REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCALI Piero
Dott. ROMIS Vincenzo
Dott. MAISANO Giulio
Dott. IZZO Fausto
Dott. PICCIALLI Patrizia

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
1) S.L. N. IL ***;
1) RESPONSABILE CIVILE;
avverso la sentenza n. 177/2003 CORTE APPELLO di LECCE, del 17/11/2008;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 15/07/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;
udito il P.G. in persona del Dott. D'Ambrosio Vito che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per la parte civile, l'avv. Manfreda Massimo e Ruagliani Mario del Foro di Brindisi che insistono per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Corleto Pasquale, del Foro di Lecce e Sicilia Ernestina del Foro di Brindisi che concludono per l'accoglimento del ricorso e l'annullamento della sentenza.

FattoDiritto

 

 

 

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Lecce, in riforma di quella di primo grado, appellata dal PM e dalle parti civili, riteneva S.L., responsabile del reato di duplice omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del capo barca motorista A.A. e del mozzo M.A., dipendenti della società T. e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, comminava la pena di anni due di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.

Si è trattato di un infortunio sul lavoro occorso in data 4 agosto 1998 ai predetti lavoratori, i quali, mentre eseguivano il controllo dei motori dell'imbarcazione "T. I", inalavano una ingente quantità di idrogeno solforato cui conseguiva una intossicazione che ne procurava il decesso per insufficienza cardiorespiratoria.

Lo S. era stato chiamato a risponderne nella qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione della s.r.l. T., essendosi ravvisati a suo carico profili di colpa generica e specifica, quest'ultima fondata sulla violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 21 (per non avere adottato specifiche precauzioni ed in particolare informato i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute) e art. 4, comma 5, lett. c) e d), (per non avere messo a disposizione dei lavoratori appositi dispositivi di protezione individuale).

Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione S.L. articolando cinque motivi.

Con il primo lamenta plurime violazioni di legge con riferimento al giudizio di responsabilità, sostenendo che la Corte di merito aveva esteso smisuratamente la portata dell'art. 2087 c.c..
In particolare, il giudice di appello non avrebbe tenuto conto che alla data dell'incidente, il prevenuto era sollevato da qualsiasi incarico societario nella T. s.r.l. e da qualsiasi incarico connesso alle predette funzioni, in ragione dell'adozione del provvedimento di arresti domiciliari eseguito a suo carico in data 14 luglio 1997 per il reato di riciclaggio, e del contestuale provvedimento di sequestro preventivo della predetta società, con nomina del custode giudiziario D.B.A. (anch'egli sottoposto a procedimento penale e assolto in primo grado con la formula perché il fatto non sussiste; pendente in grado di appello, su ricorso delle sole parti civili). Ai predetti provvedimenti facevano seguito quelli in data 15 aprile 1998 e 21 maggio 1998 che avevano disposto l'affidamento al predetto custode della intera ordinaria amministrazione e della gestione anche dinamica della società. Sotto lo stesso profilo, evidenzia che nel momento in cui lo S. aveva cessato dall'incarico, l'attuazione del D.Lgs. n. 626 del 1994 era ancora agli inizi e non erano ancora in vigore i regolamenti attuativi specifici nel settore marittimo.

Con il secondo motivo si duole della manifesta illogicità della motivazione con riferimento alle violazioni della normativa antinfortunistica poste a fondamento del giudizio di responsabilità Si sostiene che le acquisizioni processuali dovevano porre ragionevoli dubbi che le omesse cautele, imputate all'imputato, riconducigli, sostanzialmente al mancato accertamento delle condizioni ambientali migliori per lavorare all'interno del vano motori nei periodi di intenso calore, sarebbero state in concreto idonee ad evitare gli eventi letali. Si sostiene, altresì, che illogicamente la Corte di merito aveva attribuito allo S. obblighi di prevenzione, spettanti al datore di lavoro, ed il rispetto di prescrizioni di fatto rimesse all'arbitrio dei dipendenti.

Con il terzo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione, sotto il profilo del travisamento delle risultanze processuali. Il riferimento è, in particolare, alla ipotetica presenza dello S. al molo il giorno dell'incidente, da cui la Corte di merito aveva dedotto il ruolo sostanziale del medesimo di datore di lavoro e/o di consulente della sicurezza per la prevenzione degli infortuni, nonostante l'esautoramento funzionale del medesimo.

