SENATO DELLA REPUBBLICA

XIV LEGISLATURA

COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUGLI INFORTUNI SUL LAVORO, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLE COSIDDETTE «MORTI BIANCHE»


Istituita con deliberazione del Senato del 23 marzo 2005

RELAZIONE FINALE SULL’ATTIVITÀ DELLA COMMISSIONE

 

Approvata dalla Commissione nella seduta dell’8 marzo 2006

Relatore sen. Oreste TOFANI



I N D I C E
Relazione finale sull’attività della Commissione
(Articolo 6 della deliberazione istitutiva del 23 marzo 2005)
1. – Cenni sull’attività della Commissione
2. – I profili generali della sicurezza: i dati statistici; la
prevenzione; la riabilitazione; la vigilanza
3. – Gli esiti dell’attività dei gruppi di lavoro della Commissione e cenni su altri settori oggetto dell’indagine della Commissione
3.1 Il lavoro minorile e sommerso
3.2 Le malattie professionali
3.3 Il settore edile
3.4 Il settore agricolo
3.5 Gli infortuni domestici
3.6 I settori marittimo, portuale e della cantieristica navale
4. – Considerazioni conclusive
Allegati alla relazione finale
1. Elenco degli auditi nel corso delle sedute plenarie e dei sopralluoghi della Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche»
2. Elenco della documentazione acquisita dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche», nel corso della propria attività
3. Relazioni finali dei gruppi di lavoro della Commissione:
Gruppo «lavoro minorile e sommerso», Relazione finale
Gruppo «malattie professionali», Relazione finale (con annesso Elenco delle audizioni e delle acquisizioni documentali effettuate dal gruppo di lavoro «malattie professionali»)
Gruppo «settore edile», Relazione finale (con annessi: 1) Verbali delle riunioni e delle audizioni informali del gruppo di lavoro «settore edile»; 2) Deliberazione della Giunta della Regione Lombardia nº VIII/001526 del 22 dicembre 2005, di approvazione del «Piano regionale amianto Lombardia»; 3) Appunto del collaboratore della Commissione Marco Bertorello sul settore marittimo, portuale e della cantieristica)
Gruppo «settore agricolo», Relazione finale (con «Appendice» recante: tabelle statistiche; esemplificazione – a cura del gruppo di lavoro – di progetto formativo per imprese agricole con basso numero di addetti; alcuni dei documenti richiamati nel testo)
Gruppo «infortuni domestici», Relazione finale (con annesso Riepilogo dell’attività del gruppo di lavoro «infortuni domestici»)


Relazione finale sull’attività della Commissione


1. Cenni sull’attività della Commissione
Istituzione e composizione
La Commissione parlamentare monocamerale di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche», è stata istituita dal Senato in data 23 marzo 2005.
In passato, il Parlamento si era già occupato, per mezzo di apposite commissioni di inchiesta o indagini conoscitive, della sicurezza sul lavoro.
In particolare, nella X Legislatura, venne istituita una Commissione parlamentare monocamerale d’inchiesta del Senato «sulle condizioni di lavoro nelle aziende», presieduta dal senatore Lama, la quale operò tra il 1988 ed il 1989. Durante la XIII Legislatura, negli anni 1996-1997, la 11ª Commissione permanente del Senato (Lavoro e previdenza sociale) e la XI Commissione permanente della Camera (Lavoro pubblico e privato) svolsero congiuntamente un’indagine conoscitiva sulla sicurezza e l’igiene del lavoro. Nel corso della medesima Legislatura, dal 1999 al 2000, la 11ª Commissione del Senato condusse una nuova indagine conoscitiva, ai fini della «verifica della situazione a due anni» dalla precedente indagine.
I compiti della Commissione sugli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche», sono stati definiti dall’articolo 3 della delibera istitutiva1. Essi sono stati poi specificati nel programma generale dei lavori della Commissione 3.
In base a quest’ultimo, le funzioni di accertamento hanno riguardato:
1) la dimensione, anche mediante confronto con i dati relativi ad altri Paesi, del fenomeno degli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo al numero delle «morti bianche», alle malattie, alle invalidità e all’assistenza alle famiglie delle vittime, facendo in particolare riferimento ai livelli di occupazione, alle aree geografiche, al lavoro minorile ed ai settori di attività;
2) le cause principali degli infortuni e delle malattie, con particolare riguardo agli ambiti del lavoro nero o sommerso, del lavoro minorile e del doppio lavoro;
3) il livello di applicazione delle normative antinfortunistiche e l’efficacia delle medesime, tenendo in particolare considerazione i settori del lavoro flessibile o precario e del lavoro minorile;
4) i dati ed i profili, nell’ambito delle analisi sopra menzionate sul lavoro minorile, relativi ai soggetti provenienti dall’estero;
5) l’idoneità dei controlli da parte degli uffici addetti all’applicazione delle suddette discipline antinfortunistiche;
6) l’incidenza sui fenomeni in esame della presenza di imprese controllate direttamente o indirettamente dalla criminalità organizzata;
7) l’individuazione dei nuovi strumenti legislativi ed amministrativi da proporre in materia di prevenzione e di repressione degli infortuni sul lavoro.
L’articolo 2 della deliberazione istitutiva ha previsto che la Commissione fosse costituita da venti senatori – nominati dal Presidente del Senato in proporzione al numero dei componenti i Gruppi parlamentari – e da un presidente, scelto al di fuori dei predetti membri. Il Presidente del Senato ha nominato, il 20 maggio 2005, presidente della Commissione il senatore Oreste Tofani.
Si anticipa qui che, nel settembre 2005, in considerazione degli sviluppi dell’inchiesta, la Commissione ha istituito cinque gruppi di lavoro, i quali hanno affiancato la loro attività a quella del plenum della Commissione. Ogni gruppo si è occupato di uno dei seguenti settori: lavoro minorile e sommerso; malattie professionali; edilizia; agricoltura; infortuni domestici.
Ai fini dell’inchiesta, la Commissione ha inoltre stabilito rapporti di collaborazione con una serie di consulenti.
Il termine per i lavori della Commissione, originariamente fissato in sei mesi dall’insediamento – cui si aggiungeva un massimo di trenta giorni, ai fini della presentazione al Senato di una relazione sugli esiti delle indagini –, è stato successivamente prorogato fino alla conclusione della legislatura3.

La fase iniziale dei lavori della Commissione
Le prime tre sedute della Commissione (31 maggio, 21 giugno e 23 giugno 2005) sono state dedicate alla formazione degli organi interni, nonché all’esame ed all’approvazione di un regolamento interno. Parallelamente, l’Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi parlamentari, una volta costituito, ha elaborato il programma dei lavori della Commissione4.
Quest’ultimo – oltre a specificare, come già detto, gli indirizzi indicati dalla deliberazione istitutiva – ha stabilito alcune priorità e definito la metodologia dell’inchiesta. In particolare, il programma ha fatto riferimento a tre strumenti fondamentali: le audizioni (in merito, esso recava un elenco, a titolo indicativo, di soggetti pubblici e privati); i sopralluoghi, da parte di delegazioni della Commissione, ai fini di indagini o approfondimenti particolarmente significativi; le acquisizioni di dati e documenti, eventualmente anche mediante richiesta scritta.

Le audizioni ed i sopralluoghi
Le audizioni, svoltesi nel corso delle sedute plenarie nonché dei sopralluoghi, sono state intese ad abbracciare l’intero arco dei temi posti ad oggetto dell’inchiesta.
Le audizioni tenutesi in sede plenaria possono distinguersi in quelle (relative a soggetti istituzionali pubblici o alle parti sociali) di carattere generale e in quelle concernenti settori o problematiche specifici, benché, naturalmente, in questa seconda tipologia siano stati affrontati anche profili di interesse trasversale.
La serie delle audizioni plenarie è cominciata il 5 luglio 2005 e si è conclusa con la seduta del 24 gennaio 2006.
Nei sopralluoghi, in genere, le audizioni sono state precedute o seguite dalla visita di alcuni siti.
Ogni missione ha riguardato – oltre alle tematiche generali della sicurezza sul lavoro – alcuni settori o ambiti specifici. Questi ultimi sono stati costituiti: a Milano, dal settore edile e, in particolare, dalla costruzione del nuovo polo fieristico; a Taranto e a Brindisi, rispettivamente, dallo stabilimento siderurgico ILVA e dal comparto petrolchimico; a Genova, dall’area portuale e dai cantieri navali; nelle Province di Massa-Carrara e della Spezia, dai settori delle cave e della lavorazione del marmo; nella Provincia di Frosinone, dal settore metalmeccanico (con particolare riferimento allo stabilimento del gruppo FIAT di Piedimonte San Germano) e da quelli delle cave di marmo e della lavorazione del marmo; nella Provincia di Napoli, dal settore edile; nella Provincia di Caltanissetta, dal settore petrolchimico.
Si rinvia, per un quadro più completo, all’allegato relativo all’elenco dei soggetti auditi (in sede plenaria ed in missione).

L’istituzione di gruppi di lavoro
Come accennato, nella seduta del 27 settembre 2005 la Commissione ha deliberato la costituzione di un gruppo di lavoro per ognuno dei seguenti ambiti: lavoro minorile e sommerso; malattie professionali; edilizia; agricoltura; infortuni domestici.
Il gruppo di lavoro sul lavoro minorile e sommerso è stato composto dal senatore Curto (coordinatore) e dai senatori Montagnino, Ripamonti e Sambin; quello sulle malattie professionali dal senatore Vanzo (coordinatore) e dai senatori Battafarano, Florino, Malabarba e Morra; il gruppo relativo al settore edile dal senatore Pizzinato (coordinatore) e dai senatori De Rigo e Florino; quello sul settore agricolo dal senatore Fabbri (coordinatore) e dai senatori Curto e Ripamonti; il gruppo sugli infortuni domestici dalla senatrice Stanisci (coordinatrice) e dai senatori Florino e Scotti.
All’attività di ciascun gruppo hanno inoltre partecipato – secondo la possibilità prevista dal regolamento interno – alcuni collaboratori della Commissione.
Ogni gruppo di lavoro ha presentato alla Commissione una relazione finale, concernente gli esiti delle proprie indagini. Una sintesi di tali apporti è operata in una successiva parte della presente relazione.

Le acquisizioni di documenti
Le tematiche trattate dai documenti acquisiti riflettono, in genere, quelle delle audizioni svolte dalla Commissione plenaria, dalle delegazioni di missione e dai gruppi di lavoro. Molti di questi contributi sono stati illustrati, in sede di audizione, dai soggetti estensori.
Un elenco completo delle acquisizioni effettuate dalla Commissione (ivi comprese quelle operate dai gruppi di lavoro) viene allegato alla presente relazione.

