Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 gennaio 2011, n. 459 - Demansionamento e licenziamento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FOGLIA Raffaele - Presidente
Dott. PICONE Pasquale - Consigliere
Dott. STILE Paolo - Consigliere
Dott. D'AGOSTINO Giancarlo - rel. Consigliere
Dott. NOBILE Vittorio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
INTESA SANPAOLO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell'avvocato CIABATTINI SGOTTO LIDIA, rappresentata e difesa dagli avvocati TOSI PAOLO, RIZZO NUNZIO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro S.A.;
- intimato -
e sul ricorso n. 29183/2007 proposto da:
S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell'avvocato VACIRCA SERGIO, rappresentato e difeso dall'avvocato FERRARO GIUSEPPE, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
INTESA SANPAOLO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell'avvocato CIABATTINI SGOTTO LIDIA, rappresentata e difesa dagli avvocati TOSI PAOLO, RIZZO NUNZIO, giusta delega in atti;
- controricorrente al ricorso incidentale - avverso la sentenza n. 2321/2007 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 30/05/2007 R.G.N. 8077/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/11/2010 dal Consigliere Dott. GIANCARLO D'AGOSTINO;
udito l'Avvocato TOSI PAOLO;
udito l'Avvocato FERRARO GIUSEPPE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento per quanto di ragione del ricorso incidentale.
Fatto
Con ricorso in data 23.8.2000 al Tribunale di Napoli S. A. conveniva in giudizio la Intesa Sanpaolo s.p.a. ed esponeva: che con delibera del Comitato Esecutivo del Banco di Napoli del 23.7.1998 era stato nominato dirigente preposto alla Concessione Provinciale di Napoli per la riscossione dei tributi; che nei due anni successivi aveva subito vari comportamenti vessatori da parte del superiore gerarchico, dott. G., responsabile dell'Ufficio Autonomo Esattorie; che dal 1 febbraio 2000 era stato trasferito dalla posizione di responsabile della Concessione Provinciale di Napoli a quella, di minore importanza, di responsabile del Cantiere Organizzativo per la riorganizzazione del servizio esattorie, subendo in tal modo un ingiustificato demansionamento; che in data 3.5.2000 era stato licenziato in tronco.
Tanto premesso chiedeva al giudice adito: di dichiarare nullo e inefficace il licenziamento perchè privo di giusta causa e di giustificato motivo e perchè emesso senza l'osservanza delle garanzie procedimentali, con tutte le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18; di condannare la Banca al risarcimento del danno biologico e del danno morale nonchè del danno patrimoniale conseguente alla lesione della capacità di lavoro specifica.
La società si costituiva e chiedeva il rigetto di tutte le domande assumendo che il ricorrente rivestiva la qualifica di dirigente di vertice per cui non godeva della tutela reale e poteva essere licenziato ad nutum.
Negava che il dirigente fosse stato oggetto di demansionamento e di comportamenti vessatori.
Con ricorso depositato il 29.11.2000 S.A. impugnava un secondo licenziamento intimatogli da Intesa Sanpaolo in data 29.9.2000.
Il Tribunale, riuniti i ricorsi, espletata l'istruzione, con sentenza del 28.3.2006 così provvedeva: dichiarava l'illegittimità del provvedimento di mutamento delle mansioni del febbraio 2000, nonchè l'illegittimità del licenziamento intimato il 3.5.2000 e in relazione a tali illeciti condannava la società al risarcimento del danno pari a 5 mensilità e accessori, nonchè al risarcimento del danno professionale, del danno biologico e del danno morale; riteneva valido il licenziamento intimato il 29.9.2000.
Avverso detta sentenza proponevano appello sia il S. che Intesa Sanpaolo.
La Corte di Appello di Napoli, con sentenza depositata il 30 maggio 2007, in parziale riforma della decisione di primo grado, così provvedeva: esclusa la sussistenza di una condotta illecita della società riconducibile a mobbing, dichiarava la illegittimità del licenziamento intimato il 3.5.2000 e condannava la banca al pagamento di una indennità pari alle mensilità globali di fatto dal 3.5.2000 al 30.8.2006 (data del collocamento a riposo), oltre accessori;
dichiarava la nullità del licenziamento intimato in data 29.9.2000 e condannava la società al pagamento di cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto oltre accessori; confermava nel resto l'impugnata sentenza.
