Cassazione Penale, Sez. 4, 27 dicembre 2010, n. 45359 - Responsabilità di un datore di lavoro e del RSPP


 

 

Responsabilità di un datore di lavoro e del responsabile del servizio di prevenzione e prevenzione nonchè responsabile tecnico del programma di produzione della società I., per infortunio ad un lavoratore dipendente. Quest'ultimo, mentre eseguiva il proprio turno dell'attività di produzione di laterizi all'interno dello stabilimento, nella qualità di addetto ad uno dei macchinari facenti parte dell'impianto produttivo, in particolare la "taglierina multipla", nel compiere un intervento mirato a togliere del materiale sito all'interno della taglierina, senza disattivare preventivamente l'alimentazione automatica della macchina, ma introducendo dalla parte anteriore del macchinario, priva di griglia di protezione, la parte destra del torace ed il braccio dello stesso lato, rimaneva incastrato con la testa tra la barra orizzontale di sollevamento del piano castelletto portafilo e la barra orizzontale fissa posta in alto del telaio della taglierina, così riportando gravi lesioni che ne cagionavano il decesso.

 

La responsabilità degli imputati si fonda essenzialmente sulla inosservanza del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, artt. 68, 389, per avere omesso di segnalare la pericolosità della macchina "taglierina a fili multipli" utilizzata nella produzione di mattoni e nel non avere assicurato la completa segregazione degli organi lavoratori mediante necessari presidi di sicurezza che avrebbero reso impossibile la condotta imprudente del lavoratore.

 

 

Ricorrono entrambi in Cassazione - Rigetto.

 

Non è dubitabile, afferma la Corte, "la posizione di garanzia in cui si trovava il B., nella qualità di responsabile del servizio di prevenzione e di protezione nonchè di responsabile tecnico del programma di produzione della società I., in ragione dei propri compiti all'interno dell'azienda, che gli imponevano di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurandosi che si provvedesse alla individuazione e valutazione dei fattori di rischio (v. in particolare D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 9 ora D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 33) specificamente inerenti all'attività svolta, tra i quali, è certamente da includere, in considerazione dei macchinari utilizzati, la possibilità del contatto, non solo accidentale, del lavoratore con elementi ed organi meccanici di natura offensiva.


Parimenti non è dubitabile la posizione di garanzia del D.B., nella qualità di amministratore unico della I. spa, datore di lavoro della vittima e come tale tenuto ad eliminare tutte le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti, ivi comprese quelle derivanti dall'utilizzo delle macchine.
In proposito va ricordato che in tema di infortuni sul lavoro,
D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68, prescrive che in ogni caso ed in qualsiasi fase dell'uso di una macchina il pericolo sorgente dagli organi lavoratori della stessa deve, per quanto possibile, essere neutralizzato, o proteggendo o segregando gli organi lavoratori, ovvero provvedendo gli stessi di idoneo dispositivo di sicurezza."

 

Con riferimento al RSPP c'è da dire che la conclusione citata "non confligge con la disciplina normativa, segnatamente con il del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8, commi 3 e 10, (non innovata dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 33) laddove emerge a chiare lettere che i componenti del servizio di prevenzione e protezione non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, perché difettano di un effettivo potere decisionale: essi, in vero, sono soltanto dei consulenti che operano come "ausiliari" del datore di lavoro e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico), vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui é esclusivo destinatario".

 

"Quanto detto, infatti, non esclude che possa pur sempre profilarsi lo spazio per una responsabilità del RSPP.

 


Anche il RSPP, che pure é privo dei poteri decisionali e di spesa e, quindi, non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione".

 


 

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE
 

Composta dagli Ili .mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Presidente
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere
Dott. IZZO Fausto - Consigliere
Dott. MARINELLI Felicetta - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
 

sentenza
 

sul ricorso proposto da:
1) D.B.A.A.G. N. IL (OMISSIS);
2) B.M.A. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 226/2009 CORTE APPELLO di CALTANISSETTA, del 16/06/2009;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del   23/11/2010  la   relazione fatta   dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Geraci Vincenzo che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, in subordine per l'acquisizione della costituzione di parte civile.

