Cassazione Penale, Sez. 4, 14 agosto 2003, n. 34464 - Infortunio ad addetta ai servizi domestici
Responsabilità per infortunio di una domestica precipitata da una scala.
L'art. 2, comma 1, lett. a), d.lg. 19 settembre 1994 n. 626, recante attuazione di talune direttive europee in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, nell'escludere gli addetti ai servizi domestici e familiari dal novero dei soggetti cui si applicano le disposizioni contenute in detto provvedimento, non implica che nei loro confronti non debbano continuare a trovare applicazione le norme antinfortunistiche previste da altre norme di legge, come è dato desumere dall'art. 98 del medesimo decreto, il quale stabilisce che "restano in vigore, in quanto non specificamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni ed igiene del lavoro".
Per questo motivo la Suprema Corte ha ritenuto che nella fattispecie non potesse escludersi, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito, l'applicabilità delle disposizioni in materia di scale portatili contenute negli art.18 e 19 del D.P.R. n. 547 del 1955.
La Corte Suprema di Cassazione
Sezione IV Penale
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Paolo FATTORI - Presidente
Dott. Renato OLIVIERI - Consigliere
Dott. Ernesto PERNA LA TORRE - Consigliere
Dott. Benito Romano DE GRAZIA - Consigliere
Dott. Francesco MARZANO - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
Sentenza
Sul ricorso proposto dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Milano
avverso la sentenza in data 17 maggio 2001 del Tribunale di Milano, in composizione monocratica, nei confronti di:
1) B.M., n. ***;
2) B.O.G., n. ***;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dott. Francesco Marzano;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Vincenzo Geraci, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
Non comparso il difensore degli imputati.
FattoDiritto
1. Il 17 maggio 2001 il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, dichiarava non doversi procedere per mancanza di querela nei confronti di M.B. e O.G.B. in ordine ad imputazione di cui agli artt. 113, 590 c.p., commi 1 e 3, n. 1, art. 583 c.p., comma 2, n. 1 e n. 1, in relazione agli artt. 18 e 19 del D.P.R. n. 547 del 1955.
Si contestava a tali imputati, "in qualità di destinatari della normativa prevenzionale", di aver cagionato ad A.L., loro collaboratrice domestica, lesioni personali gravissime, dalle quali era derivata una invalidità permanente del 65%, con asportazione parziale della teca cranica e una malattia guarita in più di quaranta giorni, per colpa generica e specifica, consistita quest'ultima nell'aver consentito, e comunque non impedito, l'utilizzo di una scala sprovvista di idonei ganci di trattenuta e di appoggi antisdrucciolevoli, non adeguatamente assicurata e non trattenuta al piede da altra persona.
Rilevava il giudice che "la normativa prevenzionale in linea teorica applicabile a qualunque rapporto di lavoro", non si applica, invece, "ai rapporti aventi ad oggetto la prestazione di servizi del tipo di quelli appena menzionati, destinati ad essere svolti tra le mura domestiche", ai sensi dell'art. 2 del D.Lgs. n. 626 del 1994.
2.0 Avverso tale sentenza ha proposto appello il P.M. "a quo", rilevando che le disposizioni di cui al precitato decreto legislativo non hanno abrogato, né espressamente né tacitamente, la precedente disciplina antinfortunistica, e che l'art. 98 del D.Lgs. n. 626 del 1994 espressamente dispone che "restano in vigore, in quanto non specificamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni ed igiene del lavoro".
2.1 La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 30 maggio 2002, rilevato che la decisione impugnata era stata resa non all'esito del dibattimento ma in via preliminare, prima ancora che fosse stato dichiarato aperto il dibattimento ma in via preliminare, prima ancora che fosse stato dichiarato aperto il dibattimento medesimo e senza l'audizione preventiva delle parti, e deve considerarsi, quindi, a tutti gli effetti come sentenza predibattimentale a norma dell'art. 469 c.p.p., avverso la quale, anche se deliberata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, l'unica impugnazione ammessa è il ricorso per cassazione, disponeva trasmettersi a questa Suprema Corte la impugnazione, "da intendersi come ricorso per cassazione".
2.2 Gli imputati hanno prodotto, per mezzo del difensore, memoria difensiva con la quale confutano la fondatezza del gravame, del quale chiedono il rigetto.
3.0 Premesso che il provvedimento della Corte di Appello di Milano, ancorché reso nella forma della sentenza, ha in effetti natura e sostanza di ordinanza, deve innanzitutto rilevarsi che la impugnata sentenza del Tribunale di Milano, come rileva il suindicato provvedimento della Corte territoriale, è stata resa sostanzialmente ai sensi dell'art. 469 c.p.p., senza la previa audizione delle parti, per come impone la norma medesima. Tanto ha comportato le nullità di ordine generale di cui all'art. 178 c.p.p., lett. b) e c), rilevabili anche di ufficio in questa sede e comportamenti già sotto tale profilo l'annullamento della sentenza stessa.