Avverso quest'ultima sentenza Intesa Sanpaolo s.p.a. ha proposto ricorso sostenuto da sei motivi. S.A. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale sostenuto da quattro motivi. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Diritto
Preliminarmente deve disporsi la riunione dei ricorsi a norma dell'art. 335 c.p.c..
Intesa Sanpaolo s.p.a. ha chiesto la cassazione della sentenza impugnata per le seguenti ragioni.
Primo motivo. Violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18. Si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto inammissibile il licenziamento del 29.9.2000 perchè irrogato quando il rapporto di lavoro era già estinto per effetto del licenziamento intimato il 3.5.2000, i cui effetti risolutori erano destinati a rimanere in vita fino alla sentenza definitiva di annullamento del recesso.
Sostiene la ricorrente che il giudice di appello aveva ritenuto illegittimo il primo licenziamento perchè intimato senza l'osservanza della procedura disciplinare di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7. Ritiene la banca che la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere tale licenziamento non già annullabile, bensì nullo e privo di effetti, con la conseguenza che il rapporto di lavoro doveva ritenersi rimasto invita senza soluzione di continuità e che il successivo licenziamento intimato il 29.9.2000 era quindi del tutto legittimo e giustificato.
Secondo motivo. Violazione degli artt. 112 c.p.c. e dell'art. 2118 c.p.c., nonchè omessa e contraddittoria motivazione. Si osserva che il secondo licenziamento è stato irrogato in pendenza del termine di preavviso contrattuale (190 giorni) del precedente licenziamento e quindi nella piena vigenza del rapporto lavorativo. La Banca si duole altresì del fatto che il giudice di appello non abbia tenuto conto della eccepita efficacia reale del preavviso del primo licenziamento e non abbia in alcun modo motivato al riguardo.
Terzo motivo. Violazione dell'art. 1362 cod. civ. in relazione all'art. 93 CCNL 17.7.1995 per il personale direttivo delle aziende concessionarie del servizio di riscossione dei tributi, e della L. n. 604 del 1996, art. 10 nonchè omessa e contraddittoria motivazione.
Si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto al S. la tutela reale L. n. 300 del 1970, ex art. 18 in quanto dirigente non apicale. Sostiene la società che la Corte territoriale è pervenuta a tale conclusione non considerando che la Concessione Provinciale di Napoli per il servizio di riscossione dei tributi è una azienda autonoma dal Banco di Napoli, che all'epoca la gestiva in regime di commissariamento, e che il rapporto di lavoro del personale dirigente di detta Concessione è regolato da apposita contrattazione collettiva. Rileva la società che stando alle competenze descritte dal citato art. 93 del contratto il dott. S., nella sua qualità di responsabile della Concessione, doveva essere considerato un dirigente apicale.
Quarto motivo. Violazione degli artt. 1362, 1363, 1366 cod. civ. in relazione agli artt. artt. 84 e 93 di CCNL 17.7.1995, violazione della L. n. 604 del 1966, art. 10 e L. n. 300 del 1970, art. 18. Si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto al S. la tutela reale non considerando che lo stesso, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva, rivestiva la qualifica e le mansioni di dirigente apicale licenziabile ad nutum.
Quinto motivo. Violazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2056 e 2697 cod. civ., violazione degli artt. 61 e 116 c.p.c, nonchè vizi di motivazione. Si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto al S. il danno biologico sulla base di una adesione acritica e immotivata alla consulenza tecnica d'ufficio. La società si duole del fatto che la Corte territoriale non abbia preso in esame le specifiche contestazioni avanzate dalla banca, anche mediante consulenza tecnica di parte, e lamenta che il CTU non aveva svolto tutti gli accertamenti clinici del caso.
