Responsabilità di 14 imputati e altri che, nelle varie qualità di amministratori o dirigenti delle società aventi in carico lo stabilimento della "M." di Verbania, dedito alla produzione di fibre di nailon, avevano determinato per colpa la morte di una pluralità di lavoratori i quali, in detto stabilimento, avevano inalato polveri di amianto, contraendo così malattie (asbestosi, mesotelioma pleurico) che li avevano portati al decesso.


In particolare agli imputati veniva fatto carico che, in violazione dell'art. 2087 c.c., e di numerose norme dettate in materia di igiene e salubrità dei luoghi di lavoro, avevano omesso di adottare, soprattutto durante i frequenti lavori di manutenzione degli impianti e di decoibentazione e nuova coibentazione, le cautele necessarie per evitare che i lavoratori fossero esposti in modo diretto o indiretto alla inalazione delle polveri di amianto, non dotandoli di dispositivi personali di protezione, non attuando le specifiche norme di igiene, non rendendo edotti i lavoratori del rischio specifico a cui erano esposti, non disponendo di effettuare in luoghi separati le lavorazioni insalubri, non adottando misure per prevenire o ridurre la dispersione e diffusione nei luoghi di lavoro delle polveri e fibre di amianto, soprattutto, come detto, in occasione delle attività di manutenzione delle tubature e degli impianti.

In primo grado vennero assolti quasi tutti gli imputati in ragione del dubbio sulla sussistenza della causalità delle condotte omissive, ad eccezione di M.G. e Q.B. che all'epoca dei fatti era provato avessero una posizione di garanzia in ragione delle loro cariche sociali.

Al contrario, la Corte d'Appello condanna tutti gli imputati.

Ricorso in Cassazione di tutti gli imputati e del responsabile civile.

Riportiamo solo alcuni significativi passi del ragionamento della Corte:

"I giudici di merito, richiamando gli argomenti esposti dai consulenti e dai periti, hanno evidenziato come la letteratura scientifica sia oramai consolidata nel ritenere che l'asbestosi sia innescata dalla inspirazione delle fibre di amianto e che ogni ulteriore inalazione è idonea ad aggravare la patologia. Si tratta, pertanto, di una malattia "firmata" dall'amianto e determinata da condotte omissive che non riducono la diffusione delle polveri e delle fibre nell'ambiente di lavoro.
I giudici di merito, nel comparare tale patologia con il mesotelioma pleurico (di cui si discorrerà in prosieguo), hanno evidenziato che l'asbestosi è una malattia "dose-correlata", nel senso che il suo sviluppo e la sua gravità aumentano in relazione alla durata di esposizione alla inalazione delle fibre.

In sostanza la quantità di asbesto che viene inalata nei polmoni e la sua pericolosità sono legati alla durata dell'esposizione : è per tale motivo che l'asbestosi è ritenuta una malattia in cui esiste una stretta correlazione fra "dose" di asbesto inalata e "risposta" dell'organismo.

Ne consegue che correttamente la Corte di merito ha ritenuto che le condotte omissive degli imputati, che nel tempo si sono succeduti nella posizione di garanzia e che poco o nulla hanno fatto per ridurre in modo sensibile la esposizione dei lavoratori all'amianto nei locali aziendali, hanno avuto tutte un'efficacia causale in relazione agli eventi verificatisi, in quanto hanno determinato l'insorgenza della malattia o in ogni caso il suo aggravarsi, con un'accelerazione dei tempi di latenza della patologia.
Invero, in base ai principi sopra richiamanti, la dipendenza degli eventi mortali per cui si procede dall'esposizione all'amianto, non può essere dubbia in quanto l'asbestosi è malattia che si contrae con l'esposizione a detta sostanza e, nel caso di specie, non esistono serie ipotesi alternative di contrazione della malattia e di produzione dell'evento (cfr. per un caso analogo, Cass. 3567/2000, Hariolf).
Per cui, come già affermato da questa Corte di legittimità in precedenti sentenze, la responsabilità per gli eventi legati all'inalazione delle polveri di amianto, pur in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della patologia, va attribuita causalmente alla condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale, anche se per una parte soltanto del periodo di tempo di esposizione delle persone offese, in quanto tale condotta ha ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente".

Ancora: "Nel caso di specie, come osservato con coerente ragionamento dal giudice di merito, il rispetto delle regole cautelari avrebbe ridotto notevolmente la possibilità del concretizzarsi del rischio, tenuto conto che le lavorazioni con impiego di amianto sono state svolte senza cautele a volte elementari (bagnare le polveri, evitare di intervenire durante lo svolgimento dell'ordinaria produzione; prevedere efficienti impianti di aspirazione; rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici di esposizione; ecc.), così determinando la diffusione negli ambienti di lavoro delle fibre di asbesto, il loro deposito in detti ambienti e la possibilità di inalazione anche per i lavoratori non addetti alle operazioni di manutenzione. Ne consegue che il rispetto delle cautele avrebbe certamente ridotto al minimo il rischio del verificarsi degli eventi.

Tirando le file del discorso fin qui fatto in tema di decessi per asbestosi, richiamando quanto esposto, si deve concludere che la sentenza impugnata non manifesta alcun vizio di violazione di legge o difetto di motivazione.

La Corte di merito, ha ricostruito le modalità con cui veniva utilizzato l'amianto nello stabilimento M. di Verbania all'epoca dei fatti; ha riscontrato come tali modalità fossero in violazione di esplicite norme cautelari dettate in materia o imposte dall'esperienza e finalizzate ad evitare la dispersione delle polveri negli ambienti di lavoro o per ridurla al minimo possibile; ha evidenziato come ciò sia stato causa degli eventi mortali; ha ricordato che gli imputati, per le loro specifiche cariche, avevano una posizione di garanzia che imponeva di attivarsi per impedire gli eventi; che il loro comportamento era stato invece omissivo; che la condotta omissiva tenuta era stata connotata da colpa, in quanto erano state violate norme cautelari finalizzate a prevenire eventi prevedibili ed evitabili attraverso il rispetto delle regole; valutando infine che gli eventi verificatisi erano proprio quelli che la corretta condotta, rispettosa delle regole cautelari, avrebbe evitato.

Sulla base di tali coerenti e logiche valutazioni, riscontrata la sussistenza sia dell'elemento oggettivo che soggettivo dei reati, è stata pronunciata la condanna degli imputati (e confermate quelle già irrogate in primo grado). Vanno pertanto rigettati i ricorsi degli imputati in relazione ai decessi per asbestosi."


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUARTA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PIERO MOCALI - Presidente
Dott. CARLO GIUSEPPE BRUSCO - Consigliere
Dott. CLAUDIO D'ISA - Consigliere
Dott. GIULIO MAISANO - Consigliere
Dott. FAUSTO IZZO - Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA


sul ricorso proposto da:
1) Q.B. N. IL ***;
2) PO.GI. N. IL ***;
3) B.A. N. IL ***;
4) V.C. N. IL ***;
5) VA.LU. N. IL ***;
6) PE.AN. N. IL ***;
7) D.S. N. IL ***;
8) G.A. N. IL ***;
9) P.L. N. IL ***;
10) M.G. N. IL ***;
11) C.L. N. IL ***;
12) D.M.G. N. IL ***;
13) PI.GI. N. IL ***;
14) V.M.M. N. IL ***;
15) SOCIETÁ LA M. S.P.A.;

avverso la sentenza n. 12756/2007 CORTE APPELLO di TORINO, del 25/03/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/06/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FAUSTO IZZO;
CONCLUSIONI:
- Il Procuratore Generale Dott. Giuseppe Volpe ha concluso chiedendo:
l'annullamento della sentenza impugnata per Q. per il capo G) con rinvio per la rideterminazione della pena e trasmissione degli atti alla Procura competente; annullamento con rinvio per nuova motivazione della sentenza impugnata per B., D., P. e Pe.; annullamento con rinvio della sentenza impugnata per Q., Va., C., V.M., D.M., Pi., Po., T. e G. per nuova motivazione; rigettare nel resto i ricorsi;
- per la Parte Civile CGIL Camera del Lavoro, è presente l'Avv. Carlo Ruga Riva che conclude per la declaratoria di inammissibilità o rigetto dei ricorsi; per la Parte Civile Medicina Democratica, è presente l'Avv. Giovanni Bonalumi che chiede la conferma della sentenza impugnata;
- per il Responsabile Civile M. s.p.a. è presente l'Avv. Luciano Spagnuolo Vigorita che chiede l'accoglimento del ricorso.
- per gli imputati, sono presenti gli Avv.ti Padovani Tullio (per C. e G.), RAFFAELLI ADRIANO (per Q., Po., Va., Pe., D., P.), Giovanni Paolo Accinni (per M., D.M. e Pi.), Marco De Luca, anche in sostituzione dell'Avv. Alberto Alessandri, (per G., B. e V.M.), che chiedono l'accoglimento dei ricorsi.








FattoDiritto

 

 

1. Origine del processo.


A seguito di esercizio dell'azione penale da parte del P.M. presso il Tribunale di Verbania, venivano chiamati in giudizio gli attuali 14 imputati ed altri che, nelle varie qualità di amministratori o dirigenti delle società aventi in carico lo stabilimento della "M." di Verbania, dedito alla produzione di fibre di nailon, avevano determinato per colpa la morte di una pluralità di lavoratori i quali, in detto stabilimento, avevano inalato polveri di amianto, contraendo così malattie (asbestosi, mesotelioma pleurico) che li avevano portati al decesso.
In particolare agli imputati veniva fatto carico che, in violazione dell'art. 2087 c.c., e di numerose norme dettate in materia di igiene e salubrità dei luoghi di lavoro, avevano omesso di adottare, soprattutto durante i frequenti lavori di manutenzione degli impianti e di decoibentazione e nuova coibentazione, le cautele necessarie per evitare che i lavoratori fossero esposti in modo diretto o indiretto alla inalazione delle polveri di amianto, non dotandoli di dispositivi personali di protezione, non attuando le specifiche norme di igiene, non rendendo edotti i lavoratori del rischio specifico a cui erano esposti, non disponendo di effettuare in luoghi separati le lavorazioni insalubri, non adottando misure per prevenire o ridurre la dispersione e diffusione nei luoghi di lavoro delle polveri e fibre di amianto, soprattutto, come detto, in occasione delle attività di manutenzione delle tubature e degli impianti.

 

2. Il giudizio di primo grado.

Con sentenza del 1/6/2007 il Tribunale monocratico di Verbania pronunciava sentenza con la quale assolveva tutti gli attuali imputati con formula piena, ad eccezione di M.G. e Q.B., in relazione al decesso di due lavoratori.
Premetteva il Tribunale nella sua pronuncia, che la decisione da adottare era particolarmente complessa in ragione della pluralità dei lavoratori deceduti, i diversi periodi di loro impiego, la diversità delle mansioni, la differenza delle patologie patite; nonché per la pluralità degli imputati, le loro diverse funzioni ed i differenti periodi di esercizio.

 

Pertanto osservava il tribunale che, metodologicamente, era necessario accertare:
1) se gli operai deceduti avessero effettivamente respirato fibre di amianto;
2) se le avessero respirate nello stabilimento di Verbania;
3) se ciò era avvenuto quando gli imputati rivestivano delle cariche nella società "M." o di altre operanti nello stabilimento;
4) se dette cariche determinavano la loro responsabilità per eventuali condotte omissive.

 

Ciò premesso, in ordine al primo punto di verifica, riteneva il Tribunale che tutti gli operai deceduti, ad eccezione del Mo.T., avevano patito patologie da asbestosi o per mesotelioma.

Pertanto, escludendo improbabili cause alternative, essi erano stati esposti in azienda alla inalazione di fibre di amianto.

 

Per quanto detto, andavano assolti gli imputati in relazione al decesso del Mo..

 

In ordine alla seconda verifica, osservava il Tribunale che nello stabilimento di Verbania, dedito alla produzione di fibre di nailon, certamente si faceva uso di amianto con finalità di coibentazione di tubi e macchinari, ciò per mantenere alte le temperature per i processi di produzione.

 

Tali operazioni erano state svolte senza particolari cautele, specialmente nel reparto filatura, ove i sacchi di amianto venivano aperti e maneggiati senza neanche bagnarli, in tal modo determinando l'inalazione delle fibre non solo per i lavoratori addetti alla manutenzione, ma anche per gli altri, in quanto le fibre si disperdevano nell'ambiente di lavoro, depositandosi su pavimenti e macchinari per poi tornare in circolo per una qualsiasi causa idonea a smuoverle.

 

Inoltre, quantomeno fino al 1973, non vi era alcun sistema di aspirazione diretta delle fibre.

 

Il rischio dell'esposizione all'amianto era ben noto ai vertici aziendali, tanto vero che nel 1973 i manutentori erano stati inviati per dei controlli presso il C.T.O. di Torino per possibile asbestosi ed il medico di fabbrica, Dott. Ma., aveva chiesto il loro spostamento, che per uno degli operai, il Co., era avvenuto solo nel 1976.

 

Ne deduceva il giudice di primo grado che, se da un lato era certo che nello stabilimento i lavoratori erano stati esposti al rischio di inalazione delle fibre; dall'altro tale rischio verosimilmente non era stato corso da quei lavoratori deceduti i quali non operavano nei pressi dei luoghi ove veniva maneggiato l'amianto ed individuati in Ca., M., A., Ge., Me. e Co..

 

Per tali decessi, pertanto, gli imputati venivano assolti in assenza di prova del nesso causale tra la morte e l'attività di lavoro svolta nello stabilimento di Verbania.

 

In ordine alla terza verifica, il giudice di primo grado, sovrapponendo virtualmente i periodi in cui gli imputati avevano avuto incarichi societari e/o di dirigenza con i periodi in cui i lavoratori deceduti avevano prestato la loro opera, escludeva la loro responsabilità in relazione a numerosi decessi pronunciano la loro assoluzione.

In relazione alle vittime per le quali, invece, i periodi della carica erano sovrapponibili con i periodi di lavoro degli operai e la loro esposizione al rischio, il Tribunale svolgeva le seguenti argomentazioni (quarta verifica). Se imputata fosse stata la "M.", cosa solo ipotetica, ma impossibile in quanto "societas delinquere non potest", la sua responsabilità sarebbe stata affermata con certezza in ragione della continuità delle pericolose omissioni addebitabili sempre allo stesso soggetto (la società). Ma nel caso di specie, si chiedeva il giudice, poteva addebitarsi la causalità omissiva a persone fisiche, talune delle quali, avevano svolto funzioni di vertice nell'azienda solo per brevi periodi? Partendo da questa osservazione rilevava il giudice di merito che per gli operali deceduti per mesotelioma (premesso che anche per tale malattia era prevedibile l'evento dannoso) era impossibile, con certezza, affermare che proprio le fibre inalate nel periodo in cui i vari imputati avevano svolto la loro funzione di vertice, avessero determinato l'insorgere della malattia o l'aggravamento di una patologia già in atto, ciò in quanto la validità della c.d. teoria della "dose - risposta" (in base alla quale le inalazioni di fibre successive a quella "killer" erano idonee a ridurre il periodo di latenza della malattia, tanto da costituire concausa del decesso), non aveva una sicura certezza scientifica. Ne conseguiva la assoluzione di tutti gli imputati, in ragione del dubbio sulla sussistenza della causalità delle singole condotte omissive.

L'assoluzione non veniva pronunciata in relazione ai decessi del Co. e del Me., deceduti per asbestosi. In tale caso, infatti, la notorietà della malattia imponeva la condanna di quegli imputati (M. e Q.) che all'epoca dei fatti era provato aver avuto una posizione di garanzia in ragione delle loro cariche sociali.
Tali imputati, oltre che alla sanzione penale, venivano condannati, unitamente al responsabile civile "M." s.p.a. al risarcimento del danno in favore delle parti civili ("Camera del Lavoro" territoriale CGIL del VCO e Cooperativa "Medicina Democratica Movimento Lotta per la Salute"), liquidato equitativamente in Euro 25.000 = per ciascuna di esse.

 

3. Il giudizio di appello.

 

Avverso la sentenza di primo grado proponevano appello gli imputati condannati, il responsabile civile, le parti civili ed il P.M., quest'ultimo chiedendo la condanna degli imputati assolti in ordine a tutte le imputazioni a loro carico formulate.
Con sentenza del 25/3/2009 la Corte di Appello di Torino, riformando la sentenza di primo grado, pronunciava la condanna di tutti gli imputati assolti in primo grado ed odierni ricorrenti. Inoltre, aumentava il risarcimento in favore delle costituite parti civili in Euro 50.000 ciascuna.
Osservava la Corte territoriale che la complessità della vicenda imponeva l'analisi separata, ma logicamente connessa, di quattro aspetti:


1) le caratteristiche degli ambienti di lavoro ove operavano le vittime e la eventuale presenza di amianto;

2) l'esistenza delle malattie in contestazione;

3) il legame causale tra l'asbestosi ed il mesotelioma pleurico (con conseguenti decessi) con l'esposizione alle polveri di amianto;

4) la prevedibilità ed evitabilità dell'evento.
In relazione al primo aspetto (ambiente di lavoro) osservava che:

a) tutti i lavoratori deceduti erano impiegati alle dipendenze della "M." (o di società collegate) nello stabilimento di Verbania, dedito alla produzione di fibre di nailon ed occupante negli anni '70 circa 3.600 dipendenti;

b) la lavorazione del nailon prevedeva un processo produttivo in cui si sviluppavano alte temperature, da qui la necessità di avere tubazioni e macchinari atti a sopportare dette temperature;

c) per tale motivo nello stabilimento esisteva un reparto coibentazione destinato alla realizzazione dei rivestimenti in amianto, sostanza questa che veniva utilizzata in modo massiccio per la protezione soprattutto delle condotte;

d) la rottura delle coibentazioni comportava la necessità di continui interventi di manutenzione, che venivano effettuati senza garanzie per la salute dei lavoratori. In particolare senza interrompere il ciclo produttivo; frantumando sul posto le coibentazioni danneggiate e lavorando, sempre sul posto, l'amianto da posizionare, prelevandolo da grossi sacchi; le procedure di aspirazione erano assenti o rudimentali. Per tali motivi le polveri di amianto si propagavano negli ambienti di lavoro esponendo alla loro inalazione non solo i lavoratori impiegati nella manutenzione, ma tutti coloro che erano presenti nel luogo di lavoro. Il consulente del P.M. Dott. L., aveva rilevato la presenza significativa di amianto ancora nel 2002;

e) la circostanza che alcuni lavoratori ( Ca., M., A., Ge., Me., Co.), tra quelli deceduti, fossero stati trasferiti a metà degli anni 70 non aveva impedito che, anche successivamente, avessero inalato polveri di amianto. Ciò per due ragioni: in primo luogo, perchè l'effettività del loro trasferimento era dubbia; quanto alle reali date degli spostamenti, dagli atti processuali risultavano avvenute successivamente all'epoca indicata nella sentenza del Tribunale; in secondo luogo, perchè anche dopo il trasferimento, avevano avuto modo di inalare le polveri, in ragione della struttura del fabbricato aziendale e della diffusione delle polveri in tutti i locali;

f) con particolare riferimento ai lavoratori deceduti ma., Ga. e mo., che nel corso del 1975 erano stati trasferiti dalla "M." alla società "T.", ciò non escludeva la eventuale responsabilità dei vertici della prima società in quanto il passaggio dalla "M." alla "T." aveva riguardato solo alcune parti dello stabilimento (la centrale termica, la centrale elettrica ed alcune particelle di terreno); peraltro gli ambienti di lavoro era commisti ed inoltre la "M." aveva il sostanziale controllo e gestione della "T.";

g) quanto alla quantificazione dei livelli di esposizione alle polveri di amianto, non era condivisibile la tesi del consulente Ing. N., ripresa dalle difese degli imputati e del responsabile civile, il quale facendo riferimento ad un protocollo di indagine classico ed ai valori TLV-TWA adottati dalla ACGIH, aveva desunto che non era possibile quantificare i livelli pregressi di esposizione all'amianto secondo seri parametri scientifici, tenuto anche conto che l'esposizione dei lavoratori era stata per la maggior parte indiretta. Infatti, sebbene la quantificazione dell'esposizione non era effettivamente possibile, dalle dichiarazioni degli esperti e dei testimoni era emersa la grave negligenza nell'utilizzo dell'amianto e, quindi, la violazione della disposizione dell’art. 21 DPR 303\1956,  che impone al datore di lavoro di impedire lo sviluppo e la diffusione delle polveri nei luoghi di lavoro. Inoltre la mancata identificazione del superamento di valori limite, peraltro non aventi alcun valore legale nell'ordinamento, non aveva alcuna valenza ostativa alla affermazione della penale responsabilità degli imputati.

Peraltro tutte le vittime erano decedute per patologie ricollegabili all'esposizione all'amianto, senza alcuna possibilità alternativa di contrarre la patologia.