Udito il difensore avv. Mario Di Giorgio del Foro di Catania che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.
 

 

FattoDiritto

 

 

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Caltanissetta confermava quella di primo grado che aveva ritenuto D.B. A.A. e B.M.A. responsabili del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno dell'operaio S.P. e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, comminava la pena di anni uno di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.


Si è trattato di un infortunio sul lavoro occorso in data (OMISSIS) a S.P., lavoratore dipendente della società I. s.p.a., il quale, mentre eseguiva il proprio turno dell'attività di produzione di laterizi all'interno dello stabilimento, nella qualità di addetto ad uno dei macchinari facenti parte dell'impianto produttivo, in particolare la "taglierina multipla", nel compiere un intervento mirato a togliere del materiale sito all'interno della taglierina, senza disattivare preventivamente l'alimentazione automatica della macchina, ma introducendo dalla parte anteriore del macchinario, priva di griglia di protezione, la parte destra del torace ed il braccio dello stesso lato, rimaneva incastrato con la testa tra la barra orizzontale di sollevamento del piano castelletto portafilo e la barra orizzontale fissa posta in alto del telaio della taglierina, così riportando gravi lesioni che ne cagionavano il decesso.


Il D.B. ed il B. erano stati chiamati a risponderne, rispettivamente, quale amministratore unico e responsabile del servizio di prevenzione e prevenzione della società I. e di responsabile tecnico del programma di produzione della società I., essendosi ravvisati a loro carico profili di colpa specifica, fondata essenzialmente sulla inosservanza del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, artt. 68, 389, per avere omesso di segnalare alla proprietà la pericolosità della macchina "taglierina a fili multipli" utilizzata nella produzione di mattoni e nel non avere assicurato la completa segregazione degli organi lavoratori mediante necessari presidi di sicurezza che avrebbero reso impossibile la condotta imprudente del lavoratore.

 

Avverso la predetta decisione propongono distinti ricorso per cassazione D.B.A.A. e B.M.A. articolando quattro motivi di uguale contenuto.

 


Con il primo (il terzo per il D.B.), premessa la descrizione della struttura tecnica e del macchinario, cui era addetto lo S., al quale è stato riconosciuto il 70% di responsabilità nella determinazione del sinistro, lamentano l'erronea applicazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68 e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta esclusione della interruzione del nesso di causalità tra la condotta omissiva addebitata al ricorrente e l'evento, determinata dal comportamento abnorme del lavoratore. Ciò sul rilievo, sotto il primo profilo, dell'inapplicabilità alla fattispecie del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68, in quanto il ciclo del macchinario in questione risultava totalmente automatizzato, per cui il lavoratore aveva solo la funzione di controllo e di gestione della corretta procedura delle diverse fasi di lavorazione e quindi non doveva compiere alcuna operazione sul macchinario in movimento, salvo il caso in cui, a causa di residui di lavorazione ostruenti le fotocellule, intervenisse il blocco del processo produttivo, pur restando la macchina in funzione. Ma in tale evenienza, il lavoratore doveva semplicemente  attivare   gli   interruttori,   perfettamente   funzionanti   al momento dell'incidente, che arrestavano i cancelletti laterali.

Si censura, altresì, in quanto fondata su dati congetturali e travisanti le risultanze processuali, la conclusione della Corte di merito sulla riconducibilità del nesso di causalità alla mancanza di protezioni anteriori e posteriori della macchina nonché sulla ritenuta sussistenza di una prassi aziendale secondo la quale i lavoratori addetti alla taglierina provvedevano a rimuovere i residui della lavorazione mediante l'impiego di una paletta che veniva introdotta nella parte anteriore del macchinario. Sul punto si sostiene che il corretto esame delle dichiarazioni testimoniali porterebbe ad escludere l'esistenza di tale prassi, trattandosi di comportamenti isolati di singoli lavoratori e che, in ogni caso si trattava di un'operazione non rischiosa ed al di fuori di una qualsiasi indicazione da parte dei responsabili dell'azienda.

