Omissione dolosa di cautele antinfortunistiche da parte di due dirigenti che, pur nella consapevolezza della necessità di sostituire una valvola che " trafilava", avevano provveduto ad adottare misure "tampone" meramente provvisorie e insufficienti provocando una fuga di ammoniaca di ben cinque tonnellate e molestie a una trentina di dipendenti di altra ditta.


 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FABBRI Gianvittore Presidente del 20/04/2 - -
Dott. GIRONI Emilio Consigliere SENTE - -
Dott. VANCHERI Angelo Consigliere N. - -
Dott. GRANERO Francantonio Consigliere REGISTRO GENER - -
Dott. TURONE Giuliano Cesare Consigliere N. 001683/2 - -
ha pronunciato la seguente:


SENTENZA/ORDINANZA

 

sul ricorso proposto da:
1) S.C. N. IL (OMISSIS);
2) A.E. N. IL (OMISSIS);
3) ENICHEM SPA (ORA SYNDIAL SPA);
avverso SENTENZA del 27/04/2005 CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott.
TURONE GIULIANO CESARE;
Udita la requisitoria del P.G. Dr. Meloni, che ha concluso per il
rigetto dei ricorsi;
Udite le arringhe dei difensori Avv.ti Domenico Pulitane, Luigi
Fornari (in sostituzione dell'Avv. Federico Stella) e Giovanni
Cesari, che hanno concluso per l'accoglimento dei ricorsi.


FattoDiritto

1. Con sentenza 27 aprile 2005 la Corte di Appello di Venezia confermava la sentenza emessa il 7 giugno 2002 dal Tribunale della stessa città, che aveva dichiarato S.C. e A. E. (il S. quale responsabile della GSA - Gestione Servizi Ausiliari - dello Stabilimento Petrolchimico Enichem di Porto Marghera, l' A. quale primo assistente di giornata presso la medesima GSA) colpevoli del reato di cui agli artt. 81 cpv., 110 c.p., e art. 437 c.p., comma 2, condannando entrambi alla pena di mesi sei di reclusione, pena sospesa e non menzione.
Nel capo di imputazione l'accusa veniva specificata precisando che i due imputati - pur essendo pacificamente e da tempo (quanto meno dai primi giorni di ottobre 1998) emersa la necessità di sostituire la valvola denominata B della linea spurghi ammoniacali in quanto "trafilava" (vale a dire non teneva più) e pur essendo stata segnalata dallo stesso A. l'emergenza e quindi la priorità del necessario intervento - avevano invece omesso di intervenire con la tempestività e la decisione necessarie e avevano omesso di adottare o comunque di far adottare e collocare apparecchi e strumenti idonei destinati a prevenire disastri e infortuni sul lavoro, limitandosi a prevedere (ma comunque non a porre in essere) solo delle misure "tampone" provvisorie e insufficienti, quale l'intervento con il sistema cosiddetto della "doppia pinzatura" e del "salcicciotto", sistema che non garantiva la tenuta. Da tali omissioni (e dalla mancata tenuta di un accoppiamento flangiato e della relativa guarnizione, che si ruppe a causa della usura e della mancata manutenzione) derivava in data 27 dicembre 1998, verso le ore 14.15, una fuga di ammoniaca anidra NH3, sostanza notoriamente tossica e pericolosa, come risulta pure dalla scheda di sicurezza dell'Enichem datata 16 marzo 1995, confermata nel marzo 1998.
Nel capo di imputazione veniva altresì contestato che il motivo delle suddette omissioni si doveva al fatto che l'adozione dell'unico sistema sicuro di intervento avrebbe comportato la fermata di tutta la linea spurghi ammoniacali per un paio di giorni; e che dal fatto erano derivate molestie fisiche (bruciore agli occhi, forte lacrimazione, fastidio alle vie respiratorie) a una trentina di dipendenti della ditta "Ve.Com", ubicata a circa un chilometro e mezzo dallo Stabilimento Petrolchimico, tanto che la relativa attività lavorativa doveva essere interrotta dalle ore 14.20 alle ore 19.30 del 27 dicembre 1998.
Nel confermare la sentenza di primo grado, la sentenza della Corte di Appello di Venezia (la quale costituisce oggetto del presente giudizio di legittimità) motiva argomentando nei termini seguenti.
- Che sulla base del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 245 la funzione della valvola B, non è soltanto una funzione di "intercettazione", ma è anche una funzione di sicurezza, come deve ritenersi ogni qual volta le valvole siano poste in tubazioni chiuse costituenti reti estese.
- Che l'art. 241 del medesimo D.P.R., che disciplina specificamente gli impianti di distribuzione di aria compressa e le loro singole parti, impone i requisiti "di resistenza e di idoneità all'uso cui sono destinati". - Che di conseguenza, in base all'art. 374 del medesimo D.P.R., le tubazioni di cui le valvole costituiscono un'apparecchiatura accessoria, nonchè le valvole stesse, sono soggette a manutenzione e debbono essere mantenute in buono stato di conservazione ed efficienza in relazione alla necessità della sicurezza del lavoro.
- Che in base alle testimonianze in atti e agli esiti degli accertamenti tecnici deve ritenersi sussistente il nesso di causalità tra il difetto della valvola B e l'incidente di cui è processo.
- Che la mancata sostituzione della valvola B, inidonea all'uso, costituisce pertanto violazione dell'art. 437 c.p., stante la consapevolezza della doverosità di quella sostituzione per finalità di sicurezza.
- Che il reato di cui al primo comma dell'art. 437 c.p. sussiste per la sola omissione della sostituzione della valvola B, omissione sorretta dalla coscienza e volontà di violare l'obbligo giuridico disposto a tutela della prevenzione di disastri e infortuni.
