disciplinare, la Corte ha osservato che “il carattere pressocché istantaneo tra comunicazione dell'agenzia investigativa e contestazione disciplinare (la prima del 26 novembre e la seconda del successivo 27)” rendesse “del tutto ingiustificata la doglianza”, valorizzando altresì che “la difesa del lavoratore ha solo in astratto enunciato la violazione del diritto di difesa senza lamentare quale concreta violazione del diritto di difesa si sia verificata”;

in merito alla gravità della condotta, la Corte, richiamando un proprio precedente, ha così argomentato: “Il fatto non è semplicisticamente riconducibile ad alcuni giorni di assenza ingiustificata, di per sé sanzionabili teoricamente con sanzione conservativa ed eventualmente con quella espulsiva. Né e decisivo il dato economico – retribuzione indebita per i vari giorni-. Il fatto contestato riguarda ben altri aspetti implicati dalla vicenda. La condizione soggettiva dell'autore, sindacalista, ossia persona preposta alla tutela di interessi collettivi e per questo beneficiario del permesso retribuito dell'art. 30, il quale utilizza tale beneficio riconosciuto dall'ordinamento per una attività diversa, è valorizzabile ai fini che qui interessano ben al di là della assenza ingiustificata di un qualsiasi lavoratore. La insindacabilità della concessione del permesso, obbligatoria per parte datoriale, è elemento valutabile al fine di una prognosi sulla futura ottemperanza/affidabilità del dipendente circa le <regole del gioco>, circa il rispetto delle stesse nel prosieguo del rapporto. Questi elementi, valutativi di interessi generali e delle parti contrattuali rendono ancor più grave la condotta realizzata dall'incolpato, qualificabile sostanzialmente come abuso del diritto (alla stregua di quanto avviene in materia di permessi della L.104/92 - cfr. Cass. 8784/15, 5574 e 9217/16, App Venezia rg. 693/17-)”; ha concluso: “nel caso di specie alla pluralità di giorni si assomma la reiterazione della condotta elemento che è fortemente indicativo della palese indifferenza del lavoratore verso i propri doveri nei confronti del datore di lavoro aggravati dalla strumentalizzazione del ruolo sindacale rivestito”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con tre motivi, cui ha resistito l'intimata società con controricorso;

parte ricorrente ha anche comunicato memoria;

all'esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di sessanta giorni.
 


Considerato che


1. i motivi del ricorso possono essere sintetizzati come segue;

1.1. il primo denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 23 e 24 della l. n. 300 del 1970 e dell'art. 2697 c.c., in ordine alla fruizione dei permessi sindacali e alla illegittima inversione dell'onere della prova; si sostiene che, nei giorni contestati, “di fatto i permessi sono stati utilizzati correttamente, quantomeno non è stata fornita prova contraria nel merito, ma solo un elenco di spostamenti fisici”; si eccepisce che la Corte avrebbe invertito gli oneri probatori “imputando al lavoratore di non aver adeguatamente provato l'attività sindacale svolta, così presumendo che questi abbia abusato del diritto”;

1.2. il secondo motivo denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della l. n. 300 del 1970; degli artt. 2106 e 2119 c.c. e degli artt. 73 e 74 del CCNL Tessile Abbigliamento Smi; il motivo è articolato in tre censure che lamentano l'erronea valutazione circa: a) la mancata indicazione delle norme violate nella lettera di contestazione disciplinare e nella lettera di licenziamento; b) la tardività della contestazione disciplinare; c) il principio di proporzionalità ex art. 2106 c.c. e la nozione di giusta causa nell'esame dell'elemento psicologico ai fini della valutazione della condotta ex art. 2119 c.c.;