La Corte di merito, inoltre, in relazione al secondo aspetto (esistenza delle malattie, 3 asbestosi e 8 casi di mesotelioma pleurico) osservava che:

a) con riferimento all'operaio C., a questi era stata diagnosticata l'asbestosi e ciò era compatibile con il fatto che avesse lavorato fino al 1978 come coibentatore e quindi per circa venti anni. Corretto era pertanto il decorso causale indicato nel certificato di morte "causa iniziale asbestosi, causa intermedia neoplasia polmonare e causa finale insufficienza respiratoria".

b) Con riferimento all'operaio Me. il prof. Lo. non aveva rinvenuta una chiara diagnosi di asbestosi; invece il consulente Mi. aveva rilevato che tale malattia professionale gli era stata riconosciuta dall'INAIL e a causa di essa aveva patito un tumore polmonare. Tale conclusione era corretta, tenuto conto che detto lavoratore aveva avuto una esposizione all'amianto per circa 35 anni, dal 1944 al 1973 come coibentatore e fino al 1979 come magazziniere, laddove venivano stoccati i sacchi di amianto.

c) Con riferimento all'operaio Mo. anche in tal caso ai dubbi del prof. Lo. aveva risposto il consulente Mi., che aveva evidenziato come i numerosi ricoveri in ospedale di tale parte lesa, per insufficienza respiratoria, erano stati determinati non da una bronco - peneumopatia, ma da asbestosi, tenuto conto che le radiografie evidenziavano ispessimenti e calcificazioni pleuriche bilaterali. Tale diagnosi era compatibile con le mansioni svolte dal lavoratore dal 1944 al 1979 come operaio addetto alla manutenzione caldaie.

d) Con riferimento alle vittime a cui era stata diagnosticato il mesotelioma pleurico, nel corso del processo tale diagnosi e la collegabilità all'inalazione di amianto non era stata messa in serio dubbio, se non dal prof. Lo., ma la circostanze che tale patologia fosse "firmata" dall'amianto e che le vittime avessero lavorato a lungo esposti alle polveri, dissipava tali dubbi.

 

In relazione al terzo aspetto e cioè il collegamento causale tra l'asbestosi, il mesotelioma pleurico e l'esposizione alle polveri d'amianto, la Corte distrettuale ha osservato che:

a) il Tribunale di Verbania aveva assolto gli imputati per i decessi attribuiti a mesotelioma, in quanto non era provata scientificamente la teoria della "dose-risposta", secondo la quale le inalazioni successive di amianto peggioravano la patologia, sicchè costituivano concause dei decessi unitamente alla originaria prima dose "killer".
Pertanto, secondo il Tribunale, avendo sicura efficacia casuale solo la inalazione della prima dose c.d. "killer", non potendo stabilire quando ciò fosse avvenuto e quindi la individuazione dei soggetti che avevano una posizione di garanzia in quel momento, si imponeva l'assoluzione degli imputati per decessi da mesotelioma.

b) Tale impostazione era stata contestata dal P.M. e dalla difesa delle parti civili, le quali si appellavano al modello matematico elaborato dagli studiosi Boffetta-Doll-Peto che avvaloravano la tesi della dose-risposta, fornendo copertura scientifica alla sussistenza del nesso causale.

c) Tale teoria era a sua volta contestata dalla difesa degli imputati, che evidenziava come la patologia in questione non è dose- dipendente e può essere scatenata anche da una minima inalazione.

 

Pertanto non esisteva alcuna prova scientifica della efficacia causale delle dosi inalate successivamente a quella scatenante (ed impossibile da datare).

Desumeva da tutto ciò la Corte, che nel rispetto del principio di equivalenza delle cause operante nel nostro sistema penale, era da condividere la teoria della "dose-risposta", soprattutto nei casi come quelli oggetto di processo, in cui gli operai deceduti erano stati esposti per lungo tempo alle polveri e fibre di amianto, in situazioni di igiene precaria del posto di lavoro.

In tale contesto, per escludere la operatività sul piano pratico della teoria era necessario dimostrare che la inalazione della sola dose iniziale era stata da sola sufficiente a far insorgere la malattia e portare al decesso.

Di contro valutazioni logiche consentivano di ritenere che il prolungarsi nel tempo dell'esposizione all'amianto aveva determinato l'aggravarsi del rischio dell'insorgenza di neoplasie, sì da costituire quantomeno una concausa dei decessi.
Né tale valutazione comportava il sostituirsi della giurisprudenza alla comunità scientifica, in quanto pur sempre le decisioni del giudice si basavano sulla ragionevolezza della adesione ad una tesi scientifica piuttosto che ad un'altra.

 

Infine, in ordine al quarto ed ultimo aspetto della vicenda, la prevedibilità ed evitabilità dell'evento morte in ragione della patologie contratte dalle vittime, osservava la Corte di appello che:

a) la difesa degli imputati aveva sostenuto che all'epoca dei fatti non vi era un chiara cognizione della pericolosità dell'amianto e della sua lavorazione e, soprattutto, dei limiti all'esposizione. Solo con la legge 257 del 1992, era stato posto un punto fermo sulla questione.

Pertanto un agente modello, collocato al tempo dei fatti, non avrebbe potuto prevedere la pericolosità del suo utilizzo ed il rischio della contrazione delle patologie correlate.

Inoltre la "M.", nello stabilimento di Verbania, nel corso degli anni '70, aveva iniziato opere di ristrutturazione e l'adeguamento degli impianti e delle procedure di lavoro parallelamente alla acquisizione delle conoscenze sulla pericolosità dell'amianto.

b) Tali considerazioni non erano condivisibili. Infatti la pericolosità dell'amianto era conosciuta già da prima degli anni '70, pertanto un gruppo industriale delle dimensioni della Montedison non poteva ignorarne i rischi. Peraltro il consulente M., che per circa 40 anni aveva operato presso il Centro ricerche della Montedison, aveva ricordato che presso la Montedison di Castellaneta, già negli anni '50, non si utilizzava amianto, ma fibre vetro o lana di roccia; l'amianto peraltro era ritenuto più flessibile da utilizzare, meno costoso, sebbene più dannoso.

c) Quanto ai pretesi interventi di ristrutturazione, essi erano stati tardivi ed elementari (sollecitate dal Dott. Ba., medico di fabbrica, dopo il rilevamento di 7 casi di sospetta asbestosi), come peraltro emerso dalla nutrita istruttoria, che aveva palesato la assenza di cautele con cui veniva impiegato l'amianto.

Inoltre totalmente assente era stata l'informazione ai lavoratori dei rischi dell'esposizione alle fibre di amianto
Da tutto ciò emergeva non solo la prevedibilità, ma anche la evitabilità degli eventi lesivi,

 

d) Quanto alla prevedibilità ed evitabilità in concreto degli eventi, osservava la Corte di merito che, a fronte della riconosciuta pericolosità dell'impiego dell'amianto, in assenza di deleghe specifiche o di fatto, la responsabilità per al omessa adozione delle misure di sicurezza, tenuto conto della onerosità delle opere da svolgere, non poteva non ricadere sui componenti del consiglio di amministrazione e di coloro che avevano avuto il ruolo di amministratore delegato e di presidente della M.. Inoltre gravava sul Q. e Po., in ragione della rivestita carica di direttori dello stabilimento.
A costoro dovevano essere aggiunti D., P. e Pe. membri del consiglio di amministrazione della Società Italiana Nailon (S.I.N.) alla quale la M. aveva conferito uno dei settori produttivi ove si faceva maggiore utilizzo dell'amianto (produzione di fibre poliammidiche).
Quanto al Va., amministratore delegato della predetta S.I.N. dal 1982, non poteva che essere riconosciuto responsabile dei decessi successivi all'assunzione dell'incarico (4/1/1982), in quanto antecedentemente si era occupato specificamente di stabilimenti operanti in ***.

Pertanto non poteva essere riconosciuto colpevole dei decessi del Co. e del Mo., che avevano cessato il lavoro antecedentemente al 1982.
In relazione alle statuizioni civili, la Corte di merito confermava la legittimazione alla costituzione dei due enti e l'esistenza di un danno personale; inoltre aumentava l'entità del risarcimento ad Euro 50.000= per ciascuna parte civile.

 

 

4.1 motivi di ricorso per cassazione.

 

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso, a mezzo dei difensori, tutti gli imputati ed il responsabile civile, lamentando quanto segue:

 

4.1. Q. [Dir. Stab. Verbania dal 28/11/75 al novembre '76]:

a) la Violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., per lesione del principio di correlazione, essendo stato l'imputato condannato per l'omicidio colposo di Ca.Ce., mai contestatogli, né con la richiesta di rinvio a giudizio, né con l'integrazione dell'imputazione formulata dal P.M. in data 15/10/04.

b) La violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., in relazione all'omicidio di Co.Gi., in quanto nel capo di imputazione era indicata quale data di svolgimento dell'attività di coibentatore dal 1959 al 1973, epoca in cui l'imputato non avendo cariche sociali, non aveva alcuna posizione di garanzia. L'indicazione della data di cessazione del rapporto di lavoro al 1980 non era idonea ad indicare la esposizione all'amianto del Co..

c) La violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., in relazione a tutti gli omicidi per cui era intervenuta condanna, laddove nel capo di imputazione, si contestava in modo del tutto insufficiente la colpa generica per non essere stato fatto tutto "ciò che avrebbe dovuto esser fatto", senza alcuna specificazione in ordine alla condotta alternativa lecita da tenere. La parziale genericità dell'imputazione ledeva il diritto di difesa, tenuto conto che, a fronte di una contestazione omissiva impropria, non consentiva di individuare quale condotta impeditiva ed alternativa lecita si sarebbe dovuto tenere; condotta individuata nella sentenza di appello, senza alcuna preventiva contestazione, in una maggiore tempestività nell'ammodernamento degli impianti.

d) La violazione dell'art. 597 c.p.p., e l'erronea applicazione dell'art. 157 c.p.. Invero il giudice di primo grado aveva condannato il Q. per l'omicidio del Co. a mesi sei di reclusione, concesse le attenuanti generiche, senza nulla specificare in ordine alla loro prevalenza o equivalenza. Per il principio del favor rei, pertanto l'opzione interpretativa della sentenza doveva indurre a ritenere la prevalenza delle attenuanti e, conseguentemente la prescrizione del reato. Invece il giudice di appello, violando i limiti del devoluto, in assenza di impugnazione sul punto del P.M., aveva applicato la pena in aumento per la continuazione anche per tale reato, prescritto prima della pronuncia di appello (il 3/1/2009).

e) La violazione di legge (art. 27 Cost., e 40, co. II, c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla allegata sussistenza di una posizione di garanzia relativamente agli operai Ma., Mo. e Ca., passati alle dipendenze della s.p.a. T. il 17/4/1975, prima che il Q. diventasse direttore di stabilimento della M. (il 28/11/75).
Invero non avendo l'imputato la qualità di datore di lavoro, nè avendo compiuto atti di ingerenza, non aveva una formale (o di fatto) posizione di garanzia in relazione ai predetti tre operai deceduti. Inoltre, la asserita circostanza che le due società avessero una commistione di impianti, di luoghi di lavoro e maestranze, era sfornita di concreto supporto probatorio.

f) La violazione di legge (art. 27 Cost., e 40, co. II, c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla allegata sussistenza di una posizione di garanzia relativamente a tutti gli operai deceduti. Invero detta posizione deve essere correlata a poteri concretamente attribuiti ed il cui mancato esercizio può essere fonte di responsabilità. Nel caso di specie la qualità di direttore dello stabilimento di Verbania, da sola non significava attribuzione all'imputato di poteri decisionali, di gestione e di spesa idonei a determinare un ammodernamento degli impianti tale da evitare la esposizione a rischi per i lavoratori; né alcuna prova vi era che tali compiti fossero stati delegati al Q. con i relativi poteri di spesa. Nella stessa sentenza esplicitamente era detto che tali compiti dovevano essere esercitati dal consiglio di amministrazione, senza far cenno al direttore di stabilimento.

g) La violazione di legge (art. 27 Cost., e 40, co. II, c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla allegata sussistenza del nesso causale tra la condotta dell'imputato e gli eventi contestati. Infatti, anche ad ammettere la sussistenza in capo al Q. di una posizione di garanzia, non era però stata provata quale condotta attiva omessa avrebbe impedito gli eventi. La motivazione della sentenza era carente perché non indicava specificamente le inadempienze, ma soprattutto non ne definiva lo specifico periodo temporale. Anzi contraddittoriamente indicava nella metà degli anni '70, periodo in cui l'imputato aveva assunto la direzione dello stabilimento, come il periodo in cui e condizioni di lavoro erano migliorate.
Inoltre gravi carenze motivazionali emergevano in relazione all'assoluto difetto di analisi delle prove addotte dalla difesa: tale carenza non poteva essere giustificata dal richiamo al concetto di "motivazione implicita", in quanto essa può ammettersi per le prove a carico, ma non per quelle a discarico, sotto pena del difetto di motivazione. Ancora, un grave mancanza di motivazione era rinvenibile nella affermazione che la struttura dello stabilimento consentiva la dispersione delle polveri e fibre di amianto. Tale affermazione non aveva però un preciso riscontro probatorio; inoltre non indicava quali barriere facessero difetto e dove sarebbe stato necessario posizionarle per evitare la diffusione delle polveri e se tali oneri facevano carico al Q..

h) La violazione di legge (artt. 40 e 41 c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione ai decessi per mesotelioma pleurico, con riferimento allo sviluppo causale intermedio della patologia da mesotelioma. Invero la Corte di merito aveva inteso attribuire il crisma di legge scientifica di copertura alla c.d. "formula di Boffetta" per accreditare la teoria della "dose-risposta", senza tenere conto che tale formula era stata elaborata per esprimere la correlazione tra le dosi di esposizione all'amianto ed una determinata popolazione, ma non gli effetti che una prolungata esposizione determina su un individuo già malato. Sicché tale formula non spiegava la rilevanza concausale delle successive esposizioni all'amianto rispetto alla prima inalazione killer. Né a tale carenza poteva supplirsi con il ricorso alla probabilità logica, in quanto i concetti di probabilità statistica e logica non sono alternativi, ma devono essere valutati cumulativamente per accertare l'esistenza del nesso eziologico.
Inoltre, anche ad ammettere, per pura ipotesi dialettica, la attendibilità della teoria della dose-risposta, poiché ad innescare la patologia è sufficiente una esposizione minima, anche la adozione delle misure di igiene omesse non avrebbero potuto evitare l'ulteriore efficacia eziologica di inalazioni infinitamente basse ed incontrollabili: dal che il fallimento del giudizio controfattuale.

i) La violazione di legge (art. 27 Cost. e 43 c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla affermazione della sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa. In primo luogo, in ordine alla misura oggettiva della colpa, come già osservato in tema di causalità, la sentenza non illustrava e spiegava le specifiche pretese violazioni addebitagli al Q.. In ordine alla tematica della "causalità della colpa", le norme che si asserivano violate non miravano ad eliminare la concretizzazione del rischio morte per mesotelioma, tenuto conto che tale patologia poteva essere contratta anche con minime esposizioni all'amianto, all'epoca dei fatti non vietate; pertanto il rischio non era prevedibile dal che la carenza di prova della colpa. Né in assenza della violazione di norme cautelari specifiche poteva supplirsi con il richiamo a generali norme di diligenza, ciò in quanto la colpa generica può integrare, ma non sostituire o correggere la colpa specifica: in breve in presenza di un impianto cautelare specifico, non è consentita l'etero-integrazione da parte di regole non scritte. Infine, la sentenza era carente di motivazione in relazione alla misura soggettiva della colpa ed alle concrete condotte esigibili dall'imputato e se dette condotte alternative lecite avrebbero avuto una reale efficacia impeditiva degli eventi.

l) La violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio. Invero era censurabile che per tutti gli imputati fosse stata stabilita un'unica pena base, senza differenziare quantomeno il grado della colpa; inoltre non era stata presa in considerazione l'attenuante dell'art. 114 c.p., e dell'art. 62, n. 6, tenuto conto dell'avvenuto risarcimento del danno; immotivatamente tali attenuanti non erano state considerate prevalenti sull'aggravante di cui al terzo comma dell'art. 589 c.p., La prevalenza delle attenuanti comportava la declaratoria di prescrizione dei reati.

m) La violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al riconoscimento della presenza di una danno risarcibile in favore delle costituite parti civili. Tali enti infatti non avevano patito alcuna lesione di beni giuridici propri; né erano legittimate ad agire in nome proprio per diritti altrui, essendo la sostituzione processuale nel nostro ordinamento ricondotta a situazioni tipiche. Inoltre l'entità della liquidazione equitativa del danno era stata effettuata senza alcuna specifica motivazione.

 

4.2. PO. [Dir. Stabilimento Verbania dal nov. 76 al luglio 1983]:

a) la violazione di legge (artt. 521 e 522 c.p.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla contestazione di omicidio colposo in danno dell'operaio Co.. Invero nel capo di imputazione lo si indicava come operaio coibentatore dal 1959 al 1973, precisando poi che il rapporto di lavoro era cessato nel 1980. Pertanto dall'imputazione si evinceva chiaramente che il periodo di esposizione all'amianto del Co. si era realizzato fino al 1973, quando l'imputato non aveva ancora assunto la carica di direttore (dal novembre 1976), ciò in quanto per il periodo successivo nessuna indicazione era stata data circa l'attività svolta dalla vittima, con una chiara limitazione temporale dell'accusa e sulla quale l'imputato non aveva avuto quindi modo di difendersi.

b) La violazione di legge (artt. 521 e 522 c.p.p.) per difetto di correlazione in relazione agli omicidi di Ma. e Mo., ciò in quanto a pagina 21 della sentenza gravata era attribuita all'imputato la qualità di direttore Generale della soc. T., qualità mai contestata al Po..

c) Per il resto il ricorrente ha svolto motivi censura analoghi a quelli del Q..

 

4.3. VA. [Amm. Deleg. S.I.N. dai 4/1/82 al 14/4/83]:

 

a) la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., in relazione a tutti gli omicidi per cui era intervenuta condanna, laddove nel capo di imputazione, si contestava in modo del tutto insufficiente la colpa generica per non essere stato fatto tutto "ciò che avrebbe dovuto esser fatto", senza alcuna specificazione in ordine alla condotta alternativa lecita da tenere.

b) La violazione di legge (art. 27 Cost., e 40, co. II, c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla allegata sussistenza di una posizione di garanzia relativamente agli operai ma., mo., passati alle dipendenze della s.p.a. T. il 17/4/1975, prima che il Va. diventasse amministratore delegato della "Società Italiana Nailon" s.p.a. il 4/1/1982, con ubicazione materiale degli stabilimenti astrattamente idonea a far sorge sul di lui capo una posizione di garanzia. Invero non avendo l'imputato la qualità di datore di lavoro, nè avendo compiuto condotte di ingerenza nell'attività della T., non aveva una formale (o di fatto) posizione di garanzia in relazione ai predetti due operai deceduti. Inoltre, la asserita circostanza che le due società avessero una commistione di impianti, di luoghi di lavoro e maestranze, era sfornita di concreto supporto probatorio.

c) La violazione di legge (art. 27 Cost., e 40, co. II, c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla allegata sussistenza di una posizione di garanzia relativamente agli operai deceduti. Invero detta posizione deve essere correlata a poteri concretamente esercitabili e la cui mancato esercizio può essere fonte di responsabilità. Nel caso di specie la qualità di amministratore delegato per un breve periodo di tempo e durante la fase di chiusura dello stabilimento, non poteva radicare in capo al lui alcuna responsabilità.

d) La violazione di legge (art. 27 Cost., e 40, co. II, c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla allegata sussistenza del nesso causale tra la condotta dell'imputato e gli eventi contestati. Infatti, anche ad ammettere la sussistenza in capo al Va. di una posizione di garanzia, non era però stata provata quale condotta attiva omessa avrebbe impedito gli eventi. La motivazione della sentenza era carente perchè non indicava specificamente le inadempienze, ma soprattutto non ne definiva lo specifico periodo temporale. Anzi contraddittoriamente indicava nella metà degli anni '70, periodo in cui l'imputato non aveva ancora assunto le funzioni di amministratore delegato, come il periodo in cui le condizioni di lavoro erano migliorate.
Inoltre gravi carenze motivazionali emergevano in relazione alla assoluta carenza di analisi delle prove addotte dalla difesa: tale carenza non poteva essere giustificata dal richiamo al concetto di "motivazione implicita", in quanto essa può ammettersi per le prove a carico, ma non per quelle a discarico, sotto pena del difetto di motivazione.

e) La violazione di legge (artt. 40 e 41 c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione ai decessi per mesotelioma, con riferimento allo sviluppo causale intermedio della patologia da mesotelioma: sul punto le argomentazioni sono analoghe a quelle svolte per la posizione del Q..

f) La violazione di legge (art. 27 Cost., e 43 c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alla affermazione della sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa, svolgendo argomenti analoghi a quelli esplicitati per il Q.. In relazione alla misura soggettiva della colpa ed alle concrete condotte esigibili dall'imputato la Corte di merito non aveva adeguatamente valutato che il breve periodo di carica del Va. era coinciso con la chiusura dello stabilimento, misura questa, di fatto, più idonea a garantire la salute dei lavoratori, rispetto alle pretese iniziative da prendere per la ristrutturazione aziendale.

g) In via subordinata, in tema di trattamento sanzionatorio, declaratoria di prescrizione e accertamento e liquidazione del danno, il ricorrente ha svolto argomentazioni analoghe a quelle relative al Q..