- Che nel caso di specie il reato di cui all'art. 437 c.p. deve ritenersi aggravato in quanto dal fatto della dolosa omissione della sostituzione della valvola B è derivato l'infortunio in danno dei 30 dipendenti della ditta "Ve.Com" nonchè il disastro ambientale dovuto all'immissione nell'atmosfera di un rilevantissimo quantitativo di ammoniaca, il quale avrebbe potuto avere conseguenze ben più gravi se il vento non avesse portato la nube tossica verso il mare anzichè verso i centri abitati.
- Che la nozione di "disastro" non può ridursi ad un concetto che racchiuda esclusivamente eventi di vasta portata o tragici, dal momento che il disastro è un elemento dei reati di danno, ma connota anche i reati di pericolo, e tale è quello previsto dall'art. 437 c.p., ove la nozione di "disastro" è esplicitamente contemplata nello stesso comma 1, che presuppone la mancanza dell'evento-danno e l'assunzione della sola sua possibilità come fattispecie costitutiva.
- Che in base alla L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18, l'omissione dolosa contestata ai due imputati, avendo prodotto una parziale alterazione e quindi una compromissione dell'ambiente atmosferico, ha determinato un danno ambientale, sia pure di moderata entità, con conseguente obbligo di risarcimento.
2. Avverso la sentenza della Corte d'appello di Venezia propongono ricorso per Cassazione i difensori dei due imputati nonchè la difesa del responsabile civile Enichem S.p.A.. Sennonchè il ricorso del responsabile civile è ormai superato per sopravvenuta carenza di interesse, posto che tutte le costituzioni di parte civile sono state revocate prima dell'odierna udienza.
3. Il ricorso proposto congiuntamente dagli avvocati Stella e Pulitane) (il primo nell'interesse dell'imputato S., il secondo nell'interesse di entrambi gli imputati) si sviluppa in sette distinti motivi, quattro dei quali vengono ulteriormente sviluppati nei motivi nuovi presentati in data 6 aprile 2006 a norma della L. 20 febbraio 2006, n. 46.
Con il primo motivo si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione con riferimento alla nozione di disastro ritenuta nella sentenza impugnata. Rileva il ricorrente che il fatto ritenuto dai giudici d'appello è molto povero di contenuto dannoso o pericoloso.
Afferma altresì il ricorrente che la Corte di merito ha erroneamente ridotto il disastro a semplice pericolo di disastro senza tener conto della fondamentale differenza tra l'art. 450 c.p. (delitti colposi di pericolo) e l'art. 449 c.p. (delitti colposi di danno). La tesi della difesa è che l'art. 450 c.p. abbia delineato un elenco chiuso dei tipi di disastro rispetto ai quali il legislatore ha scelto di incriminare, come delitto colposo, la pura e semplice causazione di un pericolo di disastro (disastro ferroviario, naufragio, sommersione di una nave o di un altro edificio natante). Al di fuori delle ipotesi espressamente previste dall'art. 450 c.p., il pericolo di un disastro non sarebbe penalmente rilevante. Ulteriore obiezione, formulata in questo motivo di ricorso, è che non può intendersi per disastro se non un evento di danno che esponga a pericolo collettivamente, con effetti gravi, complessi ed estesi, un numero indeterminato di persone, generando pubblica commozione.
Con il secondo motivo (ulteriormente sviluppato nel motivo nuovo n. 2) si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione con riferimento alla qualificazione della valvola B come dispositivo di sicurezza destinato a prevenire infortuni o disastri, rilevante ai sensi dell'art. 437 c.p.. I ricorrenti contestano la tesi enunciata dalla Corte distrettuale secondo cui qualsiasi valvola di intercettazione che faccia parte di una rete estesa avrebbe intrinsecamente anche una finalità di sicurezza e dovrebbe essere fatta rientrare nel novero dei dispositivi antinfortunistici. La difesa obietta, inoltre, che nessuna norma giuridica e nessuna ragione di carattere tecnico imponevano di collocare, proprio in quel punto, una valvola a saracinesca.
Con il terzo motivo (ulteriormente sviluppato nel motivo nuovo n. 3) si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione all'insussistenza di obblighi che imponessero la chiusura della valvola B ed alla irrilevanza causale della valvola rispetto ai fatti oggetto di imputazione. Sostengono i ricorrenti che la fuga si è verificata non già a causa dei problemi connessi alla valvola, bensì a causa della rottura di una guarnizione posta su un accoppiamento flangiato situato a valle della valvola. Inoltre, non sussisteva nessun obbligo di tenere chiusa la valvola B, pertanto, secondo i ricorrenti, se la valvola poteva rimanere aperta, il rimprovero rivolto agli imputati di non averla sostituita perderebbe ogni significato. Nell'ambito di questo terzo motivo i ricorrenti lamentano altresì che la Corte di secondo grado abbia ricollegato l'efficienza causale della contestata condotta omissiva a una condizione di degrado delle tubazioni, la quale non è contestata nel capo di imputazione; e concludono che l'avere ricondotto la responsabilità degli imputati a presunti problemi di manutenzione delle tubazioni avrebbe violato l'art. 522 c.p.p. per mancata correlazione fra accusa contestata e sentenza.
Con il quarto motivo (ulteriormente sviluppato nel motivo nuovo n. 1) si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta inidoneità della valvola B. Sostengono i ricorrenti che, nel motivare circa la non idoneità della valvola, la Corte di merito sarebbe più volte caduta in contraddizione. I ricorrenti si richiamano inoltre alla prova effettuata dai Vigili del fuoco, ai quali il pubblico ministero aveva affidato il compito di provvedere alla individuazione degli eventuali difetti della valvola B, e sottolineano che nella nota datata 11 gennaio 1999 gli stessi Vigili del fuoco hanno riferito, sia pure con qualche riserva circa l'empiricità della prova, di non avere riscontrato difetti. A tale proposito i ricorrenti contestano le argomentazioni con le quali la sentenza impugnata ha ritenuto di dover superare gli esiti della suddetta prova empirica portata a termine dai Vigili del fuoco.