Si sostiene altresì la mancanza di ogni approfondimento sulle dichiarazioni rese in qualità di teste dall'operaio L.P. A.G., da intendersi necessariamente riferite agli eventuali residui di lavorazione sui rulli prima che il filone arrivasse all'interno della taglierina, gli unici che potevano essere tolti con le mani senza danno, visto che, come accertato anche in perizia, l'introduzione di qualsiasi parte del corpo nella taglierina avrebbe comportato con certezza la produzione di lesioni.

Quanto all'altro profilo di censura (afferente la ritenuta esclusione dell'abnormità della condotta del lavoratore) si sostiene che le prove acquisite dimostrerebbero, invece, che la condotta della vittima, la quale aveva introdotto il tronco e le braccia all'interno degli organi lavoratori della taglierina, non era riconducibile all'area di rischio inerente all'attività svolta, essendo assolutamente esorbitante dalle normali operazioni di lavoro cui l'operaio era addetto. Proprio la prassi accertata (sia pure contestata dai ricorrenti) dell'uso della paletta per liberare la fotocellula, insuscettibile di produrre un evento mortale, sarebbe inidonea a far ritenere prevedibile e quindi non eccezionale la diversa condotta della vittima.

Con il secondo motivo (il primo per il D.B.), lamentano la violazione di legge con riferimento alla ritenuta ammissibilità della costituzione di parte civile, sul rilievo che i difensori erano sprovvisti di procura speciale conferita dalle persone offese per costituirsi parte civile.

Con il terzo motivo (il secondo per il D.B.), si dolgono della violazione dell'art. 79 c.p.p., comma 3, laddove i giudici di merito avevano ritenuto ammissibile la lista testi depositata in cancelleria dalle parti offese prima della rituale costituzione di parte civile.

Con il quarto motivo, lamentano la violazione dell'art. 133 c.p., sul rilievo che, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di appello, il giudice di primo grado non aveva affatto applicato la pena nel minimo edittale.

 

I ricorsi non possono trovare accoglimento a fronte di una sentenza che appare corretta nella ricostruzione dell'incidente e dei profili di colpa addebitati al responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed al datore di lavoro, ai quali ne é stata ricondotta la responsabilità.

 

Le censure proposte, pur ampiamente sviluppate, sono evidentemente di mero fatto e implicano una rilettura del compendio probatorio di cui si offre una lettura alternativa che non può trovare ingresso in sede di legittimità, non competendo alla Corte di cassazione rivalutare l'apprezzamento del quadro probatorio quando questo - come nel caso de qua - è assistito da esaustiva motivazione.

 

Non è infatti dubitabile, la posizione di garanzia in cui si trovava il B., nella qualità di responsabile del servizio di prevenzione e di protezione nonchè di responsabile tecnico del programma di produzione della società I., in ragione dei propri compiti all'interno dell'azienda, che gli imponevano di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurandosi che si provvedesse alla individuazione e valutazione dei fattori di rischio (v. in particolare D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 9 ora D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 33) specificamente inerenti all'attività svolta, tra i quali, è certamente da includere, in considerazione dei macchinari utilizzati, la possibilità del contatto, non solo accidentale, del lavoratore con elementi ed organi meccanici di natura offensiva.


Parimenti non è dubitabile la posizione di garanzia del D.B., nella qualità di amministratore unico della I. spa, datore di lavoro della vittima e come tale tenuto ad eliminare tutte le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti, ivi comprese quelle derivanti dall'utilizzo delle macchine.
In proposito va ricordato che in tema di infortuni sul lavoro, D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68, prescrive che in ogni caso ed in qualsiasi fase dell'uso di una macchina il pericolo sorgente dagli organi lavoratori della stessa deve, per quanto possibile, essere neutralizzato, o proteggendo o segregando gli organi lavoratori, ovvero provvedendo gli stessi di idoneo dispositivo di sicurezza.