 

4.4. D. [Cons. Amm. S.I.N. dal 4/1/82 al 14/4/83]: il ricorrente ha svolto motivi censura analoghi a quelli del Va., evidenziando di avere svolto il ruolo di consigliere per breve periodo, senza ricevere alcuna delega di funzioni ed in un periodo in cui lo stabilimento era chiuso.

 

4.5. P. [Cons. Amm. S.I.N. dal 4/1/82 al 14/4/83]: il ricorrente ha svolto motivi censura analoghi a quelli di D., evidenziando di avere svolto il ruolo di consigliere per breve periodo, senza ricevere alcuna delega di funzioni ed in un periodo in cui lo stabilimento era chiuso.

 

4.6. PE. [Cons. Amm. S.I.N. dal 4/1/82 al 14/4/8]3: il ricorrente ha svolto motivi censura analoghi a quelli di D. e P., evidenziando di avere svolto il ruolo di consigliere per breve periodo, senza ricevere alcuna delega di funzioni ed in un periodo in cui lo stabilimento era chiuso.

 

4.7. B. [Amministratore Delegato Mf. dal 16/12/74 al 29/4/77 e Presidente C.d.A. Mf. dal 30/4/77 al 11/6/79]:

 

a) la violazione di legge (artt. 40 e 41 c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione alle statuizioni sulla causalità del mesotelioma pleurico. Il giudice di appello era giunto alla pronuncia di condanna sulla base di un accertamento della causalità da lui stesso prodotto, piuttosto che assunto. In particolare nessuna legge scientifica dava copertura alla affermazione secondo cui qualunque dose conseguente all'esposizione all'amianto aveva efficacia eziologica rispetto alla insorgenza della malattia ed alla evoluzione della patologia oncogena. La teoria della "dose-risposta" costituiva una mera ipotesi senza alcun fondamento scientifico. La stessa formula di "Boffetta" aveva valenza in relazione a studi di natura epidemiologica sulla popolazione, ma non consentiva alcuna verifica in relazione alla causalità individuale. Pertanto allo stato delle conoscenze della scienza non era possibile risolvere il quesito della rilevanza causale delle dosi successive, assunte dopo l'innesco del tumore; anzi attendibili studi, escludevano tale rilevanza. In definitiva il vizio sul punto della sentenza impugnata era stato quello di non prendere atto della lacuna conoscitiva della scienza in tema di genesi e sviluppo del mesotelioma, traendone le doverose conseguenze in tema di accertamento del nesso causale, soprattutto nel rispetto del principio che una condanna può essere pronunciata solo "al di là di ogni ragionevole dubbio".

b) La violazione di legge (artt. 521 c.p.p., e 40, co. 2°, c.p.,) ed il difetto di motivazione in relazione al riconoscimento in capo al B. di una posizione di garanzia.
Nella sentenza era stato violato il principio di correlazione, laddove l'accusa a carico dell'imputato era stata modificata, senza alcuna iniziativa del P.M. e senza alcuna preventiva contestazione, addebitando al B. la omessa ristrutturazione radicale degli impianti aziendali. Tale contestazione era stata utilizzata dalla Corte di merito per eludere il problema della impossibilità di identificare per i singoli imputati, operanti in periodi diversi e con funzioni differenti, singole e specifiche omissioni. Peraltro, anche a voler, in modo meramente ipotetico, considerare fondata l'omissione doverosa, la sentenza mostrava un'intrinseca contraddizione, laddove identificava proprio nella metà degli anni '70, ove in carica vi era stato il B., il periodo in cui l'azienda aveva avuto una svolta positiva in tema di igiene sul lavoro. Inoltre tenuto conto della struttura complessa della "M.", con numerosi stabilimenti, la posizione di garanzia andava individuata secondo i criteri consolidati ed indicati dalla giurisprudenza, che individuavano come garante dell'obbligo di protezione, non l'amministratore delegato, ma il soggetto più vicino alla fonte di pericolo, quale, a titolo esemplificativo, il direttore dello stabilimento.

c) La violazione di legge (art. 40, co. 2°, c.p.) ed il difetto di motivazione in relazione all'affermazione dell'esistenza di un collegamento causale tra la asserita condotta omissiva dell'imputato e le patologie asbesto-correlate. Infatti la sentenza impugnata era giunta ad affermare, in modo indimostrato, che i periodi di lavoro delle vittime, in zone a rischio di inalazione di amianto, si erano protratti oltre le date indicate nella sentenza di primo grado, in tal modo ponendo a carico del B. anche i decessi degli operai che era stato ritenuto in primo grado avere cambiato mansioni prima che egli assumesse le cariche dirigenziali. Tale affermazione non era però stata dalla Corte di merito basata su esplicitati elementi di prova. Inoltre l'asserita dispersione di fibre di amianto per tutto lo stabilimento non era stata asseverata dalla indicazione degli specifici livelli di esposizione.

d) La violazione di legge (artt. 521 e 522 c.p.p.), in particolare del principio di correlazione in ordine al decesso del lavoratore Co.. Questi, infatti, nel capo di imputazione, risultava avere svolto l'attività di coibentatore dal 1959 al 1973, quindi prima della assunzione da parte del B. delle cariche dirigenziali. Nella sentenza di condanna, dilatando la contestazione, si era affermato che la funzione di coibentatore era stata svolta dal Co. fino al 1978. Tale modifica del fatto non era stata determinata da una richiesta del P.M. né era mai stata contestata.

e) La violazione di legge (art. 192 c.p.p., e 589 c.p.), ed il difetto di motivazione in relazione ai decessi per asbestosi dei lavoratori Mo., Me. e Co.. Invero l'istruttoria svolta non aveva fornito alcun elemento certo diagnostico e radiologico da cui desumere con sicurezza che le morti erano state determinate dall'asbestosi.

f) La violazione di legge (artt. 43 e 589 c.p.), con riferimento all'esistenza dei profili della colpa. Nella sentenza impugnata non era indicata in modo preciso la norma cautelare violata. Quanto all'art. 2087 c.c., tale disposizione non contribuiva alla descrizione di un rischio tipico; quanto all’art. 21 del DPR 303\56, detta norma, introdotta con finalità preventive dei rischi conosciuti negli anni '50, non poteva ritenersi dettata per evitare il concretizzarsi del rischio di mesotelioma pleurico, patologia all'epoca sconosciuta.

g) Il difetto di motivazione in relazione alla quantificazione della pena, al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p., essendo stati i familiari dei lavoratori deceduti risarciti del danno; nonché in relazione al mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti.

 

4.8. G. [Cons. Amm. Mf. dal 30/4/77 al 3/11/77]: il ricorrente ha svolto motivi censura analoghi a quelli di B., evidenziando di avere svolto il ruolo di consigliere di amministrazione della M. per il breve periodo di tempo di sei mesi, senza ricevere alcuna delega di funzioni. L'addebito principale, la omessa celere bonifica dello stabilimento, gli era stata formulata per la prima volta in sentenza, senza alcuna preventiva contestazione. La condanna per l'omicidio in danno dell'operaio Co. era stata resa possibile da un arbitrario ampliamento del periodo in cui costui aveva svolto le mansioni di coibentatore, periodo diverso da quello indicato nel capo di imputazione. Con riferimento poi agli omicidi in danno di Ma. e Mo., costoro, all'epoca dell'esercizio delle funzioni del G., erano stati trasferiti (il 17/4/1975) ad altra società del gruppo Montedison, la T., che aveva, contrariamente a quanto affermato nella sentenza di appello, piena autonomia operativa. Inesistente, pertanto era in capo all'imputato la posizioni di garanzia per lavoratori che non erano dipendenti della M..

 

4.9. V. [Cons. Amm. Mf. dal 27/4/76 al 9/12/81]: il ricorrente ha svolto motivi censura analoghi a quelli di G., evidenziando di avere svolto il ruolo di consigliere di amministrazione della M. senza ricevere alcuna delega di funzioni. L'addebito principale, la omessa celere bonifica dello stabilimento, gli era stata formulata per la prima volte in sentenza, senza alcuna preventiva contestazione. La condanna per l'omicidio in danno dell'operaio Co. era stata resa possibile da un arbitrario ampliamento del periodo in cui costui aveva svolto le mansioni di coibentatore, periodo diverso da quello indicato nel capo di imputazione. Con riferimento poi agli omicidi in danno di Ma. e Mo., costoro, all'epoca dell'esercizio delle funzioni del G., erano stati trasferiti (il 17/4/1975) ad altra società del gruppo Montedison, la T., che aveva, contrariamente a quanto affermato nella sentenza di appello, piena autonomia operativa. Inesistente, pertanto era in capo all'imputato la posizioni di garanzia per lavoratori che non erano dipendenti della M..

 

4.10. D.M. [Cons. Amm. Mf. dal 27/4/76 al 14/3/77]:

 

a) la inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., nonché la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alle statuizioni sulla causalità quanto ai casi di mesotelioma pleurico e sono stati svolti motivi analoghi a quelli già illustrati per la posizione dell'imputato B..

b) La mancanza e manifesta illogicità della motivazione a sostegno della decisione impugnata nella parte relativa all'esistenza delle asbestosi in contestazione. In particolare la Corte di merito aveva ritenuto accertata la patologia da asbestosi per i lavoratori Co., Me. e Mo., sulla base di documentazione assolutamente insufficiente ed in assenza di reperti radiologici univoci in tal senso. Peraltro, a fronte delle argomentate osservazioni del consulente di parte Dott. L., la Corte non aveva svolto alcuna considerazione, così venendo meno all'obbligo motivazionale, tenendo anche conto che lo stesso giudice di primo grado aveva ritenuto non provata la patologia in danno del Mo..

c) La carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo della sentenza e da altri atti del processo, con riferimento alla ricostruzione degli ambienti di lavoro, degli impianti, delle lavorazioni e delle esposizioni dei lavoratori parti lese a fibre aerodisperse di amianto, negli anni in cui gli imputati ricoprirono posizioni di garanzia. Invero la Corte di merito non aveva fornito alcuna collocazione temporale delle caratteristiche dell'ambiente di lavoro dello stabilimento di Verbania, per poi attribuirne le carenze a tutti gli imputati, indipendentemente dal periodo in cui avevano svolto le loro funzioni. Inoltre, tenuto conto che dalla lettura della sentenza si evinceva che a partire da metà degli anni '70 (verosimilmente il 1973 in ragione degli accertamenti richiesti dal medico di fabbrica) si era fatta largo una maggiore sensibilità verso le problematiche della sicurezza e dell'igiene, era contraddittorio attribuire al D., che aveva assunto al carica di consigliere nel 1976, la responsabilità della diffusione delle sostanze nocive nell'ambiente di lavoro, senza una specifica indicazione delle condizioni dello stabilimento all'epoca dei fatti.
Ma soprattutto, non erano stati indicati i livelli di esposizione dei lavoratori all'amianto nel periodo in cui gli imputati avevano svolto le loro cariche. La stessa sentenza aveva ammesso tale carenza, rifugiandosi in argomentazioni che non avevano riferimenti con le date di carica degli imputati e che non avevano preso in considerazione la consulenza del Prof. Nano, unico atto in cui erano stimati i livelli di esposizione all'amianto dagli anni '50 a dopo il 1976. Tale consulenza evidenziava come, soprattutto dopo la metà degli anni '70, i limiti di esposizione erano incompatibili con l'insorgenza di malattie asbestosiche: su tale consulenza la Corte di merito non aveva contrapposto alcuna argomentazione.

d) La violazione di legge, in particolare dell'art. 43 comma 3° c.p., con particolare riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 21 DPR 303\1956 e 2087 c.c., nonché per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alle statuizioni in tema di colpa. In particolare il giudice di merito non aveva individuato quale fosse stata la regola cautelare violata e ciò ancor prima di effettuare la valutazione di prevedibilità ed evitabilità dell'evento. Tale regola non poteva essere l’art. 21 del DPR 303 del 1956, , in quanto tale disposizione, che impone la datore di lavoro di limitare lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell'ambiente di lavoro, era destinata ad inibire la diffusione di polveri fisicamente avvertibili ed oggettivamente moleste, non poteva quindi costituire regola cautelare per eventi addirittura non conosciuti al momento dell'emanazione della norma. In ordine alla prevedibilità dell'evento, l'impugnata sentenza mancava del rigoroso accertamento dell'effettiva disponibilità, all'epoca dei fatti, di conoscenze scientifiche circa la pericolosità insita nell'utilizzo dell'amianto: ebbene la responsabilità per colpa non può essere riconosciuta ex post per il semplice fatto che, in epoca successiva alla condotta, vengano acquisite nuove conoscenze scientifiche che abbandonino l'incertezza sulla pericolosità di determinati materiali, ciò in quanto la valutazione di prevedibilità di un evento, in un ottica di causalità della colpa, non può che essere effettuata ex ante. Quanto alla evitabilità dell'evento, la Corte di merito, per dimostrare che una condotta alternativa lecita, idonea ad evitarlo, era possibile, si era appellata all'art. 2087 c.c.. Ma tale norma, considerata di "chiusura" del sistema antinfortunistico, presuppone la possibilità per l'agente di prevedere il risultato della sua condotta e, pertanto, non può prescindere dall'accertamento in concreto delle conoscenze scientifiche all'epoca dei fatti contestati: in breve, se l'evento non è prevedibile, non è neanche evitabile.

e) La erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 43 comma 3°c.p. e 2087 c.c., in relazione alla pretesa conoscibilità in concreto da parte degli imputati della pericolosità dell'amianto anche a basse e bassissime dosi. Invero la effettiva conoscenza scientifica della pericolosità dell'amianto si era avuta solo nel 1980; prima di allora la indicazione di valori soglia di esposizione all'amianto, internazionalmente riconosciuti, sebbene non avessero una valenza integratrice delle norme penali, certamente costituivano un indice della evoluzione delle conoscenze sulla pericolosità dell'amianto, di cui era testimonianza il progressivo decremento dei limiti, fino al loro crollo nel 1980. Pertanto le conoscenze che avrebbero potuto evitare l'asbestosi, non avrebbero consentito di evitare il mesotelioma.

f) L'omessa motivazione con riferimento agli artt. 43 comma 3° c.p. e 2087 c.c., in relazione all'evitabilità in concreto dell'evento, con particolare riguardo all'utilizzo di sistemi di protezione collettiva ed individuale. È da premettere che non tutte le fibre di amianto hanno la stessa pericolosità: lo sono quelle "respirabili" e non solo "inalabili" perché solo quelle ultrafini sono in grado di penetrare nel sistema respiratorio e depositarsi.
Ora la predisposizione di mezzi di protezione individuale (es. maschere) o collettiva (es. aspiratori), non avrebbe consentito di evitare detta respirazione per la difficoltà di identificare la presenza delle fibre, considerato che negli anni '90 sono stati introdotti delle microspie elettriche di rilevamento (SEM). Pertanto negli anni di cui è processo, gli imputati non sarebbero stati in grado di individuare la presenza nell'area delle micro fibre ultrafini, pertanto nessun comportamento alternativo lecito da loro poteva pretendersi.

g) L'inosservanza o erronea applicazione dell'art. 40 comma 2° c.p., nonché per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al riconoscimento di una posizione di garanzia in capo all'ing. D.M. relativamente ai reati in contestazione, sulla base della mera qualità di consigliere di amministrazione. Il ricorrente sul punto ha svolto motivi analoghi a quelli esposti per il B..

h) La mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla correlazione causale tra le presunte omissioni dell'imputato ing. D.M. e l'insorgenza, l'aggravamento o l'accelerazione delle patologie asbesto-correlate, tenuto conto che l'imputato era stato consigliere di amministrazione per circa 11 mesi ed i lavoratori i cui decessi gli erano stati attribuiti erano esposti all'amianto già da circa 15 o 30 anni.

i) Inosservanza o erronea applicazione dell'art. 40 comma 2° c.p., nonché per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento all'esistenza di un collegamento causale tra le omissioni contestate all'ing. D.M. e le patologie asbesto-correlate di Ce.Ca., G.M., M.A., S.G., G.Me. e Gi.Co.. Il ricorrente ha svolto motivi analoghi a quelli già illustrati per il B..

l) Inosservanza o erronea applicazione dell'art. 40 comma 2° c.p., nonché per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento all'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato rispetto alle contestazioni di omicidio colposo di Ca.Ma. e Be.Mo., trasferiti presso altra società, la T. fin dal 1975.

m) L'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e segnatamente per violazione degli artt. 604 comma 1, 521, comma 2 e 522 c.p.p., con riferimento alla contestazione di omicidio colposo di Gi.Co.. L'imputato ha svolto motivi analoghi a quelli già illustrati per l'imputato B..

n) L'inosservanza o erronea applicazione degli artt. 133, 62 n. 6, 62 bis c.p., nonché per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nella parte relativa alla determinazione della pena, nonché al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p., e della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, svolgendo anche in tale caso motivi analoghi a quelli del B..

 

4.11. PI. [Cons. Amm. Mf. dal 10/2/78 al 26/5/81]: Ha svolto motivi di censura analoghi a quelli dell'imputato D. ed illustrati precedentemente ai punti a), b), c), d), e), f), i), l), m), n). g)

 

Inoltre ha censurato la sentenza laddove è stata riconosciuta in capo all'imputato, consigliere di amministrazione senza alcuna delega, una posizione di garanzia, rispetto al pericolo di un evento di cui non aveva conoscenza o conoscibilità e per cui non aveva alcun obbligo di attivarsi. Presso la M. di Verbania, stabilimento di un gruppo industriale complesso con circa 16.000 dipendenti, l'amianto non era l'oggetto primario di lavorazione, bensì veniva usato per attività di manutenzione, peraltro fino a circa il 1975. Pertanto, per radicare in capo al Pi. una posizione di garanzia, sarebbe stato necessario dimostrare che egli aveva avuto la consapevolezza o conoscibilità degli interventi di manutenzione su tubi ove ancora vi era l'amianto e sulle modalità degli interventi. Tale prova difettava negli atti. Inoltre, anche a voler ammettere per pura ipotesi detta conoscenza, non vi era alcuna prova, in ragione delle conoscenze scientifiche dell'epoca, della evitabilità degli eventi.

 

 

4.12. M. [Cons. Amm. Mf. dal 7/4/72 al 9/12/73]: Ha svolto motivi di censura analoghi a quelli dell'imputato D. ed illustrati precedentemente ai punti a), b), c), d), e), f), l), m), n). g), i)

L'imputato, esponendo argomentazioni analoghe a quelle svolte dal Pi., ha evidenziato come la circostanza che avesse svolto le funzioni di consigliere di amministrazione per circa una anno e mezzo, senza alcuna delega, non poteva radicare in capo a lui una posizione di garanzia in relazione al rischio di eventi non conosciuto, né conoscibile; inoltre la suddetta qualità non determinava una assunzione di responsabilità, in ragione di una mera "posizione", salvo ad ipotizzare una forma di responsabilità oggettiva.
Con memoria depositata il 17/2/2010 la difesa del M. ha ribadito le argomentazioni già svolte nei motivi di ricorso.

 

4.13. V. [Amm. Deleg. MF. dal 30/4/77 al 29/6/81; Presid. C.d.A. Mf. dal 30/6/81 al 4/7/1984 (v. lettera dimissione e non 1988, come nel capo imputazione]:

a) Il difetto di motivazione in tema di delega formale di funzioni. Infatti la consolidata giurisprudenza di legittimità ritiene che, per individuare i soggetti responsabili nell'ambito di organizzazioni aziendali di grosse dimensioni e complesse, è necessario accertare la effettiva gerarchia nell'abito aziendale, non sottovalutando, come invece fatto dalla Corte di Appello, gli ordini di servizio interni che nel caso di specie, attribuivano all'imputato responsabilità eminentemente finanziarie e fiscali e non di prevenzione e sicurezza.

b) Il difetto di motivazione in tema di delega di funzioni. Invero la giurisprudenza di legittimità, in relazione ad organizzazioni industriali di grosse dimensioni e con diverse articolazioni territoriali, ritiene superflua la ricerca di una delega scritta di funzioni, perché essa è immanente nel decentramento aziendale; il destinatario degli obblighi di sicurezza andava pertanto individuato, per il "principio di effettività", su coloro che concretamente esercitavano le funzioni nelle singoli articolazioni aziendali. Sul punto vi era una carenza motivazione della Corte di merito.

c) Il difetto di motivazione in relazione all'efficacia causale della condotta del V. rispetto all'insorgenza di patologie asbesto correlate, con riferimento a lavoratori assunti decenni prima che l'imputato assumesse le sue cariche e quindi già da tempo esposti all'amianto; peraltro in un epoca in cui l'azienda aveva migliorato la situazione di igiene dei luoghi di lavoro. Sul punto sono state svolte argomentazioni analoghe a quelle illustrate per il M. e Pi..
d) Il ricorrente ha inoltre svolto motivi analoghi a quelli già illustrati per l'imputato D. alle lett. a), b), c), d), e), f), i), l), m), n).