1.3. col terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., dell'art. 73, n. 2, lett. a) e dell'art. 75, comma 2, lett. b), del CCNL Tessile Abbigliamento Smi; con esso si illustra “l'inadeguatezza e non proporzionalità della sanzione irrogata e la conseguente erronea valutazione circa la riconducibilità alle ipotesi di rilievo disciplinare e alle relative sanzioni individuate dalla contrattazione collettiva”; si eccepisce che, sulla base di detta disciplina collettiva, “due giorni di assenza ingiustificata non prevedono l'irrogazione del licenziamento per giusta causa, ma la sanzione conservativa”;

2. il ricorso non può trovare accoglimento;

2.1. il primo motivo è inammissibile;

l'accertamento in concreto sul se il lavoratore abbia fruito dei permessi sindacali richiesti per finalità diverse da quelle per le quali sono concessi rappresenta una quaestio facti, che non può essere sindacata innanzi a questa Corte con la prospettazione solo formale del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto;

invero, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma, quindi al vizio di cui all'art. 360 n. 3 c.p.c., e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v. Cass. n. 35922 del 2023; Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 640 del 2019; Cass. n. 10320 del 2018; Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016);

quanto alla dedotta violazione dell'art. 2697 c.c., detta disposizione è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (tra molte: Cass. n. 15107 del 2013, Cass. n. 13395 del 2018); nella sentenza impugnata non è ravvisabile un sovvertimento dell'onere probatorio in tema di giusta causa di licenziamento, atteso che la Corte territoriale, all'esito del vaglio critico delle risultanze istruttorie, ha ritenuto, a fronte di un quadro probatorio consolidatosi nel senso dell'attribuibilità al lavoratore del fatto contestato, che costituisse onere di quest'ultimo offrire elementi idonei ad incrinare tale quadro, onere ritenuto in concreto non assolto (cfr. Cass. n. 17287 del 2022 che, in un caso analogo nel quale era stato dimostrato, attraverso le indagini investigative, che il lavoratore, per la maggior parte del periodo in cui aveva usufruito dei permessi connessi all'incarico di rappresentante per la sicurezza, aveva svolto attività in gran parte incompatibili con detto incarico, ha ritenuto che fosse il lavoratore medesimo a dover offrire elementi idonei ad inficiare tale ricostruzione);

2.2. il secondo motivo non merita condivisione;

2.2.1. la prima censura contenuta nel motivo è infondata, in quanto la statuizione sul punto della Corte territoriale è dichiaratamente conforme al risalente insegnamento di questa Corte secondo cui, ai sensi dell'art. 7, secondo comma, della l. n. 300 del 1970, la preventiva contestazione dell'addebito, nel procedimento disciplinare, deve avere per oggetto i fatti ascritti al lavoratore con specificità tale da consentire, secondo la finalità che le è propria, un'adeguata difesa dell'incolpato, ma non anche indicare le norme legali o contrattuali che si assumono violate (Cass. n. 2940 del 1990; Cass. n. 4073 del 1987; Cass. n. 344 del 1984); né la disposizione della contrattazione collettiva invocata depone inequivocabilmente, nel suo tenore letterale, per una interpretazione incoerente con tale assunto, atteso che si limita a ribadire che nella contestazione scritta devono essere indicati “i fatti specifici che costituiscono l'infrazione imputata”;

2.2.2. la seconda censura, concernente l'eccepita tardività della contestazione disciplinare, è inammissibile;

ancora di recente (Cass. n. 269 del 2024) si è ribadito che “la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato” (Cass. n. 1247 del 2015; Cass. n. 5546 del 2010; Cass. n. 29480 del 2008; Cass. n. 14113 del 2006), in coerenza con il principio affermato dalle Sezioni unite di questa Corte secondo cui è “riservata al giudice di merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo” (Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017); nella specie la Corte ha esaurientemente argomentato in ordine alla tempestività della contestazione, né parte ricorrente censura adeguatamente la parte di motivazione in cui la sentenza impugnata evidenzia come la difesa del lavoratore non avesse in alcun modo dedotto come il preteso ritardo avesse pregiudicato il suo diritto di difesa;