Proteggere o segregare gli organi lavoratori comporta la predisposizione di idonee barriere fisiche inamovibili che impediscano il contatto degli stessi con parti del corpo dei lavoratori; in mancanza di tanto, i dispositivi di sicurezza devono essere idonei a raggiungere lo stesso risultato, quello cioè di impedire tale contatto; il presidio, quindi, deve essere idoneo al raggiungimento di tale risultato anche in previsione di eventuali comportamenti del lavoratori improntati a distrazione, imprudenza, errore operativo, scarsa perizia, ecc.. E solo ove per effettive ragioni tecniche o di lavorazione non sia possibile conseguire una efficace protezione o segregazione degli organi lavoratori, gli artt. 69 e 70 dello stesso testo normativo prescrivono altre misure da adottare: ne consegue che, ove invece, tali ragioni ed esigenze non sussistano, la protezione o la segregazione degli organi lavoratori delle macchine devono, in effetti, essere assolutamente idonei ad impedire comunque il contatto del lavoratore con quegli organi, devono cioè assicurare in "modo completo" (come recita l'art. 70) la protezione o segregazione degli organi della macchina, senza che possa surrogatoriamente farsi affidamento sulla diligenza, prudenza, perizia del lavoratore.

 

Il precetto normativo non lascia margini di discrezionalità all'attività di prevenzione, nel senso che il presidio antinfortunistico, secondo il quomodo indicato dall'art. 68 citato ed ove a tanto non ostino "effettive ragioni tecniche o di lavorazione", deve comunque essere apprestato, o proteggendo e segregando gli organi lavoratori o, se ciò non sia possibile, comunque adottando un dispositivo di sicurezza idoneo ad assicurare lo stesso risultato.

Nella specie, i giudici del merito hanno accertato che gli organi lavoratori del macchinario taglia filoni (deputato al taglio dei filoni di argilla), costituiti da castelletti, dotati di un filo metallico che, alzandosi ed abbassandosi, effettuavano il taglio, non erano idoneamente protetti o segregati, in quanto vi era una componente mobile che alzandosi permetteva l'ingresso dei filoni ed abbassandosi realizzava il taglio e le grate di protezione erano solo laterali mentre la macchina era priva della grata di protezione anteriore.

Vi era, pertanto, un "varco" che consentiva il contatto e mancava un dispositivo idoneo (tale non potendo ritenersi le grate laterali, la cui apertura determinava il blocco della macchina, in quanto la loro attivazione presupponeva pur sempre una previa attività umana cosciente del lavoratore che poteva essere pretermessa per negligenza, imperizia, imprudenza da parte dello stesso) a raggiungere egualmente tale risultato.
I giudici di merito hanno altresì dato atto che era, invece, possibile approntare tali presidi di sicurezza, giacchè, in epoca successiva alla costruzione della macchina taglierina gli stessi tecnici del settore si erano posti il problema del perfezionamento e della integrazione del sistema di protezione di cui la macchina era stata inizialmente dotata, tanto che nel 1997 avevano provveduto a costruire della macchine anche munite di griglie di protezione anteriori e posteriori.

Applicando i principi sopra indicati alla fattispecie in esame, appare, all'evidenza, destituita di fondamento la censura formulata dal ricorrente afferente l'asserita inapplicabilità alla fattispecie del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68, sul rilievo che il ciclo del macchinario in questione risultava totalmente automatizzato e che la funzione del lavoratore era solo di controllo e di gestione della corretta procedura delle diverse fasi di lavorazione.

A contrastare tale censura è sufficiente sottolineare come entrambe le sentenze di merito, descrivendo puntualmente il ciclo di lavorazione, alla luce dell'istruttoria svolta, hanno dato atto della possibilità per il lavoratore di accedere liberamente ai castelletti di taglio per rimuovere i residui della lavorazione e della prassi, quantomeno tollerata dalla direzione aziendale, per cui i lavoratori addetti alla taglierina provvedevano a rimuovere i residui della lavorazione che, ostruendo le fotocellule, determinavano il blocco dei castelletti di taglio, non già dopo avere aperto le griglie laterali che determinavano il blocco automatico dell'intero macchinario, ma mediante l'impiego di una paletta che veniva per l'appunto introdotta dalla parte anteriore del macchinario, priva di griglia di protezione.