 

4.14. C. [Cons. Amm. Mf. dal 27/4/76 al 10/2/78]. L'imputato ha svolto motivi analoghi a quelli già illustrati per l'imputato D. alle lett. a), b), c), d), e), f), i), l), m), n).

a) Ha inoltre censurato la manifesta illogicità la sentenza, laddove aveva riconosciuto in capo al C. l'esistenza di una posizione di garanzia, per la mera carica di consigliere di amministrazione. Invero, tenuto conto dell'organigramma complesso della M., i compiti dei consiglieri erano limitati e circoscritti al quelli delineati nell'art. 2381 c.c., vigente all'epoca dei fatti. Pertanto la sentenza d'appello aveva violato gli insegnamenti di consolidata giurisprudenza, che collega la responsabilità, nell'organizzazioni sociali di grandi dimensioni ed a struttura complessa, all'effettivo esercizio dei poteri. Tutto ciò, peraltro, senza motivare sulla efficacia causale della condotta omissiva del C., il quale aveva esercitato la sua carica per meno di due anni, rispetto a lavoratori assunti negli anni '40 e '60, ed in un periodo, la metà degli anni '70, nel corso dei quali erano state apportate migliorie alla situazione di igiene dei luoghi di lavoro.

b) Lamentava, inoltre, la violazione del principio di correlazione di cui all'art. 521 c.p., con le conseguenze di cui all'art. 522 c.p.p., in quanto la Corte, senza alcuna iniziativa del P.M. e senza alcuna contestazione, aveva condannato l'imputato per non avere provveduto, nella sua qualità, ad una tempestiva e radicale ristrutturazione aziendale; addebitando peraltro la violazione di una regola cautelare del tutto inesistente.

 

4.15. Il responsabile civile, "M." s.p.a., ha lamentato: a) il difetto di legittimazione degli enti - parti civili a costituirsi in giudizio : quale ente esponenziale, per mancanza del riconoscimento prima della commissione del reato e difetto di consenso delle persone offese; ovvero, mancanza di un diritto soggettivo azionabile in quanto leso dal reato; b) in ogni caso non era stata provata l'esistenza di un danno non patrimoniale effettivo e causalmente correlato in modo diretto ed immediato al reato e l'esistenza di un legame di essi enti con i lavoratori dell'azienda interessata e di una concreta attività svolta localmente; come statuito dalle SS.UU. nella sentenza "Iori" del 1988; c) il difetto di motivazione in ordine alla liquidazione equitativa del danno.

 

4.16. La parte civile "Medicina Democratica" ha depositato in data 6/2/2010 memoria con la quale, nel rimarcare la correttezza della decisone della Corte di Appello di Torino, ha richiesto il rigetto dei ricorsi. Evidenziava, peraltro, che nessun appellante aveva impugnato l'ordinanza ammissiva della costituzione di parte civile, con ciò non contestando la legittimazione alla costituzione. In ogni caso l'Ente era esistente fin dal 1960 ed era operativo anche nello stabilimento di Verbania, attraverso il Dott. M. (V. depos. teste C. del 26/4/06). Quanto all'esistenza del danno non patrimoniale, dall'istruttoria svolta era emersa l'attività svolta nell'azienda a difesa della salute dei lavoratori e, pertanto, i reati avevano determinato un danno-conseguenza della violazione del diritto alla salute dei lavoratori deceduti, oggetto dell'azione di tutela dell'Ente.
La difesa degli imputati D., P., Pe., Po., Q., Va. ha presentato memorie difensive riepilogative della posizione dei loro assistiti.

 

 

5. L'imputato Q. e l'omicidio colposo in danno di Ca. Ce..

Il Q. ha lamentato la violazione del principio di correlazione, per essere stato condannato per l'omicidio colposo in danno di ca.ce., senza che il fatto gli fosse mai stato contestato.
La doglianza è fondata. Nella richiesta di rinvio a giudizio del P.M. non vi alcun cenno a tale omicidio. La contestazione è stata per la prima volta elevata, nel corso della udienza preliminare, ai sensi dell'art. 423 c.p.p., (come reato connesso) dal P.M. in data 15/10/2004. Nell'atto scritto della contestazione, tra i nominativi degli imputati, non figura il Q.. Nonostante ciò nella sentenza di appello detto imputato è stato condannato anche per tale omicidio (cfr.pg. 49 sent. di appello).
Si impone pertanto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di Q.B., limitatamente al decesso di Ca.Ce., per mancato esercizio dell'azione penale, disponendosi la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verbania per quanto di competenza.

 

6. La contestazione dell'omicidio in danno di Co.Gi..

Gli imputati hanno lamentato la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., in relazione all'omicidio di Co.Gi., in quanto nel capo di imputazione era stata indicata quale data di svolgimento dell'attività di coibentatore (e quindi di esposizione all'amianto) di tale persona offesa, il periodo dal 1959 al 1973, ma in sentenza, tale periodo era stato esteso fino al 1980, data di cessazione del lavoro. L'arbitraria estensione della sua esposizione all'amianto, senza alcuna effettiva contestazione, aveva leso il principio di correlazione ed inibito un corretto esercizio del diritto di difesa e del diritto alla prova, soprattutto per quegli imputati i quali nel periodo 1959-1973, non avevano alcuna posizione di garanzia, non essendo titolari di cariche sociali o dirigenziali. Peraltro la mera indicazione della cessazione del rapporto di lavoro alla data del 1980, non era idonea ad indicare la presenza di esposizione all'amianto del Co. nel periodo successivo al 1973.

La doglianza è infondata.

Va premesso che al fine di ritenere completo nei suoi elementi essenziali il capo d'imputazione, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (Cass. 4^, 34289/04, Mayer).
Nel capo di imputazione agli imputati viene attribuito il decesso del Co. avvenuto "a Verbania, il 3/7/2001, per asbestosi s 1/1, con ispessimenti pleurici costali bilaterali e bronchite cronica; dal 3/11/1959 al 12/9/1973 operaio calorifugatore coibentatore di caldaie e tubazioni; rapporto di lavoro cessato il 27/1/1980". Inoltre, nella descrizione dell'accusa, il rischio per i lavoratori viene indicato "sia per l'esposizione diretta che per l'esposizione indiretta, di inalazione di polveri-fibre di amianto". Pertanto il rischio poi concretizzatosi non viene correlato alle mansioni svolte dal lavoratore, ma alla semplice presenza in azienda, tenuto conto che, come esposto in sentenza, la conformazione dell'azienda e le modalità prive di cautela di utilizzo dell'amianto, esponevano ad inalazioni anche lavoratori non addetti specificamente alla coibentazione.
Ne consegue che la indicazione nel capo di imputazione del periodo di svolgimento delle mansioni del Co. e del periodo complessivo di svolgimento dell'attività lavorativa sono stati idonei per gli imputati a conoscere l'accusa ed a difendersi nel merito.

 

7. Omicidio in danno di Co.Gi. e prescrizione.

I difensori degli imputati accusati dell'omicidio in danno del Co., condannati in primo grado, hanno evidenziato che, essendo deceduta la vittima il 3/7/2001, essendo state concesse in primo grado le attenuanti generiche da ritenersi prevalenti, il delitto si era prescritto alla data del 3/1/2009, anteriormente alla sentenza di appello.
Va premesso che la questione si pone solamente per gli imputati Q. e M., condannati in primo grado per l'omicidio in danno del Co. ed ai quali sono state "concesse le generiche"; infatti, per gli altri imputati condannati per tale delitto in appello, esplicitamente le attenuanti generiche sono state riconosciute equivalenti e pertanto la prescrizione non si è ancora maturata.
Ciò premesso, va osservato che in primo grado al Q. è stata irrogata la pena di mesi sei per l'omicidio del Co. ed al M. la pena di mesi otto ("ritenuta la continuazione"), per gli omicidi del Co. e del Me.. Il Tribunale ha determinato la pena base stabilendo che "pena equa, concesse le generiche, è quella di mesi sei....".
Orbene, va ricordato che questa Corte ha avuto modo di statuire che nei casi in cui sia ravvisabile non un contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza ma soltanto incompletezza del primo, il giudice dell'impugnazione può individuare gli elementi idonei ad identificare la statuizione del giudice, attraverso l'interpretazione del dispositivo in correlazione con la motivazione che ne costituisce la premessa (Cass. VI, 10957/93, Coppola).
Ebbene, nel caso di specie, in assenza di uno specifico calcolo della pena, ma solo dell'aumento per la continuazione in relazione al M., deve ritenersi che la pena base sia stata determinata, nel minimo edittale, ritenendo le attenuanti generiche equivalenti, altrimenti sarebbe stata esplicitata la diminuzione corrispondente della pena. Ne consegue che la prescrizione del reato non si è ancora maturata.

 

8. L'imputato Po. e la qualità di direttore generale della società T..

L'imputato Po., direttore dello stabilimento di Verbania dal novembre 1976 al luglio 1983 ha lamentato la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., e quindi del principio di correlazione in relazione agli omicidi del Ma. e del Mo., ciò in quanto, a pagina 21 della sentenza gravata, si dava rilevanza alla sua qualità di direttore generale della soc. T., circostanza mai contestatagli.
Il motivo di censura è infondato.
Infatti nel capo di imputazione al Po. viene contestata, come qualità radicante in suo capo una posizione di garanzia, quella di direttore dello stabilimento della M.. Il richiamo in sentenza alla sua qualità di direttore generale di un'altra società, non integra la contestazione di un'ulteriore posizione di garanzia, ma è funzionale sul piano probatorio a dimostrare che, come detto in sentenza, ".... i rapporti tra M. e T. furono effettivamente caratterizzati da un evidente commistione di impianti, di luoghi di lavoro e di maestranze, nel senso che, al di là delle enunciazioni formali, tutto rimase come prima e ciò che mutò furono semplicemente le annotazioni sui libretti di lavoro di una parte dei dipendenti..".
Secondo il giudice di merito, infatti, se il Po. era direttore dello stabilimento M. (dal 1976 al 1983) e contemporaneamente direttore generale della soc. T. (dal 1980 al 1983), ciò avvalorava la evanescenza di un effettivo trasferimento dei lavoratori Ma., Mo. e Ca. dalla M. alla T., con conseguente mantenimento della posizione di garanzia in capo ai vertici della M..

 

9. Capo di imputazione e genericità delle contestazioni.

I difensori degli imputati (e ciò che si dirà in prosieguo della motivazione della sentenza vale anche per il responsabile civile), con diversi motivi, ma sostanzialmente con analoghe considerazioni, hanno lamentato la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., in relazione a tutti gli omicidi per cui era intervenuta condanna, laddove nel capo di imputazione, si contestavano in modo del tutto generico ed insufficiente le omissioni di cautele e la colpa generica, per non essere stato fatto tutto "ciò che avrebbe dovuto esser fatto", senza alcuna specificazione in ordine alla condotta alternativa lecita da tenere. La parziale genericità dell'imputazione ledeva il diritto di difesa, tenuto conto che, a fronte di una contestazione omissiva impropria, non consentiva di individuare quale condotta impeditiva ed alternativa si sarebbe dovuto tenere; condotta individuata nella sentenza di appello, senza alcuna preventiva contestazione, in una maggiore tempestività nell'ammodernamento degli impianti.

 

Le censure sono infondate.

La contestazione dell'accusa, laddove indica l'elemento materiale del reato ed il profilo della colpa, è stata formulata nel modo che segue:
".......del delitto p. e p. dagli artt. 2087 cod.civ., 40, comma II, e 589, commi I, II e III c.p.
.....per colpa consistita - per tutti, nelle rispettive, descritte qualità di datori di lavoro e/o di dirigenti - in negligenza, imprudenza, imperizia e, comunque, nell'omessa adozione, nell'esercizio ovvero nella direzione dell'impresa, delle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sarebbero state necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro, operanti all'interno dello stabilimento ubicato in Verbania P., in Viale A., n. 110; in violazione, altresì, dei precetti contenuti negli artt. 377, commi I e II, e 387 del d.p.r. 27/4/1955, n. 547, nonché negli artt. 4, 19 e 21 del d.p.r. 19/3/1956, n. 303, in relazione ai rischi codificati sia negli artt. 1, 2 e 4 della legge 12/4/1943, n. 455, (estensione dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali alla silicosi ed all'asbestosi), sia negli artt. 140 e seguenti (titolo I, capo VIII, recante disposizioni speciali per la silicosi e l'asbestosi) e nell'allegato n. 8 (tabella delle lavorazioni per le quali è obbligatoria l'assicurazione contro la silicosi e l'asbestosi) del d.p.r. 30/6/1965, n. 1124 (testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali); omettendo, tanto i datori di lavoro, quanto i dirigenti, di fornire ai lavoratori mezzi personali di protezione appropriati al rischio, sia per esposizione diretta che per esposizione indiretta, di inalazione di polveri - fibre di amianto, rischio inerente a tutte le lavorazioni ed operazioni insalubri, comportanti il contatto con tale minerale, largamente impiegato all'interno degli ambienti di lavoro (frequenti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, specialmente di tipo distruttivo, sui rivestimenti e sulle coibentazioni di amianto presenti sulle tubazioni e sulle altre parti degli impianti dello stabilimento di Viale A.; impiego e manipolazione, più in generale, di materiali in amianto, per coibentare, decoibentare e ricoibentare le diverse strutture degli impianti di produzione); omettendo di mettere a disposizione dei lavoratori, esposti al rischio specifico sopraccitato, maschere respiratorie o altri dispositivi di protezione idonei, ovvero di assicurarne ed esigerne l'effettivo impiego (art. 4, lett. c), del d.p.r. 27/4/1955, n. 547, , ed art. 4, lettere c) e d), del d.p.r.19/3/1956, n. 303); non attuando le misure d'igiene previste nel d.p.r. 19/3/1956, n. 303 (art. 4, lett. a), del d.p.r. 19/3/1956, n. 303); non rendendo edotti i lavoratori del rischio specifico di inalazione di polveri - fibre di amianto cui erano o sarebbero stati esposti, né portando a loro conoscenza i modi per prevenire i danni derivanti dai rischi predetti (art. 4, lett. b), del d.p.r. 19/3/1956, n. 303); non facendo effettuare in luoghi separati, ogni qualvolta ciò fosse possibile, le lavorazioni pericolose o insalubri afferenti al rischio d'inalazione delle fibre di amianto, allo scopo di non esporvi, senza necessità, i lavoratori addetti alle altre lavorazioni (interventi di manutenzione ed anche di tipo distruttivo, interessanti tubazioni e parti degli impianti situati nei reparti ove erano in corso, contestualmente, le altre, ordinarie lavorazioni), ai sensi dell’art. 19 del d.p.r. 19/3/1956, n. 303; non adottando, né facendo adottare i provvedimenti (misure o rimedi di prevenzione tecnica, di carattere permanente e collettivo) atti ad impedire o a ridurre efficacemente, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione, nell'ambiente di lavoro, della polvere di amianto, in relazione all'esecuzione di lavori, che, normalmente, davano luogo alla formazione ed alla dispersione di quella polvere (in particolare, gli interventi di decoibentazione, consistenti nella rottura, sfaldatura e rimozione dei rivestimenti in amianto, per procedere alla loro sostituzione); non adottando, né facendo adottare le misure per le quali, secondo quanto previsto dall’art. 21, comma II, del d.p.r. 19/3/1956, n. 303, si sarebbe dovuto tener conto delle dimensioni delle polveri d'amianto e della loro concentrazione nell'atmosfera; non adottando, nè facendo adottare gli accorgimenti, le cautele e le misure tecniche di prevenzione di cui all’art. 21, commi III e IV, del d.p.r. 19/3/1956, n. 303, cagionavano.....la morte di alcuni operai.......".

 


Orbene dalla semplice lettura del capo di imputazione si può evincere la completezza della contestazione ove, dopo avere indicato per ciascun imputato la qualità radicante una posizione di garanzia in relazione ad una condotta omissiva impropria, vengono elencate le violazioni sia di specifiche norme di prevenzione che di generali regole di cautela, il cui negligente mancato rispetto è contestato come avere avuto efficacia causale in ordine agli eventi letali verificatisi.
Né l'incompletezza può essere desunta dalla mancata esplicitazione nell'imputazione della condotta alternativa lecita che si sarebbe dovuta tenere. Questa si desume a contrario dalla indicazione delle norme violate : il rispetto delle regole costituisce la condotta che, se tenuta, avrebbe evitato gli eventi con alto grado di probabilità.
Ne consegue da quanto detto, che l'accusa è stata contestata in modo chiaro, preciso e completo sotto il profilo materiale e soggettivo, mettendo in grado gli imputati di esercitare in modo compiuto il diritto di difesa e quello alla prova.

 

10. Legitimatio ad causam  delle parti civili.

Il responsabile civile, "M." s.p.a., ha lamentato il difetto di legittimazione degli enti-parti civili ("Medicina Democratica" e "Camera del Lavoro CGIL") a costituirsi in giudizio: quali enti esponenziali, per mancanza del riconoscimento e dell'operatività prima della commissione del reato e difetto di consenso delle persone offese; ovvero, mancanza di un diritto soggettivo azionabile in quanto leso dal reato.

Anche tali motivi di doglianza sono infondati.

Va premesso che i ricorrenti evocano, per avallare la tesi del difetto di legittimazione le disposizioni dettate dall'art. 91 e segg., in tema di "Diritti e facoltà degli enti e delle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato".
Il riconoscimento di poteri processuali in capo ad enti esponenziali costituisce una novità introdotta nel nostro ordinamento dal codice "Vassalli" per garantire giustiziabilità ad interessi posti in via mediana tra quelli individuali e quelli pubblici.
Si tratta degli interessi "diffusi", facenti capo ad una pluralità di soggetti non specificamente individuabili ed inidonei a divenire oggetto di titolarità individuale; nonché degli interessi "collettivi", facenti capo agli appartenenti ad un determinato gruppo sociale, imputabili alla collettività di riferimento pur rimanendo, però, interessi generali.
Poiché non si tratta di interessi di titolarità individuale, il codice di rito consente loro una tutela limitata e subalterna rispetto a quelli della persona offesa : limitata, in quanto non è consentito all'ente esponenziale la costituzione di parte civile non essendo soggetto direttamente danneggiato (arg. ex art. 212 disp. att. c.p.p.); subordinata, in quanto la loro operatività e condizionata dal consenso prestato dalla persona offesa.
Nel caso di specie, gli enti di fatto costituitisi parte civile ("Medicina Democratica" e "Camera del Lavoro CGIL"), non hanno fatto ingresso nel processo come enti esponenziali di interessi diffusi o collettivi, bensì agendo "iure proprio" in qualità di soggetti danneggiati dal reato, pertanto a loro non vanno applicate le disposizioni di cui all'art. 91 e segg., ma dell'art. 74 c.p.p..

La legittimazione alla costituzione non è inibita dalla circostanza di essere enti di fatto, quindi privi di una vera e propria personalità ma titolari di una mera soggettività.
Infatti nel nostro sistema processuale la "legitimatio ad causam" in sede civile è consentita anche agli enti di fatto come indirettamente si desume dall'art. 75 c.p.c., ove, nel disciplinare la capacità processuale prevede che "Le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate negli artt. 36 e segg c.c..". La disposizione, attribuendo capacità processuale agli amministratori degli enti di fatto, indirettamente riconosce a questi ultimi la legittimazione ad agire o resistere in giudizio.

Peraltro il nostro ordinamento si spinge oltre, laddove ad esempio, riconosce la legittimazione persino al condominio (cfr. art. 1131 c.c.) che non ha soggettività ma è un mero centro di imputazione di interessi.

Ne consegue, per quanto detto, che la circostanza di non avere i predetti enti personalità giuridica non è ostativa alla costituzione di parte civile, affermazione questa peraltro già ampiamente condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. III, 12378/08, Pinzone; Cass. III, 38290/07, Abdoulaye).
Né un'ostatività può dedursi dalla circostanza di non essere stati detti enti, in particolare "Medicina Democratica", ancora operativi al momento dei fatti.
Sul punto con convincente e logica motivazione, la corte di merito ha osservato che l'associazione "Medicina Democratica" ebbe a costituirsi nel 1978, pur essendo operativa di fatto già negli anni precedenti; pertanto, essendosi consumati i reati in epoca posteriore ed avendo svolto l'ente attività durante il periodo in cui ancora si maturavano le omissioni contestate, sussiste la legittimazione, in quanto il danno vantato si è verificato in costanza della loro attività.
Infine, la difesa ha prospettato il difetto di legittimazione sotto altro profilo e cioè l'assenza di un danno diretto.