2. I profili generali della sicurezza: i dati statistici; la prevenzione; la riabilitazione; la vigilanza
L’esame dei dati statistici in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali indica come il problema della sicurezza sul lavoro sia ancora di estrema gravità. Le variazioni delle cifre (che pure attestano, negli ultimi anni, una tendenza al decremento degli infortuni) sono infatti poco rilevanti rispetto all’entità complessiva del fenomeno e alla molteplicità delle questioni che sorgono nella concreta attuazione della normativa.
Basti ricordare, al riguardo, facendo riferimento all’ultimo anno che presenta dati tecnicamente attendibili, che gli infortuni denunciati all’INAIL nel 2004 ammontano a 966.568, di cui 1.278 mortali, mentre il numero delle malattie professionali manifestatesi nel medesimo anno (sempre con riferimento al regime INAIL) risulta pari a 25.364.
Occorre in ogni caso rilevare una carenza negli attuali metodi di rilevamento dei dati, in quanto tali metodi fanno prevalentemente riferimento al solo ambito dell’attività assicurativa dell’INAIL e dell’IPSEMA – con esclusione, quindi, sia dei lavoratori non assicurati sia di quelli irregolari –.
Per le malattie professionali, peraltro, le carenze sono ancora più gravi, in quanto la denuncia delle malattie medesime è presentata, in molti casi, presso soggetti diversi dall’INAIL e dall’IPSEMA (quali le aziende sanitarie locali, le direzioni provinciali del lavoro e le autorità giudiziarie) e non esiste un coordinamento nella raccolta e nell’elaborazione dei dati, nonostante che la legislazione prevedrebbe già dal 2000 l’istituzione presso l’INAIL di un «registro nazionale delle malattie causate dal lavoro ovvero ad esso correlate» (articolo 10, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38).
Riguardo al sistema dei dati INAIL, sussistono altresì esigenze più specifiche, che sono state rilevate, tra l’altro, dal Consiglio di Indirizzo e Vigilanza del medesimo Istituto. Tali esigenze concernono, in particolare, il conseguimento, tramite le opportune soluzioni organizzative, della completezza nella rilevazione dei dati disponibili nell’ambito delle strutture dell’Istituto, l’integrazione dei medesimi con il corredo di riferimenti tecnici che ne agevolino la trasparenza e la comprensione, l’adozione di procedure di verifica e la definizione di livelli di responsabilità nella gestione dei dati e nella relativa certificazione.
Pur con queste premesse sui limiti degli elementi disponibili, si possono nondimeno tracciare alcune considerazioni in base ad una ricognizione e ad un’analisi dei medesimi (rinviando, per le malattie professionali, alla parte della relazione concernente le risultanze del gruppo di lavoro della Commissione istituito per tale tema).
In primo luogo, i dati relativi agli infortuni nei primi giorni e, più in generale, nel periodo iniziale dell’attività lavorativa (ivi compresi i dati concernenti i lavoratori interinali o quelli oggetto di somministrazione) attestano, da un lato, una rilevante incidenza della mancanza di un’informazione e formazione adeguata (sia diretta – da parte, cioè, del datore di lavoro – sia da parte dei colleghi), dall’altro, l’esistenza di una diffusa prassi, in base alla quale il lavoratore irregolare viene denunciato dal datore qualora si verifichi un infortunio.
Tali elementi emergono con nettezza anche dalle analisi svolte dal gruppo di lavoro nazionale INAIL-ISPESL-Regioni relativo agli infortuni mortali e gravi – analisi che concernono, con riferimento al triennio 2002- 2004, anche l’ambito dei lavoratori regolari non assicurati ed una parte dei lavoratori irregolari –.
Da esse emerge che circa il 6,0% degli infortuni mortali è avvenuto il primo giorno di lavoro (tale dato è pari all’11,4% nel settore edile), il 10,1% nella prima settimana ed il 36,4% nel primo anno.
Tra gli altri ambiti di carattere generale che palesano una particolare incidenza di infortuni si ricordano qui le piccole imprese ed i lavoratori immigrati (rinviando per altri dati disaggregati, relativi ad alcuni settori e categorie di lavoratori, alla parte della relazione concernente gli esiti dei gruppi di lavoro della Commissione).
Le più recenti ed approfondite analisi statistiche sulle microimprese (cioè, di quelle aventi fino a 9 addetti) sottolineano che queste ultime, da un lato, non sembrano presentare, complessivamente, un rischio infortunistico significativamente diverso da quello della totalità delle aziende, ma che, d’altro lato, esse recano indici sensibilmente superiori per quanto riguarda gli eventi gravi o mortali. Per esempio, nel 2003 (l’ultimo anno che possa essere preso in considerazione, in quanto tecnicamente «stabilizzato»), gli infortuni che hanno dato luogo ad invalidità permanente o, rispettivamente, alla morte sono pari, per le microimprese (del comparto «industria e servizi»), a 4,9 e 0,25 punti percentuali (rispetto al totale degli eventi denunciati). Tali indici sono invece pari a 3,5 e 0,16 per il complesso delle imprese (sempre rientranti nel comparto «industria e servizi»).
I medesimi valori per il settore artigiano (composto, com’è noto, da microimprese e da piccole imprese) sono pari a 7,2 e 0,24 punti e, quindi, risultano anch’essi largamente superiori a quelli generali summenzionati.
Occorre aggiungere che l’assenza (sopra menzionata) di differenze significative nella frequenza infortunistica complessiva potrebbe forse dipendere da una tendenza più elevata, nelle microimprese, a non denunciare gli infortuni minori.
Una delle ragioni principali che viene addotta, come causa dei dati infortunistici negativi relativi alle piccole imprese, è costituita dalla concentrazione delle relative attività in settori ad alto rischio. Ma, senza dubbio, esiste una tendenza delle grandi imprese ad «esportare», attraverso diversi meccanismi, i rischi più consistenti nel campo delle piccole imprese appaltatrici e fornitrici.
L’attività conoscitiva della Commissione si è spesso soffermata su queste ultime e, in particolare, su quelle che operano all’interno delle strutture del committente: questa fattispecie sembra presentare specifiche esigenze di intervento, sotto il profilo della sicurezza, come meglio si dirà successivamente.
Riguardo ai lavoratori immigrati, negli ultimi anni, il tasso di infortuni denunciati all’INAIL (sul totale relativo a tutti i lavoratori) ha superato, in base ad un preoccupante e netto andamento di crescita, il valore del 13%. All’interno di tale percentuale, una quota assolutamente preponderante – superiore al 90% – concerne i lavoratori extracomunitari (non considerando naturalmente tra questi ultimi quelli provenienti da Paesi che fanno attualmente parte, in seguito all’ultimo allargamento, dell’Unione europea).
Diverse appaiono le cause della gravità dei dati suddetti: la pericolosità delle attività svolte (la distribuzione dei lavoratori extracomunitari per settore di attività è concentrata prevalentemente nell’edilizia e nell’industria dei metalli); l’inesperienza (dovuta spesso anche alla giovane età) e la mancanza di un’adeguata informazione e formazione professionale; gli orari di lavoro, sovente eccessivi e debilitanti; le barriere linguistiche, che rappresentano un fattore di rischio – basti pensare, come esempio eclatante, alla mancata comprensione della segnaletica sul luogo di lavoro – nonché di ostacolo all’informazione e formazione.
Peraltro, un’assenza estremamente grave delle tutele di base riguarda i lavoratori extracomunitari assoggettati a forme nuove di «caporalato» (rilevate dalla Commissione in particolare nella missione a Milano sul settore edile) – in cui essi fanno capo agli intermediari non solo per il reperimento del lavoro, ma anche, senza alcuna garanzia giuridica, per alcune
controprestazioni fondamentali, come il pagamento della retribuzione –.
Naturalmente, tali elementi specifici non devono indurre a sottovalutare o trascurare la gravità del fenomeno del «caporalato» nelle sue forme tradizionali e nel suo complesso, fenomeno che interessa in modo particolare il settore agricolo in alcune regioni meridionali, come la Campania.
Una disaggregazione su scala regionale degli infortuni sul lavoro negli ultimi anni presenta un quadro variegato, non riconducibile alle classiche suddivisioni territoriali del Paese (Nord, Centro, Sud ed Isole). L’entità dei tassi di frequenza infortunistica sembra dipendere prevalentemente dall’incidenza, all’interno delle singole regioni, di determinati settori economici a rischio e delle piccole imprese, nonché dal numero di lavoratori extracomunitari ivi presenti. In ogni caso, sembra permanere l’esigenza di una rilettura dei dati alla luce di tassi territoriali di lavoro irregolare e non denunciato neanche in seguito all’infortunio – come induce a ritenere anche la presenza di tre grandi regioni meridionali, la Campania, la Calabria e la Sicilia, tra quelle con frequenza infortunistica più bassa –.
Queste riflessioni, pur brevi, sui dati statistici sono purtroppo di per sé sufficienti a indicare come il tema della sicurezza sul lavoro resti uno dei più rilevanti e drammatici nella scena economica e sociale del Paese.
Senza dubbio, occorre ancora operare su entrambi i versanti generali del problema – che sono in fondo strettamente connessi –: la prevenzione e la vigilanza.
Al riguardo, sotto il profilo ordinamentale, la riforma della disciplina di settore, di cui al decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, nonché la revisione della normativa sull’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, hanno introdotto diversi istituti e norme significativi. In via generale, le principali novità introdotte dal decreto legislativo n. 626 in materia di sicurezza non sono tanto di tipo tecnico, quanto piuttosto di ordine metodologico ed organizzativo, essendo la riforma intesa alla prevenzione continua ed alla cooperazione nella gestione della sicurezza, all’interno dell’azienda, tra il datore, i lavoratori e le altre figure competenti o interessate.
Tuttavia, non si può negare che finora è prevalsa un’applicazione della nuova normativa di tipo «formalistico», rispetto alla ratio suddetta ed alla creazione di una reale cultura della prevenzione nelle singole aziende.
Fatta questa premessa, tra gli istituti e le norme introdotti dai decreti summenzionati si possono qui ricordare:
– la previsione del coordinamento, a livello regionale, dei soggetti operanti nella prevenzione e nella vigilanza;
– la disciplina del servizio di prevenzione e protezione, del responsabile e degli addetti del medesimo servizio, dei medici competenti, dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori;
– il riconoscimento degli organismi paritetici, ai fini dello svolgimento di funzioni di orientamento e di promozione di iniziative formative nei confronti dei lavoratori nonché come sede di «prima istanza di riferimento» in merito a controversie sorte sull’applicazione dei diritti di rappresentanza, informazione e formazione;
– la disciplina sugli obblighi di cooperazione e coordinamento (in materia di sicurezza) a carico del datore, in caso di affidamento dei lavori, all’interno dell’azienda, mediante contratto di appalto o di opera;
– le misure premiali (in relazione alle iniziative assunte per migliorare il livello di sicurezza);
– il finanziamento di programmi di adeguamento alla normativa da parte di imprese piccole e medie e di quelle appartenenti ai settori agricolo e artigianale, nonché di progetti per favorire l’informazione e la formazione (sempre in materia di sicurezza) da parte dei lavoratori.
In merito alla disciplina di tali profili o all’attuazione della medesima, emergono, tuttavia, alcuni punti critici.
La Commissione ha riscontrato che il coordinamento tra i vari soggetti competenti in materia di sicurezza non è sempre operante o pienamente operante. Da indagini, sia pure a campione, nelle diverse realtà territoriali, emerge in merito un quadro a macchia di leopardo. In alcuni casi, peraltro, un vero coordinamento risulta attivato solo in determinati settori o circostanze – per esempio, in situazioni di emergenza –, anziché in maniera strutturale.
Come accennato, la disciplina di cui al decreto legislativo n. 626 ha previsto l’istituzione di comitati regionali di coordinamento, presieduti dal presidente della giunta regionale o suo delegato e composti, tra l’altro, da rappresentanti degli assessorati regionali competenti, delle aziende sanitarie locali, delle direzioni regionali del lavoro, degli ispettorati regionali dei Vigili del fuoco, degli uffici periferici dell’ISPESL e dell’INAIL, dell’ANCI e dell’UPI (fermo restando il ricorso – da parte dei comitati – a forme di consultazione delle parti sociali).
Dall’attività conoscitiva della Commissione sembra sussistere, tuttavia, in primo luogo, l’esigenza di una struttura di coordinamento tra i vari assessorati regionali interessati al settore della sicurezza (cioè, degli assessorati competenti in materia di lavoro pubblico e privato, salute, politiche sociali, formazione professionale). Questa struttura – la quale naturalmente si avvarrebbe anche del contributo tecnico del comitato summenzionato e che necessiterebbe, in ogni caso, della dotazione in forma stabile di personale specialistico – dovrebbe costituire una sede di coordinamento tecnico anche degli altri soggetti competenti per la prevenzione e la vigilanza: aziende sanitarie locali, ispettorato del lavoro, INAIL, ISPESL, Comando Carabinieri Ispettorato Del Lavoro, Corpo Nazionale dei Vigili del fuoco, Guardia di Finanza.
Tali attività di coordinamento richiederebbero, a loro volta, un momento di indirizzo e propulsione su scala nazionale, mediante un omologo organismo promosso dai Dicasteri competenti in materia di lavoro, funzione pubblica, salute, politiche sociali, formazione professionale. Nella definizione di quest’ultima struttura, si dovrebbe tener conto del ruolo fondamentale del Ministero della salute (in quanto a tale Dicastero fa capo il Servizio sanitario nazionale e, quindi, il sistema delle aziende sanitarie locali).
Naturalmente, il coordinamento non può limitarsi al livello nazionale e regionale, ma è necessaria una sua articolazione nel territorio – articolazione che deve far principalmente riferimento ai servizi di prevenzione delle ASL –.
La Commissione ha riscontrato casi positivi – ma non universalmente diffusi – di comitati di coordinamento istituiti presso le prefetture su specifici progetti o settori oppure su emergenze circoscritte.
Al riguardo, si rileva altresì che una particolare esigenza espressa da alcuni soggetti auditi concerne il coinvolgimento dei vigili urbani – quali soggetti che conoscono in maniera specifica e capillare la realtà locale – nelle attività di individuazione dei cantieri avviati e di segnalazione ai servizi di prevenzione delle ASL ed all’ispettorato del lavoro provinciale.
Come emerso anche dall’indagine della Commissione, l’attivazione piena del coordinamento, nei vari livelli territoriali, consentirebbe un uso più razionale ed efficiente delle risorse umane disponibili presso le amministrazioni pubbliche interessate ed un parziale superamento dei limiti dovuti alle carenze strumentali e di organico – carenze che, beninteso, in molti casi restano gravi –.
Inoltre, nelle attività di coordinamento in senso lato rientra anche la promozione della concertazione con le parti sociali, a livello sia nazionale che territoriale, concertazione che costituisce un elemento essenziale per la formazione e la crescita di una comune cultura della sicurezza.
Ai profili critici del coordinamento qui tratteggiati è sottesa una problematica ancora più ampia, concernente l’attuale assetto delle competenze in materia di sicurezza – in primo luogo, di quelle relative alla prevenzione – e la loro possibile revisione.
Poiché, com’è noto, la riforma sanitaria del 1978 attribuisce in via principale al Servizio sanitario nazionale le funzioni suddette, nell’attuale dibattito si pone il problema dell’eventuale coinvolgimento – e in quali termini – di altre amministrazioni pubbliche nell’attuazione di tali compiti.
La riflessione concerne, in particolare, il ruolo dell’INAIL, anche in considerazione delle notevoli risorse organizzative e finanziarie dell’Istituto.
Quest’ultimo, nell’ordinamento vigente, può esercitare funzioni di prevenzione solo attraverso meccanismi complessi di convenzione con le regioni – fatta eccezione per alcune competenze specifiche, come la gestione delle misure premiali e degli interventi finanziari in favore delle imprese (su cui ci si soffermerà tra poco) –.
Analoghi limiti presenta l’attività dell’Istituto anche con riferimento al campo della riabilitazione. Al riguardo, il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INAIL ha indicato, in particolare, il caso della convenzione stipulata tra l’Istituto e la regione Sicilia, in base alla quale è stata affidata al primo la «presa in carico» del lavoratore infortunato sino al completamento della riabilitazione (mentre, in via diretta, l’INAIL è competente solo per le prime cure, essendo poi la fase successiva di pertinenza del Servizio sanitario nazionale). Nella regione si è registrata, rispetto al periodo precedente la convezione, una riduzione del periodo di comporto da 34 a 25 giorni.
Tale dato induce a riflettere sulle attuali possibilità di innalzare il livello qualitativo e quantitativo della prevenzione e della riabilitazione – anche a prescindere da un incremento significativo (che pure in molti casi è necessario) delle risorse umane ed organizzative delle amministrazioni pubbliche –.
Altri elementi di riflessione in merito sono forniti dalle disponibilità finanziarie dell’INAIL. Esso presenta un avanzo di amministrazione annuo pari a circa 1,5-2 miliardi di euro, mentre le risorse complessive dell’Istituto vincolate presso il Ministero dell’economia e delle finanze risultano attualmente pari a circa 9 miliardi di euro.
Anche sull’impiego di tali disponibilità – che presupporrebbe, naturalmente, anche la revisione della disciplina sui vincoli di Tesoreria a carico dell’Istituto – è in corso un intenso dibattito. L’auspicio della Commissione è che le risorse vengano utilizzate in modo selettivo, al fine, cioè, di attuare politiche di prevenzione in materia di sicurezza, nonché di ampliare la tutela assicurativa, con particolare riferimento, a quest’ultimo riguardo, all’ambito delle malattie professionali (si rinvia altresì, in merito, alla parte della relazione concernente gli esiti dell’apposito gruppo di lavoro istituito dalla Commissione).
Per le politiche di prevenzione, basti pensare alle misure già attualmente di competenza (almeno in via principale) dell’INAIL, quali la differenziazione delle tariffe premi secondo un criterio di bonus-malus (cioè, in relazione all’andamento degli infortuni e delle malattie professionali nell’impresa) ed il finanziamento summenzionato dei programmi di adeguamento alla normativa sulla sicurezza da parte di imprese piccole e medie e di quelle appartenenti ai settori agricolo e artigianale, nonché dei progetti per favorire l’informazione e la formazione (sempre in materia) da parte dei lavoratori.
In merito alla prima tipologia suddetta, si rileva che essa costituisce anche uno strumento per la riduzione del costo del lavoro – riduzione che rappresenta un obiettivo da perseguire, ovviamente senza alcuna rinuncia alle esigenze di attuare efficaci politiche di prevenzione in materia di sicurezza e di ampliare la tutela assicurativa –.
Riguardo alla seconda tipologia, si deve sottolineare che la riforma di cui al decreto legislativo n. 626 ha posto i più rilevanti problemi di adeguamento per le piccole e medie imprese e per i settori agricolo e artigianale.
Le difficoltà incontrate da tali soggetti appaiono di ordine sia economico che organizzativo. Per esempio, l’adempimento ad alcuni obblighi (come quello della valutazione dei rischi) richiede il ricorso a capacità professionali e tecniche non facilmente reperibili e aventi, talora, un costo elevato rispetto alla qualità del servizio.
È, dunque, con riferimento particolare a quest’ambito di imprese che occorrerebbe rifinanziare e sviluppare le misure premiali e di sostegno e quelle di prevenzione, procedendo anche ad un attento esame degli esiti sin qui sortiti degli interventi finanziari.
In merito, il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INAIL ha prospettato – oltre alle suddette esigenze di monitoraggio sull’attuazione e di rifinanziamento – alcune modifiche procedurali, al fine di conseguire la valutazione preventiva delle esigenze legate al territorio, il coinvolgimento sia degli organi territoriali del medesimo Istituto sia degli organismi paritetici sopra menzionati, la semplificazione e la revisione razionale delle modalità di accesso ai benefici finanziari.
Riguardo, più in generale, alle risorse umane, organizzative e finanziarie degli organi di prevenzione e di vigilanza in materia di sicurezza, è noto come essi presentino spesso gravi carenze strutturali, benché in parte superabili, come detto, tramite il coordinamento e le forme di sinergia.
Occorre, quindi, che il potenziamento dei medesimi organi si sviluppi di pari passo con la riqualificazione dell’attività. L’esercizio delle funzioni di vigilanza, inoltre, deve sempre più improntato alla prevenzione, in conformità con l’istituto fondamentale della prescrizione – in base ad esso, si ricorda, il personale di vigilanza deve impartire al trasgressore un’apposita prescrizione, contenente un termine per l’adempimento, il cui rispetto determina l’ammissione al pagamento, in sede amministrativa, di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita – nonché, ovviamente, l’esclusione della pena detentiva eventualmente prevista in via alternativa all’ammenda –).
In merito alle risorse finanziarie delle aziende sanitarie locali, la Commissione ha riscontrato come non vi sia un riferimento preciso nella relativa programmazione e, in particolare, nella definizione dell’entità della dotazione da riservare alla prevenzione nel settore della sicurezza.
Si ricorda che, sia nell’attuale quadro sia in passato, diverse disposizioni programmatiche, contenute in provvedimenti legislativi, nei piani sanitari nazionali o nelle intese tra lo Stato, le Regioni e Province autonome, hanno previsto la destinazione di determinate quote di spesa sanitaria al settore della prevenzione. Sussiste, tuttavia, l’esigenza che venga definito, in termini tassativi, un limite minimo di risorse da attribuire specificamente alla prevenzione in materia di sicurezza sul lavoro; tale limite potrebbe essere individuato, per ciascun’azienda sanitaria locale, in rapporto al totale della spesa sanitaria corrente della medesima azienda – ferma restando, in ogni caso, la destinazione di livelli quantitativi adeguati –. Questo principio dovrebbe essere sorretto da disposizioni di garanzia circa il suo rispetto; a tal fine, si può far riferimento ad alcune misure normative già adottate dalla legislazione statale proprio per assicurare l’effettività di determinati adempimenti in materia sanitaria da parte delle regioni e delle aziende sanitarie.
Tra le problematiche della prevenzione una di particolare rilevanza concerne l’informazione e la formazione. Anche in questo campo, come in altri, l’applicazione del decreto legislativo n. 626 appare spesso di tipo «formalistico» e non sufficiente ad assicurare una reale integrazione tra l’attività dell’impresa, il processo lavorativo e la prevenzione della sicurezza.
Già si è fatto cenno ad alcuni dati statistici che mettono in luce i rischi derivanti dalla mancanza di un’adeguata informazione e formazione dei lavoratori. Si deve qui aggiungere che, come emerso dall’audizione degli istituti pubblici competenti in materia di sicurezza, la quota percentuale di infortuni (sul totale degli eventi) derivanti da un basso livello di formazione tende in alcuni settori addirittura a crescere.
Infatti, il recepimento delle norme tecniche comunitarie hanno determinato un miglioramento della sicurezza degli impianti, delle macchine e delle attrezzature – benché, in alcuni casi, essi siano vetusti e sussista un’esigenza di rinnovo, in ipotesi anche con meccanismi pubblici intesi alla «rottamazione» –. Il campo della formazione, invece, spesso non presenta simili progressi.
In primo luogo, dall’attività conoscitiva della Commissione risulta confermato che gli obblighi in materia di formazione previsti dal decreto legislativo n. 626 sono spesso ancora disattesi.
Appare peraltro difficile operare una ricognizione approfondita del livello attuale della formazione erogata ed acquisita. Gli obblighi dei corsi – relativi ai lavoratori, ma anche ad altre figure, come i responsabili e gli addetti ai servizi di prevenzione e protezione e i rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori – hanno determinato (benché, come detto, essi non siano ancora applicati in via realmente generale) un’ampia e variegata offerta di formazione. La maggior parte delle iniziative e delle attività ha una dimensione esclusivamente locale o aziendale e non è sottoposta a sistemi adeguati di censimento e di valutazione.
Occorre sottolinerare, tuttavia, che l’ISPESL ha predisposto alcuni strumenti di valenza generale, che dovrebbero costituire un riferimento per i formatori e per le aziende, quali: la definizione di pacchetti didattici (relativi, in particolare, ai responsabili e agli addetti dei servizi di prevenzione e protezione, ai rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori ed ai medici competenti); l’allestimento di alcuni archivi, consultabili gratuitamente sul sito dell’Istituto. Tra questi ultimi, si segnala la banca dati riguardante i «profili di rischio di comparto», la quale raccoglie le informazioni sui pericoli in ogni singola fase del ciclo produttivo (direttamente osservato in un insieme di imprese che rappresentano il comparto sul territorio); in particolare, l’archivio concerne l’ambito, articolato in più di 100 comparti, delle piccole e medie imprese, dell’artigianato e dei pubblici servizi. Un’altra banca dati di grande rilievo riguarda le soluzioni e le buone pratiche rispetto alle esposizioni lavorative.
Nell’ambito della cooperazione per la sicurezza, occorre poi senz’altro promuovere e sostenere la formazione svolta a cura degli organismi paritetici e definita in forma congiunta (cioè, concordata tra l’impresa e le organizzazioni sindacali).
Dalle considerazioni sin qui svolte in materia di formazione, si possono trarre almeno due conclusioni.
La prima è relativa all’esigenza di un elevamento del livello quantitativo e qualitativo della formazione in materia di sicurezza. I relativi moduli di base dovrebbero essere inseriti in via obbligatoria in ogni percorso di formazione professionale. Ancor prima, la cultura della sicurezza sul lavoro ha bisogno di trovare spazio nei programmi scolastici ed universitari, nell’ambito della sempre più stretta interrelazione tra istruzione e lavoro.
Quest’ultimo inserimento dovrebbe naturalmente essere operato in termini differenziati: in particolare, con la trattazione di alcuni elementi di base nell’istruzione obbligatoria ed un approfondimento successivo, soprattutto nei percorsi scolastici in cui gli allievi siano esposti a rischi (in specie per la frequentazione di laboratori). Inoltre, occorre valutare in quali termini estendere gli obblighi di formazione ad alcune categorie di lavoratori autonomi, in particolare agli artigiani.
La seconda osservazione concerne la necessità di una certificazione della formazione acquisita in materia di sicurezza. Diversi soggetti auditi (ivi compresi organismi preposti eminentemente alla vigilanza, come il Comando Carabinieri Ispettorato Del Lavoro) hanno rilevato che quest’esigenza potrebbe essere pienamente soddisfatta con l’introduzione di un’apposita sezione nell’ambito del "libretto formativo del cittadino" (di recente istituito ai sensi del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276). Tale documento consentirebbe una verifica dell’intera formazione in materia di sicurezza acquisita dal lavoratore (nonché, distintamente, dai rappresentanti per la sicurezza), costituendo uno strumento di conoscenza importante sia per il datore (e più in generale per l’azienda) sia per gli organi di prevenzione e di vigilanza.
C’è poi un particolare tipo di formazione non diretta, costituita dal complesso di insegnamenti ed esempi che possono essere forniti e mutuati dai colleghi. Si deve sottolineare come, nell’attuale mercato del lavoro, dove sono molto frequenti i cambi di mansioni e di aziende, si sia in parte perso quello spirito di coesione e di solidarietà tra i lavoratori, che costituiva il contesto ideale per tale processo di osmosi. È necessario, invece, il pieno recupero e sviluppo di questa concezione, che rappresenta una parte viva e importante della cultura della sicurezza.
Un altro profilo particolarmente delicato della prevenzione concerne i lavoratori che abbiano già subito un infortunio o una malattia ovvero siano stati esposti a fattori che potrebbero determinare il successivo insorgere di una malattia.
Alcuni soggetti auditi hanno rilevato che, anche per i casi in cui trovi applicazione il regime di sorveglianza sanitaria, la disciplina non prevede lo svolgimento di un’apposita visita medica prima che il soggetto riprenda l’attività dopo un’assenza (benché lunga) per infortunio o malattia. Si è prospettato di colmare tale lacuna, quantomeno per le ipotesi in cui, come detto, si applichi il regime di sorveglianza sanitaria, richiedendo l’anticipazione della visita medica periodica o lo svolgimento di una nuova visita preventiva, al fine di verificare la permanenza della compatibilità dello stato di salute con la mansione.
Nel corso delle indagini della Commissione, è emersa altresì l’esigenza che la documentazione sanitaria del lavoratore indichi, oltre ai problemi relativi alle condizioni di salute del soggetto, anche i fattori di rischio a cui egli sia o sia stato esposto – con particolare riferimento a quelle che potrebbero dar luogo ad una malattia –. Anche in tale campo, dunque, come in quello sopra esaminato della formazione, è necessario uno strumento che garantisca la conoscenza della «storia» del lavoratore, al fine di tutelare pienamente la salute e sicurezza del medesimo nell’ambito delle sue presenti e future attività. Questa esigenza – che si presenta oggi in modo molto profondo, anche in relazione al periodo lungo o illimitato di monitoraggio richiesto da talune esposizioni e all’elevata frequenza di cambiamenti di mansioni nell’attuale mercato del lavoro – dovrebbe essere soddisfatta con l’istituzione di un apposito libretto sanitario, la quale assicuri in ogni caso la tutela del diritto alla riservatezza.
Tale strumento consentirebbe anche un elevamento del livello dei dati a disposizione della comunità scientifica, in particolare permettendo un ampliamento dei flussi informativi degli attuali sistemi di «registrazione», relativi ai tumori ed ai casi di asbestosi e di mesotelioma asbesto- correlati. Peraltro, si osserva che il libretto dovrebbe costituire la premessa anche per l’estensione di tali sistemi ad altre malattie. Occorre poi assicurare che questi ultimi siano pienamente operanti – in primo luogo, disponendo in termini vincolanti che le strutture sanitarie inviino i relativi dati –, poiché oggi essi presentano un’applicazione molto parziale e tendenzialmente limitata ad alcune regioni.
Venendo più in particolare al secondo tema normativo sopra accennato, relativo ai professionisti e tecnici addetti alla sicurezza, si rileva che proprio di recente (con accordo sancito il 26 gennaio 2006 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome) sono stati definiti gli indirizzi ed i requisiti dei corsi di formazione per i responsabili e per gli addetti ai servizi di prevenzione e protezione ed individuati altri soggetti formatori competenti in merito – in aggiunta a quelli ammessi direttamente dalla disciplina di rango legislativo – . Appare opportuno che si proceda altresì all’istituzione, presso le regioni, dell’elenco dei responsabili accreditati (dei summenzionati servizi).
Riguardo alla figura del medico competente, una controversa novella al decreto legislativo n. 626 (operata in sede di conversione del decreto legge 12 novembre 2001, n. 402) ha esteso l’ambito dei soggetti legittimati.
Essa ha infatti ammesso, come titolo, anche le specializzazioni in igiene e medicina preventiva o in medicina legale e delle assicurazioni (mentre in precedenza si faceva riferimento solo alle specializzazioni attinenti alla medicina del lavoro o industriale, oltre ai soggetti autorizzati ai sensi della norma transitoria del 1991).
Sussiste l’esigenza di una rimeditazione di tale ampliamento, ferma restando, in caso di adozione di interventi normativi restrittivi, la definizione di disposizioni transitorie in favore dei soggetti ora ammessi, che consentano loro la prosecuzione dell’attività, se svolta già da un certo lasso di tempo, subordinandola, in ipotesi, allo svolgimento di una formazione integrativa. Naturalmente, la revisione dei titoli di legittimazione dovrebbe essere accompagnata, a regime, anche da un elevamento, nella programmazione delle università, del numero di posti relativo alle specializzazioni ancora ammesse.
Sarebbe poi utile istituire un elenco regionale dei medici competenti.
Questi problemi fanno naturalmente parte di una tematica più ampia (su cui ci si è già in parte soffermati), costituita dalla qualificazione e/o dalla formazione delle varie figure: medici competenti, responsabile ed addetti del servizio di prevenzione e protezione, rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori.
Riguardo poi a quest’ultima categoria, la Commissione ha posto particolare attenzione ad alcuni profili critici generali.
Si è riscontrato, in primo luogo, che mancano dati precisi sul numero di rappresentanti per la sicurezza attualmente operanti (in base a designazione od elezione) e che comunque l’istituto non è stato ancora attuato in molte imprese. Inoltre, nella ricognizione delle varie realtà territoriali ed aziendali, si è costatata una prassi molto diffusa, in base alla quale tali rappresentanti sono scelti dalle rappresentanze sindacali aziendali – e la designazione, in genere, ricade su soggetti che fanno parte delle medesime rappresentanze –. Tale prassi è indubbiamente consentita dalla disciplina di cui al decreto legislativo n. 626 (che non prevede in modo tassativo il sistema di elezione da parte dei lavoratori). Tuttavia, suscita perplessità la commistione fra le due categorie di rappresentanti, in quanto il settore della sicurezza dovrebbe, per la sua peculiarità e delicatezza, restare estraneo alle logiche ed alle duttilità delle relazioni sindacali. In particolare, i rappresentanti per la sicurezza sono preposti alla tutela di un unico «bene», che non può essere oggetto di cedimenti, scambi o compromessi, mentre le organizzazioni sindacali e le loro rappresentanze possono essere indotte a privilegiare altri interessi (come la difesa dei posti di lavoro o l’incremento dei trattamenti economici).
Sembrano quindi necessari alcuni interventi normativi – su cui ci si soffermerà nella parte della relazione concernente le considerazioni conclusive – sia per garantire l’effettiva nomina dei rappresentanti per la sicurezza e la conoscibilità dei relativi dati sia per ridefinire i sistemi di nomina medesimi.
Il tema dei rappresentanti per la sicurezza è riconducibile a quello più generale della partecipazione dei lavoratori e dei loro organismi ed associazioni alla prevenzione.
Al riguardo, le testimonianze e i documenti raccolti dalla Commissione indicano come la figura, sopra menzionata, degli organismi paritetici non abbia ancora raggiunto una dimensione soddisfacente, sotto il profilo non solo del numero di articolazioni territoriali esistenti, ma anche del livello qualitativo e quantitativo delle loro relazioni con le imprese ed i lavoratori.
L’esperienza di bilateralità nel campo edile – in cui i comitati paritetici effettivamente erogano informazioni, formazione ed assistenza tecnica in favore delle imprese e dei sindacati – resta un modello che, di fatto, ancora deve essere mutuato dagli altri settori.
È, tuttavia, interessante ricordare che lo schema di decreto legislativo recante il testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro (schema presentato dal Governo alle Camere il 12 aprile 2005 e poi ritirato) contemplava un significativo ampliamento delle funzioni degli organismi paritetici (nello schema ridefiniti «enti bilaterali»).
L’introduzione di tali norme discendeva indubbiamente, come osservava la medesima relazione illustrativa dello schema di testo unico, dalla concezione degli organismi bilaterali come un importante strumento di cooperazione e, conseguentemente, di formazione e prevenzione in materia di sicurezza.
Gli stessi profili della cooperazione e della partecipazione presentano rilevanti peculiarità ed esigenze per la fattispecie, già menzionata, delle imprese appaltatrici e fornitrici che operano all’interno delle strutture del committente.
Il decreto legislativo n. 626 ha, come accennato, posto alcuni obblighi di cooperazione e coordinamento (in materia di sicurezza) a carico del datore, in caso di affidamento dei lavori, all’interno dell’azienda, mediante contratto di appalto o di opera, ad altre imprese o a lavoratori autonomi.
Dall’attività di indagine della Commissione emerge che le norme generali suddette – le quali, peraltro, dovrebbero in ogni caso concernere, oltre ai contratti di appalto e di opera, anche quello di somministrazione e le formule contrattuali atipiche – non sono sufficienti per assicurare il coordinamento nella sicurezza all’interno dell’azienda.
Le esperienze attuali offrono alcuni elementi e soluzioni positivi, quale la previsione – da parte del committente ed ai fini dell’accesso all’interno delle proprie strutture – dell’obbligo, per ogni lavoratore di imprese appaltatrici o fornitrici, di esibire un tesserino identificativo (recante, naturalmente, anche la foto del soggetto). Tale procedura può costituire uno strumento di garanzia, per il committente, soprattutto al fine di evitare che nei siti operino lavoratori irregolari o inesperti.
In via generale, tuttavia, sussiste l’esigenza di: una maggiore qualificazione ed un ampliamento delle responsabilità del committente, con riferimento agli aspetti del controllo amministrativo, della formazione e dell’organizzazione del lavoro; un coordinamento all’interno dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione (dei diversi datori) ed all’interno dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori. Riguardo a questi ultimi, occorre altresì, in tale ordine di considerazioni, che la disciplina ammetta la possibilità della figura unitaria dei «rappresentanti di sito produttivo».
Le osservazioni qui esposte valgono anche con riferimento ai lavoratori autonomi che si trovino ad operare all’interno delle strutture di un’impresa.
Alcune norme di carattere generale – in materia di sicurezza o aventi, in ogni caso, ricadute significative in questo settore – sono state introdotte più di recente nel nostro ordinamento. In primo luogo, il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, ha esteso ai soggetti titolari di un contratto di «lavoro a progetto» l’applicazione della normativa generale in materia di sicurezza sul lavoro (di cui al decreto legislativo n. 626), nell’ipotesi, naturalmente, in cui la prestazione si svolga nei luoghi di lavoro del committente.
Tale ampliamento del campo soggettivo di applicazione costituisce indubbiamente un elemento di grande rilevanza, che si iscrive nel processo di ridefinizione complessiva delle tutele dei lavoratori atipici. In tale ambito, la disciplina sulla sicurezza è stata giustamente individuata tra i profili di tutela fondamentali – si sottolinea, al riguardo, che l’applicazione della disciplina di cui al decreto legislativo n. 626 comporta l’estensione anche degli obblighi di informazione e di formazione –. Sembra, peraltro, opportuna un’estensione del riferimento anche in favore di altre forme di rapporto professionale atipico (anche perché il lavoro a progetto resta comunque solo una specie del genere più ampio delle collaborazioni suddette).
In tale ordine di idee, occorrerebbe prendere in considerazione anche altri ampliamenti dell’ambito di applicazione della disciplina sulla sicurezza sul lavoro. Si ricorda, al riguardo, che il citato schema di testo unico prevedeva un’importante estensione, con riferimento ai lavoratori autonomi ed ai componenti dell’impresa familiare (impresa di cui all’articolo 230-bis del codice civile) – tali soggetti, com’è noto, sono attualmente esclusi dalla normativa in esame –. L’estensione non era, tuttavia, integrale, in quanto, come rilevava la relazione illustrativa dello schema, si era tenuto conto della «situazione di diversità» rispetto agli altri lavoratori.
Trovavano, quindi, applicazione solo alcune norme, quali gli obblighi: di munirsi di dispositivi di protezione individuale e di impiegarli conformemente alle relative disposizioni; di sottoporsi alla sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal testo unico medesimo.
Con riferimento al lavoro atipico, occorre peraltro segnalare una tendenza, presente in alcune esperienze, ad incaricare lavoratori precari – non radicati nel contesto aziendale e sindacale e, quindi, di fatto meno tutelati – dello svolgimento di attività nocive: è un problema che le parti sociali – oltre che il legislatore – devono prendere in considerazione ed affrontare con onestà e rigore.
Un’altra disposizione recente di sicuro rilievo per il settore della sicurezza (introdotta con il decreto legislativo n. 251 del 2004) imporrebbe, per il settore edile, che la comunicazione relativa all’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato o di collaborazione in forma coordinata e continuativa venga effettuata il giorno precedente all’instaurazione medesima.
Sulla rilevanza di tale norma la Commissione ha avuto, nel corso delle audizioni, numerosi riscontri. La disposizione appare infatti idonea a contrastare la prassi (sopra ricordata) di denuncia, da parte del datore, del lavoratore irregolare dopo l’evento dell’infortunio. Si deve, tuttavia, osservare che, da un lato, la norma non è ancora operante, in quanto manca il decreto ministeriale, e, dall’altro, che essa potrebbe opportunamente essere estesa ad altri settori. Alcuni soggetti auditi hanno peraltro rilevato che l’obbligo in esame sarebbe sorretto da una sanzione forse troppo esigua e che, quindi, esso potrebbe non sortire tutti i potenziali effetti, soprattutto nelle aree e nei settori in cui il lavoro nero è più profondamente radicato (la misura della sanzione amministrativa pecuniaria può variare da 100 a 500 euro per ogni lavoratore interessato).
Sempre in tema di lavoro sommerso e di sanzioni, è stata posta all’attenzione della Commissione anche la vicenda normativa sull’inasprimento delle sanzioni per l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione. Nel 2002 è stata introdotta una norma che prevede (in via aggiuntiva rispetto alle misure già vigenti) una sanzione amministrativa dal 200 al 400 per cento dell’importo, per ciascun lavoratore irregolare, del costo del lavoro (calcolato sulla base dei contratti collettivi nazionali), per il periodo compreso tra l’inizio dell’anno solare e la data di constatazione della violazione. Tuttavia, la sentenza n. 144 del 2005 della Corte Costituzionale ha ammesso la possibilità di provare che il rapporto di lavoro irregolare abbia avuto inizio successivamente al primo gennaio.
In base agli elementi raccolti dalla Commissione, risulta che la norma, nella sua configurazione originaria, costituiva un notevole deterrente, ma che la possibilità di prova successivamente introdotta l’ha in buona parte vanificata, poiché in genere gli stessi lavoratori, in sede di controllo, dichiarano di essere stati assunti il giorno medesimo della verifica (o nei giorni immediatamente precedenti).
Un’altra disciplina recente di interesse è quella relativa al documento unico di regolarità contributiva. Anche in tal caso, appare auspicabile un’estensione dell’istituto – attualmente previsto per determinati settori o fattispecie –, come strumento di contrasto del lavoro sommerso (e quindi di contrasto di un’area ad elevata incidenza di infortuni). L’estensione dovrebbe riguardare, in primo luogo, gli altri settori in cui il fenomeno del lavoro nero è particolarmente rilevante, quale quello delle imprese affidatarie di lavori, servizi o forniture da parte di altre aziende. Com’è emerso nel corso dell’attività del gruppo di lavoro della Commissione relativo all’edilizia, sarebbe inoltre opportuna (quantomeno per alcuni settori, come quello edile e delle altre imprese summenzionate) la previsione di frequenti aggiornamenti e verifiche del documento. Al riguardo, una norma da poco approvata (inserita, in sede di conversione, nel decreto legge 30 dicembre 2005, n. 273) prevede che esso abbia una validità di tre mesi. Si rileva, tuttavia, che, nella precedente attuazione dell’istituto, si assumeva (almeno a determinati fini) un periodo di validità di un mese e che, in generale, sembra opportuna la previsione di una cadenza di questo tipo.