Infondate sono anche le altre censure afferenti il preteso travisamento e l'asserito mancato approfondimento delle risultanze processuali, invocandosi pure in questo caso un controllo censorio nell'apprezzamento del quadro probatorio, non esercitabile a fronte di una motivazione ampia ed esaustiva e non manifestamente illogica.

D'altra parte, con specifico riferimento al B., lo stesso imputato non ha mai contestato il ruolo di responsabile del servizio di prevenzione e protezione svolto all'interno dell'azienda ed,  in assenza di ogni  prova  circa  la sussistenza di una concreta e diversa situazione di fatto in ordine allo svolgimento del lavoro, non può porre validamente in discussione che siffatto compito gli imponeva di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro.

Questa conclusione non confligge con la disciplina normativa, segnatamente con il del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8, commi 3 e 10, (non innovata dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 33) laddove emerge a chiare lettere che i componenti del servizio di prevenzione e protezione non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, perché difettano di un effettivo potere decisionale: essi, in vero, sono soltanto dei consulenti che operano come "ausiliari" del datore di lavoro e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico), vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui é esclusivo destinatario (cfr. Sezione 4^, 13 marzo 2008, Reduzzi ed altro).

Quanto detto, infatti, non esclude che possa pur sempre profilarsi lo spazio per una responsabilità del RSPP.
Anche il RSPP, che pure é privo dei poteri decisionali e di spesa e, quindi, non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione (in precedenza, in questo senso, oltre alla sentenza sopra citata, Sezione 4^, 6 dicembre 2007, Oberrauch ed altro; Sezione 4^, 15 febbraio 2007, Fusilli; nonché, Sezione 4^, 20 aprile 2005, Stasi ed altro).

 

Ciò che é quanto si é verificato, giusta la ricostruzione operata in sentenza.

 

Né può sostenersi, con la difesa di entrambi gli imputati - così passando all'esame dell'altro profilo di censura -, la carenza di motivazione con riferimento alla ritenuta esclusione del nesso di causalità tra la condotta, certamente imprudente della vittima (la cui percentuale di responsabilità nella determinazione del sinistro é stata quantificata nella misura del 70%) e l'evento.

La censura non tiene conto che in tema di infortuni sul lavoro, l'eventuale colpa concorrente dei lavoratori non può spiegare alcun effetto esimente per il datore di lavoro e per gli altri soggetti istituzionalmente preposti alla responsabilità ed al controllo della fase lavorativa specifica (e tra questi rientra incontestabilmente, come sopra delineato, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, tenuto ad un debito di sicurezza nei confronti del lavoratore), che si sia reso comunque responsabile, come nel caso in esame, di specifica violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica, in quanto la normativa relativa é diretta a prevenire pure la condotta colposa dei lavoratori per la cui tutela é adottata (v. tra le tante, da ultimo, Sez. 4^, 20 maggio 2010, Dorigo).

 

Il datore di lavoro e le altre figure istituzionalizzate, come ripetutamente affermato da questa Corte, sono "garanti" anche della correttezza dell'agire del lavoratore, essendo loro imposto (anche) di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela, conseguendone, appunto in linea di principio, che la colpa dei medesimi, nel caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, non è esclusa da quella del lavoratore.
In tal caso, l'evento dannoso è imputato ai soggetti sopra indicati, in forza della posizione di garanzia di cui questi è ex lege onerato, sulla base del principio dell'equivalenza delle cause vigente nel sistema penale (art. 41 c.p., comma 1).


Proprio la posizione di garanzia de qua ricoperta dagli imputati e l'incontestabile accertamento della violazione dell'obbligo di munire la macchina del dispositivo di protezione, non attribuisce alcun rilievo, per escludere la responsabilità degli stessi, ai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell'infortunio.