Orbene va ricordato che questa Corte di legittimità ha statuito che gli enti di fatto sono legittimati a costituirsi parte civile non soltanto quando il danno riguardi un bene su cui gli stessi vantino un diritto patrimoniale, ma più in generale quando il danno coincida con la lesione di un diritto soggettivo, come avviene nel caso in cui offeso sia l'interesse perseguito da un'associazione in riferimento ad una situazione storicamente circostanziata, assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, con l'effetto che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione della personalità o identità del sodalizio (Cass. III, 38290/07, Abdoulaye).

Più in generale il danno ingiusto risarcibile deve essere inteso come quello cagionato "non iure", cioè provocato in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare senza che assume rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo (cfr. Cass. IV, 22558/10).

In particolare per quanto attiene al danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), alla luce dell'art. 2 cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (Enti), non può più essere identificato, secondo la tradizionale restrittiva lettura dell'art. 2059, in relazione all'art. 185 c.p., soltanto con il danno morale soggettivo, sicché, nell'ambito del danno non patrimoniale rientra, oltre al danno morale subiettivo nei casi previsti dalla legge (la sofferenza contingente ed il turbamento dell'animo transeunte, determinati da fatto illecito integrante reato), anche ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica (Cass. Civ. II, 9861/07).
E tale lesione deve essere riconosciuta come possibile anche in danno delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi, pregiudizio non patrimoniale, che non coincide con la "pecunia doloris" (danno morale), bensì ricomprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione (Cass. Civ. III, 29185/08).

Nel caso di specie gli enti costituiti parte civile avevano ed hanno come oggetto della loro attività la tutela dei lavoratori, anche sotto il profilo della dignità e della salute ("Medicina Democratica" l'ha evidenziato nella stessa ragione sociale). Pertanto ogni condotta del datore di lavoro idonea a ledere la salute dei lavoratori, soprattutto nei casi in cui ciò si verifica in modo reiterato (es. pluralità di decessi) e in conseguenza di condotte riconducibili a sistematiche e radicate violazione delle norme di sicurezza e di igiene sul lavoro, determina, un danno diretto all'Ente. Esso può essere sia economico, per le eventuali diminuzioni patrimoniali conseguenti alla riduzione delle adesioni dei lavoratori per il venir meno della fiducia nella capacità rappresentativa dell'istituzione; sia danno non patrimoniale per la lesione dell'interesse statutariamente perseguito di garantire la salute dei lavoratori nell'ambiente di lavoro, presidiato costituzionalmente dagli artt. 2 e 32 Cost..

Tali affermazione non stridono con la pronuncia delle SS.UU. di questa Corte 6168/88 (imputato lori), in quanto detta sentenza, risalente al 1998, non poteva tener conto della evoluzione della nozione di danno non patrimoniale e, quindi, delle conseguenti ricadute in termini di legittimazione processuale; ed inoltre perché il caso oggetto del processo era costituito da un singolo decesso (determinato dalla colposa violazione delle norme antinfortunistiche) e non da una pluralità di decessi in correlazione ad una sistematica e stabile carenza di rispetto delle norme di sicurezze ed igiene sul lavoro, circostanze queste idonee mettere in dubbio la idoneità degli Enti rappresentativi dei lavoratori a garantire la loro tutela nei diritti essenziali, con conseguente danno per dette organizzazioni.

 

11. La posizione di garanzia degli imputati.

Tutti gli imputati, sotto vari profili, hanno contestato di avere assunto una posizione di garanzia in relazione ai fatti oggetto delle imputazioni.
Va premesso che l'accusa formulata con l'esercizio dell'azione penale è caratterizzata, dal punto di vista oggettivo da una condotta omissiva che ha determinato gli eventi letali e quindi, il processo causale è identificato in quella clausola estensiva della tipicità oggettiva costituita dal secondo comma dell'art. 40 c.p., (reato omissivo improprio).
Più in avanti si discorrerà approfonditamente sulla causalità omissiva, in questa sede è opportuno ricordare che per attribuire ad una condotta omissiva umana una efficacia casuale, è necessario che l'agente abbia in capo a sé la c.d. "posizione di garanzia" e che cioè, in ragione della sua prossimità con il bene da tutelare, sia titolare di poteri ed obblighi che gli consentono di attivarsi onde evitare la lesione o messa in pericolo del bene giuridico la cui integrità egli deve garantire (secondo comma dell'art. 40 c.p.: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo").

La ratio della disposizione va ricercata nell'intenzione dell'ordinamento di assicurare a determinati beni giuridici una tutela rafforzata, attribuendo ad altri soggetti, diversi dall'interessato, l'obbligo di evitarne la lesione e ciò perché il titolare non ha il completo dominio delle situazioni che potrebbero mettere a rischio l'integrità dei suoi beni.
Poiché l'obbligo di impedimento concorre alla individuazione del fatto tipico, la ricerca della posizione di garanzia deve tenere conto delle esigenze del rispetto del principio di legalità. Tale esigenza viene talora garantita attraverso il richiamo a norme di contenuto generale, quali ad es. l'art. 2043 c.c., (che codifica il principio del "neminem ledere") o l'art. 2087 c.c., (che fa gravare sul datore di lavoro il generale obbligo di sicurezza a favore dei lavoratori), lasciando poi al giudice il compito di concretizzare gli obblighi specifici. Talora l'individuazione della posizione di garanzia viene affidata alla normazione secondaria, che spesso prevede norme di comportamento contenenti specifici obblighi.

La dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato tre teorie volte ad individuare la posizione di garanzia.

Secondo una teoria c.d. "formale" la fonte dell'obbligo giuridico andrebbe ricercata nella legge (penale o extrapenale; con l'aggiunta della consuetudine), o nel contratto (non escludendo la negotiorium gestio), ovvero in una precedente azione pericolosa che impone di attivarsi per eliminare la situazione di pericolo creata. Il limite di tale orientamento è costituito dal fatto che potrebbe determinare la responsabilità sulla base della mera violazione dell'obbligo, senza valutare se esso fosse funzionalmente preordinato ad evitare l'evento.

Secondo altra teoria, c.d. "funzionale", superando il dogma della giuridicità della fonte degli obblighi di garanzia, vi sarebbero dei criteri di identificazione di natura materiale desumibili dalle specifiche funzioni in concreto svolte dall'agente, titolare di un potere di signoria sulle condizioni essenziali per il verificarsi dell'evento. In tali ipotesi, la "copertura" normativa viene garantita da norme di contenuto generale, quali l'art. 2 Cost., (doveri di solidarietà sociale) o l'art. 32 Cost. (tutela della salute).
Va osservato che l'accoglimento di tale teoria, affida la selezione della garanzia a criteri funzionali, di discrezionale interpretazione, con rischio di violazione del principio di legalità ed, in particolare, di determinatezza della fattispecie.

È stata pertanto elaborata un'ulteriore teoria che può essere definita "mista", oggi prevalente, che, integrando le due precedenti, pretende che: la fonte dell'obbligo sia legislativamente determinata, salva la possibilità meramente integrativa della normazione secondaria; che la fonte possa anche essere rinvenuta nel contratto in ragione del richiamo all'art. 1372 c.c. ("Il contratto ha forza di legge tra le parti"); che l'obbligo sia destinato finalisticamente a proteggere ed impedire l'evento lesivo.
Riassumendo, perché nasca una posizione di garanzia, è necessario che: vi sia un bene giuridico che necessiti di protezione e che da solo il titolare non è in grado di proteggere; che una fonte giuridica (anche negoziale) abbia al finalità della sua tutela; che tale obbligo gravi su una o più specifiche persone; che queste ultime siano dotate di poteri impeditivi della lesione del bene che hanno "preso in carico".
Invero, i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante, è sufficiente che gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari per evitare che l'evento dannoso venga cagionato, per la operatività di altri elementi condizionanti di natura dinamica.

 

12. (segue): Gli orientamenti della giurisprudenza.

Come già ribadito in un recente pronuncia di questa Corte di legittimità (Cass. IV, 16761/2010, Basile ed altri), la giurisprudenza non sempre ha seguito un univoco indirizzo, più volte affermando che la posizione di garanzia può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento (cfr. Cass., sez. IV, 22 ottobre 2008 n. 45698, Fonnesu, rv. 241759-60, con riferimento al caso dell'ospite di un albergo annegato nel corso di un bagno in piscina in orario in cui non era garantita l'assistenza; 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone, rv. 217904; 1 ottobre 1993 n. 11356, Cocco, rv. 197354; 21 maggio 1998 n. 8217, Fornari, rv. 212144; 20 aprile 1983 n. 9176, Bruno, rv. 160997).
In particolare la giurisprudenza di legittimità ha spesso integrato i criteri sostanziali e formali e, oltre a ritenere ovviamente consentito il sorgere di una posizione di garanzia in base al contratto, ha altresì ritenuto sufficiente a fondare l'esistenza di una posizione di garanzia anche l'assunzione volontaria ed unilaterale di compiti di tutela al di fuori di un preesistente obbligo giuridico con la "presa in carico" del bene accrescendone la possibilità di salvezza. Si sono fatti gli esempi dei vicini di casa che si prendono cura di un bambino in assenza dei genitori o dei volontari del pronto soccorso che assistono un ferito in stato di incoscienza (si veda, su questi o analoghi temi, Cass., sez. IV, 22 maggio 2007 n. 25527, Conzatti, rv. 236852).
Peraltro, l'assunzione della posizione di garanzia in base ad un'assunzione di fatto di poteri inerenti obblighi di tutela è adesso normativamente prevista, in tema di sicurezza sul lavoro, nel caso di chi, pur sprovvisto di formale investitura, "esercita in concreto i poteri giuridici riferiti" al datore di lavoro, al dirigente e al preposto (art. 299 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81).

 

13. (segue): Il potere impeditivo.

 

Ciò premesso va ricordato che la posizione di garanzia può essere distinta in : "obbligo di protezione" di uno specifico bene da qualsiasi possibile pericolo che ne attenti l'integrità; "obbligo di controllo" in relazione a determinate fonti di pericolo, per la tutela di tutti i beni che potrebbero essere offesi.
In particolare, l'obbligo di controllo è ricollegato ad una concreta prossimità del garante con il bene in ragione della signoria che egli abbia in ordine a situazioni potenzialmente pericolose, connesse a suoi poteri di organizzazione e di comando.
Secondo parte della dottrina, gli obblighi di garanzia non vanno confusi con gli "obblighi di sorveglianza", i quali comportano per chi ne è onerato, solo un compito di vigilanza sulle situazioni di pericolo, ma non un compito impeditivo (es. i sindaci di una s.p.a. in ordine a taluni loro compiti di sola sorveglianza). Ne consegue che la titolarità di una mera posizione di sorveglianza non è idonea a far sorgere l'obbligo di impedire l'evento.

Tale orientamento, nella sua radicale formulazione non può essere condiviso, richiamando quanto già esposto nella citata sentenza di questa Corte 16761\2010.

Invero, la posizione di garanzia richiede l'esistenza di poteri impeditivi che, però, possono anche concretizzarsi in obblighi diversi e di minore efficacia, rispetto a quelli direttamente e specificamente volti ad impedire il verificarsi dell'evento. Del resto nella gran parte dei casi i garanti non dispongono sempre e in ogni situazione di tutti i poteri impeditivi che invece di volta in volta si modulano sulle situazioni concrete. Pertanto è sufficiente che egli ponga in essere quelli da lui esigibili. A titolo esemplificativo, la madre il cui figlioletto sta annegando non è tenuta a soccorrerlo se non sa nuotare, ma ciò non la esime certo dal chiamare i soccorsi; e così il medico che, nel corso di una terapia o di un intervento chirurgico, si rende conto di non essere in grado di affrontare un problema imprevedibile non va esente da responsabilità se non chiede l'intervento dello specialista che questo problema è in grado di affrontare.
In conclusione può affermarsi che un soggetto è titolare di una posizione di garanzia, se ha la possibilità, con la sua condotta attiva di influenzare il decorso degli eventi indirizzandoli verso uno sviluppo atto ad impedire la lesione del bene giuridico da lui preso in carico.
È necessario, pertanto, nel caso di specie, valutare se gli imputati, disponevano o meno dei poteri impeditivi dell'evento, nell'accezione sopra fornita.

 

14. (segue): gli amministratori delegati ed i componenti del consiglio di amministrazione.

 

Questa Corte in plurime sentenze, ha già avuto modo di statuire che nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione (Cass. IV, 6280/2007, Mantelli).

Infatti, anche di fronte alla presenza di una eventuale delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, tale situazione può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega.

In una fattispecie analoga a quella oggetto di giudizio, relativa ad impresa il cui processo produttivo prevedeva l'utilizzo dell'amianto e che aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, si è ritenuto che, pur a fronte dell'esistenza di amministratori muniti di delega per l'ordinaria amministrazione e dunque per l'adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell'attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento -per l'onerosità e la portata degli interventi necessari - sarebbe stato indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali.

Ciò è in perfetta sintonia con quanto previsto dall'art. 2392 c.c., in tema di s.p.a. e vigente all'epoca dei fatti. Tale disposizione, nel prevedere che gli amministratori nella gestione della società devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo, stabilisce che anche se taluni compiti sono attribuiti ad uno o più amministratori, gli altri componenti "sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione...".

In sostanza, in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione. Diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del delegante permangano obblighi si vigilanza ed intervento sostitutivo.

In definitiva, anche in presenza di una delega di funzioni ad uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro.

Nel caso di specie, come si evince dalla contestazione e dalle emergenze della istruttoria dibattimentale esposte nelle sentenze di merito, la violazione della disposizioni sull'igiene del lavoro erano talmente gravi, reiterate e "strutturali", da richiedere decisioni di alto livello aziendale non delegabili e proprie di tutto il consiglio di amministrazione ed, in ogni caso, che non sottraevano i suoi componenti da obblighi di sorveglianza e denuncia.
Se ciò vale per i singoli componenti del consiglio, a maggior ragione la posizione di garanzia rimane radicata il capo all'amministratore delegato od al componente del comitato esecutivo.

Ne consegue da quanto detto, che tutti gli imputati, i quali hanno rivestito la carica di consiglieri, presidenti o amministratori delegati del consiglio di amministrazione della M., hanno assunto una posizione di garanzia, idonea renderli responsabili delle conseguenze relative al mancato rispetto delle norme sull'igiene del lavoro.
Analoga posizione l'hanno assunta coloro che hanno rivestito al carica di consiglieri di amministrazione della S.I.N. (Società Italiana Nailon), a cui la M. aveva conferito le attività produttive delle fibre poliammidiche e le cui strutture erano collocate nell'ambito degli stabilimenti della M..

Infine, a fronte della circostanza che nelle cariche sociali gli imputati si sono succeduti nel tempo, va ribadito quanto già più volte affermato da questa Corte di legittimità e che cioè, in caso di successione di posizioni di garanzia, in base al principio dell'equivalenza delle cause, il comportamento colposo del garante sopravvenuto non è sufficiente ad interrompere il rapporto di causalità tra la violazione di una norma precauzionale operata dal primo garante e l'evento, quando tale comportamento non abbia fatto venir meno la situazione di pericolo originariamente determinata (ex plurimis, Cass. IV, 27956/08, Stefanacci).

 

15. (segue): il direttore di stabilimento.

Quanto alla posizione dei direttori di stabilimento, va osservato che costoro, in quanto dirigenti, erano gravati da una posizione di garanzia derivante dal disposto dell’art. 4, DPR 547\1956, (in materia di infortuni sul lavoro) ed art. 4 DPR 303\1956 (in materia di igiene sul lavoro), ove è previsto che i dirigenti devono attuare le misure di sicurezza e di igiene e fornire ai lavoratori i mezzi necessari di protezione, oltre che renderli edotti dei rischi specifici a cui sono esposti. Inoltre, in quanto presenti in stabilimento, erano coloro che avevano maggiore prossimità con i beni giuridici da tutelare e garantire (cfr. Cass. IV, 12758/1980, Lorenzini; Cass. IV, 7404/1981, Sestieri; Cass. IV, 9234/1983, Diandra; Cass. Sez. Un., 6168/1989, lori; Cass. IV, 5835/1991, Invernicci).
Ne consegue che in quanto titolari di poteri di vigilanza ed attuazione delle misure di sicurezza ed igiene, nonché impeditivi anche a costo di interrompere l'attività produttiva (cfr. Cass. IV, 38009/2008, Pennacchietti), avevano una posizione normativa e funzionale di garanzia dell'incolumità dei lavoratori operanti nell'azienda.

 

16. (segue) : la posizione di garanzia in relazione agli operai trasferiti alla "T.".

Gli imputati gravati dei decessi degli operai Ma., Mo. e Ca., hanno lamentato la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione alla affermata sussistenza di una posizione di garanzia relativamente a tali operai, passati alle dipendenze della s.p.a. T. il 17/4/1975, prima che essi imputati assumessero cariche sociali nella M. o nella S.I.N. : non avendo la qualità di datore di lavoro e non avendo compiuto condotte di ingerenza nell'attività della T., non aveva una formale (o di fatto) posizione di garanzia in relazione ai predetti operai deceduti.

Sul punto l'impugnata sentenza non palesa alcun vizio.

Invero il giudice di merito, con coerente e logica motivazione, insindacabile in questa sede, ha evidenziato che:
- il passaggio dalla M. alla T. (con trasferimento degli operai addetti), ebbe a riguardare solo la centrale termica e la centrale elettrica dello stabilimento di Verbania (oltre a delle particelle di terreno). Pertanto la T. non svolgeva alcuna autonoma attività industriale.
- Tale società era di fatto controllata dalla M., tanto vero che l'ing. Po. era stato contemporaneamente direttore dello stabilimento M. di Verbania (dal 1976 al 1983) e direttore generale della T. (dal 1980 al 1983). Inoltre, l'ing. R.To., alle dipendenze del presidente del consiglio di amministrazione della M., faceva parte del C.d.A. della T.. Infine, dall'ordine di servizio n. 399 del 10/7/01 emergeva che il direttore della divisione filo nailon della M., coordinava direttamente l'attività della T..
- La commistione dei luoghi di lavoro delle due società, determinava in ogni caso la contaminazione anche dei locali gestiti dalla T. e pertanto non escludeva la posizione di garanzia di coloro che avevano cariche nella M..

In relazione a tale ultimo punto va osservato che, una volta che con le proprie condotte omissive si è determinata l'insorgenza di una fonte di pericolo, la posizione di garanzia si mantiene non solo per i danni che possono essere provocati ai propri dipendenti, ma anche ai terzi che frequentano le strutture aziendali (cfr. Cass. IV, 11356/93, Cocco).

In proposito si richiama la giurisprudenza di questa Corte laddove è stata riconosciuta la sussistenza della posizione di garanzia del datore di lavoro, che aveva omesso di adottare le misure di sicurezza necessarie previste dalla legge, per la morte della moglie di un lavoratore, addetto ad operazioni comportanti esposizioni ad amianto, che aveva provveduto alla pulizia degli indumenti del marito (cfr. motivazione della sentenza Cass. IV, 27975/03, Eva).
Alla luce di quanto detto nessuna violazione di legge o difetto di motivazione si è maturata in relazione al riconoscimento di una posizione di garanzia degli imputati accusati dell'omicidio colposo degli operai Ma., Mo. e Ca..

 

17. Gli ambienti di lavoro della M..

La corte distrettuale analizzando gli elementi emersi dalla istruttoria dibattimentale (dichiarazioni di periti, consulenti, testimoni), si è diffusa nella illustrazione delle modalità con cui veniva trattato l'amianto nello stabilimento di Verbania. Ha premesso che tutti i lavoratori deceduti erano stati impiegati alle dipendenze della "M." (o di società collegate) nel detto stabilimento, che occupava negli anni '70 circa 3.600 dipendenti.

L'oggetto della lavorazione non era l'amianto, ma la produzione di nailon. Il processo produttivo comportava che si sviluppassero alte temperature, da qui la necessità di avere tubazioni e macchinari atti a sopportare dette temperature.

Per tale motivo nello stabilimento esisteva un reparto coibentazione destinato alla realizzazione dei rivestimenti in amianto, che veniva utilizzato in modo massiccio per la protezione soprattutto delle condotte.

Infatti, la rottura delle coibentazioni comportava la necessità di continui interventi di manutenzione, che venivano effettuati senza garanzie per la salute dei lavoratori. In particolare senza interrompere il ciclo produttivo; frantumando sul posto le coibentazioni danneggiate e lavorando, sempre sul posto, l'amianto da posizionare, prelevandolo da grossi sacchi; le procedure di aspirazione erano assenti o rudimentali.