Il riferimento è, altresì, alla data del documento inviato dal custode al GIP per la nomina di un responsabile della sicurezza, un anno prima dell'incidente, dal quale il giudice di appello aveva asseritamente dedotto erroneamente che solo dopo l'incidente il custode giudiziario aveva sostituito lo S. nella qualità di responsabile della prevenzione. Analogo travisamento della prova è dedotto con riferimento alla data di arruolamento delle vittime (il *** per l' A. ed il *** per il M.) e per la presenza sul molo il giorno dell'incidente, che doveva ritenersi essere quella del padre dell'imputato, ciò dovendolo desumere dal verbale di sommarie informazioni rese dallo stesso.

Con il quarto motivo si duole del trattamento sanzionatorio, sul rilievo che il giudice di appello nella determinazione della pena non avrebbe tenuto conto della diminuzione di un terzo spettategli a seguito della scelta del giudizio abbreviato.

Con il quinto motivo chiede la sospensione della esecuzione delle condanne civili ex art. 612 c.p.p..
Il ricorso non può trovare accoglimento, salvo che con riferimento al motivo afferente il trattamento sanzionatorio, a fronte di una sentenza che appare corretta nella ricostruzione ed applicazione della normativa di interesse e dei profili di colpa addebitati all'imputato, nella qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

È infondato il primo motivo, volto a censurare la decisione nella parte in cui, ritenendo erronea l'impostazione del giudice di primo grado, ha affermato che la nomina del custode giudiziale, a seguito del sequestro preventivo penale delle quote della s.r.l., non aveva comportato la decadenza automatica dello S. dall'incarico di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, al quale lo stesso imputato si era autodesignato D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 10. I giudici di appello hanno, infatti, fondato il giudizio di responsabilità facendo riferimento all'inadempimento da parte dell'imputato, in relazione alla posizione di garanzia ricoperta, all'obbligo di formazione e di vigilanza, finalizzata proprio ad evitare che i lavoratori, in virtù di scelte irrazionali e/o per comportamenti non adeguatamente attenti, potessero compromettere la propria integrità fisica.

L'imputato ha invece contestato il ruolo di responsabile della sicurezza svolto all'interno dell'azienda, assumendo che al momento dell'evento mortale dei due dipendenti, verificatosi a distanza di oltre un anno dalla nomina del custode giudiziale, non potendo più disporre del personale e dei beni dell'impresa, era decaduto da detto incarico.

Va ricordato in proposito che dalla normativa di settore (cfr., in particolare, D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 8, commi 3 e 10; ora, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 31, commi 2 e 5), emerge che uno dei compiti del datore di lavoro coessenziali alla posizione di garanzia che esso assume ex lege nella materia della prevenzione e della sicurezza è insieme all'obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il relativo documento: cfr. D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 28 e 29 proprio quello di nominare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) (cfr. art. 31 e ss. stesso Decreto). Altrettanto chiaramente emerge che è nella facoltà del datore di lavoro di svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e di protezione dei rischi, previa frequentazione di apposito corso di formazione in materia di sicurezza e salute sul luogo del lavoro, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Lo stesso imputato non contesta tale autodesignazione, risultante dalla dichiarazione da lui sottoscritta del 15.1.1997, inviata all'Ispettorato Provinciale del Lavoro ai sensi del citato D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 10, secondo la quale egli aveva assunto la qualifica di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e che tale attività era stata svolta dalla data di apertura della ditta e che aveva effettuato la valutazione dei rischi della ditta, adempiendo agli obblighi ad essa collegati.

Ciò che l'imputato contesta, come sopra evidenziato, è la persistenza di tale ruolo a seguito della nomina del custode giudiziale.

La censura è destituita di fondamento.

In proposito, per escludere qualsivoglia pretesa violazione di legge, è sufficiente ricordare che il sequestro preventivo, previsto dall'art. 321 c.p.p., delle quote o delle azioni sociali, in quanto idoneo ad impedire la commissione di ulteriori reati, pur se in maniera mediata e indiretta, per natura sua - salva espressa indicazione contraria nel provvedimento - priva i soci dei diritti relativi alle quote/azioni, sicché la partecipazione alle assemblee e il diritto di voto, anche in ordine all'eventuale nomina e revoca degli amministratori, spettano al custode designato in sede penale.