3. Gli esiti dell’attività dei gruppi di lavoro della Commissione e cenni su altri settori oggetto dell’indagine della Commissione
3.1 Il lavoro minorile e sommerso
Il lavoro irregolare, sicuramente comprensivo del lavoro nero e di gran parte di quello minorile e di quello extracomunitario, dilata in maniera esponenziale l’area dei rischi lavorativi, occulta un numero elevatissimo di infortuni – dal dieci al venti per cento di quelli denunciati – e fa emergere qualche dubbio sulle effettive dimensioni della riduzione complessiva degli infortuni medesimi negli ultimi anni.
Tale estesa anomalia risponde, tra l’altro, a molteplici variabili politiche, economiche e sociali e trova fertile humus sia nelle tendenze aziendali alla riduzione del costo del lavoro sia in un contesto socio-economico nel quale la necessità di guadagno costringe un numero sempre maggiore di persone a rinunciare a tutele e garanzie.
L’impegno di contrasto da parte delle istituzioni, anche se ha prodotto apprezzabili risultati, va ulteriormente rinvigorito, coinvolgendo forze sociali e mondo imprenditoriale. E ` evidente il nesso che lega infortuni e «lavoratori irregolari», ai quali sono normalmente affidate le mansioni più rischiose nell’assoluta mancanza delle misure minime di sicurezza.
Tra i lavoratori in nero vanno compresi anche i lavoratori immigrati clandestini, i quali, praticamente privi di ogni diritto, sono costretti ad accettare qualunque condizione, rischiando, in caso d’infortunio, la mancanza di soccorso e l’abbandono in località lontana dal cantiere.
Solo marginalmente più favorevole è la posizione del lavoratore immigrato con permesso di soggiorno, il quale è pur sempre indotto dal bisogno ad accordarsi con il datore di lavoro nell’elusione della normativa previdenziale ed a prestare la propria opera in condizioni più rischiose (rispetto a quelle ordinarie).
L’esercito dei lavoratori in nero in Italia conta 3,3 milioni di persone (di cui 1,5 milioni al Sud e 1,8 al Centro-Nord), concentrate in larga parte nei settori delle costruzioni, dei servizi – con particolare riguardo al lavoro domestico retribuito di collaboratori familiari e badanti –, del commercio, del tessile, abbigliamento e calzaturiero, nonché, soprattutto al Sud, nel settore agricolo. L’occupazione irregolare è presente per il 24,3% nel Centro Italia, per il 18,9% nel Nord-Est, per il 20,1% nel Nord-Ovest e per ben il 36,7% nel Mezzogiorno, dove un lavoratore su 4 è in nero. Il fenomeno, quindi, sebbene diminuito negli ultimi anni sul piano nazionale, torna a crescere al Sud, con picchi elevati in Calabria, in Campania e in Sicilia.
Le cause che concorrono all’insorgere ed al consolidarsi di un fenomeno così imponente, ove si prescinda dalle ipotesi più clamorose di assoluto disprezzo della legalità, possono essere individuate: in una crescente domanda di «servizi personalizzati»; nella riorganizzazione dell’industria in lunghe catene, che operano secondo filiere sempre più frammentate e tramite subappalto; nella diffusione di tecnologie leggere, che schiudono nuove opportunità lavorative e nuove attività di servizio; in una situazione di competizione strutturale fondata sull’esasperata capacità di riduzione dei costi; nella difficoltà di raccordo tra domanda e offerta di lavoro; nell’estrema frammentazione del tessuto produttivo, per esempio in agricoltura; nella scarsa propensione ad affrontare e reggere il peso della competitività; in contesti di elevata disoccupazione e di mancanza di controlli, che permettono al datore di lavoro di imporre la rinuncia ai diritti garantiti da leggi e contratti; in situazioni in cui il lavoratore preferisce lavorare «in nero», in una logica di compartecipazione o per sue personalissime esigenze, coincidenti spesso con quelle dell’offerta (per esempio, per non perdere i sussidi di disoccupazione o di mobilità). Non si possono trascurare, inoltre, le difficoltà derivanti dall’elevato livello del cosiddetto cuneo contributivo e fiscale operante sul lavoro regolare.
L’ISTAT quantifica in circa 516.000, solo nei settori agricolo e delle costruzioni, le unità di lavoro non regolari riferite a cittadini stranieri non comunitari; ad essi sono da aggiungere i lavoratori impegnati nei servizi alla persona, nelle imprese manifatturiere o in quelle tradizionalmente ad alta irregolarità (bar, ristoranti, agriturismi ecc.).
L’estrema debolezza economica, sociale e giuridica dei lavoratori extracomunitari li espone alle lusinghe ed al ricatto del lavoro nero, soprattutto in settori produttivi «polverizzati» come l’agricoltura.
Le cifre attestano un livello di rischio del lavoro degli extracomunitari molto più elevato rispetto alla media degli altri lavoratori. L’INAIL indica che nel 2004 gli infortuni tra i lavoratori extracomunitari sono stati 116.000, con una crescita del 6% rispetto al 2003 e del 25% rispetto al 2002; nello stesso anno, la quota di infortuni mortali relativa a lavoratori extracomunitari è stata pari a circa il 13% (rispetto al totale degli eventi mortali medesimi). Si calcola che il tasso di incidenza sia di circa 65 infortuni denunciati su 1.000 assicurati, contro un tasso di poco superiore a 40 punti per gli occupati nel loro complesso. Tra le cause di tale elevata «rischiosità»: la pericolosità dei lavori cui questi lavoratori sono adibiti (costruzioni ed industria dei metalli), la scarsa attuazione delle norme di sicurezza e la mancanza di formazione professionale adeguata, caratteristiche peculiari del predetto fenomeno.
Tra gli extracomunitari infortunati circa la metà proviene da Marocco, Albania e Romania, mentre, stranamente, pochi sono gli infortuni denunciati dalle pur numerose comunità di lavoratori filippini e cinesi.
Data la stretta relazione tra lavoro nero e migrazioni clandestine, la corretta gestione dei flussi migratori, ormai una risorsa della nostra economia, costituisce pure un valido strumento per arginare il lavoro sommerso.
Quasi interamente al mondo del lavoro nero appartiene, ovviamente con le sue specificità, anche il lavoro minorile, fenomeno in sicura espansione.
Pur nelle ovvie difficoltà di quantificazione, l’ISTAT stima in almeno 145.000 (escludendo da tale calcolo i minori immigrati ed i rom) il numero dei minori tra gli 11 ed i 14 anni di età coinvolti in attività lavorative (valore pari al 3,1% del totale dei minori compresi nella suddetta fascia anagrafica). Secondo altre stime, invece, i minori che lavorano, rom ed immigrati compresi, si avvicinerebbero alle 400.000 unità.
Le statistiche collocano l’Italia ben oltre la media europea (pari all’1,5%) e, comunque, oltre la media dei principali Paesi dell’Europa occidentale (pari al 2%).
Da una ricerca effettuata in alcune grandi città italiane (Torino, Milano, Verona, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Catania) emerge che nel nostro Paese lavora un minore su cinque, con punte elevate in tutto il Mezzogiorno e nel Nord-Est, aree contraddistinte da modelli produttivi quasi antitetici.
Trattasi di forme di lavoro stagionali od occasionali, che riguardano prevalentemente l’agricoltura, le piccole aziende manifatturiere, il commercio, la ristorazione, alcuni settori dell’artigianato. Prevalgono le collaborazioni con i genitori (70%) o le occupazioni presso parenti o amici (20,9%), e solo il 9,1% riguarda attività svolte presso terzi.
In tutto il territorio nazionale, la scuola non riesce a svolgere una funzione di contrasto e di recupero. Infatti, secondo dati SVIMEZ del 2004, su 1.000 iscritti alla scuola media, 85 (73 al Sud) non conseguono la licenza; di questi, solo il 30% passa in corsi di formazione professionale o nell’apprendistato. Nel Sud, il 19,4% degli iscritti al primo anno della scuola secondaria superiore abbandona il sistema scolastico.
Nella banca dati INAIL non figura ovviamente «alcun evento occorso a infortunati di età inferiore a quella minima legale», mentre, nell’anno 2004, risultano denunciati 9.496 infortuni relativi a minori degli anni diciotto (con una percentuale, molto vicina al 9% del totale degli infortuni denunciati, sicuramente viziata dall’occultamento degli eventi).
Per quanto riguarda l’apprendistato, nell’industria e nei servizi risultano denunciati ed indennizzati, per il 2004, 17.716 infortuni, di cui 23 mortali; la riduzione rispetto all’anno 2003 è abbastanza marcata, in quanto, per tale anno, gli infortuni denunciati ed indennizzati sono pari a 21.086, di cui 35 mortali. Si osserva, inoltre, che quasi tutti gli infortuni mortali in oggetto sono avvenuti in piccole aziende (con meno di 15 dipendenti), le quali tendono a gestire con approssimazione le procedure imposte dalla normativa sulla sicurezza ed a risparmiare i costi della formazione.
Come possibili strumenti di contrasto al «lavoro nero», si indicano:
– la previsione di un’aliquota sociale di contribuzione agevolata per le imprese «emergenti», protratta per un arco temporale sufficiente a rimuovere le situazioni sfavorevoli di contesto;
– il potenziamento delle strutture di vigilanza, anche attraverso la reiterazione dei controlli delle imprese che abbiano utilizzato lavoratori «a nero»;
– il superamento negli appalti pubblici del sistema dell’aggiudicazione fondata sul massimo ribasso, anche attraverso una ridefinizione normativa più puntuale delle «offerte anomale»;
– l’obbligo per il datore di lavoro di rifusione all’INAIL dell’intero ammontare dei costi sostenuti per l’infortunio di un lavoratore «irregolare»;
– l’estensione del concetto di responsabilità e solidarietà contributiva tra l’impresa leader e le imprese alle quali la prima affidi alcune lavorazioni, anche al fine di evitare che il ricorso a tali appalti e forniture costituisca uno strumento per eludere le normative sulla trasparenza e sulla regolarità dei rapporti di lavoro;
– la rapida, uniforme e piena applicazione della nuova disciplina dell’apprendistato;
– l’adeguamento dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari alle reali esigenze dei diversi comparti produttivi.
Relativamente al lavoro minorile, si indicano come linee di intervento:
– la ridefinizione normativa delle tutele per la parte «regolare» del fenomeno;
– il potenziamento delle risorse finanziarie, tecnologiche e umane dei diversi servizi di vigilanza ed il coordinamento della loro attività anche con i servizi sociali e scolastici;
– l’attivazione, con la collaborazione degli enti locali, di un sistema informativo integrato, che permetta un’adeguata conoscenza del lavoro minorile, anche con riferimento agli infortuni;
– l’adozione di misure a sostegno dell’obbligo scolastico e per il contrasto del fenomeno dell’abbandono, ivi compresi meccanismi premiali, nei trasferimenti delle risorse, per le scuole più impegnate nel contrastare quest’ultimo;
– il riconoscimento ai minori immigrati ed alle loro famiglie dei diritti sociali;
– l’impegno delle istituzioni nell’affrontare con decisione e senza ipocrisie il problema dello sfruttamento dei bambini rom;
– l’obbligo contrattuale per le imprese di garantire in ogni Paese il rispetto dei diritti sociali e del lavoro, individuati dalle convenzioni fondamentali Oil, indipendentemente dalla legislazione dello Stato;
– la reiterazione dei controlli, da parte degli organi di vigilanza, nelle aziende nelle quali siano stati accertati casi di lavoro minorile irregolare;
– l’obbligo di somministrazione agli apprendisti di una consistente quota di formazione nel campo della sicurezza, compresa nell’orario di lavoro e retribuita, e l’inserimento nel libretto personale delle competenze professionali anche di una sezione dedicata alla specifica formazione alla sicurezza.