Sesto motivo. Violazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2056, 2103, 2697 e 2729 cod. civ., violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e dell'art. 116 c.p.c., nonchè vizi di motivazione. Si censura la sentenza impugnata per aver confermato la decisione di primo grado che aveva riconosciuto al S. il danno professionale, pari al 100% della retribuzione maturata dal 1.2.2000 al 29.9.2000, per perdita di chance e impoverimento della capacità professionale. Si addebita alla Corte territoriale di aver desunto l'esistenza di tale danno dal semplice fatto dell'inadempimento del datore di lavoro, pur in mancanza di ogni allegazione e prova di fatti diversi e ulteriori comprovanti tale danno.
S.A. ha proposto ricorso incidentale per le seguenti ragioni.
Primo motivo. Violazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2056, 2697 e 2729 cod. civ., violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè vizi di motivazione. Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la decisione di primo grado ed ha riconosciuto il danno professionale soltanto dal 1 febbraio 2000 al 29.9.2000, data del secondo licenziamento, senza spiegare le ragioni di tale limitazione. Sostiene il ricorrente che il danno andava riconosciuto anche per il peri odo s ucces s i vo al secondo licenziamento.
Secondo motivo. Violazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2056, 2697, 2727 e 2729 cod. civ., violazione egli artt. 115 e 116 c.p.c. e vizi di motivazione. Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la sussistenza del danno esistenziale sull'errato presupposto che detto danno non era stato provato. Rileva il ricorrente di aver dedotto e dimostrato di aver subito, per effetto del demansionamento e dei successivi licenziamenti, un mutamento radicale delle sue condizioni di vita sia nei rapporti con terzi che nei rapporti con gli altri componenti della sua famiglia. Il ricorrente si lamenta della riduzione della lista dei testimoni operata dal giudice di primo grado.
Terzo motivo (condizionato). Violazione dell'art. 2087 cod. civ., anche in relazione all'art. 32 Cost., degli artt. 1175 e 1337 cod. civ., degli artt. 1343 - 1345 cod. civ., del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 2 degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè vizi di motivazione. Per l'ipotesi di accoglimento dei primi tre motivi del ricorso principale, il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver escluso l'esistenza di comportamenti vessatori riconducibili alla figura del mobbing. Sostiene il ricorrente che dalla documentazione versata in atti e dalle deposizioni testimoniali il giudice di appello era in condizione di valutare l'esistenza del comportamento illecito lamentato.
Quarto motivo (condizionato). Violazione degli artt. 2118 e 2119 cod. civ., della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18, nonchè vizi di motivazione. Si sostiene che sulla illegittimità del primo licenziamento per mancata osservanza della procedura di cui all'art. 7 St. Lav. si è formato il giudicato in quanto la Banca non ha proposto sul punto appello incidentale.
Comunque, nell'ipotesi in cui dovessero essere accolti i primi due motivi del ricors o pri nci pal e, i l ricorre nt e inci de nt ale ce ns ura la s e nt e nz a impugnata per non aver dichiarato la illegittimità anche del secondo licenziamento per violazione del principio dell'immediatezza ed inosservanza delle norme procedimentali previste dall'art. 7 St. Lav.
I primi due motivi del ricorso principale di Intesa Sanpaolo, che è opportuno esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
E' pacifico il fatto che in data 3 maggio 2000 S. A. ha subito un licenziamento in tronco senza previo esperimento delle garanzie procedimentali di cui all'art. 7 St. Lav. e che in data 29.9.2000 ha ricevuto un secondo licenziamento.
Il Collegio non ignora le divergenti conclusioni (peraltro ampiamente richiamate dalle parti) cui la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta in ordine alla ammissibilità di un secondo licenziamento nel caso in cui il primo licenziamento risulti invalido per inosservanza delle garanzie procedimentali di cui all'art. 7 St. Lav.