3.1 Peraltro, è fondato anche il motivo di ricorso del Procuratore della Repubblica di Milano.
Invero, il D.Lgs. n. 626 del 1994, nell'indicare le misure da adottare in attuazione delle richiamate direttive CEE circa il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, ha escluso [art. 2, lett. a) del D.Lgs. n. 626 del 1994] che per lavoratori debbano intendersi, ai fini di tale testo normativo, "gli addetti ai servizi domestici e familiari", ma non ha affatto inteso abrogare ogni altra norma riguardante la materia della sicurezza e della salute dei lavoratori. Reca, difatti, l'art. 98 del D.Lgs. n. 626 del 1994 che "restano in vigore, in quanto non specificamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni ed igiene del lavoro": la norma esclude, quindi, che possa farsi riferimento all'istituto della abrogazione cd. implicita (derivante cioè dalla successione nel tempo di due diverse discipline organiche della stessa materia), e contempla solo l'ipotesi di abrogazione espressa o tacita (così già Cass., Sez. III, n. 10558 del 1997, ric. D. ed altri).
Sotto un profilo d'ordine generale, poi, ha già avuto occasione questa Suprema Corte (nella sentenza testé citata) di rilevare che «in base all'art. 1, par. 3, della Direttiva quadro n. 89/391, attuata nel D.Lgs. n. 626 del 1994, non sono pregiudicate "le disposizioni nazionali e comunitarie, vigenti o future, che sono più favorevoli alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro"»; e deve aggiungersi che è da ritenersi che il riferimento ad una disciplina più favorevole non riguardi solo gli aspetti contenutistici della stessa (quanto agli specifici obblighi imposti), ma anche i riferimenti soggettivi ai lavoratori che quelle norme di prevenzione e salvaguardia mirano a tutelare; se così non fosse, se ne dovrebbe inferire che la nuova normativa avrebbe comportato un arretramento, non un "miglioramento" (come è detto nell'epigrafe del testo legislativo in questione) della disciplina in oggetto e che, per converso, alcune categorie di lavoratori sarebbero del tutto sprovvisti, nello svolgimento del loro lavoro, di misure di prevenzione e di salvaguardia, pur precedentemente disposte.
In verità, una volta escluso che il nuovo testo normativo abbia valenza abrogatrice di ogni altra disposizione normativa al riguardo, esso obbedisce alla esigenza che, nell'ambito del delineato campo di applicazione (art. 1, comma 1) e nei riguardi dei lavoratori e datori di lavoro come definiti dall'art. 2, si proceda ad un percorso adempitivo di organizzazione della sicurezza cui anche i singoli lavoratori sono chiamati a contribuire (ne danno contezza, in particolare, gli artt. 4 e 5); ma, se le caratteristiche del lavoro da svolgere (come quello dei servizi domestici e familiari) hanno ragionevolmente indotto il legislatore ad escludere tali lavori domestici e familiari dal novero di quelli per i quali sia necessario procedere a tali adempimenti secondo le specifiche prescrizioni indicate nel nuovo testo normativo, ciò non significa che altre condotte dovute, pregressamente individuate e disposte, ed incidenti nella materia in questione, siano state ritenute non più necessarie e quindi abrogate. Se ne deve, quindi, concludere che se le norme introdotte da tale decreto legislativo si applicano ai lavoratori come indicati dall'art. 2 (esclusi, quindi, gli addetti ai servizi domestici e familiari), tale individuazione soggettiva riguarda le specifiche norme portate da tale testo legislativo, non anche da altre fonti normative che non risultino abrogate dalla nuova disciplina, la quale, ove non comporti la specifica modifica di quelle precedenti, non è al riguardo esclusiva, ma con esse alternativa o concorrente, tanto trovando giustificazione nell'espresso contenuto precettivo e contenutistico delle norme introdotte dal nuovo testo normativo.
Il D.P.R. n. 547 del 1955 non è stato né espressamente, né tacitamente abrogato dal D.Lgs. n. 626 del 1994, che all'art. 33 indica solo gli adeguamenti di norme del primo testo normativo; esso si applica (art. 1) "a tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati o ad essi equiparati ", come definiti questi ultimi dall'art. 3, e tra le attività escluse da tale ambito di applicazione l'art. 2 non menziona i servizi domestici e familiari: gli artt. 18 e 19 di tale testo normativo (espressamente evocati nella relativa imputazione) dettano disposizioni, quanto alle scale, che devono, quindi ritenersi riferite a tutte le attività lavorative non escluse dall'art. 2, tra le quali anche quelle relative ai servizi domestici e familiari. Ed al riguardo (ed in riferimento ad una fattispecie di rapporto di portierato privato) ha già avuto modo questa Suprema Corte di rilevare che il presupposto dal quale il legislatore fa discendere l'applicazione delle norme protettive in questione è l'esistenza di una prestazione svolta in regime di subordinazione, secondo i canoni previsti dal codice civile, senza distinzione tra datori di lavoro imprenditori e non imprenditori (Cass., Sez. III, n. 6426 del 1998).
4. La impugnata sentenza va, dunque, annullata, con rinvio allo stesso Tribunale in composizione monocratica.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza 17 maggio 2001 del Tribunale di Milano emessa nei confronti di B.M. e B.O.G. e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale stesso in composizione monocratica.
Roma, 24 aprile 2003.
Depositato in cancelleria il 14 Agosto 2003.