3.2 Le malattie professionali
Premessa
Il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla sicurezza e igiene del lavoro svolta, negli anni 1999-2000, dalla 11ª Commissione permanente del Senato5 rilevava, per la parte concernente le malattie professionali, che il loro insieme era rilevante e che il quadro era in evoluzione. Si prevedeva un aumento delle patologie cosiddette «perdute»6 e di quelle definite «del futuro», e si segnalava l’elevato numero di malattie, ricollegabili con nesso di causalità alla prestazione di lavoro, che venivano denunciate all’INAIL, ma non riconosciute dalle tabelle dell’Istituto.

Attività svolta dal gruppo di lavoro relativo alle malattie professionali
Le audizioni e le acquisizioni documentali effettuate tra il novembre 2005 ed il gennaio 2006 dal gruppo di lavoro relativo alle malattie professionali 8 hanno consentito di approfondire in particolare i seguenti temi:
– l’andamento del fenomeno delle malattie professionali negli ultimi anni (tabellate e non tabellate);
– i criteri di riconoscimento da parte dell’INAIL;
– le nuove patologie ed i nuovi rischi;
– le stime (con particolare riferimento ai tumori);
– le manchevolezze ed i ritardi in fase diagnostica;
– il ruolo dei medici;
– la formazione e l’informazione dei soggetti del mondo del lavoro preposti alla sicurezza (rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori, responsabili dei servizi di prevenzione e protezione, datori, ecc.);
– il sistema dei controlli;
– la sorveglianza sanitaria (sia sui soggetti attualmente esposti a rischio sia su coloro che lo siano stati in passato);
– le problematiche relative alla riparazione ed al risarcimento dei danni;
– la creazione di osservatori del rischio e/o delle malattie;
– la prevenzione.

Sintesi delle risultanze emerse
Nell’arco degli ultimi decenni, il numero complessivo delle malattie professionali denunciate all’INAIL si è ridotto. Nel quinquennio 2000- 2004, però, l’andamento è stato oscillante8.
Per quanto concerne le patologie, l’INAIL ha rilevato nel corso degli anni, da un lato, la diminuzione di tradizionali malattie da lavoro, come la silicosi, ma, dall’altro, la permanenza delle ipoacusie, la comparsa di patologie a livello del sistema osteoarticolare e muscolo-scheletrico, il progressivo aumento delle neoplasie.
L’evoluzione della casistica, inoltre, mostra chiaramente la progressiva crescita dell’incidenza delle malattie non tabellate – il cui riconoscimento (e indennizzo) è più problematico e meno automatico -: negli ultimi anni, esse hanno rappresentato circa il 65% delle malattie denunciate.
Il cosiddetto «sistema misto» per il riconoscimento delle malattie professionali (introdotto sostanzialmente con la sentenza n. 179 del 10- 18 febbraio 1988 della Corte Costituzionale e confermato dal decreto legislativo n. 38 del 2000) ha sanato una grave situazione di ingiustizia ai danni dei lavoratori, in precedenza sostanzialmente privi di tutela (anche assicurativa) per le malattie e le lavorazioni non inserite nelle tabelle allegate al testo unico9.
Peraltro, la tuttora eccessiva rigidità del «sistema misto» (pur mitigata dalla previsione di periodici aggiornamenti delle tabelle) impone al lavoratore degli oneri di prova sicuramente complicati, e per lui molto gravosi. Di fatto, ciò porta l’INAIL a rigettare legittimamente la maggior parte delle denunce-domande presentate per le malattie non tabellate.
Va rilevato, dunque, come la rigida pretesa di raggiungere la certezza assoluta sulla sussistenza del nesso causale tra prestazione lavorativa e malattia cozzi non solo con i più elementari principi scientifici, ma anche con l’interpretazione data dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nel luglio del 2002 (sentenza «Franzese») al concetto di nesso di condizionamento, oltre che con le norme del codice penale vigente e del progetto di nuovo codice penale (della «commissione Nordio»). Ancor prima, la suddetta pretesa contrasta con l’impostazione solidaristica e pro lavoratore del nostro sistema normativo, a partire dalla Carta Costituzionale (art. 41 di quest’ultima e art. 2087 del codice civile).
Riguardo alla complessiva tendenza alla diminuzione delle malattie professionali negli ultimi decenni, va detto che i dati INAIL più recenti (cfr. il Rapporto INAIL 2004) devono essere interpretati con prudenza, perché non sono completi, né esaustivi. Tale inadeguatezza deriva da un insieme di ragioni che non sono soltanto amministrative e sulle quali si richiama l’attenzione: i dati disponibili, infatti, si riferiscono solo alla popolazione assicurata e toccano in minima parte il settore agricolo. I lavoratori non assicurati dall’INAIL sono milioni: tra questi, ad esempio, i liberi professionisti, gli addetti alla pesca marittima, le forze di polizia, le forze armate, i datori di lavoro.
L’osservazione e l’analisi del mondo del lavoro indicano una realtà più complessa di quella raffigurata dalle statistiche INAIL. Nuove tipologie di rischio si stanno affiancando a quelle vecchie; si delinea una coesistenza di nuove forme di precarietà (vulnerabilità legate alle continue modifiche dei rapporti di lavoro, redistribuzioni per genere e per età, lavoratori «in affitto» e temporanei); esiste un’area non ponderabile legata alla quota del cosiddetto «lavoro nero»; si ampliano situazioni di trasferimento del rischio dalle grandi imprese (dove certe tutele esistono) alle imprese minori, che lavorano in regime di appalto o subappalto.
Questa varietà di situazioni influisce più sulla rilevazione dei dati relativi alle malattie professionali che su quella degli incidenti, poiché è più difficile che passi inosservato un infortunio (specialmente se mortale) piuttosto che una situazione patologica personale, magari tumorale, la quale può iniziare ad emergere lentamente, o lontano nel tempo, rispetto al periodo di esposizione.
Il quadro si complica ulteriormente se si considerano le malattie cosiddette «nuove» o «emergenti» o «difficili», quali, ad esempio:
– le patologie da movimenti ripetuti e altre disergonomie (malattie muscoloscheletriche);
– le patologie da stress lavorativo (ansia, depressione, disturbi psico-sociali e altre ancora);
– le patologie da esposizione ad agenti chimici (soprattutto cancerogeni) a basse dosi;
– le patologie da eziologia multifattoriale (tra le quali, i tumori);
– le malattie allergiche;
– le patologie causate dall’organizzazione del lavoro (tempi e metodi).
Una stima (peraltro molto conservativa) relativa al totale dei tumori annui in Italia attribuisce il 4% di essi a cause di esposizione lavorativa.
Ne consegue che, ogni anno, si dovrebbero registrare in Italia circa 8.000 casi di tumori professionali.
L’INAIL però riceve una quantità decisamente inferiore di denunce di patologie tumorali e, soprattutto, ne riconosce soltanto alcune centinaia all’anno, per lo più da amianto. Tra le neoplasie, le patologie più frequenti sono proprio i mesoteliomi da amianto, destinati peraltro ad un preoccupante aumento nel corso dei prossimi anni (il picco della curva di crescita è previsto tra il 2015 e il 2020). Si impone perciò da parte di tutti gli organismi pubblici – legislativi, amministrativi e tecnici, ciascuno per la parte di propria competenza – una maggiore attenzione, sotto il profilo della normativa previdenziale nonché della sorveglianza sanitaria per gli ex-esposti, accompagnata da censimenti delle aree, zone e strutture a rischio-amianto.
Quali sono i motivi della segnalata sottostima del numero dei tumori denunciati e (ancor peggio) di quelli riconosciuti ed indennizzati?
Il problema della sottostima si presenta con le stesse caratteristiche per tutto l’insieme delle malattie professionali. La causa principale è l’omissione di denuncia da parte dei sanitari, un fenomeno generale e riguardante tutte le categorie di medici: di famiglia, ospedalieri, specialisti, di fabbrica. Il mancato riconoscimento-denuncia dei rischi in campo professionale è maggiormente rilevante per le patologie più recenti e per quelle neoplastiche. È vero che per l’individuazione di queste ultime esistono difficoltà oggettive, legate alla loro stessa natura (lunghi tempi di latenza, esposizione a diversi cancerogeni, esposizioni ambientali extra-lavorative, multifattorialità, abitudini di vita, dispersione dei dati negli archivi ospedalieri); non possono però sottacersi la scarsa (talvolta nulla) attenzione posta all’anamnesi professionale, la cattiva pratica, l’ignoranza della medicina del lavoro e qualche volta persino l’indolenza o la preoccupazione di non «immischiarsi».
È di capitale importanza, quindi, che i «medici competenti» nei luoghi di lavoro siano professionisti veri, provvisti di un curriculum formativo specifico e adeguato, e dotati della necessaria autonomia rispetto al datore di lavoro.
La sorveglianza sanitaria non può più essere orientata soltanto verso la ricerca dei segni del danno più o meno precoce, bensì, facendo un passo in avanti, deve inserirsi come elemento di ulteriore garanzia della tenuta di un sistema a «rischio moderato» o meglio «lieve». E ` comunque preliminare il tema della qualità dei dati sanitari e delle indagini, soprattutto quando si riduce il rischio e quando perciò diventa necessaria una maggiore sensibilità per cogliere ogni minima alterazione. Il discorso vale anche per chi è addetto alla vigilanza e ai controlli: la qualità dell’accertamento diagnostico va anteposta alla sua frequenza.
L’auspicabile cambiamento di impostazione richiede maggiori risorse: di personale, di mezzi, di fondi e di tempo. Esse debbono essere rese disponibili anche nei confronti di chi esce dal mondo del lavoro, con disponibilità di strumenti diagnostici e di monitoraggi adeguati, utili per la sorveglianza ambientale, per la prevenzione, per la valutazione ed il controllo del rischio.
Gli elementi ed i criteri sui quali fondare un approccio preventivo sistematico sono noti, e riassumibili nei seguenti punti:
– conoscenze tossicologiche;
– progettazione e gestione delle strutture e degli impianti;
– valutazione e gestione del rischio;
– verifica della tenuta del sistema;
– assunzione di responsabilità da parte di produttori, commercianti e utilizzatori di sostanze tossiche;
– ruolo delle istituzioni pubbliche, soprattutto nella fase di creazione e di verifica degli standard e delle linee-guida, mediante procedure che garantiscano l’effettiva partecipazione di tutti gli interessati. La democraticità del processo di produzione normativa deve realizzarsi anche nell’elaborazione delle norme tecniche;
– coordinamento tra i vari soggetti pubblici competenti (ASL, INAIL, Ispettorati del Lavoro, ecc.);
– ruolo del medico del lavoro, che deve occuparsi della gestione della salute del lavoratore e del rischio, non limitandosi alla meccanica applicazione di protocolli e criteri tabellari;
– reale formazione ed informazione dei soggetti interessati (dai rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori ai datori di lavoro ai singoli lavoratori, per i quali nessuno controlla se siano davvero preparati, il che costituisce una grave ipocrisia).
La necessità e l’efficacia della prevenzione non possono essere valutate solo sulla base della riduzione o eliminazione della patologia professionale (assicurata o riconosciuta dall’ente assicuratore). Piuttosto, bisogna guardare alla capacità di controllo del complesso degli elementi collegati con l’esposizione ai rischi lavorativi e con la loro gestione. Occorre applicare rigorosamente il complesso delle norme e delle procedure tendenti a controllare all’origine, nei termini più aggiornati, i rischi che possono essere attivi nelle varie realtà lavorative e nei confronti di ogni singolo lavoratore esposto.
In conclusione, è opportuno controllare i fattori patogeni prima ancora delle malattie, senza per questo dimenticare l’importanza e la validità della creazione di osservatori sia delle malattie professionali (dei tumori, in particolare) che delle esposizioni (ossia del rischio), osservatori complementari tra loro nell’ottica della sorveglianza come in quella della prevenzione.

