Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 febbraio 2011, n. 4109 - Mobbing
Mo. Ci. conveniva in giudizio Te. It. s.p.a. per ottenere la dichiarazione della nullità delle dimissioni da lui rassegnate ed essere reintegrato nel posto di lavoro con mansioni equivalenti a quelle precedentemente ricoperte, oltre il risarcimento del danno patito per l'atteggiamento persecutorio tenuto dal datore di lavoro nei suoi confronti.
Rigettata la domanda in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Rigetto.
La Corte afferma che "il giudice di merito, a conclusione di un iter argomentativo congruamente articolato ha escluso l'esistenza del mobbing, in quanto costruita "su fatti che oggettivamente non sono classificabili come vessazione o accanimento aziendale nei confronti del lavoratore".
Trattasi di valutazioni di merito incensurabili in sede di legittimità."
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BATTIMIELLO Bruno - Presidente
Dott. LA TERZA Maura - Consigliere
Dott. TOFFOLI Saverio -Consigliere
Dott. MAMMONE Giovanni - rel. Consigliere
Dott. ZAPPIA Pietro - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24596-2009 proposto da: MO. CI. , domiciliato in Roma presso la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso dall'avv. Zeni Ferdinando, per procura in calce al ricorso; - ricorrente - contro TE. IT. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Luigi Faravelli n. 22, presso lo studio degli avv.ti Manesca Arturo, Morrico Enzo, Romei Roberto e Boccia Franco Raimondo, che la rappresentano e difendono per procura a margine del controricorso; - controricorrente - avverso la sentenza n. 7306/2008 della Corte d'appello di Napoli, depositata in data 26/1/2009;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30.11.2010 dal Consigliere dott. Giovanni Mammone;
udito l'avv. Boccia;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Fedeli Massimo.
FattoDiritto
Mo. Ci. conveniva in giudizio Te. It. s.p.a. per ottenere la dichiarazione della nullità delle dimissioni da lui rassegnate ed essere reintegrato nel posto di lavoro con mansioni equivalenti a quelle precedentemente ricoperte, oltre il risarcimento del danno patito per l'atteggiamento persecutorio tenuto dal datore di lavoro nei suoi confronti.
Rigettata la domanda e proposto appello dal Mo., la Corte d'appello di Napoli, con sentenza depositata il 26.1.09, rigettava l'impugnazione rilevando che l'azione di annullamento era prescritta per maturazione del termine quinquennale ex articolo 1442 c.c. (dimissioni del (OMESSO), ricorso notificato il 21.6.04).
In particolare la richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione non era di per sè idonea ad interrompere la decorrenza del termine, in quanto mancava la prova della spedizione e della ricezione della lettera di convocazione dinanzi all'UPLMO e doveva escludersi che il datore avesse avuto conoscenza della richiesta.
Quanto alla richiesta di risarcimento danni, escludeva che il lavoratore fosse stato vittima di vessazioni che avessero scatenato nello stesso il denunziato stato di sofferenza psichica.
Proponeva ricorso per cassazione il Mo. denunziando:
1) quanto alla prescrizione, "per violazione e falsa applicazione delle norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro", rilevando che il giudice di merito ha esaminato superficialmente la questione del valore interruttivo della richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, senza tener conto che il comportamento illecito tenuto da controparte, da cui sarebbe scaturito il danno alla salute del dipendente integrava la fattispecie criminosa dell'articolo 582 c.p. e che avrebbe dovuto, quindi, applicarsi all'azione civile la più lunga prescrizione prevista per tale reato;
2) quanto all'esclusione del trattamento persecutorio, per contraddittorietà della motivazione, in quanto il giudice, pur dando atto dell'esistenza di disturbi psichici del Mo. nascenti dalla sua "vita lavorativa" e degli eventi che sul piano cronologico avevano caratterizzato il rapporto di lavoro, ha incoerentemente concluso per l'inesistenza del mobbing, senza peraltro tenere conto delle conclusioni del consulente medico-legale di parte; 3) il giudice sarebbe, infine, incorso in un errore materiale, sostenendo che la denunzia penale che avrebbe scatenato la sofferenza psichica del Mo. era stata proposta da terzi e non da Te..
Risponde Te. It. con controricorso.
Il Consigliere relatore, ai sensi dell'articolo 380 bis c.p.c., depositava relazione che era comunicata al Procuratore generale ed era notificata ai difensori costituiti.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, nonostante le questioni di non poco rilievo sollevate, non solo manca un preciso quesito ex articolo 366 bis c.p.c., ma è sollevata una questione (individuazione del termine di prescrizione applicabile) che non risulta trattata nel merito e, soprattutto, è contestata in modo del tutto generico (e quindi infruttuosa) l'affermazione del giudice di merito che l'interruzione non avrebbe mai potuto scattare per mancata prova dell'avvenuta conoscenza di controparte dell'atto interruttivo.
Quanto al secondo motivo, il giudice di merito, a conclusione di un iter argomentativo congruamente articolato ha escluso l'esistenza del mobbing, in quanto costruita "su fatti che oggettivamente non sono classificabili come vessazione o accanimento aziendale nei confronti del lavoratore".
Trattasi di valutazioni di merito incensurabili in sede di legittimità.
Quanto al terzo motivo, deve escludersi il preteso errore di fatto in cui sarebbe incorso il giudice di appello, atteso che lo stesso testualmente afferma che nel (OMESSO) il "fatto-penale fu denunziato da terzi e fu oggetto di un doveroso esposto di Te. (allora SI. ) all'autorità giudiziaria" (pag. 8 della sentenza).
Il ricorso e, dunque, infondato e deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 30 (trenta) per esborsi ed in euro 3.000 (tremila) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.