Con il quinto motivo (ulteriormente sviluppato nel motivo nuovo n. 4) si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione con riferimento all'elemento psicologico del reato ritenuto in sentenza.
Con il sesto motivo si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti con giudizio di prevalenza sulle aggravanti contestate e alla conseguente mancata riduzione della pena inflitta.
Con il settimo motivo si deduce la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione alle statuizione civili, con particolare riferimento al danno ambientale liquidato alle parti civili.
4. Il ricorso proposto dall'avvocato Cesari nell'interesse dell'imputato A., e sottoscritto personalmente anche da quest'ultimo, si sviluppa in cinque distinti motivi, in parte ulteriormente sviluppati nei motivi nuovi presentati in data 27 marzo 2006 a norma della L. 20 febbraio 2006, n. 46.
Il primo motivo (ulteriormente sviluppato nel motivo nuovo n. 1) riprende le argomentazioni sviluppate con il quarto motivo del ricorso precedente, circa la non idoneità della valvola B ad assolvere alla funzione di dispositivo di sicurezza. In particolare, in questo motivo di ricorso, si sostiene che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto di poter superare gli esiti della prova empirica effettuata dai Vigili del fuoco sulla valvola di cui è processo, in quanto sarebbe destituita di fondamento l'affermazione che si legge in sentenza, secondo cui la prova sarebbe stata viziata da talune tecniche inappropriate poste in essere dagli stessi Vigili del fuoco.
Il secondo motivo riprende le argomentazioni sviluppate con i motivi terzo e primo del ricorso precedente, rispettivamente circa la irrilevanza causale delle condizioni della valvola B rispetto ai fatti oggetto di imputazione e circa il concetto di disastro.
I motivi terzo e quarto riprendono le argomentazioni sviluppate con il settimo motivo del ricorso precedente, in materia di liquidazione del danno ambientale. Il ricorrente lamenta, in particolare, che la Corte di secondo grado abbia confermato la condanna in solido degli imputati a risarcire il danno ambientale, nonostante la L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 7 stabilisca che ciascuno dei concorrenti deve rispondere nei limiti della responsabilità individuale.
Con il quinto motivo, infine, si chiede la sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria a norma della L.  n. 689 del 1981, art. 53 .
5. I ricorsi non meritano accoglimento. Per ragioni sistematiche i singoli motivi di ricorso verranno trattati secondo un ordine non sempre coincidente con quello che è stato osservato dai ricorrenti.
Si inizierà dalle varie questioni relative alla valvola B per poi passare alla nozione di disastro, alle questioni relative al danno ambientale e infine ai motivi residui.
6. Relativamente alla qualificazione della valvola B come dispositivo di sicurezza destinato a prevenire infortuni o disastri, i ricorrenti contestano la tesi enunciata dalla Corte distrettuale secondo cui qualsiasi valvola di intercettazione che faccia parte di una rete estesa avrebbe intrinsecamente anche una finalità di sicurezza e dovrebbe essere fatta rientrare nel novero dei dispositivi antinfortunistici.
Le argomentazioni in contrario dei ricorrenti non appaiono fondate, posto che la tesi prospettata dai giudici di merito appare del tutto condivisibile non soltanto a lume di semplice buon senso, ma anche alla luce della normativa contenuta nel D.P.R. 27 marzo 1955,n. 547, contenente "Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro", normativa che viene puntualmente esaminata dai giudici di merito, i quali correttamente desumono la loro conclusione dagli artt. 241, 244, 245 e 374 del decreto in questione. E infatti, da tali norme, è lecito e assolutamente logico ricavare che gli impianti e le tubazioni soggette a pressione di liquidi, gas, vapori, devono possedere i necessari requisiti di resistenza e di idoneità all'uso cui sono destinati, e ciò in relazione alle condizioni di uso "e alle necessità della sicurezza del lavoro" (artt. 374 e 241); che le tubazioni e le canalizzazione devono essere costruite e collocate in modo che non ne derivi danno ai lavoratori "in caso di perdite di liquidi o fughe di gas, o di rotture di elementi dell'impianto" (art. 244); e che le tubazioni e le canalizzazione chiuse che costituiscono una rete estesa devono essere provviste "di dispositivi, quali valvole, rubinetti, saracinesche, atti ad effettuare l'isolamento di determinati tratti in caso di necessità" (art. 245).
D'altro canto, nessuna norma, tra quelle contenute nel D.P.R. n. 547 del 1955, giustifica l'affermazione che per "dispositivo antinfortunistico" debba intendersi soltanto un dispositivo che abbia esclusivamente funzioni antinfortunistiche, e non anche un dispositivo che, presentando comunque indiscutibilmente una potenzialità antinfortunistica, svolga contemporaneamente anche specifiche e magari rilevantissime funzioni tecniche, ai fini del funzionamento dell'impianto nel quale tale dispositivo è inserito. E correttamente i giudici di merito hanno osservato che "in una imponente industria chimica con, parrebbe, 400 o 500 km di tubazione, le valvole non possono non essere essenziali sia per la stessa funzionalità dell'impianto (a fini meramente tecnico-produttivi) sia per ragioni di sicurezza dei lavoratori e della collettività in generale. In ambito di sicurezza, associare ad una industria chimica il pericolo della perdita di liquidi o della fuga di gas è operazione mentale empiricamente e statisticamente fondata, istintiva e spontanea".