3.3 Il settore edile
Le problematiche rilevate

Le tabelle sugli infortuni in edilizia consegnate dall’INAIL alla Commissione (qui di seguito riassunte) denotano aumenti, anche considerevoli, sia dei dati generali sia di quelli relativi alle morti.

Anno di accadimento 2000 2001 2002 2003
Nº infortuni in genere 102.697 103.260 106.057 110.393
Nº infortuni mortali 303 332 321 344

Tra le cause principali di infortunio mortale vi è la caduta dall’alto.
Nelle microimprese (da 1 a 9 addetti), il rischio di infortunio mortale è superiore di circa 10 volte a quello che presentano le medie imprese (50-249 addetti). Tale dato è tanto più allarmante in quanto l’attuale dimensione media delle imprese edili con dipendenti è inferiore ai 5 lavoratori/ anno e, secondo dati INAIL, sulle circa 730.000 aziende del settore, ben 400.000 sono imprese individuali. I problemi di sicurezza riscontrati più spesso riguardano l’assenza o l’insufficienza di protezioni e le inadeguatezze strutturali. La violazione della normativa costituisce la principale causa di morte sul lavoro nel settore.
L’alta percentuale di infortuni occorsi il primo giorno di prestazione è un indicatore di lavoro irregolare che emerge al momento dell’incidente, in particolare un incidente mortale. Di nuovo, la concentrazione degli infortuni nei primissimi giorni di lavoro è ancora più accentuata nelle microimprese.
Il fenomeno del «caporalato», nuovo per il Nord, assume forme sinora sconosciute. Alcuni «caporali» non solo reclutano manodopera, ma fungono anche da intermediari nell’erogazione del salario. Si registra persino il disumano fenomeno dell’abbandono dell’infortunato grave che operava senza essere stato iscritto a libro paga.
Sul piano della qualità e dell’efficacia della formazione, in quella di base i risultati appaiono più formali e temporanei che sostanziali e duraturi, mentre è pressoché assente la formazione specifica per cantiere. L’informazione sulle procedure corrette non circola come dovrebbe, né tra datore di lavoro e dipendenti né in senso trasversale, cioè fra imprese compresenti in cantiere. Mancano prove di verifica della capacità di svolgere i ruoli previsti dal decreto legislativo n. 626 del 1994, né si hanno riscontri riguardo all’obbligo del datore di lavoro di garantire la capacità dei propri dipendenti di utilizzare in condizioni di sicurezza attrezzature e macchine, in quanto non sono finora previsti documenti di abilitazione, nemmeno per i manovratori. Tuttavia, qualcosa sta cambiando: i nuovi obblighi formativi per i responsabili del servizio di prevenzione e protezione e per chi allestisca opere provvisionali per lavori in quota prevedono prove finali di esame e collegano la formazione alla sicurezza alla competenza professionale e all’autorizzazione all’esercizio della professione. Lo stesso fanno alcune leggi regionali per chi manovra auto sollevanti e piattaforme elevabili.
Ma occorre disciplinare di più e meglio.

Alcune priorità di intervento
1. Contrastare il «caporalato» attraverso un’apposita struttura nazionale di coordinamento tra istituzioni, parti sociali, enti ed istituti competenti – con sede presso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome –, che individui priorità ed azioni mirate efficaci. Tale struttura dovrebbe agire in stretto rapporto con la rete dei comitati regionali di coordinamento di cui all’art. 27 del decreto legislativo n. 626 del 1994.
2. Prevedere una cadenza mensile per la revisione periodica del DURC (documento unico di regolarità contributiva).
3. Stabilire una notifica preliminare, da trasmettere almeno venti giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori. Essa dovrà contenere anche: una dichiarazione dell’organico medio annuo, distinto per qualifica; gli estremi delle denunce dei lavoratori effettuate all’INPS, all’INAIL ed alle casse edili; l’indicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato.
4. Modificare le norme sui flussi di manodopera, per evitare che i clandestini siano vittime di imprenditori senza scrupoli. Inoltre, il distacco di manodopera straniera, utilizzato per superare i limiti previsti dalla programmazione dei flussi, vede personale pagato un quinto rispetto alla manodopera italiana e crea così un esecrabile dumping sociale. Requisiti stringenti per i distaccati ostacolerebbero infiltrazioni malavitose. L’odioso fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile va combattuto con strumenti adeguati.
5. Rivedere il criterio del massimo ribasso per le gare d’appalto. Andrebbero previsti anche criteri qualitativi nella valutazione delle imprese in competizione, con specifico riferimento al rispetto delle normative vigenti in materia di lavoro (ad esempio, attraverso un’Offerta Economicamente Vantaggiosa). È necessario introdurre un criterio certo e trasparente di valutazione della congruità dei costi per la prevenzione, il quale si articoli sino all’ultimo livello di appalto, attraverso specifiche di ripartizione delle spese per ciascuna lavorazione e/o attività prevista.
6. Richiedere agli imprenditori edili requisiti di professionalità. Garanzie sui loro livelli di competenza imprenditoriale gioverebbero al settore e si eviterebbe il fenomeno del dumping interno e della concorrenza sleale.
7. Regolamentare la certificazione della formazione dei Coordinatori alla Sicurezza, rapportata alle tipologie e dimensioni dell’impresa e dell’opera.
Inoltre, migliorare la formazione per i preposti dei datori, gli stranieri, gli addetti a lavorazioni in quota.
8. Attivare politiche di incentivi alle imprese per permettere l’emersione e la bonifica delle situazioni border line, tra cui ricordiamo, a mero titolo di esempio, la problematica del socio lavoratore simulato e quella del lavoro flessibile e somministrato.
9. Rafforzare, anche attraverso l’attivazione in ogni regione dei suddetti comitati di coordinamento di cui all’art. 27 del decreto legislativo n. 626 del 1994, sia il mero controllo sia il sostegno, soprattutto verso le piccole e medie imprese, anche attraverso linee guida, standard procedurali, ecc.. Bisogna affrontare e risolvere il nodo dell’assetto istituzionale delle materie della sicurezza, con l’obiettivo di avere un sistema nazionale di prevenzione ed una politica nazionale di prevenzione, senza che ciò mortifichi spazi e responsabilità delle regioni. E ` necessario che gli organismi di vigilanza siano dotati di strumenti e risorse congrue, a partire da quelle di organico. Occorre rendere vincolante il criterio del «tripartitismo», con poche sedi dedicate, ma effettivamente funzionanti e dotate di spazi e risorse adeguate, anche per affrontare settori e tematiche complessi, come, ad esempio, le malattie professionali.
10. Valorizzare il ruolo svolto dalle parti sociali attraverso la bilateralità e il sistema di rappresentanza territoriale per la sicurezza dei lavoratori (RLST). Tale sistema va potenziato, istituendo il coordinamento dei rappresentanti per la sicurezza e disponendo che un cantiere, indipendentemente dal numero delle imprese presenti, costituisca un unico sito produttivo.
La figura del rappresentante di cantiere, prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro, va intesa come intersettoriale.
11. In occasione di opere complesse – le quali comportano un aumento dei rischi per la sicurezza –, attivare, su accordo tra le parti, percorsi formativi aggiuntivi rispetto a quelli previsti per le singole mansioni.
12. Estendere la possibilità di sospendere i lavori in caso di rischio non gestibile e prevedere la possibilità di pause, per mansioni molto esposte, quando ricorrano alcune condizioni climatiche avverse.
13. Istituire due registri regionali, per i medici competenti e per i responsabili del servizio di prevenzione e protezione – due soggetti fondamentali dell’intero sistema di prevenzione –, al fine di facilitarne l’individuazione da parte delle aziende. Le regioni dovrebbero inoltre vigilare, affinché siano sempre garantite la qualità e un livello accettabile dei costi, attraverso norme specifiche e strumenti idonei.
14. Costituire una struttura regionale di coordinamento tra i vari assessorati regionali competenti in materia di sicurezza (sanità, lavoro, formazione professionale e politiche sociali), come interlocutrice delle parti sociali ed organismo capace di interagire e coordinarsi sia con il comitato regionale di coordinamento di cui all’art. 27 del decreto legislativo n. 626 sia con i dipartimenti di prevenzione delle ASL. In particolare, la nuova struttura – che necessita di mezzi adeguati e permanenti – dovrebbe svolgere funzioni di indirizzo, formazione continua, sorveglianza, collaborazione, coordinamento e sostegno nei confronti degli stessi dipartimenti di prevenzione, individuando programmi, obiettivi e procedure e ricorrendo anche a percorsi formativi per gli operatori, scambi delle esperienze di eccellenza, flussi costanti di informazioni.
15. Adottare misure di contrasto anche molto severe (arresto in flagranza, demolizione, ecc.) contro i cantieri dell’abusivismo edilizio – una piaga che, oltre a danneggiare il paesaggio o le aree protette del territorio, implica in genere anche evasione totale, dal punto di vista contributivo e fiscale, e inosservanza della normativa relativa alla prevenzione –.
16. Attribuire autonomia d’intervento alla figura del coordinatore per l’esecuzione, la cui funzione è attualmente indirizzata in modo prevalente verso un’attività di monitoraggio e verifica e, quando necessario, di richiesta di regolarizzazione delle «non conformità riscontrate». Solo nei casi di «pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato», il CSE – il quale, peraltro, non sempre è presente in cantiere – acquista il potere/dovere di ordinare la sospensione delle singole lavorazioni, fino all’avvenuta verifica dei necessari adeguamenti da parte delle imprese esecutrici.
17. Regolamentare l’accesso alle aree di lavoro, rendendo obbligatorio il ricorso a tesserini personali di riconoscimento, distribuiti dalla direzione di cantiere, completi di foto e qualifica del lavoratore. Tale soluzione consentirebbe di verificare che tutti i lavoratori occupati nel cantiere risultino regolarmente autorizzati dall’impresa appaltatrice, che abbiano ricevuto adeguata formazione ai lavori da compiere e che dispongano di tutti i necessari dispositivi di protezione.
18. Colmare la lacuna normativa concernente le cosiddette squadre miste, cioè le squadre di lavoratori applicati ad una specifica attività, ma costituite da personale di diverse aziende; tale situazione favorisce l’ambiguità rispetto alla catena dei comandi e alle relative responsabilità, anche perché diventa non più identificabile la figura del preposto, di cui al decreto legislativo n. 626. Occorrerebbe introdurre una norma che regoli la composizione e l’attività delle squadre miste e che indichi anche le attività escluse.
19. Riconsiderare le modalità di partecipazione alle gare d’appalto da parte di ATI (Associazione Temporanea d’Impresa), costituite da consorzi d’impresa. Con tale formula, una singola impresa può essere presente in cantiere con riferimento a diverse attività, ma in nessuna è unica responsabile.
Occorre valutare – anche ai fini di una revisione dei profili normativi inerenti alla sicurezza – l’impatto di tali modalità, che determinano un’elevata frammentazione del ciclo produttivo, sui livelli di tutela e prevenzione.
20. Risolvere conflitti normativi e difficoltà interpretative concernenti i lavori in fune, anche attraverso un’esatta classificazione dei lavori pubblici inquadrabili in tale categoria (per questi ultimi è prevista la presenza di imprese specializzate e di personale abilitato). Secondo indicazioni dell’UNI10, bisognerebbe migliorare l’ergonomicità dei dispositivi di protezione individuale, che attualmente tendono, da un lato, a proteggere dalla caduta, ma, dall’altro, a determinare altri rischi e/o impacci. Occorrerebbe altresì: l’introduzione di un riferimento più chiaro agli obblighi formativi previsti dal decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 235; l’individuazione di una categoria specifica per i lavori in quota, che al momento risultano accorpati con la costruzione di guard rail (OS 12); la formazione di istruttori specialisti da parte di guide alpine, con esame finale e relativo attestato. In generale, poi, i corsi di formazione per i lavori in quota dovrebbero prevedere anche un’unità didattica sugli ancoraggi ed una sul montaggio di ponteggi, due attività tra le più pericolose nel settore. Appaiono necessarie norme per il lavoro in altezza in condizioni atmosferiche particolari (temperature elevate, alto tasso di umidità, ecc.), situazione che rientra nella problematica delle cadute. Le linee guida dell’ISPESL sulle cadute dall’alto prevedono misure di prevenzione per il colpo di calore, ma, in quanto linee guida, non sono esigibili dai lavoratori né comportano sanzioni in caso di mancata applicazione. Altri Paesi, come la Svizzera e la Francia, hanno invece specifiche norme in materia, specialmente per i lavori in quota. In Italia esiste la cassa integrazione guadagni per maltempo, che viene però generalmente attivata solo per pioggia. Occorrerebbe invece individuare tutte le condizioni meteorologiche ostative dell’attività lavorativa, nonché le procedure per consentire in ogni momento l’assunzione delle decisioni adeguate alle specifiche situazioni.
21. La formazione alla sicurezza deve significare davvero acquisizione da parte dell’impresa edile di un’accertata competenza professionale.
L’accesso al settore e l’esercizio dell’attività non dovranno più dipendere dalle burocratiche procedure attuali, ma dal possesso di requisiti da parte dell’impresa tutta (specie se individuale) e in particolare del datore di lavoro. Occorre che le figure gestionali dell’impresa, anche quando non coincidano con le categorie degli addetti alla prevenzione, compiano percorsi formativi alla sicurezza adeguati.
22. Bisogna arrivare (anche il contratto collettivo nazionale di settore del 2004 fa riferimento a tali soluzioni) ad un libretto personale delle competenze professionali e, nel contempo, ad un sistema nazionale informatizzato di certificazione. Una sezione apposita di tale libretto deve essere dedicata alla sicurezza e contenere la registrazione dei corsi effettuati in materia, con attestati di verifica dell’apprendimento.
23. Le malattie professionali nell’edilizia. L’elevatissimo numero di infortuni gravi e mortali del settore fa passare, talvolta, in secondo piano gli effetti negativi sulla salute di un lavoro svolto in condizioni di elevata criticità (lavoro in esterno, lavoro in altezza, lavoro in cava, esposizione ad agenti fisici, chimici e cancerogeni, ecc.). Le malattie professionali non sono sempre denunciate, per vari motivi: la possibilità di ricatti ai danni del lavoratore; le procedure ambigue per la denuncia; l’assenza di serie sanzioni per la mancata denuncia; la scarsa libertà dei medici competenti; la ridotta propensione dei medici generali a ricercare cause professionali nelle malattie diagnosticate; i costi elevati per la certificazione; la mancanza di una banca dati adeguata. Inoltre l’INAIL, benché soccomba in più del 50% dei casi in giudizio, tende a negare il nesso causale della maggioranza delle cause avviate. Si pensi anche all’utilizzo talora distorto dei valori limite di esposizione (TLV), da parte dell’INAIL ai fini del mancato riconoscimento delle patologie professionali, e alle pressioni che il mondo economico opera spesso sulla comunità scientifica riguardo all’eventuale definizione dei nessi causali, soprattutto circa le ipotesi sul carattere cancerogeno di alcune sostanze o elementi.
24. Fornire strumenti per l’individuazione di pericoli e rischi e per azioni di prevenzione, relativamente ad alcune mansioni (come, per esempio, nel settore del restauro di beni artistici), anche attraverso linee guida di fonte pubblica, ad uso dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi.
Appaiono fondamentali, in questo senso: le procedure individuabili nei confronti di agenti biologici (quali spore e forme vegetative aerodiffuse); la sorveglianza sanitaria su protocolli standardizzati per mansioni e professioni e la tenuta delle relative cartelle sanitarie, anche per gli autonomi e indipendentemente dall’azienda per cui si opera; la formazione alla sicurezza estesa ad ogni forma di contratto di lavoro.
25. I danni cutanei – ossia da esposizione solare, punture, contatto con sostanze chimiche, fibre vetrose, agenti biologici –, essendo costituiti prevalentemente da dermatosi a decorso clinico discontinuo, richiederebbero una normativa specifica, che sostenga la prevenzione e faciliti, eventualmente, il passaggio del lavoratore ad altra professione prima dell’instaurarsi della fase cronica. Riguardo ai danni da sforzi ripetuti in edilizia, occorrono procedure intese alla diagnosi precoce ed alla prevenzione. Gli studi sulle polveri in ambiente di cava e in impianti di frantumazione e vaglio indicano livelli di esposizione molto alti. Mancano indicazioni circa la dispersione delle polveri nell’ambiente circostante, problema che pure meriterebbe attenzione. La recente normativa sottostima i danni da vibrazioni ed invece pone alti valori limiti di esposizione (TLV), con conseguente aumento dell’esposizione individuale, dagli esiti non valutabili.
Le vaccinazioni antitetaniche, antileptospira e contro l’epatite «A» (insieme con adeguate misure di protezione) devono essere previste per tutti gli operatori di cantiere, se addetti a servizi di bonifica in ambiente malsano.
Coibentatori, asfaltisti, saldatori e numerosi altri lavoratori sono a rischio «molto rilevante» di tumori professionali. Per perfezionare le stime, occorre operare un collegamento tra: i dati del registro tumori, i registri regionali sulla mortalità, i casi di ricovero ospedaliero per tumore, i dati INPS (codici ATECO). Va inoltre previsto un sistema di rilevazione delle possibili cause professionali presso i medici di medicina generale (medici di base), inserito in un sistema informatizzato. Occorre poi attuare, in via generale e completa, il registro dei casi di asbestosi e di mesotelioma asbesto-correlati, già stabilito dalla disciplina, ed istituire ulteriori registri per esposizioni ai diversi cancerogeni, in particolare quelli non dose correlati11, mutageni e teratogeni. Deve essere attivato il monitoraggio sugli scostamenti tra le malattie segnalate nei registri nazionali e quelle denunciate all’INAIL.
26. Nel 2003, sono state introdotte nuove norme relative al conferimento in discarica dei rifiuti d’amianto o contenenti amianto, ma rimane molto scarsa la presenza sul territorio nazionale di discariche autorizzate per questo tipo di rifiuti. Al riguardo, si potrebbero approfondire gli studi sui processi di inertizzazione mediante fusione dei rifiuti contenenti amianto.