Sono infondate anche le censure che riguardano l'eccezionalità e imprevedibilità della condotta del lavoratore, dirette ad affermare l'interruzione del rapporto di causalità tra la condotta colposa e l'evento essendosi, tra questi due elementi, inserito un fattore (la condotta abnorme del lavoratore, che del tutto imprudentemente ed esorbitando dalle normali operazioni di lavoro cui era addetto, aveva introdotto il tronco e le braccia all'interno degli organi lavoratori della taglierina) idoneo ad essere qualificato come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.


E' nota la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. da ultimo, la già citata sentenza Dorigo) secondo la quale per mitigare l'ambito di operatività della posizione di garanzia dei soggetti tenuti al debito di sicurezza nei confronti dei lavoratori, vale esclusivamente il principio dell'interruzione del nesso causale, esplicitato normativamente dall'art. 41 c.p., comma 2, in forza del quale, facendosi eccezione proprio al concorrente principio dell'equivalenza delle cause di cui al precedente comma 1, quella sopravvenuta del tutto eccezionale ed imprevedibile, in alcun modo legata a quelle che l'hanno preceduta, finisce con l'assurgere a causa esclusiva di verificazione dell'evento.


Sotto questo profilo, è assolutamente pacifico l'assunto in forza del quale per escludere la responsabilità del datore di lavoro "in colpa" e, quindi, per interrompere, ex art. 41 c.p., comma 2, il nesso causale tra la condotta colposa di questi e l'evento pregiudizievole derivatone, non basterebbe un comportamento del lavoratore pur avventato, negligente o disattento, che il lavoratore pone in essere mentre svolge il lavoro affidatogli, trattandosi di comportamento "connesso" all'attività lavorativa o da essa non esorbitante e, pertanto, non imprevedibile.

Per converso, deve ritenersi che, per interrompere il nesso causale, occorra un comportamento del lavoratore che sia "anomalo" ed "imprevedibile" e, come tale, "inevitabile"; cioè un comportamento che ragionevolmente non può farsi rientrare nell'obbligo di garanzia posto a carico del datore di lavoro. Si deve trattare, in altri termini, di un comportamento del lavoratore definibile come "abnorme", che, quindi, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro (cfr., per tale definizione, da ultimo, la citata sentenza 20 maggio 2010, Dorigo e, in precedenza, tra le altre, Sezione 4^, 12 giugno 2009, Lo Bello, Sezione 4^, 4 luglio 2003, Valduga; nonché, Sezione 4^, 12 febbraio 2008, Trivisonno e Sez. 4^, 21 ottobre 2008, Petrillo)).

L'ipotesi tipica é quella del lavoratore che violi "con consapevolezza" le cautele impostegli, ponendo in essere in tal modo una situazione di pericolo che il datore di lavoro non può prevedere e certamente non può evitare.

Altra ipotesi é quella del lavoratore che provochi l'infortunio ponendo in essere, colposamente, un'attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento "esorbitante" rispetto al lavoro che gli é proprio, assolutamente imprevedibile (ed evitabile) per il datore di lavoro (come, ad esempio, nel caso che il lavoratore si dedichi ad un'altra macchina o ad un altro lavoro, magari esorbitando nelle competenze attribuite in esclusiva ad altro lavoratore; ovvero nel caso in cui il lavoratore, pur nello svolgimento delle mansioni proprie, abbia assunto un atteggiamento radicalmente lontano dalle ipotizzagli e, quindi, prevedibili, imprudenze comportamentali).

Il caso in esame, contrariamente a quanto sostenuto dai difensori degli imputati, i quali hanno incentrato i ricorsi sulla omessa considerazione da parte dei giudici di merito della condotta del lavoratore del tutto anomala e stravagante rispetto alle mansioni ed ai compiti chiamato a svolgere, non consente soluzioni liberatorie per i prevenuti, proprio alla luce della richiamata interpretazione giurisprudenziale.