La difesa obietta, inoltre, che nessuna norma giuridica e nessuna ragione di carattere tecnico imponevano di collocare, proprio in quel punto (nel punto dove era collocata la valvola B), una valvola a saracinesca. Ma anche questa obiezione appare inconferente, posto che giustamente i giudici di merito hanno argomentato che nessuna norma prevede "al metro o al centimetro" dove installare le valvole, ma il D.P.R. n. 547 del 1955 detta criteri generali e funzionali al fine di evitare danni alle persone in caso di rotture o fughe. Si apprende dalla sentenza impugnata (ed è un dato non contestato) che la valvola B era in prossimità del collettore principale degli spurghi ammoniacali ed era distante circa 200 metri dalla valvola al limite di batteria del reparto BC1 (reparto di produzione del cloruro di benzile, inattivo dal gennaio 1998): entrambe le valvole, quindi, si trovavano sulla diramazione che conduce gli spurghi ammoniacali dal reparto BC1 al collettore che poi li convoglia al reparto AM4 (reparto di produzione dell'ammoniaca). Del tutto logicamente, pertanto, la sentenza impugnata argomenta che "rimane difficile ipotizzare che l'una o l'altra valvola siano superflue, essendo evidente la necessità di isolare il reparto e la diramazione" (vale a dire, di isolare sia - a monte - il reparto BC1, sia - a valle - la diramazione che conduce al collettore e, da lì, al reparto AM4).
7. I ricorrenti sostengono la violazione di legge e il difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta inidoneità della valvola B ad assolvere alla funzione di dispositivo di sicurezza. Affermano i ricorrenti che la Corte di merito, sul punto, dando per scontato che la valvola "trafilasse", sarebbe più volte caduta in contraddizione e non avrebbe tenuto adeguatamente in conto la prova effettuata dai Vigili del fuoco circa gli eventuali difetti della valvola B, prova conclusa con la nota datata 11 gennaio 1999 con cui gli stessi Vigili del fuoco hanno riferito di non avere riscontrato difetti.
Anche in questo caso le argomentazioni dei ricorrenti appaiono prive di fondamento. Giustamente i giudici di merito hanno osservato che il difetto di trafilamento della valvola emerge chiaramente non soltanto dalle dichiarazioni rese fin dal primo momento dai testi D. e F. (si veda, in particolare, a pagina 83 della sentenza impugnata, per quanto concerne quest'ultimo teste), ma anche da tutte le iniziative che vennero intraprese fin da quando i predetti D. e F. accertarono tale difetto nell'ottobre 1998:
ed infatti i due imputati si attivarono con una certa rapidità per attuare una misura tampone (quella delle cosiddette scatole "furmanitate") che non troverebbe nessuna spiegazione se non si fosse effettivamente constatato che la valvola, appunto, trafilava (iniziativa poi abbandonata perchè l'impresa incaricata del lavoro non aveva dato piene garanzie sull'efficacia di una siffatta la misura). Del tutto logicamente, pertanto, i giudici di merito hanno concluso che i primi a ritenere che la valvola dovesse essere sostituita (o che si dovesse comunque rimediare al suo difetto) sono stati proprio i due imputati, tanto che A.E., in data 20 novembre 1998, inserì al computer la richiesta per la realizzazione delle scatole furmanitate, lavoro qualificato "con priorità 1" da realizzarsi tra il 24 e il 30 novembre. Del resto, aggiunge la sentenza impugnata, D. e F. non si sono limitati a una sommaria prova di chiusura della valvola, quando ne hanno accertato il difetto, ma hanno provato più volte scaricando la pressione all'interno del tubo e tirando un pò di più la valvola, ed hanno fatto ciò constatando che la pressione aumentava nuovamente e quindi desumendo che la valvola non teneva (teste D., citato a pagina 32 della sentenza di primo grado).
Per quanto riguarda la verifica effettuata dai vigili del fuoco, e il cui esito è riferito nella nota 11 gennaio 1999, questa Corte non può fare altro che rilevare che le argomentazioni svolte alle pagine 33 e 34 della sentenza di primo grado (fatte proprie dalla sentenza impugnata) non appaiono presentare alcun vizio di illogicità.
Rilevano infatti i giudici di merito che gli stessi vigili hanno qualificato come empirica la prova e che la valvola stessa, quando venne da loro esaminata su incarico del pubblico ministero, non era nelle medesime condizioni in cui era al momento dell'evento. Infatti, il giorno stesso dell'incidente, nel corso degli interventi operati nell'immediatezza, la valvola B è stata sottoposta ad "insulti meccanici" perchè su di essa furono installati la valvola di soccorso e il disco cieco e perchè, per la incolumità degli intervenuti, venne lavata, "elementi tutti che potrebbero aver rimosso il materiale se la perdita fosse dipesa da una qualche ostruzione che impediva la perfetta chiusura della valvola". Inoltre, aggiungono i giudici di merito, la prova dei vigili del fuoco "non è avvenuta in base alla normativa API 598", relativa al collaudo delle valvole progettate (come la valvola in questione) per la tenuta nei due sensi: Infatti il test venne effettuato su un solo lato anzichè su entrambi i lati e con una pressione non già di 55 bar, come prescritto da tale normativa, ma di 15 bar.
Privo di fondamento è anche l'ulteriore argomento dei ricorrenti, secondo i quali, al momento dell'incidente e durante le operazioni svolte nell'immediatezza, la valvola B era funzionante, tanto è vero che venne chiusa e "subito dopo cessò la fuoriuscita". Giustamente rilevano i giudici di merito che l'affermazione non risponde agli elementi probatori acquisiti, perchè la valvola B venne effettivamente chiusa alle ore 15.30 circa, ma i vigili del fuoco continuarono a utilizzare l'acqua per l'abbattimento dell'ammoniaca fino alle ore 17.00; inoltre le concomitanti chiusure delle pompe e delle valvole di intercettazione degli altri reparti a monte della perdita, eliminando l'afflusso degli spurghi ammoniacali, non consentono di attribuire alla chiusura (in fase di emergenza) della valvola B alcuna efficienza causale sull'eliminazione della perdita.
I giudici di merito motivano altresì logicamente laddove sottolineano, da un lato, che l'accusa non ritiene che la valvola "non chiudesse", ma soltanto che essa "trafilasse", dall'altro, che la fuoriuscita dell'ammoniaca è in un primo tempo sensibilmente diminuita e poi progressivamente calata fino a cessare del tutto a causa di più operazioni che non consentono in alcun modo di ritenere che la valvola B, quando venne chiusa, intercettò il flusso senza perdite o trafilamenti.