3.4 Il settore agricolo
Il fenomeno infortunistico in agricoltura presenta luci e ombre, da valutare con riferimento alla specificità del lavoro agricolo, contraddistinto tra l’altro da:
– profondi squilibri tra aziende ad avanzatissima tecnologia ed aziende tradizionali, nelle quali prevale l’impiego di strumenti e mezzi meccanici obsoleti, di fabbricati vetusti ed in pessimo stato di manutenzione, di impianti elettrici non a norma, di dispositivi antincendio non funzionanti o mai collaudati, di prodotti fito-sanitari non correttamente conservati;
– un quadro produttivo molto frammentato, composto da lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti, nel quale operano circa 350.000 imprenditori, con oltre 1.200.000 addetti, assunti per il 90% con contratti di lavoro a tempo determinato, in coincidenza di particolari necessità stagionali, e circa 450.000 aziende «diretto-coltivatrici», a struttura prevalentemente familiare, che impiegano quasi un milione di persone;
– sovrapposizione fra ambiente lavorativo ed habitat, che trasforma sovente i rischi lavorativi in rischi per l’ambiente e la salute di tutti i cittadini.
Tra le luci, figura un calo generale degli eventi denunciati, piuttosto costante negli ultimi anni (–3,2% nell’anno 2004, con una previsione di – 3% per il 200512); tra le ombre, il numero ancora drammaticamente elevato di infortuni mortali, o con conseguenze invalidanti gravissime.
L’incidenza infortunistica nel settore, a conferma di una complessiva elevata «rischiosità», è nel 2004 pari a 69,8 (per mille assicurati) – in discesa rispetto all’anno precedente, ma ben al di sopra della media generale dell’industria (64,2) e dei servizi (31,4), e quasi sugli stessi livelli di un settore da sempre considerato ad altissimo rischio, come quello delle costruzioni –.
I dati sulle «morti bianche» anticipati dall’INAIL per il 2005, non ancora consolidati, sembrano confermare una tendenza negativa (attestata dall’incremento del numero di casi mortali registrato nel 2004, rispetto all’anno precedente – 165 contro 125 –), tendenza che suscita allarme e preoccupazione.
Nelle campagne è elevatissimo il rischio mortale connesso all’uso, spesso da parte di addetti privi di idoneo addestramento ed in condizioni ambientali e climatiche difficili, di macchine sovente obsolete e non sottoposte alla necessaria manutenzione, talvolta modificate dagli stessi utenti con l’eliminazione di importanti dispositivi di protezione. Non a caso il maggior numero di eventi mortali si verifica in regioni come la Lombardia, il Piemonte e l’Emilia-Romagna, dove più elevata è la meccanizzazione del settore.
In generale, si ha un’incidenza infortunistica più elevata, e con conseguenze più gravi, per gli autonomi che per i dipendenti, probabilmente correlabile al maggior numero di ore lavorate e al prevalente impiego delle macchine.
L’autonomia non costituisce, quindi, fattore di sicurezza, mentre la presenza del datore di lavoro e l’organizzazione strutturata della produzione favoriscono la prevenzione e rendono meno rischiose le attività lavorative.
In effetti, si conferma in agricoltura la riconosciuta pericolosità delle microimprese (nelle quali abbondano i lavoratori agricoli autonomi), anche per una diffusa sottovalutazione del rischio, con conseguente maggiore disponibilità a «sfidare il pericolo» da parte di chi pensa, a torto, di dover rispondere solo a se stesso dell’inosservanza delle misure di sicurezza e delle sue conseguenze.
Restano problemi legati al carattere stagionale delle lavorazioni, all’estrema frammentazione del tessuto produttivo, all’età avanzata degli addetti ed all’entità rilevante della quota percentuale di donne occupate (sul totale dei lavoratori del settore), alla difficoltà di individuazione dei «rischi», che sono molteplici (ambientali, meccanici, chimici, biologici, elettrici, acustici, da amianto), variano durante l’anno ed anche nel corso di una giornata per lo stesso lavoratore, e non sempre sono di agevole individuazione per la quasi totale coincidenza, nella famiglia «diretto-coltivatrice», fra ambiente di lavoro ed ambiente di vita.
La distribuzione territoriale dei rischi è influenzata dalle diverse condizioni economiche e sociali, nonché dall’altimetria, dall’accidentalità e dal clima dei territori considerati, ed è in stretto rapporto con la varietà delle forme organizzative che l’agricoltura assume sul territorio.
La diffusione del «sommerso», in specie l’utilizzo irregolare di lavoratori extracomunitari e di minori, rappresenta un ulteriore elemento di rischio.
Non a caso, anche per l’agricoltura, come nel settore delle costruzioni, si segnala una strana concentrazione di infortuni mortali nella prima giornata o, comunque, nella prima settimana di lavoro: tali dati confermano l’esistenza di una diffusa prassi, in base alla quale il lavoratore irregolare viene denunciato dal datore qualora si verifichi un infortunio.
Pertanto, sono indispensabili politiche di prevenzione mirate e sempre più incisive, attraverso attività di formazione e di informazione capaci di rafforzare negli addetti la conoscenza dei rischi e la consapevolezza della necessità di rispettare la normativa di sicurezza – elementi «culturali» ancora assai carenti nel mondo rurale –.
Nel settore agricolo, infatti, le iniziative formative ed informative incontrano difficoltà obiettive, sia per le modalità e le condizioni di tempo e di luogo delle attività svolte sia per la dispersione delle aziende sul territorio.
La prevalenza di manodopera a tempo determinato, la bassa scolarità e l’età avanzata dei lavoratori, nonché ora le diverse nazionalità degli stessi, le difficoltà di individuazione dei rischi chimici e biologici, la presenza in molte aziende di vere e proprie officine di manutenzione, la tendenza dell’operatore agricolo ad improvvisarsi, di volta in volta, meccanico, fabbro, elettricista, idraulico ostacolano le attività di formazione.
Quanto ha inciso sull’evidente trend in discesa del fenomeno infortunistico in agricoltura la normativa di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994, e successive modificazioni? La risposta non è agevole – sebbene il bilancio complessivo dei risultati della disciplina sia sicuramente positivo –, anche perché sono soltanto poco più di 350.000 le aziende sottoposte concretamente alle disposizioni del suddetto decreto legislativo, essendo in sostanza escluse tutte le aziende familiari e quelle in contoterzi, dove si verifica il 70% degli infortuni.
Il gran dibattito che ha accompagnato la progressiva entrata in vigore del decreto legislativo n. 626 ha contribuito molto a porre l’attenzione di lavoratori ed addetti sulle esigenze di prevenzione ed a far crescere una cultura più attenta ai rischi lavorativi. Si ha però l’impressione che la predetta legislazione si ispiri ad un modello prossimo alla realtà dell’industria e dei servizi, assai distante dalle peculiarità del settore agricolo, il quale, incontrando grande difficoltà nell’assolvimento degli obblighi imposti dalla normativa di sicurezza, non di rado ha «vissuto» quest’ultima come una sovrastruttura burocratica priva di concreta utilità.
Conseguenza negativa di tale percezione, emersa peraltro anche in un’indagine territoriale svolta di recente dalla Regione Emilia-Romagna su oltre un migliaio di imprese, è una tendenza, molto accentuata in agricoltura rispetto agli altri settori produttivi, ad adempiere ai doveri meramente formali, nell’ambito della disciplina sulla prevenzione, ed a tralasciare poi, nello svolgimento delle singole attività, i precetti sostanziali di prudenza e di sicurezza. Per esemplificare, l’agricoltore si preoccupa dell’apposizione dei cartelli di pericolo più che delle necessità di manutenzione delle macchine agricole.
In realtà, sono mancate sia l’adesione convinta ai princìpi ispiratori della normativa sia la realizzazione del sistema partecipativo che vi è sotteso, come confermano anche i dati resi disponibili dal Coordinamento Tecnico del «Progetto interregionale di monitoraggio e controllo sull’applicazione del 626/94 sui luoghi di lavoro», attuato dalle regioni Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Sicilia, Sardegna, Molise.
Gli operatori, quindi, avvertono fortemente l’esigenza di modifiche alla legislazione vigente, che, senza snaturarne l’impianto e tenendo conto di quanto emerso dalle esperienze applicative, la rendano meno farraginosa e più compatibile con l’innegabile specificità del mondo agricolo.
Le tecnopatie manifestatesi in agricoltura nel triennio 2002-2004, denunciate all’INAIL, e quelle manifestatesi nello stesso periodo ed indennizzate a tutto il 30 aprile 2005, recano i seguenti dati (tra parentesi quelli riferiti alle malattie non tabellate):
2002 tecnopatie denunciate 1.029 (756) – riconosciute 303
2003 tecnopatie denunciate 1.068 (828) – riconosciute 275
2004 tecnopatie denunciate 1.030 (808) – riconosciute 181
Si registra, in primo luogo, una preponderanza di ipoacusie (sia tabellate che non tabellate); in secondo luogo, una presenza significativa anche di ipoacusie, di asma bronchiale ed alveoliti allergiche tra le malattie tabellate, e di tendiniti, sindrome del tunnel carpale ed artrosi tra quelle non tabellate.
Pur tenendo conto dell’alto numero di denunce non ancora definite (34 per il 2002, 84 per il 2003 e 291 per il 2004), colpiscono il divario, estremamente ampio, tra tecnopatie denunciate e tecnopatie riconosciute, il trend comunque decrescente negli anni sia delle denunce che dei riconoscimenti, e la lunghezza dei tempi di definizione delle istanze.
Se ai predetti dati si aggiunge che un’elevata percentuale di riconoscimenti di tecnopatie avviene per decisione della magistratura, al termine di lunghi giudizi, la conclusione è che la situazione merita forse qualche ulteriore attenzione anche da parte dell’INAIL.
Quanto alla distribuzione geografica, si nota che il numero delle tecnopatie denunciate nell’anno 2004 è più rilevante in Emilia-Romagna (191 casi), Marche (127 casi), Abruzzo (114 casi), Toscana (111 casi), mentre è stranamente ridotto in Lombardia (25 casi), in Calabria (21 casi) ed in Campania (13 casi).
I dati, soprattutto ove siano presi in considerazione taluni inspiegabili squilibri rilevabili all’interno di aree geografiche omogenee, stridono rispetto alla quantità ed alla qualità dei rischi cui risultano sicuramente esposti gli addetti al settore.
Si ha l’impressione che molti agricoltori, forse a causa di una sottovalutazione della natura usurante di alcune lavorazioni e, in particolare, di quelle svolte in microstrutture aziendali a carattere prevalentemente familiare, stentino a riconoscere la genesi professionale di alcune patologie (soprattutto di quelle legate alla postura, alle polveri, alle vibrazioni, alle attività svolte in condizioni climatiche sfavorevoli o con movimentazione manuale dei carichi) e che, di conseguenza, i dati esposti non rispecchino la reale consistenza del fenomeno.
Restano inoltre da esplorare il campo delle patologie connesse all’amianto e al rischio biologico (leptospirosi, tetano, rabbia, allergie, intossicazioni, shock anafilattico ecc.), che, secondo la cultura medico-legale dominante, rientrano nella categoria degli infortuni, in quanto connotate da «causa violenta», e quello delle patologie legate al rischio chimico, con danni costituiti da esiti cronici o permanenti (funzionalità ridotta di molti organi, neoplasie ecc.) molto gravi.
Si osserva, infine, che l’impiego crescente di macchine espone gli agricoltori a vibrazioni e scuotimenti tali da esercitare azione microtraumatica protratta, soprattutto a carico del gomito e della colonna, con sensibile aumento delle patologie artrosiche.
Le considerazioni che precedono consentono di indicare alcune direttrici di intervento rivolte a:
– razionalizzare una legislazione, spesso contraddittoria, che favorisce il sorgere di aziende di piccola dimensione, rende opaca la gestione delle assunzioni, alimenta situazioni di irregolarità e di sfruttamento della manodopera extracomunitaria, anche clandestina;
– elaborare una più specifica e meno burocratica normativa sulla sicurezza – anche nell’ambito dell’attività legislativa «concorrente» delle regioni –, che muova dal presupposto della diversità ontologica, storica e culturale del lavoro agricolo rispetto a quello dell’industria e del terziario;
– incentivare il rinnovo delle attrezzature agricole con prodotti che rispondano al criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile – criterio divenuto assolutamente dominante nel nostro ordinamento –;
– sostenere l’innovazione tecnologica delle imprese produttrici di macchine agricole, rendendo obbligatoria la certificazione di conformità alle normative di sicurezza imposte dalla legislazione nazionale e comunitaria, attività di cui oggi si fanno lodevolmente carico alcuni enti ed associazioni di costruttori;
– ridefinire la normativa sulla commercializzazione delle macchine e dei prodotti fitosanitari, rendendo obbligatori, per le prime, i manuali d’uso e le attività di manutenzione, per i secondi, le schede tecniche di riferimento;
– intensificare le attività di formazione, d’informazione e di assistenza all’interno delle aziende, calibrando l’offerta formativa sullo «specifico aziendale» ed in risposta ad analitiche mappature delle fonti di rischio;
– rimodulare, mutuando esperienze già avviate per l’industria, il sistema assicurativo, con sconti di premio alle aziende che investono nella sicurezza anche al di là delle condizioni minime previste dalla norma;
– attuare una rete di rilevazione più completa e coordinata dei dati relativi al fenomeno infortunistico, partendo dalle banche dati dell’INAIL e perfezionando l’Intesa sui flussi informativi siglata nel 2002 fra l’INAIL, l’ISPESL e le regioni, che sembra produrre ottimi risultati;
– elaborare, anche ai fini della prevenzione delle tecnopatie, modelli di sorveglianza sanitaria e strumenti, come il libretto sanitario, che consentano di superare le difficoltà connesse alla precarietà dei rapporti ed alla dispersione, anche territoriale, di aziende ed addetti.
Resta centrale, soprattutto in agricoltura, il problema della frantumazione delle competenze assicurative, di tutela e di prevenzione tra enti ed istituzioni diverse, che nuoce all’efficacia delle attività e crea disagio nei destinatari. Al momento, è difficile persino censire quali e quanti siano i soggetti, istituzionali e non, chiamati a svolgere funzioni pubbliche o parapubbliche nel settore, i quali assolvono lodevolmente, secondo possibilità, e spesso anche con fantasia ed apprezzabili tentativi di sinergia, i compiti assegnati o ricavati da una legislazione confusa e contraddittoria.
Al fine di evitare sprechi di risorse umane e finanziarie, con sovrapposizioni di competenze e duplicazioni di attività, occorre prospettare un nuovo assetto istituzionale ed organizzativo del sistema di informazione e di prevenzione, nel quale può esservi posto anche per una pluralità di soggetti, a condizione che quest’ultima venga contenuta in limiti accettabili e che compiti e funzioni siano chiaramente definiti e coordinati.
È affidata, quindi, al necessario confronto sociale, politico ed istituzionale la razionalizzazione del sistema complessivo della prevenzione e della sicurezza del lavoro, con un coordinamento che produca anche la necessaria uniformità negli adempimenti e nelle prescrizioni, attualmente richiesta dalle medesime aziende agricole.
Il quadro di riferimento resta la tutela della salute dei lavoratori, la quale, in virtù dei princìpi espressi dalla legge n. 833 del 1978, è compito fondamentale del Servizio sanitario nazionale, da assolvere non solo nei momenti della cura e della riabilitazione, ma anche e soprattutto con «la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro».
Ciò vale ancora di più per l’agricoltura, settore nel quale l’osmosi tra lavoro ed habitat è evidente e dove la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori si traduce, con la salvaguardia dell’ambiente e con la vigilanza sulle origini della filiera alimentare, in tutela della salute di tutti i cittadini.

3.5 Gli infortuni domestici
La particolarità degli infortuni domestici – fenomeno cui la Commissione ha riconosciuto un’importanza non inferiore a quella degli infortuni in ambienti di lavoro esterno – emerge considerando il luogo in cui essi avvengono e la difficoltà di individuare soggetti ai quali attribuire la responsabilità della prevenzione e della sicurezza.
Il fenomeno, tuttora poco esplorato e perciò di difficile approccio, non va sottovalutato: è rilevante ed è in crescita, soprattutto per via dell’invecchiamento della popolazione. Non riguarda solo le casalinghe, ma tutti coloro che trascorrono la maggior parte del tempo in quelli che vengono definiti gli ambienti di vita: mediamente 128 ore alla settimana, contro 40 ore sul luogo di lavoro. Il tempo nelle abitazioni si avvicina addirittura al 100% in caso di pensionamento, disoccupazione, malattia, maternità, ferie, ecc.
L’attenzione dell’apposito gruppo di lavoro della Commissione si è concentrata sulle persone in età produttiva, ma gran parte delle proposte e conclusioni a cui si è giunti, comunque, vale per la generalità dei soggetti.
Peraltro, si sottolinea la rilevanza degli infortuni riguardanti i minori e gli anziani, sia per le sue ripercussioni etiche e sociali che per le sue dimensioni, venute alla luce attraverso le audizioni.
I dati correlati ai primi anni di applicazione della legge n. 493 del 1999, «Norme per la tutela della salute nelle abitazioni e istituzione dell’assicurazione contro gli infortuni domestici», mostrano che vi sono margini di progresso. La legge, d’altra parte, affronta solo un particolare aspetto del fenomeno degli infortuni domestici.

Stato attuale della normativa e dei controlli
In generale, la normativa vigente, ad esempio quella sulla sicurezza dei prodotti, tiene scarsamente conto dell’obiettivo specifico della prevenzione.
Molti enti si occupano di infortuni domestici: enti di certificazione, INAIL, ISPESL, Istituto Superiore di Sanità. Ciascuno, però, nel proprio ristretto ambito di competenza; manca un coordinamento, che consenta di monitorare adeguatamente il fenomeno e promuovere interventi di prevenzione primaria e secondaria.