 

Per tali motivi le polveri di amianto si propagavano negli ambienti di lavoro con concentrazione elevata (il giudice di merito ha richiamato le dichiarazioni del Dott. M.L.), esponendo alla loro inalazione non solo i lavoratori impiegati nella manutenzione, ma tutti coloro che erano presenti nel luogo di lavoro.
La difesa degli imputati ha citato le parole del Dott. Ba. (medico di fabbrica) per dimostrare che dopo la scoperta di casi di patologie asbesto correlate si era corsi ai ripari adottando opportune cautele ("....isolamento dell'area, bagnare a pioggia i materiali con l'amianto, non utilizzare scope ma solo aspiratori, insaccare le fibre in sacchi a tenuta che poi dovevano esser stoccati in luogo protetto. Non ricordo di avere suggerito l'uso di particolari protezioni individuali...").

Ha osservato la corte che dalla stessa deposizione del medico emergeva che prima di tale intervento le cautele erano del tutto assenti; successivamente riguardarono l'adozione di precauzioni elementari, senza alcuna seria informazione ai dipendenti dei rischi di contrarre le malattie correlate alla presenza dell'amianto. In sostanza nessun serio e radicale mutamento della situazione di rischio, con totale ammodernamento, fu attuata.

Di contro, ha ricordato la corte si appello, che il Dott. M. (diplomato in chimica industriale, laureato in scienze biologiche, che aveva operato per 40 anni presso il centro ricerche dello stabilimento Montedison di Castellanza), alla domanda rivolatagli se dal dopoguerra agli anni '80, in altre realtà industriali simili alla M. trovassero applicazioni le cautela previste dalla normativa vigente ed in particolare il DPR del 1956, ha risposto ".... Posso fare degli esempi parlando della Montedison di Castellanza ... verso la prima metà degli anni 55-56 fu realizzata la prima unità formaldeide nuova, il progettista era l'ing. S. della Montedison, e lì non c'era amianto, lì si è utilizzato subito lana di roccia, fibre di vetro ecc., assolutamente e potrei andare avanti con altri impianti che sono sorti dopo...". Alla domando sul perché, invece, in stabilimenti dello stesso gruppo industriale quale quello di Verbania, si utilizzasse l'amianto, il M. ha risposto

"....Alcune motivazioni sono già state individuate e soprattutto la, come dire, la flessibilità applicativa dell'amianto, ma naturalmente ai danni di chi applicava l'amianto, aggiungo io no, è il costo basso di questa applicazione no, rispetto ad altre soluzioni...".

Ne ha dedotto la corte di merito che seppure verso la seconda metà degli anni settanta si era fatta largo una maggiore sensibilità in ordine alla problematiche sulla salute dei lavoratori, il processo di ammodernamento fu lento tanto vero che anche negli anni successivi l'amianto era ancora presente in azienda, come accertato nel 1996, in sede di trasferimento di una parte degli impianti alla soc. ACETATI che ebbe a presentare nel 1997 un piano di messa in sicurezza e di rimozione di tutte le coibentazioni contenenti amianto. Ad avvalorare tali circostanze, lo stesso consulente del P.M. Dott. L. aveva dichiarato che ancora nel 2002 nello stabilimento di Verbania vi era ancora una significativa presenza di amianto.

In ordine alla circostanza che alcuni lavoratori ( Ca., M., A., Ge., Me., Co.), tra quelli deceduti, fossero stati trasferiti a metà degli anni '70, la corte ha osservato che ciò non aveva impedito che, anche successivamente, avessero inalato polveri di amianto, per due ragioni : in primo luogo, perché l'effettività del loro trasferimento era dubbia; quanto alle reali date degli spostamenti, dagli atti processuali risultavano avvenute successivamente all'epoca indicata nella sentenza del Tribunale (la corte torinese, ha evidenziato che il Ca. rimase al reparto filatura fino al 1978; l' A. venne utilizzato, sebbene saltuariamente, all'avviamento dei blocchi nel reparto filatura; il Me. era rimasto nel deposito sacchi di polvere di amianto fino al 1977).

In secondo luogo, perché anche dopo il trasferimento, avevano avuto modo di inalare le polveri, in ragione della struttura del fabbricato aziendale e della diffusione delle polveri in tutti i locali.

Quanto poi ai lavoratori deceduti Ma., Ca. e Mo., che nel corso del 1975 erano stati trasferiti dalla "M." alla società "T.", come già sopra rilevato, ciò non escludeva da parte di costoro la inalazione di fibre di asbesto, in quanto il passaggio dalla "M." alla "T." aveva riguardato solo alcune parti dello stabilimento (la centrale termica, la centrale elettrica ed alcune particelle di terreno) e pertanto gli ambienti di lavoro erano commisti.
Se ne desumeva, da quanto detto, che la violazione delle norme di igiene sul lavoro contestate, volte a garantire la riduzione al massimo della diffusione delle polveri nocive negli ambienti di lavoro e la possibilità della loro inalazione da parte dei lavoratori.

Tale ricostruzione di fatto svolta dalla Corte di Appello, peraltro in modo conforme al giudice di primo grado, ancorata a quanto emerso dall'istruzione dibattimentale, è incensurabile in questa sede, valutata la coerenza e la non manifesta illogicità della motivazione.
Va da ultimo osservato che la doglianza avanzata da alcuni imputati, in particolare il Va., di non avere il giudice di merito tenuto conto della chiusura dello stabilimento nel 1981-1983, non trova specifico riscontro in atti. Tale circostanza emerge dal contenuto di una memoria difensiva in appello, in cui viene richiamata la deposizione del teste E., il quale parla di una chiusura nel 1981 o 1983 aggiungendo "non vorrei sbagliare".
Orbene, la censura formulata tesa a dimostrare una non corretta ricostruzione dei fatti processuali, è priva di autosufficienza, in quanto richiama una deposizione del tutto generica ed imprecisa e soprattutto non indica da quali atti o documenti rilevare la chiusura e le sue modalità (periodo, presenza o meno dei lavoratori in azienda, ecc.).

 

 

18. (segue): mancato accertamento dei valori di esposizione.

Gli imputati, ed in particolare il D.M., hanno lamentato la erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 43 comma 3° c.p. e art. 2087 c.c., in relazione alla pretesa conoscibilità in concreto da parte degli imputati della pericolosità dell'amianto anche a basse e bassissime dosi. Invero la effettiva conoscenza scientifica della pericolosità dell'amianto si era avuta solo nel 1980; prima di allora la indicazione di valori soglia di esposizione all'amianto, internazionalmente riconosciuti, sebbene non avessero una valenza integratrice delle norme penali, certamente costituivano un indice della evoluzione delle conoscenze sulla pericolosità dell'amianto, di cui era testimonianza il progressivo decremento dei limiti, fino al loro crollo nel 1980.

Pertanto le conoscenze che avrebbero potuto evitare l'asbestosi, non avrebbero consentito di evitare il mesotelioma.

La corte di merito nel rispondere sul punto ad analoga questione posta in sede di giudizio di merito, ha osservato che relativamente alla quantificazione dei livelli di esposizione alle polveri di amianto, non era condivisibile la tesi del consulente ing. N., che facendo riferimento ad un protocollo di indagine classico ed ai valori TLV-TWA (valori limite di esposizione agli agenti chimici) adottati dalla ACGIH ("American Conference of Governmental Industrial Hygienists", organizzazione statunitense che si occupa dal 1938 di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), aveva ritenuto che non era possibile quantificare i livelli pregressi di esposizione secondo seri parametri scientifici, considerato anche che l'esposizione dei lavoratori era stata per la maggior parte indiretta.

Ha considerato la corte che, sebbene la quantificazione dell'esposizione non era effettivamente possibile, dalle dichiarazioni degli esperti e dei testimoni era emersa la grave negligenza nell'utilizzo dell'amianto e, quindi, la violazione della disposizione dell’art. 21, DPR 303\1956, che impone al datore di lavoro di impedire lo sviluppo e la diffusione delle polveri nei luoghi di lavoro. Inoltre alla mancata identificazione del superamento di valori-limite, peraltro non aventi alcun valore legale nell'ordinamento, urtava contro l'evidenza che tutte le vittime erano decedute per patologie ricollegabili all'esposizione all'amianto, senza alcuna possibilità alternativa di contrarre la patologia.

La soluzione offerta dal giudice di merito appare coerente con le disposizioni vigenti e motivata in modo logico.

Tralasciando per ora la trattazione dell'elemento soggettivo del reato, che pare il nucleo essenziale della doglianza difensiva, ed affrontando la problematica della rilevanza dei valori-soglia, va ricordato che questa Corte di legittimità ha avuto già in passato modo di affermare, in tema di amianto, che "L'obbligo del datore di lavoro di prevenzione contro gli agenti chimici scatta pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino predeterminati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriori abbattimenti (Cass. IV, 3567/2000, Hariolf).

Si è osservato che nell'attuale contesto legislativo italiano non v'è spazio per una interpretazione del concetto dei valori-limite come soglia a partire dalla quale sorga per i destinatari dei precetti l'obbligo prevenzionale nella sua dimensione soggettiva e oggettiva, giacché ciò comporterebbe inevitabili problemi di legittimità costituzionale, che è implicita e connaturata all'idea stessa del valore-limite una rinuncia a coprire una certa quantità di rischi ed una certa fascia marginale di soggetti, quei soggetti che, per condizioni fisiche costituzionali o patologiche, non rientrano nella media, essendo ipersensibili o ipersuscettibili all'azione di quel determinato agente nocivo, ancorché assorbito in quantità inferiori alle dosi normalmente ritenute innocue.

Pertanto i valori-limite vanno intesi come semplici soglie di allarme, il cui superamento, fermo restando il dovere di attuare sul piano oggettivo le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente realizzabili per eliminare o ridurre al minimo i rischi, in relazione alle conoscenze, acquisite in base al progresso tecnico, comporti l'avvio di un'ulteriore e complementare attività di prevenzione soggettiva, articolata su un complesso e graduale programma di informazioni, controlli e fornitura di mezzi personali di protezione diretto a limitare la durata dell'esposizione degli addetti alle fonti di pericolo.

Questo orientamento è stato avallato in altre pronunce di questa Corte, laddove è stato anche affermato che la mancata individuazione della soglia di esposizione all'amianto (individuazione peraltro oramai impossibile) non era idonea ad infirmare la correttezza del ragionamento del giudice di merito secondo cui un significativo abbattimento dell'esposizione avrebbe comunque agito positivamente sui tempi di latenza o di insorgenza delle malattie mortali (cfr. Cass. 988/03, Macola); nonché laddove è stato affermato che in caso di morti da amianto, il datore di lavoro ne risponde, anche quando pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro (Cass. IV, 5117/08, Biasotti).

Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha evidenziato come dalle dichiarazioni dei consulenti e, soprattutto, dalle deposizioni delle persone che avevano lavorato nello stabilimento di ***, era emerso che, come già ricordato, le modalità di utilizzo dell'amianto erano state massicce e prive dell'adozione di cautele, con la conseguente possibilità di inalazione in tutti gli ambienti di lavoro senza particolari attenzione al rispetto del superamento di soglie limite.

Inoltre, come già detto, sebbene verso la seconda metà degli anni settanta si era fatta largo una maggiore sensibilità in ordine alla problematiche sulla salute dei lavoratori, il processo di ammodernamento fu lento tanto vero che anche negli anni successivi l'amianto era ancora presente in azienda, come accertato nel 1996, in sede di trasferimento di una parte degli impianti alla soc. ACETATI che ebbe a presentare nel 1997 un piano di messa in sicurezza e di rimozione di tutte le coibentazioni contenenti amianto.

Ad avvalorare tali circostanze, lo stesso consulente del P.M. aveva dichiarato che ancora nel 2002 nello stabilimento di Verbania vi era ancora una significativa presenza di amianto.
La coerenza e la non manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, ancorata alle emergenze della istruttoria dibattimentale, la rende, sul punto, insindacabile in questa sede.
In sostanza le condizioni di lavoro nell'azienda sono risultate carenti dal punto di vista dell'adozione delle misure protettive e precauzionali, a fronte di una consapevolezza della pericolosità degli ambienti di lavoro, che un gruppo industriale di primaria importanza quale la M. avrebbe dovuto avere.
Ne consegue che effettivamente si sono maturate le violazioni dell’art. 21 DPR 303\1956 ed art. 2087 c.c., per non avere gli imputati, nelle loro qualità, adottato le cautele atte a prevenire o ridurre il rischio di malattie connesse alla inalazione di fibre di amianto.
Più avanti si discorrerà dell'elemento soggettivo, basti qui accennare che in tema di colpa, la prevedibilità dell'evento (morte per esposizione ad amianto) può riconnettersi anche solo alla possibilità che lo stesso si verifichi, purché tale possibilità riveli in maniera comunque concreta le potenzialità dannose della condotta dell'agente. In tal senso, quando si verte in materia di tutela della vita e della salute dei consociati, il rischio che l'agente deve rappresentarsi può ritenersi concreto anche solo laddove la mancata adozione di cautele preventive possa indurre un dubbio non meramente congetturale sulla possibile produzione di conseguenze dannose (cfr. Cass. IV, 5117/08, Biasotti).

 

19. (segue): l'esistenza delle malattie.

 

L'accusa a carico degli imputati, è relativa a tre decessi per asbestosi ( Co., Me. e Mo.) ed a otto decessi per mesotelioma pleurico ( Ca., M., Ma., M., Mo., Ge., A., e Ca.).
In particolare:
- CA.CE. (deceduto ad Omegna, il 13/7/2001, per mesotelioma maligno epitelioide; dal 27/10/1961 al 31/12/1981, addetto al reparto acetati ed alla torcitura dell'acido acetico; dal 1/1/1982 al 19/5/1983, aiuto capoturno del reparto produzione filo nailon ed al centro ricerche);
- M.G. (deceduto a Verbania, il 13/8/1999 per mesotelioma maligno della pleura; dal 10/7/1961 al dicembre 1969, addetto al reparto filatura; dal dicembre 1969 al marzo 1973, sorvegliante addetto al controllo degli impianti; dal marzo 1973 al 24/5/1983, addetto al reparto filatura);
- Ma.Ca. (deceduto a Verbania, il 9/12/1999, per mesotelioma maligno; dal 1961 al 1974, analista addetto al laboratorio chimico del reparto naylon e, dal 1974 al 1983, quadrista e "pattugliatore" nel reparto recupero acido acetico; dal 1989 al 1998, quadrista e "pattugliatore" nel reparto recuperi acido acetico e produzione anidride acetica);
- M.A. (deceduto a San Bernardino Verbano, il 7/3/2003, per mesotelioma maligno; dal 1960 al 1967, elettricista, dipendente di ditte operanti nello stabilimento di Viale A.; dal 1967 al 1985, manutentore elettricista presso lo stesso stabilimento);
- Mo.Be. (deceduto a Verbania il 20/7/2003, per mesotelioma maligno, con diagnosi del gennaio 2003; dal 1956 al 1983, addetto al cambio filtro - filtro gomma acetica e, dal 1983 al 1989, addetto alla manutenzione dell'impianto acetilazione);
- A.M. (deceduto in Cambiasca il 26/1/2004, per "mesotelioma maligno di tipo epitelioide" (diagnosi del novembre 2001), dall'ottobre 1952 fino al 1965, addetto al laboratorio chimico del reparto nailon; dal 1965 al 1983, addetto al reparto filatura nailon);
- GE.SA. (deceduto a Verbania, il 6/8/2002, per mesotelioma maligno di tipo epiteliale; operaio assunto l'8/10/1945; dal febbraio 1962 fino al 6/5/1978, in forza al reparto filatura; nel 1963, addetto al montaggio ed allo smontaggio pompette, presso il reparto PL/PAMM filatura nailon);
- CA.Ce. (deceduto in Verbania, il 26/12/2003, per mesotelioma pleurico destro di tipo epiteliale, operaio assunto il 21/9/1961 dalla "Società Rhodiatoce s.p.a." addetto al servizio "acetilazione" dello stabilimento di Verbania Pallanza, viale A.);
- ME.GU. (deceduto a Verbania, il 22/3/2002, per asbestosi 1/2, con ispessimenti pleurici ed insufficienza ventilatoria di tipo restrittivo; dal 18/2/1944 al 20/4/1977 operaio calori fugatore, coibentatore di caldaie e tubazioni, addetto alla produzione filato nailon 66 ed acetato di cellulosa);
- CO.GI. (deceduto a Verbania, il 3/7/2001, per asbestosi s 1/1, con ispessimenti pleurici costali bilaterali e bronchite cronica; dal 3/11/1959 al 12/9/1973 operaio calorifugatore coibentatore di caldaie e tubazioni; rapporto di lavoro cessato il 27/1/1980);
- MO.TE. (deceduto ad Angera, presso il presidio ospedaliero “C. Ondoli”, l’11/4/2001, per ispessimenti a calcificazioni bilaterali della pleura da asbestosi; dal 1/11/1944 al 30/11/1979 operaio addetto alla manutenzione delle caldaie).
Fermo restando che la problematica dell'esistenza del nesso causale tra l'esposizione all'amianto e dette malattie sarà oggetto di successivo approfondimento, per ora va ribadito che la loro esistenza è stata accertata dalla corte di merito con certezza (si richiama quanto esposto al punto 3, seconda parte della presente motivazione), e la ricostruzione fattuale Operata dal giudice di secondo grado (con richiamo documentazione medica ed esami RX, accertamenti INAIL : cfr. pg. 25-31), con accurata analisi delle dialettiche osservazioni del Dott. Lo. ed altri sanitari, non può essere qui sindacata, in quanto motivata in modo esaustivo, coerente e non manifestamente illogico.

 

19. I reati omissivi impropri.


Come già detto i delitti contestati agli imputati sono connotati da una condotta eminentemente omissiva. È noto i reati omissivi possono essere suddivisi in due categorie: "propri", in cui il reato si consuma con la mera omissione della condotta dovuta (es. art. 365 c.p.) ed "impropri" nei quali all'omissione consegue un evento di tipo naturalistico. Nei reati omissivi impropri (come quelli di omicidio colposo dei quali ci si occupa) la problematica della causalità è particolarmente complessa perché, è necessario valutare l'efficacia eziologica di un nihil e cioè di una azione non compiuta che, quindi, sul piano fenomenico, nulla avrebbe dovuto poter determinare.

Senonché è lo stesso legislatore ad attribuire efficacia causale alla omissione, attraverso il disposto dell'art. 40 c.p., comma 1, laddove la imputazione oggettiva dell'evento è ricollegata indifferentemente sia all'azione che all'omissione; nonché nel disposto del secondo comma, ove viene codificata una clausola di equivalenza tra azione ed omissione "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo".

È per tale motivo che la causalità omissiva si ritiene abbia natura normativa, e non naturalistica.
Come osservato da autorevole dottrina, i reati omissivi impropri possono avere diversa tipizzazione. In alcuni casi è lo stesso legislatore a prevedere quale sia la condotta omissiva idonea a determinare l'evento (es. art. 437, co. II, c.p.: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro).
In altri casi la norma incriminatrice è "a forma aperta", cioè dopo aver determinato il bene giuridico da tutelare, la condotta aggressiva viene volutamente descritta in maniera indeterminata, in modo tale da proteggere il bene da qualsiasi forma di aggressione, quindi anche da condotte omissive (es. l'art. 575 c.p., ove è punito il "cagionare" la morte). Infine, una terza ipotesi la potremmo definire di estensione della tipicità oggettiva, laddove ad un reato di azione che prevede per la consumazione un evento, in virtù della clausola di equivalenza prevista dal secondo comma dell'art. 40 c.p., si aggiunge una corrispondente ipotesi a condotta omissiva. Per tali casi sorgono seri dubbi di compatibilità costituzionale, in ragione del rischio di violazione del principio di legalità e di tipicità.

È per tale motivo che si ritiene dovere ascrivere alla categoria dei reati omissivi impropri quelli in cui l'omissione causalmente efficiente è esplicitamente indicata nella norma incriminatrice; nonché quelli "a forma aperta" (anche detti "a condotta libera" o "causalmente orientati"), ove si da prevalenza nel fatto tipico alla descrizione della lesione del bene piuttosto che alle modalità di aggressione, con il chiaro intento di proteggere un bene primario da qualsiasi potenziale pericolo.

In tale ultima ipotesi, al fine di garantire il rispetto del principio di legalità, l'attenzione dell'interprete deve essere indirizzata alla individuazione dell'effettiva esistenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento, in modo tale da determinare una sua tipizzazione senza lasciare spazio ad eccessive generalizzazioni con pericolo di smarrimento della tipicità del fatto.
Tirando le somme, la tematica dei reati omissivi impropri impone preliminarmente di individuare tra le varie omissioni, quelle ricollegabili ad obblighi giuridici che impongono di agire con finalità impeditive dell'evento dannoso; in secondo luogo impone di valutare, la concreta efficienza eziologica della omissione.

Quanto alla prima problematica, si richiama quanto già esposto nella parte relativa alla "posizione di garanzia". Necessita ora affrontare la tematica delle modalità di accertamento della effettiva causalità della omissione.

 

 

20. (segue): la causalità omissiva.