8. Sostengono ancora i ricorrenti che la sentenza impugnata sarebbe viziata laddove essa ritiene, erroneamente, la sussistenza di un obbligo che avrebbe imposto la chiusura della valvola B, e sostengono altresì l'irrilevanza causale della valvola stessa rispetto ai fatti oggetto di imputazione. Si afferma nei motivi di ricorso che la fuga si è verificata non già a causa dei problemi connessi alla valvola, bensì a causa della rottura di una guarnizione posta su un accoppiamento flangiato situato a valle della valvola.
E' il caso di sottolineare che già a pagina 3 della sentenza di primo grado si precisa senza mezzi termini (citando a pie di pagina un passo della testimonianza resa dal teste M.) che la valvola B era stata lasciata aperta proprio perchè "se ne era constatata la non perfetta tenuta", ragion per cui, qualora fosse rimasto imprigionato del gas liquefatto tra le due valvole, "c'era il rischio che, con l'aumento della temperatura, ci fosse un aumento eccessivo della pressione, che avrebbe potuto provocare dei guasti, quindi si è ritenuto opportuno lasciare la valvola aperta in attesa di predisporre un intervento di tipo diverso".
Questa essendo la situazione, correttamente i giudici di merito hanno osservato che la scelta di lasciare aperta la valvola fu una scelta corretta nell'immediatezza, ma la scelta di lasciarla aperta a tempo indeterminato senza intervenire sul guasto fu una scelta che equivaleva a operare "come se la valvola non ci fosse". E' evidente che non esistono norme specifiche che stabiliscano quando una determinata valvola a saracinesca debba essere tenuta aperta o chiusa, ma esistono norme ben precise e ineludibili, come si è visto nei paragrafi precedenti, le quali esigono che le tubazioni soggette a pressione di liquidi, gas e vapori costituenti canalizzazioni chiuse e reti estese siano provviste di valvole atte a effettuare l'isolamento di determinati tratti in caso di necessità e che siano mantenute costantemente efficienti per tale bisogna. Come si è visto, entrambe le valvole situate sulla diramazione tra il reparto BC1 e il collettore installato a valle svolgevano una funzione irrinunciabile: l'aver lasciato aperta la valvola B soltanto perchè essa perdeva, senza intervenire per ripararla, comportava che quel determinato tratto di rete controllabile attraverso tale valvola non era isolato nè isolabile. Con la conseguenza che, come scrivono i giudici di primo grado (pagina 21), "la certezza della inaffidabilità della chiusura vanificava la componente funzionale di prevenzione insita nella valvola di intercettazione". E giustamente aggiungono, gli stessi giudici, che la norma giuridica di carattere generale che nel caso di specie imponeva la sostituzione e la chiusura della valvola B è l'ari 2087 del codice civile, il quale dispone che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Altrettanto corretto è quanto i giudici di merito argomentano circa il nesso causale tra il difetto della valvola B e l'evento accaduto il 27 dicembre 1998, giustamente sottolineando che il reato di cui all'art. 437 c.p., comma 1 sussiste già per la sola omissione della sostituzione della valvola, e che la questione del nesso causale si pone quindi per accertare la sussistenza della sola aggravante dell'avvenuto disastro o infortunio di cui al secondo comma della stessa norma. Ciò detto, appare logico e coerente il ragionamento che si legge nelle due sentenze di merito: "Constatato che la valvola trafilava, gli imputati dovevano sostituirla. Questo era il loro dovere. Dovevano anche chiuderla? La risposta non può che essere affermativa poichè questa era la esigenza che aveva portato a scoprire che la stessa, appunto chiusa, non teneva E non era un'esigenza contingente, ma una scelta stabile e duratura. A ritenere, ad ottobre, in epoca non sospetta, che quella valvola dovesse essere chiusa sono stati F. e D., e con loro A. e S. che quella esigenza hanno recepito con la misura, equivalente alla chiusura, delle scatole furmanitate". Il ragionamento della Corte di merito è molto semplice e non può che essere condiviso: se quella valvola fosse stata sostituita e chiusa, come volevano fare i due tecnici che ne avevano scoperto il difetto in ottobre e poi gli stessi due imputati secondo l'iniziale programmazione, la perdita di ammoniaca non si sarebbe prodotta e l'incidente non si sarebbe verificato.
Si aggiunge, nelle due sentenze di merito, che c'era anche un'altra ragione per cui la valvola B dovesse essere necessariamente riparata e mantenuta chiusa (e per ritenere, pertanto, sussistente il nesso causale tra l'omissione contestata e l'incidente del 27 dicembre). La ammoniaca, infatti, fluiva lungo quella diramazione percorrendo un tratto di tubazione palesemente deteriorato e privo di manutenzione (si veda alle pagine 47 e 48 della sentenza di primo grado), ed è stato proprio in quel tratto che si verificò la mancata tenuta e la rottura della guarnizione di un accoppiamento flangiato, da cui si sprigionò la nube tossica. Affermano giustamente i giudici di merito che sollecitare una tubazione, peraltro priva di manutenzione, con un liquido tossico e nocivo è non soltanto tecnicamente sbagliato, ma è anche imprudente e pericoloso sul piano della sicurezza e della prevenzione; tanto più se si tiene conto che quel liquido tossico e nocivo non aveva nessun'altra ragione di affluire su quel tratto di tubazione se non perchè la valvola non chiudeva adeguatamente.
Lamentano i ricorrenti che l'efficienza causale della contestata condotta omissiva sia stata ricollegata a una condizione di degrado delle tubazioni, la quale non era stata contestata nel capo di imputazione, ed affermano che l'avere ricondotto la responsabilità degli imputati a presunti problemi di manutenzione delle tubazioni avrebbe violato gli artt. 521 e 522 c.p.p. per mancata correlazione ira accusa contestata sentenza.