La formazione
Un efficace sistema di prevenzione primaria di tutti gli infortuni, non solo di quelli domestici, si ottiene attraverso la formazione.
Mentre in ambito lavorativo il decreto legislativo n. 626 del 1994 individua nel datore di lavoro il soggetto su cui ricade l’obbligo di formazione del dipendente, per gli infortuni domestici non è facile individuare un analogo riferimento. Pertanto, in questo secondo caso, la formazione va intesa come educazione, che coinvolga ogni ordine e grado di scuola nonché l’università. Una generale preparazione scolastica ed universitaria in tema di sicurezza avvantaggerebbe anche il mondo del lavoro – dove ci si potrebbe, di conseguenza, limitare ad integrazioni specifiche, con risparmio di risorse – e darebbe garanzie sull’omogeneità degli obiettivi e dei percorsi formativi di base.
Attualmente, i programmi scolastici possono prevedere progetti specifici sulla sicurezza, con adesione su base volontaria, da parte di insegnanti sensibili al problema. Occorre, invece, introdurre l’argomento come materia scolastica, da insegnare lungo l’intero ciclo degli studi. In particolare, può essere estremamente utile una sorta di addestramento, con prove pratiche.
La formazione dovrà essere mirata e coinvolgere gli enti locali (comune, provincia), le ASL, le associazioni. Nel rispetto delle specifiche competenze degli enti citati e pur rimanendo in capo alla regione la tutela della salute attraverso i Piani sanitari regionali, si propone che le province possano realizzare progetti di formazione, anche rivolti agli adulti, relativi agli infortuni domestici; i comuni, anche attraverso i Piani di zona, potrebbero attivare percorsi contigui all’assistenza sociale, considerando che i soggetti deboli sotto questo profilo sono anche i più esposti agli infortuni in ambito domestico. Già oggi esistono progetti per diminuire le cadute degli ultraottantenni, attraverso valutazioni fisiatriche, consulenze sull’ergonomia delle abitazioni, ottimizzazione dei farmaci suscettibili di aumentare il rischio suddetto, e corsi di ginnastica.
D’altro canto, la legge n. 493 del 1999, nell’art. 5, comma 2, già prevede che le regioni e le province autonome possano, sulla base delle linee guida definite ai sensi del precedente comma 1, elaborare programmi informativi e formativi in relazione agli infortuni negli ambienti di civile abitazione. Data però la scarsa applicazione finora avuta da questa disposizione, sarebbe meglio che tale facoltà si trasformasse in obbligo, mantenendo obiettivi e metodi.
Sarebbe poi opportuno creare un coordinamento e un fondo per il finanziamento di tali programmi, non direttamente di competenza del Ministero della salute (Dicastero a cui fa riferimento in via principale la legge n. 493), ma presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che agirebbe di concerto con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Ministero della salute.

L’informazione
Accanto alle iniziative rivolte ai più giovani, si raccomandano campagne informative per gli adulti, con particolare riguardo alle categorie più esposte (donne e ultrasessantenni), attraverso canali comunicativi quali televisione, radio, cartelloni e altri mezzi pubblicitari. In proposito, rimangono validi i contenuti dell’art. 5 («Attività di informazione e di educazione») della legge n. 493. Il finanziamento di tali campagne potrebbe essere imputato direttamente alle aziende, richiamandone la responsabilità sociale negli incidenti domestici. Inoltre, si dovrebbero studiare convenzioni con i mezzi di comunicazione di massa, al fine di avere a disposizione spazi a tariffa agevolata o gratuiti (sul modello della pubblicità-progresso).
Si potrebbero cercare sponsorizzazioni delle campagne per la sicurezza, coinvolgendo i privati, i quali in cambio otterrebbero positivi ritorni di immagine.

Casa sicura
Il fenomeno degli infortuni domestici richiede una normativa propria, distinta da quella che si applica nei luoghi di lavoro. Sebbene il decreto legislativo n. 626 del 1994 sia stato pensato per le grandi aziende e, per alcuni aspetti, il suo adattamento alle piccole imprese sia difficoltoso o poco efficace, tale disciplina potrebbe essere un modello al quale rifarsi.
Così, sulla falsariga del documento di valutazione dei rischi, si potrebbe pensare ad un «piano della sicurezza delle abitazioni», in sinergia con campagne di sensibilizzazione sui rischi. Inoltre, si potrebbe disegnare un corrispettivo della figura del rappresentante territoriale per la sicurezza dei lavoratori, coinvolgendo associazioni dei consumatori, ASL, sindacati e coordinamenti dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori.
Il ruolo di vigilanza di comuni e province va potenziato, e le verifiche degli impianti (gas, elettricità, ecc.) dovrebbero essere svolte in maniera capillare. Gli addetti alla vigilanza potrebbero essere affiancati da tecnici di fiducia del cittadino, anche allo scopo di facilitare l’applicazione di eventuali prescrizioni o di interventi per la messa a norma di impianti.
Presso le ASL, si potrebbero aprire sportelli per i cittadini, che li orientino rispetto alla normativa in materia di sicurezza negli ambienti di vita e ai relativi finanziamenti a disposizione. Ancora in tema di ASL, occorrerebbe potenziare i servizi di prevenzione e vigilanza esistenti, incremendando gli organici, migliorando la formazione dei professionisti della sicurezza e aumentando i finanziamenti.
L’istituzione di coordinamenti dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori, presso le ASL, consentirebbe di mettere le loro competenze anche a disposizione di coloro la cui attività prevalente si svolga in ambito domestico.

Il coordinamento: osservatorio nazionale degli infortuni domestici
La complessità e la novità dei sistemi di prevenzione e di monitoraggio, nonché la molteplicità di soggetti coinvolti – enti locali, Servizio sanitario nazionale, INAIL, associazioni – impongono di attivare quel coordinamento che al momento manca, sia a livello locale (regionale e provinciale) sia a livello nazionale. Di fatto, non sembra applicata neanche l’indicazione contenuta nell’art. 3, comma 6, della legge n. 493 del 1999, secondo il quale il Governo, d’intesa con le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, promuove una conferenza nazionale, in materia di prevenzione degli infortuni domestici, al fine di verificare i risultati raggiunti, di programmare gli interventi e di determinare l’entità delle risorse ad essi destinate.
Si propone, dunque, di istituire un osservatorio nazionale degli infortuni domestici presso il Ministero della salute.
L’osservatorio dovrebbe occuparsi anche del monitoraggio delle «malattie professionali domestiche». Si sa che molte patologie anche gravissime potrebbero derivare da lavori domestici, ma non vi è un’istituzione preposta alla verifica, al controllo e alla programmazione degli interventi di prevenzione o di risarcimento del danno dovuto alla malattia.

I prodotti e gli impianti
Su prodotti ed impianti si possono attuare alcuni interventi utili al miglioramento della sicurezza nelle abitazioni e nei luoghi di vita.
Ad esempio, il marchio di qualità sui prodotti, rilasciato a seguito di verifiche e di test da parte di un organismo terzo, specializzato nell’applicazione delle normative sulla sicurezza, garantisce i consumatori, ma comporta costi aggiuntivi per le aziende che decidono di apporlo, le quali dunque meritano sostegno. Inoltre, in considerazione del valore sociale della sicurezza dei prodotti, si potrebbero finanziare campagne di rottamazione degli elettrodomestici obsoleti e fuori norma, ottenendo benefici pure in termini di risparmio energetico e di rilancio dell’economia.
Per gli impianti, occorre intensificare i controlli ed incentivare gli interventi per la messa a norma, come si accennava anche prima. L’informazione sul rischio connesso al cattivo stato degli impianti, di per sé, può giovare alla prevenzione. Si pensi agli avvelenamenti da monossido di carbonio, riportati dalla cronaca: si può insegnare che non si tratta di fatalità, ma che usando le dovute precauzioni tali incidenti possono essere evitati.
Per i prodotti chimici di uso domestico servirebbe una sorta di classificazione in base al rischio, istituendo simboli grafici chiaramente leggibili da tutti, nonché un certificato di garanzia di «prodotto sicuro». In generale, bisogna rimuovere ogni ostacolo economico all’introduzione di tecnologie, prodotti, accorgimenti migliorativi delle condizioni di sicurezza per la popolazione.

Il risarcimento
Dalle audizioni, è emersa la necessità e la possibilità di ridurre – modificando il comma 4 dell’art. 7 della legge n. 493 del 1999 – il limite minimo di invalidità, ai fini del diritto all’indennizzo, dal 33% al 26%.
Da un lato, infatti, il parametro vigente è tale da escludere dall’indennizzo la maggior parte degli infortuni, anche gravi, tanto che le indennità erogate nei primi quattro anni e mezzo di applicazione della legge n. 493 (più precisamente, dal 1º marzo 2001 al 30 settembre 2005) sono solo 162; dall’altro, si registra un ampio avanzo di gestione e, dunque, ci sono i presupposti finanziari per accogliere un maggior numero di richieste, improntando il bilancio del Fondo di cui alla legge n. 493 all’obiettivo tendenziale del pareggio. Inoltre, il Comitato di gestione del Fondo propone di attribuire l’indennizzo agli eredi, in caso di decesso (a seguito di infortunio domestico) dell’assicurato. L’opportunità di rivedere la normativa nel senso indicato sopra è confermata anche da molteplici proposte di legge presentate in Parlamento.
È altresì necessario determinare un limite temporale entro il quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali debba deliberare sulla percentuale di invalidità che dà diritto all’indennizzo (ad esempio, 90 giorni dalla trasmissione del parere del summenzionato Comitato di gestione del Fondo), nonché una cadenza periodica per successive revisioni.

Conclusioni
In definitiva, in parte si tratta di applicare meglio strumenti normativi esistenti e, in altra parte, di introdurne di nuovi. Si può fare molto a livello organizzativo e di coordinamento, migliorando l’efficacia delle strutture esistenti, senza neppure bisogno di investire grandi risorse.

Il testo unico
Si ravvisa la necessità di semplificare ed unificare la normativa di sicurezza attraverso un testo unico. Le disposizioni che hanno giovato alla prevenzione degli infortuni vanno mantenute, ma occorrerà tener presente l’evoluzione avvenuta nel sistema produttivo italiano, oggi molto più frammentato che in passato. Inoltre, il proliferare dei lavori atipici suggerisce di riformare alcuni istituti, a partire da quello della rappresentanza.
Di fronte all’ampliamento del terziario rispetto al settore industriale, poi, può risultare utile un sistema di prevenzione che tuteli contemporaneamente i lavoratori e gli utenti dei servizi. Anche questo può favorire un’equiparazione tra chi lavora in ambito domestico e chi opera nei tradizionali luoghi di lavoro. Ovviamente, tutto ciò comporta la creazione di strutture adeguate.

Il monitoraggio
Oltre agli strumenti precedentemente indicati, si deve dare attuazione alla disciplina di cui all’art. 4 della legge n. 493 del 1999, che prevede un sistema informativo sui dati relativi agli infortuni domestici.
Occorrerebbero altresì strumenti di monitoraggio per due categorie particolari di lavoratori impegnati in ambito domestico: i collaboratori domestici e le badanti. Formalmente, gli uni e le altre rientrano nella normativa generale lavoristica, in quanto hanno datore, contratto, rapporto di lavoro, ma, d’altra parte, sfuggono alla verifica dell’applicazione piena della disciplina stessa.

Spazi di approfondimento
In futuro, le presenti analisi sulla sicurezza negli ambienti di vita potrebbero essere integrate, prendendo in esame anche il cosiddetto telelavoro e il lavoro a domicilio.

3.6 I settori marittimo, portuale e della cantieristica navale
Il comparto marittimo e quelli delle operazioni portuali e della cantieristica navale sono stati oggetto di regolamentazione specifica, per quanto attiene la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro, attraverso i decreti legislativi n. 271 del 1999 (lavoratori sulle navi mercantili da pesca) e n. 272 del 1999 (operazioni e servizi portuali nonché costruzione, riparazione e manutenzione di navi in ambito portuale).
Si ricorda che la Commissione ha audito, in sede plenaria, le organizzazioni di categoria competenti per il settore portuale e che una delegazione della Commissione ha svolto un sopralluogo nel porto e nei cantieri navali di Genova (svolgendo altresì audizioni in merito presso la Prefettura).
Dalle indagini è emerso un panorama di luci ed ombre: spesso le norme specifiche sulla sicurezza sono presenti, ma applicate in maniera formale; soprattutto, considerata la frammentazione di questi cicli produttivi, manca ancora un’adeguata adozione di linee guida, che coordinino e integrino le modalità di lavoro e di sicurezza sia tra marittimi e portuali sia all’interno dei cantieri navali.

Settore marittimo
Questo settore è in profonda trasformazione, per il triplice effetto della crescita dei traffici, di un processo di «deterritorializzazione» delle navi e di uno di sovrapposizione di diverse nazionalità tra il personale imbarcato.
Sono necessari nuovi strumenti per l’effettiva applicazione della normativa sulla sicurezza, oltre che al personale straniero imbarcato su navi battenti bandiera italiana, anche al personale italiano imbarcato su navi con bandiera straniera, ma la cui proprietà mantenga in qualche modo evidenti rapporti e radici con il territorio nazionale. Inoltre, c’è il caso del personale (italiano o straniero) su navi straniere che naviga principalmente, se non esclusivamente, in acque nazionali e che è nondimeno escluso dal sistema assicurativo dell’IPSEMA.
La crescita di personale femminile nel comparto passeggeri e crocieristico impone nuove forme di tutela per la donna.
La disciplina sulla sicurezza in mare, a partire dagli ultimi anni, contempla regole applicate su scala internazionale, con le quali la normativa nazionale deve integrarsi in una logica di armonizzazione, evitando contraddizioni o inutili sovrapposizioni.
In base ai dati forniti dall’IPSEMA, la principale causa di incidenti è il mancato uso dei dispositivi di protezione individuale o la loro inadeguatezza.
Sono necessari, dunque, controlli maggiori a bordo – prevedendo un coinvolgimento delle ASL – e un impegno per superare la non idoneità di parte degli attuali dispositivi.
Si registra poi un’obiettiva difficoltà nell’elezione dei rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori, dovuta all’instabilità del rapporto di lavoro.
Per ovviare al problema, si raccomandano un rafforzamento del sistema formativo e l’adozione di forme di coordinamento dei medesimi rappresentanti anche dopo lo sbarco, magari in forme consorziate tra più aziende o attraverso le stesse organizzazioni sindacali delle imprese (come la Confitarma).
Un ultimo aspetto riguarda l’estrema frammentazione del settore per quanto attiene il sistema assicurativo. Essa va superata mediante un inquadramento pubblico e unico, da avviare in un contesto di razionalizzazione e semplificazione dei soggetti gestori. Si potrebbe perciò ipotizzare un collocamento esclusivo nell’INAIL di tutti i marittimi, con l’assorbimento dell’IPSEMA. Tale ricomposizione rafforzerebbe l’unicità del settore, e garantirebbe la professionalità acquisita in tanti anni dall’IPSEMA stesso.

Settore portuale
La crescita dei traffici, l’intensificazione e il prolungamento del lavoro, nonché la diffusione del criterio della «nave a finire» (il quale contempla la possibilità di lasciare il posto di lavoro anzitempo, non appena raggiunti gli obiettivi prefissati, con conseguente accelerazione del ciclo stesso), determinano un aumento degli infortuni nel settore portuale.
Occorre quindi migliorare la normativa vigente, rendendo obbligatoria la costituzione, da parte delle Autorità portuali e marittime, dei comitati di igiene e sicurezza previsti dal decreto legislativo n. 272 del 1999.
Tale soggetto deve essere una sede istituzionale di confronto e coordinamento per la prevenzione, nonché il responsabile della verifica della formazione avvenuta in ambito portuale. Per quest’ultimo aspetto, si attendono i criteri, previsti dal decreto legislativo n. 272, di formazione e aggiornamento per gli addetti alle operazioni e ai servizi portuali, senza i quali non esistono standard formativi di riferimento. Inoltre, occorrerebbero vere e proprie scuole portuali, con la partecipazione ed il controllo (anche ai fini della certificazione di un’adeguata formazione per i nuovi assunti) di tutte le parti interessate.
Nei porti, infine, esistono molteplici soggetti atti alla vigilanza sulla sicurezza, ma con poca capacità di coordinamento e armonizzazione. Devono essere ricercate forme di integrazione delle risorse esistenti. Le competenze di vigilanza e controllo affidate alle Autorità portuali sono state spesso svolte con difficoltà, a causa del ruolo di cerniera, esercitato dalle medesime Autorità, tra l’ambito commerciale ed il coordinamento istituzionale.
Si potrebbe quindi pensare, in una logica di ricomposizione delle competenze e di maggiore efficacia, di collocare il personale ispettivo delle suddette Autorità alle dipendenze funzionali delle ASL; tale soluzione consentirebbe l’incremento degli organici effettivi di queste ultime, senza oneri di carattere economico, e permetterebbe alle Autorità portuali di concentrarsi sull’attività di controllo di tipo amministrativo nei confronti delle imprese portuali autorizzate.

Settore della cantieristica navale
Il settore sia delle costruzioni sia delle riparazioni beneficia della crescita dei traffici marittimi.
Tali attività presentano, in maniera ricorrente, un problema, già esaminato in altri punti della relazione: la convivenza, all’interno del sito produttivo, di molteplici soggetti operativi, spesso sotto la regia di un’impresa madre, ma a volte, nel settore delle riparazioni, senza neppure questa presenza sovraordinatrice. In tali siti, i principali fattori che causano incidenti sono riconducibili all’organizzazione del lavoro. In questa frammentazione organizzativa, la micro-impresa è quella contraddistinta da un basso grado di formazione alla sicurezza e da un numero maggiore di infortuni. Le cosiddette interferenze di lavoro, dovute all’assenza di un’effettiva regia, sono motivo di incidenti e di pericolo; un altro fattore di rischio è costituito dall’elevato livello di mobilità di persone e soprattutto di mezzi all’interno del sito produttivo. Pertanto, deve essere aumentato il grado di responsabilità dell’azienda madre. Quest’ultima deve farsi carico, dal punto di vista organizzativo, della sicurezza dell’intero ciclo produttivo e del suo controllo costante, al di là degli stretti confini di un regime di appalto.
Considerata la segmentazione del ciclo produttivo, sono necessarie nuove e stabili forme di coordinamento sia tra i rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori operanti nei cantieri sia tra i medesimi rappresentanti ed i rispettivi responsabili dei servizi di prevenzione e protezione.
Nei luoghi dove il lavoro è più stabile e prolungato (in particolare, nel settore delle costruzioni), è necessario prevedere forme di rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza uniche, di sito, capaci di avere un confronto completo con i dirigenti delle aziende che operano nel cantiere e con i responsabili dei servizi di prevenzione e protezione.