Una siffatta misura cautelare - cui è connaturato il carattere della provvisorietà, secondo il successivo art. 323 c.p.p. - è infatti diretta a scongiurare il pericolo che la "libera disponibilità" di una cosa pertinente al reato possa aggravarne o protraine le conseguenze, oppure possa agevolare la commissione di altri reati, e quindi ad evitare che quel bene possa essere adoperato dal proprietario per esplicare a proprio vantaggio le utilità in esso insite, sicché l'affidamento delle quote/azioni sequestrate al custode ha la sua ragion d'essere nell'esigenza di sottrarre al socio la possibilità di continuare a gestire dette azioni esercitando i diritti e le facoltà in esse incorporati, e primi tra tutti i cd. diritti amministrativi (o corporativi) del socio, ivi compresi il diritto d'intervento e di voto in assemblea.

Ne consegue, pertanto, che la tutela cautelare di cui all'art. 321 c.p.p. comporta soltanto la temporanea compressione di tali diritti del socio, senza incidere affatto sul ruolo che il socio possa, in ipotesi, ricoprire, sotto altri e diversi profili all'interno dell'ente: per quanto interessa, con riferimento all'assunzione del ruolo di RSPP. In tale prospettiva, pertanto, il conferimento al custode della gestione della società (v. provvedimenti del Tribunale di Brindisi del 15 aprile 1998 e del 21 maggio 1998) non implicava, pertanto, l'automatica assunzione da parte del medesimo delle funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ma, semmai, il potere che risulta, in atti, essere stato esercitato, ma solo in epoca successiva ai fatti sub iudice di formalizzare altra diversa nomina del RSPP già nominato.

Conferma in tal senso, infatti, è stata correttamente individuata dalla Corte di merito proprio nel fatto che, come anticipato, solo in data 27 agosto 1998, pertanto, successivamente all'infortunio mortale, il custode giudiziario chiese la nomina di un tecnico che potesse valutare i rischi per la sicurezza e la salute, nomina intervenuta il 10 ottobre 1998. Solo in tale data può quindi ritenersi cessato il ruolo prevenzionale svolto dal prevenuto.

È corretta, pertanto, la conclusione cui è pervenuta la Corte di merito, allorché ha affermato che il provvedimento di sequestro preventivo non fa perdere l'efficacia agli atti già compiuti dall'amministratore dell'azienda sequestrata, né incide sui poteri inerenti la funzione di prevenzione infortuni svolta dal responsabile del servizio prevenzione e protezione, che comporta ex se un'attività di consulenza, ma non un'attività diretta di spesa e gestione aziendale.

Infondati sono anche il secondo e terzo motivo, strettamente connessi al primo, entrambi rivolti a censurare la sentenza impugnata, sotto il duplice profilo di plurime violazioni di legge e manifesta illogicità della motivazione, anche per il travisamento di prove, nella parte in cui, ritenendo erronea l'impostazione del giudice di primo grado, ha affermato che le omesse cautele, imputate all'imputato, riconducibili, sostanzialmente al mancato accertamento delle condizioni ambientali migliori per lavorare all'interno del vano motori nei periodi di intenso calore, sarebbero state in concreto idonee ad evitare gli eventi letali. Si sostiene, altresì, che illogicamente la Corte di merito aveva attribuito allo S., obblighi di prevenzione, spettanti al datore di lavoro ed il rispetto di prescrizioni di fatto rimesse all'arbitrio dei dipendenti.

I giudici di appello hanno stabilito quale causa della morte, anche a seguito della rinnovata istruttoria, che ha chiarito le titubanze dei tre periti nominati dal GIP, l'ipossia ovvero l'asfissia da progressivo consumo di ossigeno di entrambi i lavoratori verificatasi nell'atmosfera del vano motori della barca Tecnomare, la cui natura di "spazio confinato" non è in contestazione. Proprio a causa della progressiva rarefazione dell'ossigeno nell'aria respirata, i lavoratori non ebbero modo di accorgersi che esso era via via disceso a livelli nocivi e poi letali e conseguentemente non avevano potuto neppure allontanarsi dal sito.

È stato altresì congruamente e logicamente accertato il nesso di causalità tra la violazione della specifica normativa antinfortunistica e l'evento.

In proposito va evidenziato che la Corte di merito ha correttamente sottolineato, partendo dalla causa della morte e prendendo in considerazione l'ambiente di lavoro in cui operavano le vittime, come difettasse nell'attività della Tecnomare s.r.l. quella media diligenza richiesta nelle specifiche mansioni di vigilanza sui lavoratori, soprattutto tenuto conto del rischio specifico cui erano esposti i lavoratori, rappresentato proprio dal rischio di asfissia in ambiente confinato, già previsto dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 236, applicabile, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. Sez. 4^, 28 novembre 1997, n. 11329, citata anche nella sentenza impugnata) in mancanza di appositi provvedimenti regolamentativi alla navigazione marittima (a cui ha fatto seguito, la disciplina specifica di carattere generale ex D.Lgs. n. 271 del 1999, peraltro entrata in vigore dopo l'infortunio).