Anche questa obiezione appare priva di fondamento. I giudici di merito hanno infatti precisato che ciò che viene rimproverato ai due imputati è non già la carenza di manutenzione in quel tratto di tubazione, ma il fatto che essi non abbiano tenuto conto di tale situazione nell'orientare le loro scelte e abbiano consentito una superflua sollecitazione di una tubazione priva di adeguata manutenzione, attraverso la scelta di temporeggiare - rispetto all'esigenza di riparare la valvola difettosa - e attraverso la scelta conseguente di lasciare aperta tale valvola. D'altro canto, nel capo d'imputazione, era stato precisato sin dall'inizio che l'incidente del 27 dicembre 1998 era stato provocato dall'avere omesso la sostituzione o comunque la riparazione della valvola B, nonchè "dalla mancata tenuta di un accoppiamento flangiato e in particolare di una sua guarnizione, che si ruppe a causa dell'usura e della mancata manutenzione".
Del resto, va rammentato che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte di legittimità, "il principio di correlazione fra accusa contestata e sentenza risulta violato allorchè vi sia una sostanziale immutazione del fatto contestato, tale cioè da pervenire ad una sostituzione dell'oggetto dell'imputazione capace di compromettere l'esercizio del diritto di difesa. Ne consegue che non vi è immutazione, ma solo diversa qualificazione giuridica, quando la condotta inizialmente contestata resta identificabile in quella ritenuta in sentenza, che della prima ha mantenuto i connotati distintivi fondamentali" (Cass., Sez. 3^, 13 luglio 1999 n. 11861, dep. 18 ottobre 1999, Firrincieli, CED-215551). E non si può certamente dire che il ragionamento svolto dai giudici di merito in relazione all'incidenza della mancata manutenzione di quel tratto di tubazione abbia pregiudicato o precluso, in concreto, la possibilità di difesa da parte dei due imputati.
9. Per quanto riguarda i "motivi nuovi" presentati dai ricorrenti (rispettivamente il 27 marzo e il 6 aprile 2006) a norma della L. n. 46 del 2006, art. 10, comma 5, va detto che essi sviluppano ulteriormente e assai diffusamente le svariate argomentazioni difensive attinenti alla valvola B, introducendo diverse censure in punto di fatto che mirano a sostenere l'illogicità della sentenza impugnata con riferimento a taluni atti del processo che vengono specificamente indicati, e sempre con riferimento esclusivo alle questioni attinenti alla valvola B. Tali "motivi nuovi" vanno valutati prendendo in attenta considerazione il tenore della nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., lettera e), così come introdotta dalla stessa L. n. 46 del 2006, art 8. In base alla norma novellata, è oggi motivo di ricorso per Cassazione la "mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame". Tale formulazione non è molto dissimile da quella impiegata - per il ricorso in Cassazione in sede civile - dall'art. 360 c.p.p., n. 5, secondo il quale il ricorso può essere proposto, in quella sede, "per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio".
Sulla base della formulazione dell'art. 360 c.p.p., n. 5 le Sezioni civili di questa Corte di legittimità hanno elaborato il principio - ormai assolutamente consolidato - della cosiddetta "autosufficienza del ricorso". Questa giurisprudenza civile ha affermato che "il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio dell'autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur mancando l'esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere adeguata contezza, senza necessità di utilizzare atti diversi dal ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte" (cfr., da ultimo, Cass. Civ., Sez. 2^, 2 dicembre 2005 n. 26234, Tringali c/ Fernandez, CED-585217). Questa giurisprudenza ha inoltre precisato e ribadito più volte che, "nel caso in cui, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l'incongruità o l'illogicità della sentenza impugnata per l'asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di Cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti" (cfr., per tutte, Cass. Civ., Sez. Lav., 28 luglio 2004 n. 14262, Atzeri c/ Min. Interno, CED-575031).
Ritiene questo Collegio che, stante l'analogia esistente tra la formulazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5 e quella del novellato art. 606 c.p.p., lett. e), la teoria dell'autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e applicata anche in sede penale ogni qual volta il ricorrente sostenga una "manifesta illogicità della motivazione" che sarebbe desumibile non già (o non soltanto) dal testo del provvedimento impugnato bensì da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.
Nel caso di specie i ricorrenti hanno esposto, nei "motivi nuovi" recentemente presentati, le censure in punto di fatto che costituiscono, a loro avviso, le risultanze processuali (desumibili da "altri atti del processo") da indicare come decisive e tuttavia non valutate o insufficientemente valutate nel provvedimento impugnato, sì da determinare un vizio logico di motivazione. Ciò nondimeno, ad avviso di questa Corte, neppure le risultanze processuali esposte nei motivi nuovi possono giustificare un giudizio di "manifesta illogicità" di motivazione (relativamente alle varie questioni attinenti alla valvola B), giudizio che pertanto, in conclusione, non può essere desunto nè dal testo del provvedimento impugnato (per i motivi di cui ai paragrafi precedenti) nè da "altri atti del processo", che (così come indicati e riportati dai ricorrenti) nulla tolgono e nulla aggiungono alle circostanze già congruamente e coerentemente valutate dai giudici di merito nelle sentenze di primo e di secondo grado. Fermo restando che questo Collegio deve limitarsi alla valutazione di quelle risultanze processuali così come esse sono state riportate e trascritte dagli stessi ricorrenti (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in appello), posto che anche in sede penale - in virtù del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato - deve ritenersi precluso a questa Corte l'esame diretto degli atti del processo. Più precisamente, deve ritenersi ammissibile l'esame diretto degli atti da parte di questa Corte soltanto qualora dalla stessa esposizione del ricorrente emerga effettivamente una manifesta illogicità della sentenza impugnata, che sia ricollegabile a un atto del processo "specificamente indicato nei motivi di gravame", ma se una siffatta illogicità non emerge (come non emerge nel caso di specie) dalla stessa articolazione del ricorso, l'esame diretto degli atti dovrà ritenersi precluso sulla base del citato principio.