Considerazioni finali
Tra le proposte di miglioramento per i settori esaminati nel presente capitolo, si segnala l’attivazione di strumenti contro il lavoro irregolare, quali: il tesserino di accesso all’area porto, l’obbligo di comunicare l’instaurazione di un rapporto di lavoro in via preventiva (cioè, il giorno precedente) e il documento unico di regolarità contributiva (con relativa revisione periodica). Inoltre, si suggerisce che per il settore marittimo, dove esiste una normativa di carattere internazionale, quest’ultima contenga anche indicazioni cogenti rispetto alla sicurezza e alla tutela della salute.

4. Considerazioni conclusive
In sede di sintesi finale dell’attività della Commissione, si intendono tracciare alcune considerazioni conclusive e proposte, anche al fine di concorrere allo sviluppo della riflessione, nonché, in particolare, all’elaborazione di interventi normativi che – questo è l’auspicio – potranno essere definiti nella nuova legislatura.
La prima esigenza fondamentale, riscontrata tante volte nel corso dell’attività della Commissione, è rappresentata dall’adozione di un testo unico o codice in materia di sicurezza sul lavoro13.
Tale strumento consentirebbe innanzitutto il riordino e l’unificazione della disciplina.
È noto come la complessa legislazione, intervenuta negli ultimi dodici anni in materia al fine del recepimento della disciplina comunitaria, si sia sovrapposta a precedenti corpi normativi. La compresenza dei vecchi provvedimenti, tuttora vigenti, improntati spesso a princìpi di logica giuridica differenti rispetto all’impianto comunitario, rende necessaria una ridefinizione organica.
Ma l’elaborazione del testo unico o codice dovrebbe naturalmente essere intesa anche ad apportare le modifiche rese necessarie sia dall’evoluzione dello scenario economico e sociale (e, in particolare, dalle trasformazioni intervenute nell’economia negli ultimi anni) sia dalle esperienze applicative della disciplina di cui al decreto legislativo n. 626 sin qui maturate – che attestano l’esigenza di alcuni sviluppi ed integrazioni –.
La revisione della normativa dovrà mirare soprattutto a promuovere la prevenzione ed il coordinamento.
Come prospettato più in dettaglio nella parte generale della relazione (capitolo 2), appare necessaria l’adozione di una struttura di coordinamento a livello regionale tra i vari assessorati interessati al settore della sicurezza (cioè, degli assessorati competenti in materia di lavoro pubblico e privato, salute, politiche sociali, formazione professionale). Tale struttura dovrebbe costituire una sede: di programmazione ed indirizzo; di concertazione con le parti sociali e di consultazione degli organismi paritetici; di coordinamento degli altri soggetti competenti per la prevenzione e la vigilanza.
A livello nazionale, ad una corrispondente struttura (espressione dei Ministeri competenti nelle suddette materie) dovrebbe essere affidato il compito di indirizzo generale e di promozione delle attività di coordinamento.
Tali organismi costituirebbero naturalmente la premessa per la piena attivazione del coordinamento anche su scala periferica (all’interno delle singole aree del territorio regionale).
Queste forme di sinergia consentono di sopperire solo in parte alle carenze di organico o di risorse finanziarie, che spesso presentano le amministrazioni pubbliche competenti nel settore della sicurezza. E ` necessario, quindi, un potenziamento, anche quantitativo, delle medesime, al fine di elevare il livello delle attività di prevenzione e di vigilanza.
Con specifico riguardo alle aziende sanitarie locali, la Commissione ha rilevato l’esigenza della definizione – in termini vincolanti e con misure di garanzia circa l’effettivo rispetto della norma – di un limite minimo di risorse finanziarie da destinare alla prevenzione in materia di sicurezza sul lavoro; tale valore potrebbe essere determinato in una percentuale del complesso della spesa sanitaria corrente dell’azienda – ferma restando, in ogni caso, l’attribuzione di livelli quantitativi adeguati –. Sarebbe poi opportuno che i proventi derivanti dall’attività di vigilanza delle ASL siano destinati ai servizi di prevenzione delle stesse (attualmente, le regioni presentano un quadro eterogeneo riguardo all’impiego di tali risorse).
Come visto, l’attenzione della Commissione si è soffermata altresì sui profili inerenti alle disponibilità finanziarie dell’INAIL. L’auspicio è che esse vengano impiegate in modo selettivo, al fine di:
– attuare politiche mirate di sostegno ed incentivo alla prevenzione – ivi compreso lo sviluppo di strumenti già esistenti, quali l’articolazione delle tariffe premi secondo un criterio di bonus-malus e il finanziamento dei programmi di adeguamento alla normativa sulla sicurezza da parte di imprese piccole e medie e di quelle appartenenti ai settori agricolo e artigianale, nonché dei progetti per favorire l’informazione e la formazione da parte dei lavoratori –;
– ampliare la tutela assicurativa, con particolare riferimento all’ambito delle malattie professionali (anche non tabellate).
Riguardo, più in generale, al ruolo dell’INAIL, occorrerebbe estendere la sua sfera di competenze in materia di prevenzione e di riabilitazione – mediante sia una revisione normativa di tali profili sia la crescita e l’ampliamento delle convenzioni tra l’Istituto e le regioni –.
Dall’esame (svolto nel capitolo 2, a cui si rinvia per osservazioni più analitiche) delle problematiche relative all’informazione e formazione dei lavoratori, nonché dei responsabili e degli addetti ai servizi di prevenzione e protezione e dei rappresentanti per la sicurezza, è emersa, in primo luogo, l’esigenza di un incremento quantitativo e qualitativo di tali attività.
Esso dovrebbe comprendere (come meglio specificato nel medesimo capitolo 2) anche l’inserimento della materia sia in ogni percorso di formazione professionale sia nei programmi scolastici ed universitari; inoltre, occorre valutare in quali termini estendere gli obblighi di formazione ad alcune categorie di lavoratori autonomi, in particolare agli artigiani. In secondo luogo, appaiono necessarie adeguate forme sia di accredito dei soggetti formatori sia di certificazione della formazione acquisita; a quest’ultimo riguardo, una modalità di certificazione (per i lavoratori e, distintamente, per i rappresentanti per la sicurezza) potrebbe consistere nell’introduzione di un’apposita sezione nell’ambito del «libretto formativo del cittadino» di recente istituito.
La Commissione propone l’introduzione anche di un altro strumento di conoscenza – che, al pari di quello appena menzionato, costituirebbe un riferimento importante sia all’interno dell’azienda sia per gli organi di prevenzione e di vigilanza –: un libretto sanitario in cui si indichino (fermo restando il rispetto del diritto alla riservatezza) i fattori a cui il lavoratore sia esposto, ovvero sia stato esposto in precedenti attività, e che potrebbero determinare l’insorgere di una malattia.
Tale documento, peraltro, consentirebbe di elevare il livello dei dati degli attuali sistemi di «registrazione», relativi ai tumori ed ai casi di asbestosi e di mesotelioma asbesto-correlati, ed agevolerebbe l’estensione dei medesimi sistemi ad altre malattie. Occorre poi assicurare che questi ultimi siano pienamente operanti – in primo luogo, disponendo in termini vincolanti che le strutture sanitarie inviino i relativi dati –, poiché oggi essi presentano un’applicazione molto parziale e tendenzialmente limitata ad alcune regioni.
Sempre in tema di sorveglianza sanitaria, la Commissione ha rilevato l’esigenza di introdurre, per alcune fattispecie, una norma che imponga lo svolgimento di un’apposita visita – da parte del medico competente – dopo un’assenza per infortunio o malattia.
Un’attenzione particolare merita poi il problema delle malattie professionali non tabellate (la cui incidenza, come visto, è in fase crescente) e delle patologie derivanti da fattori di rischio – di natura sia materiale sia organizzativa e psicologica – non ancora ben identificati, soprattutto con riferimento all’esposizione a sostanze cancerogene e mutagene, oltre che ad attività in cui l’ergonomia può essere causa di malattie professionali, che incidono differentemente rispetto al genere. Appaiono necessari, al riguardo, sia una revisione normativa sia uno sviluppo: della ricerca scientifica preventiva sui fattori di rischio; delle attività di prevenzione e di cooperazione nelle singole aziende. Una particolare esigenza di approfondimento delle conoscenze e di ampliamento della tutela riguarda gli effetti dei suddetti fattori sulle lavoratrici – in specie, su quelle in stato di gravidanza o puerperio nonché in alcuni settori, come quello agricolo –.
Si rileva inoltre la necessità di una semplificazione delle procedure INAIL per il riconoscimento delle malattie professionali (tabellate e non tabellate), anche al fine della riduzione dei tempi.
Occorre poi, in attuazione di una specifica norma di legge (articolo 10, comma 5, del decreto legislativo n. 38 del 2000), istituire presso l’INAIL il registro nazionale delle malattie professionali. è bene qui ricordare che una delle finalità a cui è inteso tale strumento consiste nella rilevazione del fenomeno delle malattie «sommerse», cioè di quelle patologie che, pur essendo di certa o probabile origine lavorativa, non vengono denunciate.
Sempre con riferimento al campo della prevenzione, la Commissione ha posto particolare attenzione anche ad altre problematiche.
Una di esse concerne i rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori. In base alle considerazioni, già svolte nella parte generale (capitolo 2), sugli aspetti critici di una commistione di tale figura con le rappresentanze sindacali aziendali nonché sull’assenza, in molti casi, della stessa elezione o designazione e sulla mancanza di dati statistici certi in materia, si avanzano qui alcune proposte.
Occorrerebbe stabilire una data a livello nazionale (election day), in cui procedere alle elezioni dei rappresentanti per la sicurezza (e alle successive rielezioni alla scadenza del mandato, la cui durata potrebbe essere fissata in tre anni). Alle elezioni dovrebbero in ogni caso partecipare, sotto il profilo attivo e passivo, tutti i lavoratori interessati, superando, attraverso modalità da concordare con le parti sociali, la possibilità, attualmente prevista, di limitazione all’ambito delle rappresentanze sindacali aziendali. È necessaria, inoltre, l’istituzione di un’anagrafe dei medesimi rappresentanti per la sicurezza – articolata a livello regionale, presso le summenzionate strutture di coordinamento da costituire tra i vari assessorati, e con raccordo nazionale presso il CNEL –, che consenta di verificare l’attuazione in via generale dell’istituto.
Si tratta, nel complesso, di proposte intese a conferire forza e dignità a tale figura, alla quale è affidato un ruolo scomodo, che spesso i rappresentanti sono costretti a svolgere in solitudine e senza supporto.
In merito alla categoria del medico competente e, in particolare, alla possibilità di adozione di un intervento restrittivo sui titoli di legittimazione per tale professione, si rinvia ad alcune considerazioni e proposte svolte nella parte generale della relazione (capitolo 2).
Un’altra problematica inerente alla prevenzione ed alla cooperazione su cui la Commissione si è molto soffermata riguarda le imprese appaltatrici e fornitrici che operano all’interno delle strutture del committente.
Si è riscontrato come le norme vigenti, che pur stabiliscono alcuni obblighi generali di cooperazione e coordinamento (in materia di sicurezza) a carico del committente, non siano sufficienti – le disposizioni, peraltro, attualmente non riguardano la fattispecie del contratto di somministrazione né altre formule contrattuali atipiche –. In particolare, occorrono: una più specifica qualificazione ed un ampliamento di tali responsabilità, con riferimento agli aspetti del controllo amministrativo, della formazione e dell’organizzazione del lavoro; una forma stretta di coordinamento tra i responsabili del servizio di prevenzione e protezione (dei diversi datori) ed all’interno dei rappresentanti per la sicurezza. Riguardo a questi ultimi, la disciplina dovrebbe anche ammettere la possibilità della figura unitaria dei «rappresentanti di sito produttivo». Inoltre, come già rilevato, alcune esperienze indicano che uno strumento di controllo importante può essere costituito dall’obbligo, per i lavoratori delle imprese appaltatrici o fornitrici, di un tesserino identificativo, ai fini dell’accesso all’interno dell’azienda del committente.
Le considerazioni qui riassunte valgono anche con riferimento ai lavoratori autonomi che si trovino ad operare all’interno delle strutture di un’impresa.
Nella parte generale della relazione (capitolo 2), si sono prese in esame anche alcune recenti vicende normative, intervenute nel settore della sicurezza o aventi in merito importanti riflessi, come: l’estensione della disciplina di cui al decreto legislativo n. 626 ad alcune categorie di lavoratori atipici; l’obbligo per il datore, nel settore edile, di comunicare l’instaurazione di un rapporto di lavoro in via preventiva (cioè, il giorno precedente); la modifica delle sanzioni in materia di lavoro sommerso; l’introduzione del documento unico di regolarità contributiva.
Rinviando per osservazioni più puntuali alla suddetta trattazione, nonché a quella del successivo capitolo 3, si devono qui ribadire alcune esigenze fondamentali.
Occorre attuare, per il settore edile, il principio (non ancora operante) della comunicazione il giorno precedente l’instaurazione del rapporto e valutare a quali altri settori sia opportuno estendere tale obbligo. Anche per il documento unico di regolarità contributiva è auspicabile un ampliamento dell’attuale campo di applicazione.
Naturalmente le estensioni in esame dovrebbero riguardare soprattutto i settori in cui il fenomeno del lavoro nero sia particolarmente rilevante, tra cui si ricorda quello delle imprese che svolgono lavori, servizi o forniture per conto di altre aziende.
Per il medesimo documento unico, la Commissione propone l’adozione di frequenze di aggiornamento e di verifica più intense rispetto all’attuale disciplina.
Una specifica menzione deve essere operata per il problema degli infortuni domestici, riguardanti sia i lavoratori retribuiti (collaboratori familiari) sia le attività non retribuite.
Riguardo a queste ultime, appare necessaria, in primo luogo, una revisione della disciplina, al fine di estendere l’ambito degli infortuni tutelati (da un lato, ricomprendendo quelli mortali, dall’altro riducendo il grado minimo di invalidità che dà diritto all’indennizzo).
Occorrerebbe inoltre promuovere l’informazione e la formazione alla sicurezza negli ambienti domestici – sicurezza che concerne, naturalmente, non solo le persone la cui attività prevalente sia quella domestica non retribuita, ma tutti i cittadini -; si dovrebbe altresì ricorrere a campagne in favore della messa a norma degli impianti e a meccanismi pubblici di incentivo alla rottamazione degli oggetti vetusti.
Tali interventi costituiscono senza dubbio parte integrante di una strategia – della quale beneficerebbero anche le imprese – intesa a garantire un livello di prevenzione di base per tutti gli ambienti di vita.
Sotto un diverso versante, una particolare attenzione va dedicata al contrasto della tendenza a mascherare, come infortuni avvenuti in ambito casalingo, incidenti occorsi, durante l’esercizio delle proprie mansioni, a lavoratori non regolari. Per approfondire questo ed altri aspetti ancora poco noti del fenomeno, occorrerebbe: costituire un osservatorio presso il Ministero della salute; predisporre un piano nazionale per la sicurezza nelle abitazioni; istituire un registro nazionale per gli infortuni domestici ed uno per le malattie professionali causate da esposizioni in ambito domestico.
Tra i vari documenti di rilievo acquisiti dalla Commissione, ci si limita, in questa sede, a menzionare le osservazioni esposte nel documento della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione del 28 gennaio 2005 e relative allo schema di testo unico in materia di sicurezza predisposto dal Governo nella presente legislatura14.
Riguardo, infine, al problema delle conoscenze statistiche nel settore della sicurezza, la Commissione propone l’adozione – mediante il coordinamento tra i Ministeri interessati e le regioni nonché lo sviluppo delle attuali esperienze di «flussi informativi» INAIL-ISPESL-regioni – di un registro generale degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, al fine di superare le attuali carenze nei sistemi di rilevamento dei dati (carenze gravi soprattutto per il campo delle malattie professionali e per quello degli infortuni relativi al lavoro atipico e flessibile). A tale strumento
dovrebbero essere connesse altre forme di intervento in materia, quali: l’istituzione di osservatori a livello locale e regionale, volti ad individuare e valutare preventivamente le lavorazioni insalubri e pericolose e le aree a rischio (si pensi, per esempio, alle difficoltà attuali per la ricognizione delle situazioni a rischio di amianto); l’attivazione, da parte delle regioni, di sistemi di sorveglianza sanitaria nei confronti dei lavoratori già esposti a sostanze nocive, in particolare quelle cancerogene e mutagene (come l’amianto e il cloruro di vinile monomero).
L’insieme di tali strumenti consentirebbe il costante e completo monitoraggio dei fenomeni, nonché – si spera – degli effetti concreti delle innovazioni normative ed amministrative, dei cambiamenti nelle prassi sociali ed aziendali, che dovranno costituire gli elementi essenziali per la crescita della cultura della sicurezza.

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1 Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 71 del 26 marzo 2005.
2 Tale programma è stato redatto dal Presidente Tofani, sulla base delle determinazioni dell’Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi parlamentari, e comunicato alla Commissione nella seduta del 5 luglio 2005.
3 La suddetta proroga è stata approvata, in sede deliberante, dalla XI Commissione permanente (Lavoro e previdenza sociale) il 5 ottobre 2005, sulla base della proposta presentata da tutti i senatori membri della Commissione di inchiesta.
4 Come già ricordato, il programma è stato poi redatto, sulla base delle determinazioni del suddetto Ufficio di Presidenza integrato, dal Presidente Tofani e comunicato alla Commissione nella seduta del 5 luglio 2005.
5 In merito, cfr. il capitolo 1 della presente relazione finale.
6 Si intendono con tale espressione, in genere, le malattie il cui nesso di causalità con l’attività lavorativa non sia di natura certa (malattie professionali non riscontrate o non riconosciute).
7 Cfr. l’allegato alla relazione finale del medesimo gruppo.
8 Cfr. il documento della Direzione Centrale Prestazioni dell’INAIL, Le malattie professionali e la tutela assicurativa, del 15 novembre 2005.
9 Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124.
10 L’UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione) è un’associazione privata senza scopo di lucro, che svolge attività normativa in quasi tutti i settori industriali, commerciali e del terziario. Il ruolo dell’UNI, quale organismo nazionale italiano di normazione, è stato riconosciuto dall’ordinamento comunitario e da quello interno.
L’UNI partecipa, in rappresentanza dell’Italia, all’attività normativa degli organismi sovranazionali di normazione: ISO (International Organization for Standardization) e CEN (Comité Européen de Normalisation).
11 Cioè quelli il cui possibile effetto dannoso non dipende da una concentrazione o livello particolari di esposizione alla sostanza.
12 Le suddette differenze negative si riferiscono naturalmente al dato dell’anno precedente.
13 Si intende qui ovviamente per codice, secondo una nozione ormai largamente diffusa, un provvedimento che operi, al contempo, la revisione e la raccolta di tutte le norme di settore di rango legislativo.
14 Un elenco completo delle acquisizioni di documenti effettuate dalla Commissione (ivi comprese quelle operate dai gruppi di lavoro) è allegato alla presente relazione.


Fonte: Senato della Repubblica