In conclusione, non è validamente contestabile, come correttamente evidenziato dalla Corte di merito, che l'adozione di idonee misure di prevenzione (tra queste, in particolare, l'adeguata informazione dei dipendenti sui rischi specifici cui erano esposti in relazione all'attività svolta, l'assistenza di altro lavoratore, situato all'esterno presso l'apertura di accesso, una ventilazione del locale continua e costante per tutta la durata delle operazioni) avrebbe scongiurato l'evento letale. Le censure sul punto si palesano infondate, in quanto il ricorrente, dietro l'apparente deduzione di un vizio di legittimità, vorrebbe che in questa sede si procedesse ad una rinnovata valutazione degli elementi probatori posti a base del giudizio di responsabilità.

Infondata è anche la doglianza con la quale si contesta l'ascrivibilità della colpa in capo allo S., nella qualità di responsabile della prevenzione. Si sostiene, in sostanza, che la Corte di merito avrebbe, illogicamente e in violazione della legge, caricato il medesimo di obblighi di prevenzione gravanti, invece, sul datore di lavoro.

La censura non è condivisibile.

La Corte di appello, attraverso la disamina degli atti di causa, ha ampiamente argomentato sui profili della ritenuta responsabilità dell'imputato, corrispondendo del resto puntualmente alle doglianze proposte con l'appello.

In particolare, a base dell'affermato giudizio di colpevolezza i giudici d'appello hanno posto l'apprezzamento del ruolo svolto dallo S., che, nella qualità di datore di lavoro, si era anche autodesignato responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Non è pertanto dubitabile, la posizione di garanzia in cui si trovava lo S., nella qualità di responsabile della sicurezza, in ragione dei propri compiti all'interno dell'azienda, che gli imponevano di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurandosi che si provvedesse alla individuazione e valutazione dei fattori di rischio, all'obbligo di formazione e di vigilanza finalizzato proprio ad evitare incidenti come quello verificatosi in occasione dell'attività di manutenzione del natante.

Al riguardo, va, infatti, ancora una volta sottolineato, che la nomina del custode giudiziario non aveva fatto venire meno i poteri correlati alla funzione di prevenzione infortuni svolta dal responsabile della sicurezza, che comporta esclusivamente un'attività di consulenza e non un'attività diretta di spese e gestione aziendale.

Va ricordato in proposito che, dalla normativa di settore (cfr., in particolare, D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 8, commi 3 e 10; ora, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 31, commi 2 e 5), emerge che i componenti del servizio di prevenzione e protezione, essendo considerati dei semplici "ausiliari" del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale. Essi sono soltanto dei "consulenti" e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico), vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario. Il fatto, però, che la normativa di settore escluda la sanzionabilità penale o amministrativa di eventuali comportamenti inosservanti dei componenti del servizio di prevenzione e protezione, non significa che questi componenti possano e debbano ritenersi in ogni caso totalmente esonerati da qualsiasi responsabilità penale e civile derivante da attività svolte nell'ambito dell'incarico ricevuto. Infatti, occorre distinguere nettamente il piano delle responsabilità prevenzionali, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo, da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando, cioè, si siano verificati infortuni sul lavoro o tecnopatie.

Ne consegue che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione qualora, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell'evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo (Sezione 4^, 13 marzo 2008, Reduzzi ed altro).

Questi, come si è visto, non è diretto destinatario per legge dell'osservanza dei precetti prevenzionali il suo compito, infatti, è solo quello di individuare le situazioni di rischio da sottoporre all'attenzione del datore di lavoro, cosicché la condotta dello stesso, ancorché "oggettivamente" violatrice di taluno di essi e, come tale, foriera di responsabilità nei termini di cui si è detto, non potrà mai essere considerata caratterizzata da un titolo di colpa specifica. Tra i compiti del RSPP, dettagliati dalla richiamata normativa, rientra anche l'obbligo dell'individuazione dei fattori di rischio e delle misure da adottare per la sicurezza e la salubrità dell'ambiente di lavoro. Nello svolgimento di tali compiti, peraltro, il RSPP opera "per conto" del datore di lavoro, svolgendo solo un' attività di "consulenza" nella materia della prevenzione dei rischi in ambiente lavorativo, di guisa che i risultati della sua attività sono destinati al datore di lavoro, cui compete, poi, di ottemperare alle indicazioni offertegli rimuovendo le situazioni pericolose (Sez. 4^, 6 dicembre 2007, Oberrauch ed altro).