Si deve pertanto concludere che, nel caso di specie, le risultanze processuali esposte e le argomentazioni svolte nei "motivi nuovi", essendo inidonee a far emergere una illogicità di motivazione della sentenza impugnata, si risolvono in una serie di censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa e alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità, a fronte di una sentenza impugnata che (in relazione alle questioni contemplate nei "motivi nuovi") appare congruamente e coerentemente motivata ed esente da vizi sia logici che giuridici.
10. Che l'evento occorso il 27 dicembre 1998 abbia costituito un "infortunio" a tutti gli effetti e ai sensi dell'art. 437 c.p., comma 2 non sembra esplicitamente e specificamente contestato negli attuali motivi di ricorso. L'unico accenno, peraltro assai generico, a una doglianza di tal genere è costituito da un'osservazione dei ricorrenti circa il fatto che l'incidente avvenuto in quella data sarebbe "molto povero di contenuto dannoso o pericoloso". La carente specificità di tale osservazione esime questa Corte dall'onere di approfondire questo profilo della vicenda, essendo sufficiente rilevare come i giudici di merito abbiano logicamente e congruamente motivato nel senso di ritenere senz'altro "infortunio" i disturbi fisici accusati dai 30 dipendenti della ditta "Ve.Com" in conseguenza della fuga di materiale tossico che raggiunse quel giorno la loro postazione di lavoro. Il fatto che, fortunatamente, la gravità dell'infortunio e delle sue conseguenze sia stata relativamente contenuta non toglie, com'è ovvio, che di infortunio si sia trattato.
11. I ricorrenti contestano invece decisamente che l'incidente occorso il 27 dicembre 1998 possa essere considerato un "disastro" ai sensi e per gli effetti dell'art. 437 c.p., comma 2.
Sostengono i ricorrenti che i giudici di merito avrebbero erroneamente ridotto il disastro a semplice pericolo di disastro senza tener conto della fondamentale differenza tra l'art. 450 c.p. (delitti colposi di pericolo) e l'art. 449 c.p. (delitti colposi di danno). La tesi dei ricorrenti è che l'art. 450 c.p. abbia delineato un elenco chiuso dei tipi di disastro rispetto ai quali il legislatore ha scelto di incriminare, come delitto colposo, la pura e semplice causazione di un pericolo di disastro (disastro ferroviario, naufragio, sommersione di una nave o di un altro edificio natante), con la conseguenza che, al di fuori delle ipotesi espressamente previste dall'art. 450 c.p., il pericolo di un disastro non sarebbe penalmente rilevante.
Tale argomento è manifestamente infondato, come appare ictu oculi alla lettura dell'art. 437 c.p., comma 1, dal quale emerge con assoluta evidenza come tale norma preveda espressamente proprio un delitto (peraltro doloso) di "pericolo di disastro" ("Chiunque omette di collocare impianti ... destinati a prevenire disastri è punito..."), a nulla rilevando che tale tipo di "pericolo di disastro" non sia stato poi contemplato tra quelli ricompresi nella previsione normativa di cui all'art. 450 c.p. (che riguarda comunque i delitti colposi di pericolo). In altri termini il primo comma dell'art. 437 c.p. prevede un delitto doloso di pericolo (di infortunio e/o di disastro) che si consuma all'atto della "omissione" o "rimozione" dolosa, mentre il secondo comma della stessa norma introduce l'aggravante per il caso in cui l'infortunio e/o il disastro abbiano effettivamente a prodursi come conseguenza della condotta di cui al comma 1.
In proposito sono tuttora validi i principi affermati da Cass., Sez. 4^, 16 luglio 1993 n. 10048, dep. 8 novembre 1993, P.G. ed altri, CED- 195699/700/701, la quale smentisce la tesi dei ricorrenti, pur ritenendo che la disposizione di cui all'art. 437 c.p., comma 2 non preveda una circostanza aggravante in senso proprio bensì un'ipotesi di concorso formale di reati (quello di omissione di impianti antinfortunistici e quello di disastro colposo) unificati ai fini della pena onde evitare la maggiore severità del cumulo materiale.
Si aggiunge, in questa sentenza, che per l'applicabilità di tale norma è sufficiente la consapevolezza della condotta tipica del reato di disastro colposo e non anche dell'evento che aggrava il delitto di cui al citato art. 437 c.p.. La sentenza ribadisce altresì che il delitto di cui all'art. 437 c.p. si consuma con la consapevole "omissione" o "rimozione" di cui al comma 1, indipendentemente dal danno che ne derivi in concreto: qualora questo si verifichi nella forma di disastro o di infortunio, ricorre l'ipotesi più grave prevista dal comma secondo dello stesso articolo. "L'omissione o la rimozione devono essere tali da determinare pericolo per la pubblica incolumità il quale è presunto dalla legge come conseguenza della mancanza di provvidenze destinate a garantirla, senza che occorra che sia anche specificamente perseguito". Questa stessa sentenza, infine, precisa ulteriormente che, poichè la consapevolezza della predetta omissione o rimozione e l'accettazione del conseguente pericolo sono sufficienti ad integrare il delitto di cui all'art. 437 c.p., "qualora si verifichino, benchè non voluti, il disastro e l'infortunio sul lavoro, ricorre l'ipotesi di reato prevista dall'art. 437 c.p., comma 2, senza che il più grave evento non voluto sia idoneo a trasformare nel delitto semplicemente colposo di cui all'art. 451 c.p. la consapevole e voluta omissione delle misure e il pericolo connesso".
Sostengono ancora i ricorrenti che non potrebbe intendersi per disastro se non un evento di danno devastante, di notevoli proporzioni, che esponga a pericolo collettivamente, con effetti gravi, complessi ed estesi, un numero indeterminato di persone, generando pubblica commozione.