Il Collegio al riguardo ritiene di dover condividere la soluzione adottata dal giudice di appello sulla scorta della giurisprudenza del giudice di legittimità richiamata in sentenza, secondo cui il licenziamento disciplinare intimato senza la previa osservanza delle garanzie procedimentali stabilite dall'art. 7 St. Lav. cit. non è viziato da nullità, ma è soltanto "ingiustificato", nel senso che il comportamento addebitato al dipendente, ma non fatto valere attraverso il predetto procedimento, non può, quand'anche effettivamente sussistente, essere addotto dal datore di lavoro per sottrarsi all'operatività della tutela apprestata al lavoratore dall'ordinamento; la richiamata giurisprudenza ne ha dedotto che il licenziamento disciplinare intimato senza il rispetto delle garanzie procedimentali non è nullo bensì annullabile, secondo la previsione di annullabilità di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, dovendosi parificare il vizio formale del mancato rispetto delle garanzie procedimentali al vizio sostanziale dell'assenza di giusta causa o giustificato motivo.
Ne ha dedotto ulteriormente, da un lato, che il licenziamento annullabile per vizi procedimentali produce i suoi effetti ed interrompe, estinguendolo, il rapporto di lavoro, sicchè un ulteriore licenziamento intimato successivamente, ancorchè in corso di causa ma prima della sentenza di annullamento, deve considerarsi nullo e privo di effetti per mancanza di causa, per l'impossibilità di adempiere la sua funzione; e dall'altro lato, che l'eventuale sentenza di accoglimento dell'azione di annullamento del licenziamento, mentre vale a ricostituire senza soluzione di continuità il rapporto di lavoro, non è certamente idonea a restituire retroattivamente efficacia alla manifestazione di volontà datoriale di recesso nulla per mancanza di causa, perchè posta in e ssere quando il rapporto di lavoro non era in essere, sia pure in conseguenza di un primo licenziamento annullabile.
Il Collegio ritiene di dover dare continuità a questa giurisprudenza (vedi Cass. n. 5092/2001, n. 5855/2003, n. 10394/2005, n. 21412/2006 ed altre conformi) condividendone le motivazioni che la sorreggono.
Pertanto le censure mosse dalla Banca alla sentenza impugnata, laddove ha dichiarato annullabile, e non nullo, il primo licenziamento, con conseguente dichiarazione di nullità del secondo licenziamento pronunciato prima della sentenza di annullamento, non sono meritevoli di accoglimento.
Parimenti non condivisibili sono le censure con le quali la Banca si duole della mancata considerazione da parte del giudice di appello della dedotta efficacia reale del preavviso contrattuale, che avrebbe mantenuto in vita il rapporto di lavoro fino al termine del preavviso. Così argomentando la Banca mostra però di dimenticare di aver intimato il licenziamento "in tronco" con liquidazione dell'indennità sostitutiva del preavviso, sicchè per sua stessa volontà gli effetti estintivi del rapporto di lavoro hanno operato sin dal momento della comunicazione del recesso.
Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, da esaminare congiuntamente perchè intimamente connessi, sono parimenti infondati.
L'affermazione della sentenza impugnata, che ha riconosciuto al S. la qualifica di dirigente non apicale, è legata ad una attenta e diffusa disamina delle risultanze probatorie attinenti alle mansioni espletate dal funzionario. Il giudizio della Corte territoriale si risolve quindi in un apprezzamento di fatto suscettibile di riesame in sede di legittimità soltanto per vizi di motivazione.
Al riguardo si osserva che le censure sollevate dalla Banca in ordine alla valutazione dei documenti e delle testimonianze da parte del giudice di appello sono del tutto generiche. A questo proposito va qui richiamata e confermata la costante giurisprudenza secondo cui il vizio di omessa o insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5 non può consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, poichè il compito di valutare le prove e di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti e di dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito (cfr. tra le tante Cass. n. 16499/2009, n. 6064/2008, n. 17076/2007, n. 3994/2005, n. 11933/ 2003).
Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice di appello sono congruamente motivate e l'iter logico - argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Per contro, le censure mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal giudice di merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.
Ugualmente non condivisibili sono le censure che la Banca muove alla sentenza impugnata per asserita violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale in ordine alla interpretazione dell'art. 93 del CCNL di settore.