La sentenza impugnata ha rispettato appieno il richiamato inquadramento di principio, giacché ha correttamente individuato, alla stregua delle risultanze istruttorie, non solo le norme cautelari violate da parte del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ma ha anche escluso lo svolgimento da parte del lavoratore di un'attività stravagante rispetto alle proprie specifiche mansioni, tale cioé da rilevare come causa interruttiva del nesso eziologico, pur evidenziandone il rapporto causale con l'evento dannoso.

La decisione gravata ha infatti sottolineato che il lavoratore, introducendo all'interno della taglierina, non soltanto l'intero braccio ma anche la parte superiore del corpo, attraverso quel pericolosissimo varco esistente nella parte anteriore del macchinario, del tutta priva di griglie di protezione,ha compiuto un'operazione, benché con modalità improprie, ma comunque tollerate dalla direzione aziendale, rientrante pienamente, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli.

La sentenza impugnata é pertanto in linea con i principi sopra indicati, avendo la Corte di merito innanzitutto apprezzato che l'incidente mortale si verificò per evidenti carenze dell'apparato prevenzionale e per l'utilizzo di una metodica di lavoro pericolosa che non era stata per tempo evidenziata dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed, in secondo luogo, verificato l'assoluta inerenza al contesto lavorativo dell'imprudente comportamento dello S..

Non é superfluo poi aggiungere che questa Corte ha anche condivisibilmente affermato (v., di recente, Sez. 4^, 18 marzo 2009, Stefanizzi) che le misure protettive prescritte dal D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 55 e 68, relative rispettivamente agli organi ed elementi per la trasmissione del moto e agli organi lavoratori e zone di operazione delle macchine, tendono a tutelare il lavoratore da infortuni, cioé da eventi accidentali, indipendentemente dal comportamento del lavoratore medesimo e quindi tendono ad impedire attività anche estranee alla serie di operazioni insite nella specifica lavorazione, restando esclusi solo eventuali fatti di autolesionismo (Sez. 4^, 15 dicembre 1983, Zambelli). Dunque, in aderenza a tale principio giurisprudenziale, la condotta tenuta dallo S., anche se fosse ritenuta estranea alla serie di operazioni insite nelle specifiche fasi di lavorazione che gli competevano, circostanza questa da escludere come rilevato, non può essere considerata circostanza tale da elidere il nesso di causalità tra la condotta colposa del titolare della posizione di garanzia e l'evento.

 

Certamente non può essere posto in dubbio che l'imprudente comportamento del lavoratore abbia apportato un contributo rilevante alla verificazione dell'evento, come del resto riconosciuto dai giudici di merito.

 

Tuttavia, ed é opportuno ancora una volta sottolinearlo per rispondere alle critiche formulate sul punto dal ricorrente, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità dei soggetti preposti alla tutela della salute dei lavoratori, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.

Tale principio, che non é altro che l'esplicazione in tema di infortuni sul lavoro, del principio dell'equivalenza delle cause accolto dal nostro ordinamento penale (art. 41 c.p.) - secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset e trovi nella condotta precedente solo l'occasione per svilupparsi- é stato correttamente applicato dai giudici di merito laddove hanno escluso che la condotta dell'infortunato avesse integrato alcunché di esorbitante o di imprevedibile, tale da poter rilevare ai fini dell'interruzione del nesso causale, avendo ravvisato nella omessa vigilanza da parte del datore di lavoro sulla concreta applicazione delle misure di sicurezza la premessa imprescindibile per la realizzazione delle condizioni che avevano reso possibile l'evento.

Da questa premesse, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, é il conseguente giudizio di sussistenza del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile: se la macchina taglierina fosse stata munita degli opportuni sistemi di protezione (griglie anteriori e posteriori la cui apertura, come accadeva per quella laterali, ne avrebbe determinato l'immediato blocco) l'evento non si sarebbe verificato.

Le eccezioni di carattere processuale sono entrambe infondate, non sussistendo le asserite violazioni di legge, dovendosi condividere gli argomenti ampiamente sviluppati nella sentenza impugnata.