2.3. parimenti non può trovare accoglimento il terzo motivo, che, per intima connessione, può esser esaminato congiuntamente con la terza censura contenuta nel secondo motivo;

nella sostanza parte ricorrente si duole che la sanzione espulsiva irrogata difetterebbe di proporzionalità e che l'illecito disciplinare accertato avrebbe dovuto essere punito con sanzione conservativa alla stregua di un'assenza ingiustificata;

2.3.1. per il primo aspetto è sufficiente rammentare come, ancora di recente (Cass. n. 8642 del 2024), è stato ribadito che il giudizio di proporzionalità della sanzione è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003); la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata – che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi – la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell'art. 360, deve denunciare – beninteso, entro i limiti della cd. “doppia conforme” – l'omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016);

2.3.2. in merito al secondo aspetto, la Corte territoriale si mostra pienamente consapevole che la concessione dei permessi sindacali non è soggetta ad alcun potere discrezionale ed autorizzatorio da parte del datore di lavoro (v. Cass. n. 454 del 2003) e, purtuttavia, essi non possono essere utilizzati al di fuori della previsione normativa e per finalità personali o, comunque, divergenti rispetto a quelle per le quali possono essere richiesti; in particolare, la sussistenza di un diritto potestativo del rappresentante sindacale a fruire dei permessi non esclude la possibilità per il datore di lavoro di verificare, in concreto, eventualmente anche mediante attività investigativa - che non involge direttamente l'adempimento della prestazione lavorativa e non è quindi preclusa dagli artt. 2 e 3 L. n. 300/70 poiché riguarda un comportamento illegittimo posto in essere al di fuori dell'orario di lavoro, disciplinarmente rilevante - che effettivamente i permessi siano stati utilizzati nel rispetto degli artt. 23 e 24 S.d.L. (in termini: Cass. n. 34739 del 2019);

ciò posto, la qualificazione della condotta del dipendente in termini di abuso del diritto appare coerente con l'accertamento della concreta vicenda come operato dalla Corte veneziana, “venendo in rilievo non la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali; questo esclude la riconducibilità della condotta alle richiamate norme collettive che puniscono con sanzione conservativa la assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro” (così Cass. n. 26198 del 2022, in un caso in cui i giudici del merito avevano dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al dipendente per indebita fruizione di un permesso sindacale utilizzato per finalità estranee a quella propria del permesso in oggetto; in particolare, la Corte di merito aveva ritenuto che lo stesso non potesse essere sussunto fra le condotte non punibili con il licenziamento alla stregua del contratto collettivo applicabile che sanzionava con il licenziamento solo l'assenza ingiustificata protratta per oltre cinque giorni consecutivi o ripetuta per cinque volte in un anno nei giorni seguenti alle festività e alle ferie; ciò in quanto nello specifico non veniva in rilievo la sola assenza ingiustificata ma una condotta di vero e proprio abuso del diritto e quindi connotata da maggiore gravità oggettiva e soggettiva, rispetto a quella considerata dalla norma collettiva);

non risulta, invece, pertinente il richiamo di parte ricorrente a Cass. n. 6495 del 2021, relativa ad una ipotesi in cui i giudici del merito avevano accertato che le attività addebitate, pur non riconducibili allo schema della riunione sindacale per la quale era stato richiesto il permesso ex art. 30 S.d.L., “rientravano comunque nell'ambito di quelle proprie dell'incarico sindacale ricoperto”; in ragione di ciò questa Corte si è limitata a ritenere corretta l'operazione valutativa dei giudici d'appello che, fermo il rilievo disciplinare dell'addebito, avevano considerato assimilabile tale condotta alle ipotesi previste dal contratto collettivo per punire l'assenza arbitraria dal lavoro, ribadendo proprio che il “giudizio di proporzionalità […] è demandato al giudice del merito”;

3. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.