Il nesso causale è il legame necessario che deve intercorrere tra la condotta umana e l'evento. In diritto penale si pretende che il reo abbia contribuito materialmente alla verificarsi del risultato dannoso. È quindi criterio di "imputazione oggettiva" del fatto al soggetto, non solo la ascrivibilità a lui della condotta, ma anche che il risultato lesivo sia "opera" dell'agente.
In tale ricerca è compito del giudice penale prendere atto che un evento non può che essere il frutto di una pluralità di condizioni (per la maggior parte naturali) e successivamente valutare se la condotta umana da indagare sia stata una condizione necessaria dell'evento.
A tal fine il giudice è chiamato a svolgere un giudizio "controfattuale" ipotetico e cioè contrario alla realtà come realizzatasi: dovrà valutare se, eliminando la condotta umana posta in essere, l'evento si sarebbe o meno realizzato. Se esso non si sarebbe realizzato, risulta dimostrato che la condotta umana ha avuto efficienza causale nel modificare la realtà e quindi a produrre l'evento.
Poiché il giudizio da svolgere è ipotetico, è necessario per il giudice utilizzare dei criteri scientifici onde valutare la regolarità degli accadimenti a fronte di determinate condotte umane.
Tralasciando in questa sede l'analisi storica della evoluzione di tale tematica e, quindi, i riferimenti alle varie teorie elaborate, si deve ricordare che gli approdi più recenti della dottrina e della giurisprudenza in tema di nesso causale aderiscono alla ed. "teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche", secondo cui un antecedente è condizione necessaria di un evento, se rientra nel novero di quegli antecedenti che, secondo una successione regolare, conforme ad una legge dotata di validità scientifica (c.d. legge generale di copertura) determina il verificarsi di quegli accadimenti. Tale teoria, essendo ancorata a leggi scientifiche generali, consente di individuare i rapporti di successione "regolare" tra azione ed evento, inteso quest'ultimo non come vicenda unica, ma ripetibile ("spiegazione causale generalizzante", finalizzata al rispetto di ineludibili esigenze di garanzia).
Le leggi scientifiche sono : "universali", se spiegano la verificazione dell'evento in termini di certezza senza eccezioni; "statistiche", che spiegano il ricollegarsi di un evento ad una determinata condizione solo in termini di percentualistici.

In proposito va ricordata quella giurisprudenza che, in passato, ha ritenuto che "il rapporto di causalità deve essere accertato avvalendosi di una legge di copertura, scientifica o statistica, che consenta di ritenere che la condotta, con una probabilità vicina alla certezza, sia stata causa di un determinato evento....con coefficienti percentualistici vicino a cento o quasi cento" (cfr. Cass. IV, 14006/2001, Di Cintio).


Tale orientamento rispondeva all'esigenza di dare una spiegazione casuale compatibile con il principio del "oltre ogni ragionevole dubbio".
Ma la impossibilità di disporre di leggi universali e la difficoltà concreta di poter sempre dare risposte probabilistiche con percentuali vicine alla certezza, ha condotto, soprattutto la giurisprudenza, ad elaborare un nuovo criterio di identificazione causale che, senza abbandonare la copertura delle leggi scientifiche, valorizza anche la probabilità logica, distinguendo appunto tra "probabilità statistica" e "probabilità logica": la prima riferita al "tipo" di evento; la seconda riferita al singolo "evento concreto" (c.d. "causalità individuale").

In breve, la probabilità "statistica" indica il grado di frequenza con cui ad un antecedente segue una conseguenza; la probabilità "logica", premessa la presenza di una legge statistica, indica nel caso concreto se con procedimento logico induttivo, sia da escludere la presenza di fattori causali alternativi idonei a produrre l'evento.

Sul punto è illuminante la nota sentenza "Franzese" delle Sezioni Unite di questa Corte, ove è stabilito che "Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (sent. n. 30328/2002, Franzese).

Le Sezioni Unite, in sintesi, emancipano la identificazione del nesso causale dalla ricerca di un sempre più alto coefficiente statistico di probabilità dell'evento, ancorando la ricerca alla presenza della legge statistica ed alla assenza di fattori causali alternativi.

Come già ricordato in altre pronunce di questa Corte (cfr. Cass. IV, 988/03, Macola; Cass. IV, 4675/07, Baratalini), in quest'ottica, secondo la sentenza delle SS.UU. citata, non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo ad 100, cioè alla "certezza", quanto all'efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento.

Le sezioni unite da questa considerazione traggono la conclusione che la "certezza processuale" del nesso causale può derivare anche dall'esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità c.d. frequentista quando corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso concreto di altri fattori interagenti. Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è consentito dedurre automaticamente - e proporzionalmente - dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell'ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità.

È inadeguato, infatti, secondo la citata sentenza l'utilizzo di coefficienti numerici, mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite hanno condiviso quell'orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla c.d. "probabilità logica" che, rispetto alla c.d. "probabilità statistica, consente la verifica aggiuntiva dell'attendibilità dell'impiego della legge statistica al singolo specifico evento. Solo con l'utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull'esistenza del rapporto di causalità in modo simile all'accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 c.p.p., comma 2, al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta dell'imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione necessaria dell'evento, attribuibile per ciò all'agente come fatto proprio.

La causalità omissiva, come già detto, presenta aspetti ancora più problematici, in quanto basata su una ricostruzione ancorata ad ipotesi e non su certezze.
Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio controfattuale ("contro i fatti" : se la condotta omessa fosse stata tenuta, si sarebbe impedito il prodursi dell'evento?) al quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità commissiva è in talune ipotesi (non sempre però: si pensi alla responsabilità medica) verificabile. In caso di omissione, si è detto, il rapporto si instaura tra un'entità reale (l'evento verificatosi) e un'entità immaginata (la condotta omessa) mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.

La giurisprudenza ha precisato che, proprio perché nei reati omissivi si è in presenza di un "nulla", "la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l'evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto" (Cass., sez. IV, 21597/2007, Pecchioli).

In breve, in tali casi il giudice è chiamato a valutare se il comportamento omesso avrebbe o meno impedito il verificarsi dell'evento, ma al contrario della causalità dell'azione, in caso di omissione il ragionamento deve partire da un dato che non esiste nella realtà e cioè ipotizzare come avvenuta la condotta non tenuta, per poi valutare, con giudizio controfattuale, la sua efficacia impeditiva: è per tale motivo che in tema di causalità omissiva si discorre di giudizio doppiamente ipotetico.
Nel prosieguo verrà valutata l'attendibilità o meno del ragionamento ricostruttivo della causalità, svolto dal giudice di merito, relativamente ai decessi per asbestosi e per mesotelioma pleurico.

 

 

21. I decessi per asbestosi.

II lavoratori deceduti per asbestosi e per i cui omicidi colposi si procede, sono ME., CO. e MO..
In primo grado per tale imputazione sono stati condannati gli imputati M. (per gli omicidi Me. e Co.) e Q. (per l'omicidio Co.).
La Corte di Appello, nel confermare tali condanne, su appello del P.M., ha ulteriormente pronunciato le condanne di C., D.M., V.M., B., Q., PO. per la morte dell'operaio Me.; di C., D.M., G., PI., V.M., B., V., PO. per la morte dell'operaio Co. (il Va. è stato assolto per tale omicidio, in quanto è stata confermata la sentenza di primo grado, cfr. pg. 48 sent. appello); C., D.M., G., M., PI., V.M., B., V., Q., PO. per la morte dell'operaio Mo. (il Va. è stato assolto per tale omicidio, in quanto è stata confermata la sentenza di primo grado, cfr. pg. 48 sent. appello).
La sentenza di appello ha riconosciuto la sussistenza sia del nesso causale tra le condotte omissive degli imputati e gli eventi, che dell'elemento soggettivo della colpa. Va premesso che l'asbestosi è una malattia respiratoria cronica legata alle proprietà delle fibre di asbesto di provocare una cicatrizzazione (fibrosi) del tessuto polmonare; ne conseguono irrigidimento e perdita della capacità funzionale. Le fibre penetrano con l'aria attraverso la bocca ed il naso, procedendo poi lungo la faringe, la trachea e i bronchi fino ad arrivare agli alveoli polmonari. Poiché una parte dell'asbesto che viene respirato non riesce ad essere espulsa e resta negli alveoli, provoca l'instaurarsi di lesioni cicatriziali e quindi di una vera e propria asbestosi.
Hanno ritenuto sia il giudice di primo grado (in relazione alle condanne irrogate), sia la Corte di Appello, che le modalità di utilizzo dell'amianto nello stabilimento di Verbania, senza le idonee cautele (si richiama quanto sopra esposto), hanno determinato l'insorgenza e l'aggravamento della malattia, tanto da ricondurre la responsabilità per i decessi ai predetti imputati, in ragione del fatto che costoro, titolari di una posizione di garanzia, non avevano posto in essere o stimolato l'adozione delle misure idonee ad evitare la diffusione delle fibre di asbesto nello stabilimento.

 

 

22. (segue): nesso causale nell'asbestosi.

I giudici di merito, richiamando gli argomenti esposti dai consulenti e dai periti, hanno evidenziato come la letteratura scientifica sia oramai consolidata nel ritenere che l'asbestosi sia innescata dalla inspirazione delle fibre di amianto e che ogni ulteriore inalazione è idonea ad aggravare la patologia. Si tratta, pertanto, di una malattia "firmata" dall'amianto e determinata da condotte omissive che non riducono la diffusione delle polveri e delle fibre nell'ambiente di lavoro.
I giudici di merito, nel comparare tale patologia con il mesotelioma pleurico (di cui si discorrerà in prosieguo), hanno evidenziato che l'asbestosi è una malattia "dose-correlata", nel senso che il suo sviluppo e la sua gravità aumentano in relazione alla durata di esposizione alla inalazione delle fibre.

In sostanza la quantità di asbesto che viene inalata nei polmoni e la sua pericolosità sono legati alla durata dell'esposizione : è per tale motivo che l'asbestosi è ritenuta una malattia in cui esiste una stretta correlazione fra "dose" di asbesto inalata e "risposta" dell'organismo.

Ne consegue che correttamente la Corte di merito ha ritenuto che le condotte omissive degli imputati, che nel tempo si sono succeduti nella posizione di garanzia e che poco o nulla hanno fatto per ridurre in modo sensibile la esposizione dei lavoratori all'amianto nei locali aziendali, hanno avuto tutte un'efficacia causale in relazione agli eventi verificatisi, in quanto hanno determinato l'insorgenza della malattia o in ogni caso il suo aggravarsi, con un'accelerazione dei tempi di latenza della patologia.
Invero, in base ai principi sopra richiamanti, la dipendenza degli eventi mortali per cui si procede dall'esposizione all'amianto, non può essere dubbia in quanto l'asbestosi è malattia che si contrae con l'esposizione a detta sostanza e, nel caso di specie, non esistono serie ipotesi alternative di contrazione della malattia e di produzione dell'evento (cfr. per un caso analogo, Cass. 3567/2000, Hariolf).
Per cui, come già affermato da questa Corte di legittimità in precedenti sentenze, la responsabilità per gli eventi legati all'inalazione delle polveri di amianto, pur in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della patologia, va attribuita causalmente alla condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale, anche se per una parte soltanto del periodo di tempo di esposizione delle persone offese, in quanto tale condotta ha ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente (cfr. Cass. IV, 988/02, Macola; Cass. IV, 5117/08, Biasotti; Cass. IV, 41782/09).

 

 

23. (segue): l'elemento soggettivo della colpa.

 


I difensori degli imputati hanno sostenuto, sotto vari profili, l'assenza dell'elemento soggettivo dei delitti contestati.

In primo luogo non sarebbe stata individuata la regola cautelare violata e ciò ancor prima di effettuare la valutazione di prevedibilità ed evitabilità dell'evento. Tale regola non poteva essere l’art. 21 del DPR 303 del 1956, in quanto tale disposizione, che impone la datore di lavoro di limitare lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell'ambiente di lavoro, era destinata ad inibire la diffusione di polveri fisicamente avvertibili ed oggettivamente moleste, non poteva quindi costituire regola cautelare per eventi addirittura non conosciuti al momento dell'emanazione della norma.

In ordine alla prevedibilità dell'evento, l'impugnata sentenza mancava del rigoroso accertamento dell'effettiva disponibilità, all'epoca dei fatti, di conoscenze scientifiche circa la pericolosità insita nell'utilizzo dell'amianto, per cui la corte di merito aveva attribuito la responsabilità per colpa riconoscendola con una valutazione effettuata ex post, disponendo, in epoca successiva alla condotta, di nuove conoscenze scientifiche sulla pericolosità dell'amianto.

Infine, quanto alla evitabilità dell'evento, la Corte di merito, per dimostrare che una condotta alternativa lecita, idonea ad evitare gli eventi, era possibile, si era appellata all'art. 2087 c.c., norma considerata di "chiusura" del sistema antinfortunistico, senza però procedere all'accertamento in concreto delle conoscenze scientifiche all'epoca dei fatti contestati : in breve, se l'evento non è prevedibile, non era neanche evitabile.


I rilievi formulati sono infondati e sul punto va richiamata la nutrita giurisprudenza di questa Corte di legittimità (cfr. ex plurimis, Cass. IV, 4674/07, Bartalini; Cass. IV, 988/03, Macola; Cass. IV, 21513/09, Stocchi; Cass. IV, 16761/10, Catalano).

L'art. 43 c.p., stabilisce che "il delitto è colposo o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline". Sono pertanto elementi caratterizzanti della colpa la mancanza di volontà dell'evento e l'inosservanza di regole cautelari.

Nel tempo si sono prospettate in tema di colpa due orientamenti dottrinari : uno soggettivo, l'altro oggettivo.

Le teorie soggettive, colgono la sola dimensione psicologica della colpa; alcuni indirizzi interpretativi la intendono come volontà negativa, incosciente, difettosa, imperfetta; altri identificano la colpa in un vizio intellettivo; altre impostazioni, infine, ritengono che la colpa presupporrebbe un errore, cioè si avrebbe imputazione colposa quando il soggetto è indotto a commettere il reato sulla base di una falsa rappresentazione.
Tali impostazioni sono oramai superate; la prima perché pecca di manifesta artificiosità; la seconda perché trascura la possibilità che vi sia colpa anche quando c'è previsione; la terza perché realizza un'inversione dogmatica dei termini del problema: ed infatti, è la colpa il fondamento della rilevanza dell'errore e non l'errore il fondamento della sussistenza della colpa.

Nell'ambito delle teorie oggettive, occorre distinguere quelle che identificano la colpa nella violazione di un dovere di attenzione e quelle che fanno leva solo sull'inosservanza delle regole cautelari di condotta.

Entrambe le tesi non sono esaustive perché colgono la esclusiva essenza normativa della colpa e non anche la sua dimensione soggettiva. Ed infatti, sia l'inosservanza del dovere di attenzione, sia della regola cautelare, danno luogo all'imputazione colposa, ma solo nei casi in cui l'osservanza era esigibile dall'autore.

Oggi può dirsi prevalente la teoria che potremmo definire "mista" e che coglie una duplice dimensione della colpa: oggettiva, per la necessità che vi sia l'inosservanza di regole cautelari di condotta; soggettiva, necessitando la valutazione della prevedibilità ed evitabilità dell'evento.
La natura prevalentemente normativa della colpa presuppone, come detto, la violazione di regole cautelari. Esse possono essere espressamente codificate, dando vita in tal caso alla c.d. colpa specifica; ovvero possono essere il frutto di sedimentate esperienze di vita sociale e la cui violazione (per negligenza, imperizia ed imprudenza) darà luogo alla c.d. colpa generica.
Poiché le regole cautelari hanno la finalità di prevenire pericoli di lesione di beni giuridici, può farsi una ulteriore distinzione: se hanno carattere assolutamente impeditivo, sono definite "proprie"; se la loro finalità è quella di diminuire la probabilità di eventi dannosi, sono definite "improprie". In materia di prevenzione di malattie professionali, le regole cautelari sono eminentemente improprie.

Nel caso che ci occupa, la sentenza impugnata indica come principale regola cautelare violata, l’art. 21 del DPR 303\1956, che nel primo comma, dispone che "Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare ì provvedimenti atti ad impedirne o a ridurle, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro".
Secondo la difesa tale disposizione non costituisce una norma cautelare mirante a prevenire malattie, ma solo l'inalazione di polveri moleste e fastidiose.
Tale riduttiva interpretazione non è condivisibile, in ragione di argomenti sistematici. Invero la norma in questione è calata in un D.P.R. che ha lo scopo di garantire l'igiene del luogo di lavoro, non per mere finalità estetiche o di conforto, ma per garantire la salute dei lavoratori.
Di ciò vi è riscontro nell'art. 4 del Decreto, laddove in via generale sono previsti gli obblighi dei datori di lavoro ed in particolare di attuare le misure di igiene; di rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti; nonché di fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione.
Tali obblighi sono evidentemente correlati a concreti pericoli per la salute, che le regole cautelari contenute nella normativa, mirano a prevenire.

Un ulteriore riscontro è contenuto nell'art. 33, del medesimo D.P.R. laddove sono previste periodiche visite mediche per i lavoratori, evidentemente finalizzate a scongiurare rischi alla salute e non meri fastidi.

Nel capo di imputazione, sono inoltre enumerate altre violazioni di regole cautelari, riscontrate sussistenti dalla corte di merito, relative alle modalità di utilizzo dell'amianto senza cautele ed inoltre la negligenza, imprudenza ed imperizia per la violazione dell'art. 2087 c.c., il quale prevede che "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Sul punto va osservato che per valutare se l'agente, in caso di colpa generica, abbia rispettato le regole della diligenza, prudenza e perizia, è necessario stabilire il livello di diligenza che da lui era esigibile.

In tal caso si deve fare riferimento al concetto di "agente modello" (homo ejusdem professionis et condicionis), sul presupposto che se un soggetto intraprende una attività, soprattutto se pericolosa, ha il dovere di informarsi dei rischi ed ha l'obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza pericoli.
Non esiste un unico tipo di "agente modello", ma esso va rapportato alle singole attività da svolgere.
Sul punto la Corte di appello ha con coerente motivazione evidenziato che un gruppo industriale di primaria importanza come quello che gestiva lo stabilimento di Verbania (e pertanto i suoi vertici dirigenziali), non poteva non essere a conoscenza della pericolosità dell'utilizzo dell'amianto e delle regole cautelari necessarie per garantire il suo uso con minimi rischi ed in ogni caso aveva il dovere di informarsi circa le più evolute metodologie di lavoro compatibili con la tutela della salute di lavoratori.
Come detto, la oggettiva violazione della regola cautelare da sola non basta ad integrare la colpa penalmente rilevante, essendo necessaria la prevedibilità dell'evento che fornisce una connotazione soggettiva e non solo normativa a tale elemento costitutivo del reato.
Perché versi in colpa è necessario quindi che l'agente non solo violi una norma cautelare, ma che possa prevedere (con valutazione effettuate ex ante) che detta violazione possa provocare un determinato evento.
Il problema che si pone è stabilire quale sia il parametro a cui rifarsi per valutare la prevedibilità.

Anche in tal caso il punto di riferimento è la figura dell'agente modello, ribadendo però che questi non è l'uomo medio, ma la pretesa della sua diligenza deve essere rapportata al tipo di attività da svolgere ed all'onere, come nel caso che ci occupa, di informarsi sulle più recenti acquisizioni scientifiche.
Su tale punto i difensori degli imputati hanno evidenziato che all'epoca della commissione dei fatti (per la maggior parte degli imputati, gli anni '70), non era prevedibile che l'inalazione di fibre di amianto potesse esporre al rischio morte (soprattutto per mesotelioma pleurico, ma l'argomento è stato utilizzato anche con riferimento all'asbestosi).

Anche su tale punto le argomentazioni svolte dalla Corte di merito sono condivisibili.

Invero la giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità ha statuito che ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a provocare danni, ma non necessita che l'agente si prefiguri lo specifico evento concretamente poi verificatosi (Cass. IV, 5919/1991, Rezza; Cass. IV, 5037/2000, Camposano; Cass. IV, 4675/07 Bartalini; Cass. IV, 21513/09, Stocchi).

Pertanto, correttamente è stata ritenuta in capo agli imputati la prevedibilità degli eventi mortali, perché a tal fine non è necessario che l'agente si sia rappresentato o fosse in grado di rappresentarsi tutte le conseguenze della sua condotta, posta in essere in violazione delle regole cautelari, ma è sufficiente che egli fosse in grado di rappresentarsi la potenzialità lesiva e quindi di rappresentarsi una serie indistinta di danni.

Tale prevedibilità poteva essere richiesta agli imputati, tenuto conto, lo si ribadisce, dell'importanza del gruppo industriale di appartenenza, che li onerava di obblighi di informazione particolarmente avanzati, in relazione a rischi già conosciuti, tenuto conto della nutrita normativa, anche previdenziale, già vigente all'epoca dei fatti in tema di amianto ed asbestosi (cfr. R.D. 1720\1936; D.P.R. n. 648\1956; D.P.R. 1124\1965).