Anche questa doglianza appare infondata. Correttamente i giudici di merito hanno osservato che la nozione di "disastro" non può ridursi a un concetto che racchiuda soltanto eventi di vasta portata o tragici. Infatti, l'elemento "disastro" connota anche i reati di pericolo (quale, appunto, quello di cui all'art. 437 c.p., comma 1), nei quali l'evento "danno" è assente e la sola possibilità o probabilità di esso viene assunta come fattispecie costitutiva. Da ciò si deve desumere che i parametri della "imponenza" e della "tragicità" non possono essere assunti come parametri e come misura del "disastro" giuridicamente inteso.
Del tutto logicamente la sentenza impugnata rileva che proprio la qualità del bene giuridico tutelato (la pubblica incolumità) e la diffusa scelta della punibilità delle condotte generatrici anche del solo pericolo (che quindi anticipano la soglia della punibilità stessa) fanno sussumere sotto la stessa norma situazioni di fatto tra loro molto diverse e con conseguenze dannose pure tra loro molto diverse. Con la conseguenza che deve sempre considerarsi "disastro" (e in particolare disastro ambientale) lo sprigionarsi di una nube tossica che viene obiettivamente ad alterare, in maniera maggiore o minore, l'ambiente atmosferico, posto che l'entità dei danni (maggiori o minori) che essa viene a cagionare in concreto dipende da fattori in gran parte casuali (come la direzione e la forza dei venti) o comunque non controllabili o scarsamente controllabili dall'uomo. In altri termini si tratterà pur sempre di "disastro" sia nel caso in cui la nube tossica produca effetti devastanti sulla popolazione (si pensi al caso Icmesa), sia che essa produca effetti dannosi limitati e privi di "tragicità".
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto che l'incidente del 27 dicembre 1998, avendo disperso nell'aria circa cinque tonnellate di ammoniaca, ha costituito "disastro" ai sensi e per gli effetti dell'art. 437 c.p., comma 2. Infatti, la dispersione in atmosfera di cinque tonnellate di ammoniaca è decisamente un evento potenzialmente lesivo e dotato di una diffusività che non è controllabile e contenibile umanamente: la diffusività e non controllabilità dell'evento lesivo fa sì che tale evento debba definirsi "disastro" anche se, per fattori meramente casuali, il danno effettivo si è in concreto rivelato contenuto.
12. Sono pure infondate le doglianze dei ricorrenti relative alla liquidazione del danno ambientale.
La L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18 ("Istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia di danno ambientale") stabilisce, al comma 1, che "Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato". Giustamente i giudici di merito hanno citato alcuni passi della sentenza della Corte Costituzionale del 30 dicembre 1987, n. 641, la quale ha ribadito che l'ambiente è un bene immateriale unitario e che il danno arrecato ad esso "è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile". Nel caso di specie, la fuga di ammoniaca si è protratta per un notevole lasso di tempo con un rilascio in atmosfera di circa cinque tonnellate di sostanza tossica, la qua cosa ha sicuramente compromesso l'ambiente, alterandolo e degradandolo. Del tutto correttamente, quindi, i giudici di merito hanno ritenuto che tale alterazione ha costituito una grave lesione dell'ambiente, a nulla rilevando la sua transitorietà e l'assenza apparente di conseguenze durature.
Il citato art. 18, comma 6 stabilisce che "Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali". Giustamente i giudici di merito hanno ritenuto che nella fattispecie non fosse possibile una precisa quantificazione del danno e hanno quindi applicato i criteri indicati dal comma 6 della norma predetta. Del tutto logicamente, infine, essi hanno ritenuto che il concorso di entrambi gli imputati ha avuto eguale peso, per cui ciascuno deve rispondere per la metà del danno ambientale liquidato (pag. 71 della sentenza di primo grado).
13. Parimenti infondate sono le doglianze relative all'elemento psicologico del reato ritenuto in sentenza. Correttamente i giudici di merito, richiamando la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (ivi compresa la sentenza 16 luglio 1993 n. 10048 della Sez. 4^ già menzionata supra in paragrafo 11), hanno ribadito che sussiste il dolo quando volutamente si omette la condotta doverosa nella consapevolezza che si tratti di misura destinata a prevenire disastri o infortuni, con l'accettazione del pericolo per la pubblica incolumità e senza che rilevi l'intenzione di arrecare danno alle persone. La sentenza impugnata sottolinea che gli imputati sapevano che la valvola B doveva essere sostituita, prova ne sia che si attivarono per la realizzazione delle scatole furmanitate con priorità 1, e che, una volta esclusa la realizzabilità delle scatole, omisero con piena consapevolezza di sostituire la valvola.
Pertanto nessun vizio logico o giuridico va ravvisato nella sentenza impugnata laddove essa conclude che i due imputati agirono con il dolo del reato di cui all'art. 437 c.p..
Nè appare fuori luogo quanto si legge alle pagine 122-123 e 136-139 della sentenza di secondo grado, laddove si dice che, essendo la zona industriale di (OMISSIS) definita "sito ad alto rischio ambientale" dalla L. 9 dicembre 1998, n. 426, art. 1, comma 4, lett. a) ("Nuovi interventi in campo ambientale"), non può non desumersi da tale circostanza un ulteriore elemento di prova a carico dei due imputati sotto il profilo della loro consapevolezza circa il pericolo derivante dalla loro omissione.
14. Nessun vizio logico o giuridico può ravvisarsi, infine, nelle sentenze dei giudici di merito circa la decisione di concedere agli imputati le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza e non già di prevalenza. Ed invero l'intero iter motivazionale rende del tutto coerente e condivisibile tale decisione. Nè può essere accolta la richiesta di sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria a norma della L. n. 689 del 1981, art. 53, posto che tale richiesta non venne avanzata in fase di appello.

 


P.Q.M.

Rigetta i ricorsi di S. e A., che condanna in solido al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso del responsabile civile Eiuchem S.p.A. per sopravvenuta carenza di interesse.
Così deciso in Roma, il 20 aprile 2006.
Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2006