Non accoglibile é la censure relativa alla pretesa inammissibilità della costituzione di parte civile. E' vero che, in conformità a quanto sostenuto dal ricorrente, la nomina da parte del difensore della persona offesa, ai sensi dell'art. 102 c.p.p., non attribuisce a quest'ultimo il potere di costituirsi parte civile.

Tuttavia, come hanno rilevato i giudici di merito, la costituzione di parte civile nel caso in esame conteneva la procura alle liti redatta in calce all'atto di costituzione e ciò rendeva inequivocabile il potere che le parti intendevano conferire al difensore.

 

Tale conclusione é conforme all'orientamento consolidato in materia secondo il quale la procura speciale al difensore della parte civile può anche essere apposta, a norma dell'art. 100 c.p.p., comma 2, in calce o a margine della dichiarazione di costituzione, di tal che la esistenza in calce o a margine di tale atto della sottoscrizione della parte seguita da quella del procuratore può valere, tenuto conto delle circostanze concrete, a rivelare la volontà della parte stessa di conferire a quel difensore la procura a compiere l'atto, mentre la sottoscrizione del procuratore può avere contemporaneamente la duplice finalità di autenticazione della firma del cliente e di sottoscrizione dell'atto in sé (v. da ultimo, Sez. 5^, 23 aprile 2008, D'Eufemia).

 

Ineccepibilmente, quindi, é stato ritenuto che, nel caso di specie, la formulazione del mandato e la sua collocazione nell'atto di costituzione di parte civile, fosse idoneo a consentire di ricondurre con certezza la costituzione di parte civile alla volontà del soggetto interessato.

Parimenti infondata é l'altra doglianza, con la quale si eccepisce la violazione dell'art. 79 c.p.p., comma 3, laddove i giudici di merito avevano ritenuto ammissibile la lista testi depositata in cancelleria dalle parti offese prima della rituale costituzione di parte civile.

Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. Sez. 5^, 8 giugno 2005, Neroni), in tema di diritti e facoltà della persona offesa, é ammissibile la richiesta di testi, mediante il deposito della relativa lista, da parte della persona offesa, costituitasi fuori dell'udienza, in data precedente la notifica della dichiarazione di costituzione di parte civile, in quanto tale richiesta é compresa nella facoltà di indicazione di elementi di prova di cui all'art. 90 c.p.p., con la conseguenza che la persona offesa dal reato, divenuta parte processuale a mezzo dell'atto di costituzione di parte civile, può certamente avvalersi del mezzo di prova già proposto, senza necessità di ripresentare la lista testimoniale già depositata in tempo utile rispetto a quello indicato dall'art. 468 c.p.p., comma 1, mentre gli effetti della costituzione di parte civile, formalizzata fuori udienza riguardano, ai sensi dell'art. 78 c.p.p., comma 2, l'instaurazione del contraddittorio civile nella sede penale.

La sentenza impugnata ha correttamente applicato tale principio e deve ritenersi, pertanto, esente da censura.

 

Infondata é anche la doglianza afferente il trattamento sanzionatorio, del quale si lamenta l'eccessiva entità.

 

La determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittali rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, qualora il giudice abbia adempiuto all'obbligo di motivazione: ciò vale, a fortiori, anche per il giudice d'appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante, non è tenuto ad un'analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (di recente, Sezione 3^, 8 ottobre 2009, Esposito).

Tale obbligo di motivazione nella specie risulta essere stato assolto, giacche la Corte di merito, colmando il vuoto motivazionale della sentenza di primo grado con riferimento al giudizio di bilanciamento delle circostanze, ha rivalutato la pena irrogata dal primo giudice, e ritenuto che le attenuanti generiche erano state valutate in termini equivalenza rispetto all'aggravante contestata, ha giudicato congrua l'entità, prossima al minimo edittale.

Di talché le censure del ricorrente circa pretese carenze motivazionali della sentenza impugnata in ordine ai punti suindicati risultano infondate.

Per le considerazioni svolte i ricorsi devono essere rigettati.

Al rigetto consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.