Né è di ostacolo alla riconoscibilità della prevedibilità degli eventi, il richiamo all'assenza di leggi scientifiche di copertura che garantirebbero la certezza del verificarsi dell'evento.
In primo luogo perché il ragionamento probatorio sul nesso di causalità (svolto ex post), che impone una valutazione di alta probabilità statistica e logica, non può essere utilizzato per accertare la presenza della colpa, essendo in tal caso sufficiente la probabilità o anche la possibilità (seria) del verificarsi dell'evento (cfr. Cass. IV, 4675/07, Bartalini; Cass. IV, 40785/08, Cananeo; Cass. IV, 29232/07, Calabrese).


In secondo luogo, come già osservato, nel caso di specie, per i decessi per asbestosi è stata riconosciuta la sussistenza di leggi scientifiche di copertura idonee a spigare la valenza causale delle condotte degli imputati.

Va ricordato, inoltre, che le regole cautelari violate, finalizzate a ridurre al minimo possibile al diffusione delle polveri di amianto negli ambienti di lavoro, miravano proprio ad evitare il rischio di patologie polmonari, pertanto il decesso di lavoratori per asbestosi ha determinato la "concretizzazione" del rischio che le disposizioni cautelari neglette miravano a prevenire.

Circa i rapporti tra "prevedibilità" dell'evento e la "realizzazione del rischio", va osservato che quest'ultimo si pone sul versante oggettivo della colpevolezza, mentre la prevedibilità dell'evento dannoso si pone più specificamente sul versante soggettivo. Inoltre, mentre la "prevedibilità" dell'evento dannoso va accertata con criteri "ex ante" e va valutata dal punto di vista dell'agente (non di quello che ha concretamente agito, ma dell'agente modello), per verificare se era prevedibile che la sua condotta avrebbe potuto provocare quell'evento; il criterio della "concretizzazione" del rischio, invece, è frutto di una valutazione "ex post" che consente di avere conferma, o meno, che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse tra quelli che la regola cautelare mirava a prevenire, tenendo conto che esistono regole cautelari per così dire "aperte" (come l'art. 21 cit.), nelle quali la regola è dettata sul presupposto che esistano o possano esistere conseguenze dannose non ancora conosciute, ed altre c.d. "rigide", che prendono in considerazione solo uno specifico e determinato evento (Cass. 4675/07, Bartalini).

Nel caso di specie, come evidenziato, tali valutazioni sono state correttamente svolte dalla Corte di merito, che ha riconosciuto nella condotta colposa degli imputati, sia la prevedibilità dell'evento che la concretizzazione del rischio.

Infine va osservato che, perché si configuri la colpa, non è sufficiente che l'agente abbia violato la regola cautelare e che tale violazione abbia provocato l'evento, essendo necessario, inoltre, individuare la "condotta alternativa lecita" (o, meglio, "diligente") che, se posta in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell'evento: ne consegue che l'evento non deve solo essere "prevedibile", ma anche "prevenibile".

Anche sul punto va richiamata la nutrita giurisprudenza di questa Corte la quale ha statuito che "in tema di reati colposi, la causalità si configura non solo quando il comportamento diligente imposto dalla norma a contenuto cautelare violata avrebbe certamente evitato l'evento antigiuridico che la stessa norma mirava a prevenire, ma anche quando una condotta appropriata avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare il danno" (Cass. IV, 19512/08, Aiana; ed inoltre, Cass. IV, 16761/10, Catalano).
Come già esposto nella richiamata giurisprudenza (Cass. 19512/08), l'art. 43 c.p., reca una formula ricca di significato: il delitto è colposo quando l'evento non è voluto e "si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia...".

Viene così chiaramente in luce il profilo causale della colpa, l'accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire la concretizzazione del rischio.

L'individuazione di tale nesso consente di sfuggire al pericolo di una connessione meramente oggettiva tra regola violata ed evento.

Ma il profilo causale della colpa si mostra anche da un altro punto di vista che attiene più immediatamente al momento del rimprovero personale. Affermare, come afferma l'art. 43 c.p., che per aversi colpa l'evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole implica che l'indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il c.d. "comportamento alternativo lecito") non avrebbe comunque evitato l'evento.

Non sarebbe razionale pretendere, fondando poi su di esso un giudizio di rimproverabilità, un comportamento che sarebbe comunque inidoneo ad evitare il risultato antigiuridico. Tale assunto rende evidente la forte connessione esistente in molti casi tra le problematiche sulla colpa e quelle sull'imputazione causale; ma la causalità di cui qui si parla è appunto quella della colpa.

Essa si configura non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata aveva apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno. Su tale assunto la riflessione giuridica è sostanzialmente concorde, dovendosi registrare solo differenti sfumature in ordine al livello di probabilità richiesto per ritenere l'evitabilità dell'evento.

In ogni caso, non si dubita che sarebbe irrazionale rinunziare a muovere l'addebito colposo nel caso in cui l'agente abbia omesso di tenere una condotta osservante delle prescritte cautele che, sebbene non certamente risolutiva, avrebbe comunque significativamente diminuito il rischio di verificazione dell'evento o avrebbe avuto significative, non trascurabili probabilità di salvare il bene protetto.

Nel caso di specie, come osservato con coerente ragionamento dal giudice di merito, il rispetto delle regole cautelari avrebbe ridotto notevolmente la possibilità del concretizzarsi del rischio, tenuto conto che le lavorazioni con impiego di amianto sono state svolte senza cautele a volte elementari (bagnare le polveri, evitare di intervenire durante lo svolgimento dell'ordinaria produzione; prevedere efficienti impianti di aspirazione; rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici di esposizione; ecc.), così determinando la diffusione negli ambienti di lavoro delle fibre di asbesto, il loro deposito in detti ambienti e la possibilità di inalazione anche per i lavoratori non addetti alle operazioni di manutenzione. Ne consegue che il rispetto delle cautele avrebbe certamente ridotto al minimo il rischio del verificarsi degli eventi.

Tirando le file del discorso fin qui fatto in tema di decessi per asbestosi, richiamando quanto esposto, si deve concludere che la sentenza impugnata non manifesta alcun vizio di violazione di legge o difetto di motivazione.

La Corte di merito, ha ricostruito le modalità con cui veniva utilizzato l'amianto nello stabilimento M. di Verbania all'epoca dei fatti; ha riscontrato come tali modalità fossero in violazione di esplicite norme cautelari dettate in materia o imposte dall'esperienza e finalizzate ad evitare la dispersione delle polveri negli ambienti di lavoro o per ridurla al minimo possibile; ha evidenziato come ciò sia stato causa degli eventi mortali; ha ricordato che gli imputati, per le loro specifiche cariche, avevano una posizione di garanzia che imponeva di attivarsi per impedire gli eventi; che il loro comportamento era stato invece omissivo; che la condotta omissiva tenuta era stata connotata da colpa, in quanto erano state violate norme cautelari finalizzate a prevenire eventi prevedibili ed evitabili attraverso il rispetto delle regole; valutando infine che gli eventi verificatisi erano proprio quelli che la corretta condotta, rispettosa delle regole cautelari, avrebbe evitato.

Sulla base di tali coerenti e logiche valutazioni, riscontrata la sussistenza sia dell'elemento oggettivo che soggettivo dei reati, è stata pronunciata la condanna degli imputati (e confermate quelle già irrogate in primo grado). Vanno pertanto rigettati i ricorsi degli imputati in relazione ai decessi per asbestosi.

 

 

24. (segue): altre statuizioni.


I difensori degli imputati hanno censurato la sentenza anche sotto altri profili.

a) La violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p..
In proposito va ricordato che "l'attenuante di cui all'art. 114 c.p., può essere concessa nei delitti colposi solo nel caso di cooperazione colposa ex art. 113 c.p., e non anche nella fattispecie del tutto diversa del concorso causale di condotte colpose...." (Cass. IV, 11908/91, Scavella; conf. Cass. IV, 4881/88, Cenedese). Nel caso di specie, non essendo contestata la cooperazione colposa, la doglianza è infondata.

b) La violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 61 n. 6 c.p. per l'avvenuta riparazione del danno.
Va premesso che effettivamente nel dicembre 2005 i congiunti degli operai deceduti costituiti parte civile, hanno revocato la costituzione, dichiarando di accettare l'offerta risarcitoria. Va però osservato che la riparazione del danno si è verificata dopo l'inizio del giudizio di primo grado, oltre il termine previsto dalla norma invocata ("prima del giudizio").
Ne consegue che anche tale doglianza è infondata.

c) il difetto di motivazione in relazione al diniego della prevalenza delle attenuanti generiche (che avrebbe determinato peraltro la prescrizione dei reati) e della quantificazione della pena.
Anche tali censure sono infondate. Il diniego della prevalenza delle attenuanti generiche è stato coerentemente giustificato dalla Corte di merito in relazione alla gravità delle condotte omissive poste in essere e la pluralità dei decessi determinati. Quanto alla commisurazione della pena, il giudice di merito ha esplicitato di essere partito per tutti da una pena base di mesi otto di reclusione, per poi modulare la pena in relazione al numero degli eventi lesivi provocati e della durata della posizione di garanzia. Tale giustificazione non palesa alcuna violazione di legge, né pecca di logicità.

Va in proposito ricordato che la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell'ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell'art. 133 c.p.. Anzi, non è neppure necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta, come nel caso di specie, contenuta in una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale (cfr. ex plurimis Cass. IV, 20 settembre 2004, Nuciforo, RV 230278).

 

 

25. (segue): le statuizioni civili.

Già si è trattato dell'argomento ampiamente con riferimento alla legitimatio ad causam.
La condanna degli imputati, in relazione agli operai deceduti per asbestosi, comporta la conferma delle statuizioni civili risarcitone, anche nei confronti del responsabile civile.
Invero le parti civili costituite, da tempo operative anche in tema di sicurezza, hanno visto la loro credibilità vulnerata dalla gravità e reiterazione delle violazioni in tema di igiene del luogo di lavoro e dai collegati eventi letali (cfr. Cass. IV, 22558/2010). Tale danno, eminentemente di natura non patrimoniale, è stato liquidato dal giudice di appello in via equitativa tenendo conto di tutti i decessi.
Pertanto, la definitiva determinazione dell'entità del risarcimento deve essere rimessa nuovamente al giudice di merito, in ragione dell'annullamento della sentenza relativamente ai decessi per mesotelioma pleurico di cui segue la trattazione.

 

26. I decessi per mesotelioma pleurico e l'evoluzione della malattia.

Il lavoratori deceduti per mesotelioma pleurico e per i cui omicidi colposi si procede, sono:
- CA., M., Ma., M.A., Mo., A. (per cui si procede nei confronti di tutti gli imputati);
- GE. (per cui si procede a carico di C., D. M., G., V.M., M., B., V., Q. e Po.);
- CA. (per cui si procede a carico di B., D., M., P., Pe.; per tale decesso il Va. è stato assolto in primo grado ed in appello la sentenza è stata confermata rilevando che non era stato imputato per tale delitto [pg. 48 sent.]; per il Q., come già sopra detto, la sentenza di condanna in appello deve essere annullata per mancato esercizio dell'azione penale).

La sentenza di appello ha riconosciuto la sussistenza sia del nesso causale tra le condotte omissive degli imputati condannati e gli eventi, che dell'elemento soggettivo della colpa.

Ciò premesso, va ricordato che la pleura è una membrana sierosa che riveste il polmone e la superficie in tema della parete toracica, facilitandone il reciproco scorrimento. Il mesotelioma pleurico è la neoplasia pleurica più frequente ed è correlato all'esposizione ad asbesto.

Circa le modalità di evoluzione della malattia, nella comunità scientifica si confrontano prevalentemente due opinioni.

La prima fa leva sulla legge scientifica nota come "modello multistadio della cancerogenesi", secondo cui la formazione del cancro è un'evoluzione a più stadi, la cui progressione è favorita dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno: con la conseguenza che l'aumento della dose di amianto inalata, è in grado di accorciare la latenza della malattia e di aggravare gli effetti della stessa. Pertanto, secondo la teoria multistadio, il tumore polmonare rappresenta una patologia "dose-correlata", ossia il cui sviluppo, in termini di rapidità e gravità, è condizionato dalla quantità di fattore cancerogeno inalato. Ciò consente di ritenere che, a prescindere dal momento esatto in cui la patologia è insorta, tutte le esposizioni successive e tutte le dosi aggiuntive devono essere considerate concause poiché abbreviano la latenza e dunque anticipano l'insorgenza della malattia o l'aggravano.

La teoria del mesotelioma pleurico come patologia dose-correlata è stata riconosciuta dalla Corte di Appello di Torino ed ha consentito la condanna degli imputati indipendentemente dal momento di assunzione della posizione di garanzia e dalla durata della loro carica (purché fosse operativa durante il periodo di esposizione all'amianto dei lavoratori deceduti), ciò sull'assunto che la loro condotta omissiva ha ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente.

Peraltro, alcune sentenze di questa corte di legittimità hanno in passato dato atto della completezza e logicità argomentativa delle sentenze di merito che avevano accolto la teoria di patologia "dose- correlata" del mesotelioma pleurico (cfr. Cass. IV, 988/03, Macola; Cass. IV, 7630/05, Marchiorello; Cass. IV, 22165/08, Mascarin; Cass. IV, 5117/08, Biasotti).
Secondo altra teoria della evoluzione della malattia, sostenuta dai difensori degli imputati, non vi sarebbe alcun riscontro scientifico della valenza della teoria della "dose-risposta", che costituisce una mera ipotesi priva di effettivi riscontri. La stessa formula di "Boffetta" ha valenza in relazione a studi di natura epidemiologica sulla popolazione, ma non consente alcuna verifica in relazione alla ricerca della causalità dei singoli decessi. Pertanto allo stato delle conoscenze della scienza non sarebbe possibile risolvere il quesito della rilevanza causale delle dosi successive, assunte cioè dopo l'innesco del tumore (successive alla c.d. "dose killer" ), anzi attendibili studi, escludono tale rilevanza.

Ne hanno concluso i difensori che il vizio su tale punto della sentenza impugnata è stato quello di non prendere atto della lacuna conoscitiva della scienza in tema di genesi e sviluppo del mesotelioma, traendone le doverose conseguenze in tema di accertamento del nesso causale, nel rispetto del principio che una condanna può essere pronunciata solo "al di là di ogni ragionevole dubbio", come peraltro espresso in alcune sentenze della corte di legittimità (è stata citata a titolo esemplificativo, Cass. IV, 5716/02, Covili).

 

 

27. (segue) la ricerca della legge scientifica di copertura.


Come precedentemente ampiamente esposto, in tema di reato colposo omissivo improprio, la prova del nesso di causalità tra la condotta e l'evento deve fondarsi oltre che sulla presenza di una legge scientifica, anche sul criterio della probabilità logica.
Il che vuoi dire che pur in assenza di un coefficiente statistico prossimo alla certezza, facendo appello al ragionamento inferenziale in tema di prova indiziaria di cui all'art. 192, co. II, c.p.p., oltre che alla regola generale in tema di valutazione della prova, il legame causale potrà essere accertato con riferimento a criteri di elevato grado di credibilità razionale e previa esclusione dell'efficienza causale di meccanismi eziologici alternativi.
In sostanza, in presenza di conoscenze scientifiche induttive generalizzanti che consentono di affermare la frequenza dell'evento in presenza di determinate condizioni, solo in modo percentualmente probabilistico, il ragionamento causale potrà essere sorretto da argomenti logici (probabilità logica), valutando l'assenza di operatività di fattori causali alternativi.
Si può desumere da ciò che, sebbene la legge scientifica di copertura non sia l'unica spiegazione della causalità, la sua presenza deve però sempre essere riscontrata, in quanto la spiegazione causale generalizzante è strumento per addivenire all'accertamento della verità oltre ogni ragionevole dubbio.
In non pochi casi la legge scientifica trova fondamento in un vero e proprio "sapere scientifico" che, come osservato da autorevole dottrina, è uno strumento al servizio del giudice e veicolato nel processo attraverso l'opera dei periti e dei consulenti. Sul punto è bene essere chiari : a) non è il giudice ad elaborare la legge scientifica, essa deve essere allegata ed asseverata dalle parti; sarà compito del giudice, con la razionalità della sua motivazione, valutarne la attendibilità; b) la norma penale, per la sua applicazione, non fa "rinvio" al sapere scientifico, in quanto esso è utilizzato solo a fini probatori.
Non di rado accade che teorie scientifiche di spiegazione causale siano antagoniste tra di loro, sicché il giudice come mero utilizzatore del sapere scientifico potrebbe trovarsi di fronte ad un vicolo cieco.

Ebbene, partendo dal presupposto che in ambito scientifico ben difficilmente c'è unitarietà di vedute e che non è consentito al giudice defilarsi con un "non liquet", è suo compito dare conto, con la motivazione, della legge scientifica che ritiene più convincente ed idonea o meno a spiegare l'efficacia causale di una determinata condotta, tenendo conto sempre di tre parametri di valutazione: il ragionamento epistemologico deve essere ancorato ad una preventiva dialettica tra le varie opinioni; il giudice non crea la legge, ma la rileva; il riconoscimento del legame causale deve essere affermato al di là di ogni ragionevole dubbio.

Infine, come osservato dalla dottrina, va precisato che la questione della attendibilità delle generalizzazioni scientifiche e del metodo della loro applicazione attiene alla sfera del fatto. Ne consegue che il giudizio della Cassazione non riguarda l'affidabilità della legge scientifica, ma la razionalità, la logicità dell'itinerario compiuto dal giudice di merito nell'apprezzare la validità del sapere scientifico e nell'utilizzarlo nell'inferenza fattuale.

Fatte questa premesse, deve affermarsi che la Corte di merito, in relazione al riconoscimento del nesso causale tra le condotte omissive degli imputati ed i decessi per mesotelioma pleurico, non ha fornito un'adeguata motivazione in relazione all'accertamento del legame causale.
Infatti la sentenza impugnata solo apparentemente motiva sulla sussistenza della legge scientifica di copertura, in quanto, dopo avere delineato i due orientamenti teorici prevalenti, della "dose risposta" (meglio conosciuta come "teoria multistadio della cancerogenesi") e quello contrapposto della irrilevanza causale delle dosi successiva a quella "killer", dichiara di aderire al primo orientamento, senza però indicare dialetticamente le argomentazioni dei consulenti che sostengono detta tesi e le argomentazioni di quelli che la contrastano e le ragioni dell'opzione causale.

In sostanza il giudice di merito, più che utilizzare la legge scientifica, se ne è fatto artefice.

Nelle pagine della motivazione che si occupano dell'argomento (pg. 31 - 37), sono citati gli aspetti teorici del problema e richiamate le argomentazioni delle parti, ma non vengono citate le opinioni dei consulenti e dei periti ascoltati in dibattimento, né sono riportati brani delle loro relazioni o del loro esame onde fare una valutazione dialettica e comparativa delle rispettive argomentazioni. Pertanto, l'opzione della Corte di appello finisce per essere apodittica e svincolata quindi da riferimenti specifici alle opinioni di coloro che, nel processo, hanno veicolato il sapere scientifico.

Ne consegue che la sentenza deve essere annullata relativamente alla condanna degli imputati per i decessi da mesotelioma pleurico, con rinvio alla Corte di appello di Torino, che dovrà, sul punto, procedere alla rivalutazione del materiale probatorio, adeguando la motivazione in modo da evitare di incorrere nuovamente nel vizio rilevato, rispettando il seguente principio di diritto, enunciato ai sensi dell'art. 173, co. 2°, disp. att. c.p.p.:

"Nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al "sapere scientifico", la funzione strumentale e probatoria di quest'ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità, ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti. Una opzione ricostruttiva fondata sulla mera opinione del giudice attribuirebbe a questi, in modo inaccettabile, la funzione di elaborazione della legge scientifica e non, invece, come consentito, della sola utilizzazione".

Provvederà, inoltre la Corte di merito, secondo l'esito del nuovo giudizio, alla eventuale nuova determinazione della complessiva pena e dell'entità del risarcimento in favore delle costituite parti civili, rimettendole anche la liquidazione delle spese tra le parti.

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Q.B. limitatamente al decesso di Ca.Ce. per mancato esercizio dell'azione penale e dispone la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verbania per quanto di competenza.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di B.A., C.L., D.M.G., D.S., G.A., M.G., P.L., Pe.A., Pi.Gi., Po.Gi., Q.B., V.M.M., V.C. e Va.Lu. limitatamente ai decessi di Ca.Ce., M.G., Ma.Ca., M.A., Mo.Be., A.M., Ca.Ce. E Ge.Sa. loro rispettivamente ascritti, e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino cui rimette anche la definitiva disciplina del risarcimento e delle spese tra le parti.

 


Rigetta nel resto i ricorsi.
Roma, 10 giugno 2010
Depositato in Cancelleria 4 novembre 2010