L'istituto ricorrente ha riprodotto in ricorso soltanto uno stralcio del citato articolo del contratto collettivo, rendendosi in tal modo inosservante del disposto dell'art. 369 c.p.c. Dalla parziale trascrizione della norma in esame "Il rapporto di lavoro dei dirigenti può essere risolto dall'azienda solo nei casi di giusta causa o di giustificato motivo. La risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa del concessionario resta, tuttavia, esclusivamente regolata dalle norme del codice civile nei confronti dei dirigenti che compongono la Direzione Generale ("purchè agli stessi vengano formalmente conferiti, anche in posizione vicaria, poteri di rappresentanza generale che impegnino, nei confronti dei terzi, l'intera Azienda nonchè poteri decisionali per la realizzazione degli obiettivi gestionali complessivi ") non è dato comunque desumere in modo automatico la natura apicale della dirigenza attribuita al S., dovendo questa ricavarsi dall'esame dei poteri di fatto conferiti al funzionario. Questo esame è stato compiuto in modo ampio ed esaustivo dal giudice di appello, le cui valutazioni in fatto, per quanto sopra detto, non sono suscettibili di riesame in sede di legittimità.
Una volta escluso che il S. avesse funzioni dirigenziali di vertice il giudice di meri to ha correttamente applicato al funzionario la tutela reale, così come riconosciuto dalla costante giurisprudenza di legittimità (cfr. tra le tante Cass. n. 15351/2004, n. 8486/2003, n. 5526/2003).
Il quinto motivo del ricorso principale, con il quale la Banca censura la condivisione da parte del giudice di appello delle conclusioni della CTU in ordine al danno biologico, sono infondate.
Per costante insegnamento della S.C., ove il giudice di merito ritenga di dover aderire alla consulenza tecnica d'ufficio non è tenuto a dare particolareggiata motivazione delle ragioni dell'adesione, ben potendo il relativo obbligo ritenersi assolto con l'indicazione della relazione peritale (Cass. n. 17770/2007, n. 4170/2006, n. 15108/2005). Peraltro i giudizi di carattere tecnico espressi dai CTU e recepiti dal giudice di merito, costituiscono tipici accertamenti in fatto, sindacabili in sede di legittimità solo per vizi di motivazione.
Al riguardo va osservato che il consulente non è tenuto ad esaminare e confutare analiticamente tutti i rilievi mossi dalle parti, ma è tenuto a valutare compiutamente le condizioni di salute del periziato ed a dare adeguata giustificazione sul piano logico e medico - scientifico delle conclusioni cui è giunto, restando in tal modo implicitamente disattese le diverse conclusioni sollecitate dalla parte privata.
Pertanto, qualora il giudice di merito fondi la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, facendole proprie, il ricorrente per cassazione che lamenti un vizio di motivazione della sentenza di merito, non può limitarsia prospettare una diversa valutazione delle malattie ed una diversa incidenza delle stesse sulle condizioni della parte privata, rispetto a quella accolta dal giudice di merito, ovvero la necessità di ulteriori accertamenti diagnostici, rispetto a quelli ritenuti sufficienti dal consulente tecnico, perchè non rientra nei compiti e nei poteri del giudice di legittimità riesaminare gli elementi di fatto già valutati dal giudice in sede di merito, ne di apprezzare la idoneità degli accertamenti tecnici da questi disposti, ma solo di verificare che il processo argomentativo che sorregge la decisione non sia inficiato da vizi logici e giuridici.
Di conseguenza le censure relative al vizio di motivazione sono ammissibili solo nei limiti in cui il ricorrente lamenti l'esistenza di un errore diagnostico per il chiaro ed indiscutibile contrasto delle affermazioni del consulente tecnico con lo stato delle conoscenze mediche generalmente condivise dalla comunità scientifica. Ne consegue che al di fuori di tale ambito le censure di difetto di motivazione costituiscono un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico che sorregge la decisione e si traducono in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice (cfr. tra le tante Cass. n. 7341/2004,
Nella specie alla valutazione del consulente tecnico d'ufficio recepita dal giudice di appello, il ricorrente ha contrapposto un diverso apprezzamento della entità delle patologie riscontrate al periziato, senza evidenziare alcuna specifica carenza diagnostica o errore scientifico derivanti dalla mancata osservanza dei canoni della scienza medica unanimemente condivisi dalla comunità scientifica, bensì limitandosi ad esprimere una soggettiva valutazione della opportunità di ulteriori indagini diagnostiche e di una diversa valutazione del quadro patologico riscontrato dal perito d'ufficio.