Dalla ricostruzione dei compiti del RSPP discende, coerentemente, che il medesimo è privo di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, spettandogli solo di prestare "ausilio" al datore di lavoro nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori (cfr. art. 33 del decreto cit.).

Il datore di lavoro, quindi, è e rimane il titolare della posizione di garanzia nella subiecta materia, poiché l'obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, appunto in collaborazione con il RSPP, fa pur sempre capo a lui, tanto che la normativa di settore, mentre non prevede alcuna sanzione penale a carico del RSPP, punisce direttamente il datore di lavoro già per il solo fatto di avere omessa la valutazione dei rischi e non adottato il relativo documento.

Quanto detto, però, non esclude che, indiscussa la responsabilità del datore di lavoro che rimane persistentemente titolare della "posizione di garanzia", possa profilarsi lo spazio per una (concorrente) responsabilità del RSPP. Anche il RSPP, che pure è privo dei poteri decisionali e di spesa e quindi non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto (cor)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione (Sez. 4^ 13 marzo 2008, Reduzzi ed altro; 15 febbraio 2007, Fusilli e 20 aprile 2005, Stasi ed altro).

Il RSPP, quindi, non può essere chiamato a rispondere per il solo fatto di non avere svolto adeguatamente le proprie funzioni di verifica delle condizioni di sicurezza, proprio perché come si è visto, difetta una espressa sanzione nel sistema normativo.

Invece, secondo le regole generali, il RSPP può essere tenuto a rispondere - proprio perché la sua inosservanza si pone come concausa dell'evento - dell'infortunio in ipotesi verificatosi proprio in ragione dell'inosservanza colposa dei compiti di prevenzione attribuitigli dalla legge.

In altri termini, relativamente alle funzioni che la normativa di settore attribuisce al RSPP, l'assenza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale non esclude che l'eventuale inottemperanza a tali funzioni - e segnatamente la mancata o erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori- possa integrare una omissione rilevante per radicare la responsabilità tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa ignorata o male considerata dal responsabile del servizio.

Ciò perché, in tale evenienza, l'omissione colposa al potere-dovere di segnalazione in capo al RSPP, impedendo l'attivazione da parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento, finirebbe con il costituire (con)causa dell'evento dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione della condizione di rischio: con la conseguenza, quindi, che, qualora il RSPP, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale, ben potrebbe rectius, dovrebbe essere chiamato a rispondere insieme a questi in virtù del combinato disposto dell'art. 113 c.p. e art. 41 c.p., comma 1, dell'evento dannoso derivatone.

La decisione impugnata è, pertanto, in linea con i principi sopra indicati, avendo la Corte di merito apprezzato che l'incidente mortale si verificò per evidenti carenza dell'apparato prevenzionale e per l'utilizzo di una metodica di lavoro pericolosa che non era stata per tempo evidenziata dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

Né può sostenersi, con la difesa, la carenza di motivazione con riferimento ad asseriti travisamenti delle prove (circa l'epoca di assunzione delle vittime e la presenza dell'imputato sul molo al momento dell'incidente), trattandosi di questioni, in ogni caso ed assorbentemente, prive di rilevanza ai fini della decisione.

Da questa premesse, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio di sussistenza della colpa posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure.

Fondata è, invece la doglianza contenuta nel quarto motivo, laddove si sottolinea l'incongruità e l'inesattezza della sentenza allorquando non si è proceduto alla diminuzione di un terzo prevista per il giudizio abbreviato.

Tale vizio può essere direttamente corretto da questa Corte, eliminando mesi otto di reclusione dalla pena complessiva determinata in dispositivo.

L'istanza di sospensione delle esecuzione delle condanne civili, formulata ex art. 612 c.p.p., formulata con il quinto motivo - sulla quale non risulta che questa Corte si sia già pronunciata -, non meritava, comunque, accoglimento, difettando ogni prova dell'esistenza di un "danno grave ed irreparabile" derivante da tale esecuzione.

 

 

P.Q.M.

 


annulla senza rinvio la sentenza limitatamente alla misura della pena, che ridetermina in anni uno e mesi quattro di reclusione;
rigetta nel resto il ricorso. Pone a carico del ricorrente la rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio, che liquida equitativamente in Euro 2.500, sia per quelle difese dall'avv. Manfreda, sia per quelle difese dall'avv. Guaglioni, oltre accessori come per legge.