Le censure espresse, pertanto, non sono meritevoli di accoglimento.
Il sesto motivo del ricorso principale, con il quale l'istituto censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto al S. il danno professionale, è parimenti infondato.
Il giudice di appello ha confermato sul punto la sentenza di primo grado che ha accertato in fatto che nel febbraio del 2000 il S. ha subito un ingiustificato demansionamento con il trasferimento dalla posizione di responsabile della Concessione Provinciale di Napoli per la riscossione dei tributi a quella di responsabile del Cantiere Organizzativo per la riorganizzazione del servizio esattoriale; per tale demansionamento i giudici di merito hanno riconosciuto al funzionario il danno professionale, inteso come impoverimento della capacità professionale e perdita di chance.
La liquidazione di tale voce di danno trova dunque la sua fonte in uno specifico fatto illecito, il demansionamento, la cui sussistenza è stata accertata dai giudici di merito attraverso la valutazione delle risultanze probatorie, che per essere congruamente motivata, non è suscettibile di riesame in sede di legittimità. Allo stesso modo non sono suscettibili di riesame le conseguenze che i giudici di merito hanno collegato a tale illecito (impoverimento della capacità professionale e perdita di chance), comportando anche tale giudizio una valutazione in fatto che sfugge al sindacato del giudice di legittimità.
In definitiva, il ricorso principale proposto da Intesa Sanpaolo deve essere respinto.
Il primo motivo del ricorso incidentale proposto dal S. è infondato. Il giudice di appello ha ritenuto congrua la determinazione del danno professionale liquidata dal primo giudice in misura pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal 1 febbraio al 29 settembre 2000. La valutazione della Corte napoletana, a differenza di quella del Tribunale, non è legata alla durata dell'inadempimento del datore di lavoro, ma è espressa chiaramente in via equitativa, a prescindere da ogni collegamento temporale. Ne consegue che la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da una certo grado di approssimazione, è suscettibile di censura in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, solo se si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia illogica e contraddittoria (vedi Cass. n. 1529/2010, n. 23726/2008), ipotesi che non ricorrono nel caso di specie.
Il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale il S. si duole del mancato riconoscimento del danno esistenziale, è parimenti infondato. La Corte territoriale ha escluso tale voce di danno perchè dalla parte solo genericamente allegato e comunque non provato. La decisione della Corte è conforme al più recente orientamento del giudice di legittimità in tema di danno esistenziale (vedi S.U. n. 26972/2008), secondo cui il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti (diversi dal diritto alla salute) è risarcibile a tre condizioni:
a) che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale;
b) che la lesione sia grave, nel senso che la lesione superi una soglia minima di tollerabilità;
c) che il danno non sia futile, nel senso che non consista in meri disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita ed alla felicità.
La prova della ricorrenza dei suddetti requisiti grava sul preteso danneggiato.
Nella fattispecie in esame il giudice di merito, con valutazione non sindacabile in sede di legittimità, ha escluso che il funzionario abbia dato la prova della sussistenza del danno, la cui ricorrenza, secondo l'autorevole interpretazione delle Sezioni Unite, è legata alla presenza delle condizioni sopra specificate. Le censure che ora la parte rivolge alla sentenza impugnata non investono minimamente la sussistenza delle predette condizioni e sono di fatto inidonee ad infirmare la decisione del giudice di appello.
L'esame del terzo e del quarto motivo del ricorso incidentale, in quanto condizionati all'accoglimento del ricorso principale, restano di conseguenza assorbiti.
In conclusione, il ricorso principale deve essere respinto, così come devono essere respinti il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale, mentre il terzo ed il quarto motivo restano assorbiti.
La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE riunisce i ricorsi , rigetta il ricorso principale , rigett a i primi due motivi del ricorso incidentale, dichiara assorbiti il terzo ed il quarto motivo e compensa le spese del giudizio di cassazione.